Troppi soldi spesi per le carceri, il perdono fa bene (anche) all’economia Vita, 16 novembre 2016 "Un esempio? Basti pensare che negli Stati Uniti il costo annuale per singolo detenuto in un carcere di massima sicurezza è pari alle tasse universitarie pagate da uno studente dell’Università di Stanford. Un cambiamento di vita da parte di queste persone potrebbe quindi ridurre il rischio di recidiva consentendo un notevole risparmio di spesa carceraria". Dialogo con il professor Mario Maggioni che sta curando una ricerca sul tema per la Cattolica di Milano. Esiste un rapporto molto profondo tra perdono ed economia. Stando ai risultati preliminari di una ricerca attualmente in corso all’Università Cattolica del Sacro Cuore e iniziata grazie a un finanziamento ottenuto cinque anni fa da una fondazione americana, il Fetzer Institute, il perdono è un gesto che può dare a chi ha sbagliato una seconda possibilità con ricadute positive per la società e l’economia. Sono tre i casi di cui si è occupata la ricerca. Vita ne ha parlato con il professore Mario Maggioni, ordinario di Politica economica e coordinatore dell’equipe che ha condotto tale ricerca presso il CSCC. Professor Maggioni, qual è l’obiettivo del progetto? In un certo senso quello che vogliamo dimostrare è che le preferenze sociali (fiducia, generosità, gratitudine, onestà), possono cambiare a partire da una relazione significativa. Siamo anche convinti che se non si è capaci di perdonare e di chiedere di essere perdonati anche l’iniziativa più significativa non potrà mai iniziare e, se anche partisse, sarà comunque destinata al fallimento. Dunque il perdono è il fondamento di ogni azione comune umana e può essere "imparato". Questo è vero anche per chi si trova a vivere situazioni marginali. Se un individuo riceve cura e attenzione, riesce a cambiare strada. Come avete selezionato le popolazioni oggetto della ricerca? Di solito per le ricerche universitarie di economia comportamentale il campione di riferimento è scelto tra gli studenti universitari. Per la nostra indagine abbiamo invece preferito selezionare soggetti in condizioni di difficoltà e di bisogno. Un gruppo di detenuti pluriomicidi di un carcere di massima sicurezza in California, che frequentano il programma riabilitativo "Grip" di Insight-Out, un certo numero di ex-tossicodipendenti che stanno affrontando un percorso di recupero e riabilitazione presso una trentine di comunità terapeutiche (tra cui: Casa Famiglia Rosetta, Associazione Papa Giovanni XXII, Comunità Nuovi Orizzonti, Cooperativa Sociale di Bessimo, e tante altre) e un gruppo di bambini congolesi fra i 5 e i 12 anni che vivono in zone di guerra e con accesso difficoltoso all’istruzione primaria, aiutati dal programma di sostegno a distanza di Avsi. Il perdono può cambiare la vita. Quale metodologia avete seguito per valutare quindi l’effetto trasformativo delle relazioni di cura sulla vita delle persone... Abbiamo chiesto ai nostri soggetti di partecipare ad una serie di situazioni proprie dell’economia comportamentale (e della "teoria dei giochi"). Ai partecipanti è stato chiesto di fare delle scelte concrete aventi come oggetti dei beni reali. L’analisi è stata condotta all’interno di una prospettiva longitudinale, per cui gli stessi test sono stati eseguiti a 9-10 mesi di distanza per verificare se nei soggetti c’era stato un qualche cambiamento. Agli individui del campione è stato chiesto, ad esempio, di dividere o meno una certa quantità di un bene con una persona sconosciuta che era stata definita come "partner" in questa situazione. Oppure di rispondere ad una elargizione di una certa quantità di bene da parte del "partner". Di solito in questa letteratura i ricercatori consegnano una somma di denaro ai partecipanti e poi li fanno interagire. Ma in questo caso per evidenti motivi etici non è stato possibile. In alternativa? Insieme alle Ong di riferimento, abbiamo individuato un bene ideale per ciascuna delle categorie oggetto di studio. Per gli ex-tossicodipendenti le sigarette sono percepite come un bene di grande interesse, mentre i detenuti californiani (in carcere è vietato fumare!) preferiscono zuppe pronte liofilizzate perché possono consumarle nelle proprie celle ed evitare la mensa del carcere che spesso li espone a gravi rischi. Invece per i bambini congolesi avremmo voluto utilizzare uno street food prodotto localmente, ma per una questione di tutela ambientale, abbiamo optato per dei pacchetti di biscotti. I detenuti californiani e gli ex-tossicodipendenti in comunità sono stati sottoposti anche a due test psicologici al fine di valutare la loro capacità di perdonare sé stessi, quella di perdonare gli altri e quella di chiedere perdono agli altri. Cosa avete concluso fino ad oggi? Nel caso dei detenuti californiani, si è visto che coloro che hanno partecipato al progetto Grip, sono più propensi sia a concedere (+33%) che a richiedere (+15%) perdono. Non solo. Sono diventati più generosi (+10%), più fiduciosi negli altri (+16%), e hanno acquisito una maggiore autostima (+13%). Anche gli ex tossicodipendenti dopo 9 mesi di comunità mostrano una maggiore capacita di perdonare sé stessi. Si potrebbe quindi concludere che anche chi ha sbagliato, ma se sente di essere stato perdonato, è più disposto a perdonare e a cambiare vita. Per quanto riguarda infine i bambini congolesi, tra cui, al cui al crescere dell’età, sembrano prevalere scelte più opportunistiche ed autocentrate, chi è sostenuto dal programma di Avsi, tende ad approfittarsi di meno nelle situazioni ed a operare scelte più eque. In che modo tutto questo si riflette sull’economia? ?Basti pensare che negli Stati Uniti, secondo le stime del programma Insight-Out, il costo annuale per singolo detenuto in un carcere di massima sicurezza è pari alle tasse universitarie pagate da uno studente dell’Università di Stanford. Un cambiamento di vita da parte di queste persone potrebbe quindi ridurre il rischio di recidiva consentendo un notevole risparmio di spesa carceraria. Non solo, il reintegro nella società di ex detenuti ed ex tossicodipendenti che hanno fatto un percorso di trasformazione interiore, può attivare dei circuiti virtuosi che in seguito possono effetti positivi a beneficio di tutta la società e di un’economia più giusta ed efficace. Vodafone contribuisce alla formazione digitale nelle carceri di Irene Dominioni businesspeople.it, 16 novembre 2016 Vodafone ha firmato un protocollo di intesa con il ministero della Giustizia, Cisco, Confprofessioni e Cooperativa Universo per contribuire all’allestimento tecnologico di aule didattiche ed offrire ad almeno 200 detenuti l’opportunità di acquisire nuove competenze, utili per il loro percorso di reinserimento sociale e professionale all’interno del programma Cisco Networking Academy. In particolare, l’azienda metterà a disposizione 130 personal computer negli istituti selezionati, coinvolgendo nell’arco di due anni inizialmente le strutture di Bollate, Opera, La Spezia, Rebibbia, Firenze e Nisida, ed estendendo poi i corsi anche alle carceri di Palermo, Bologna, Castrovillari e Cagliari secondo il successo del programma. I formatori che prenderanno parte all’iniziativa saranno sostenuti per alcuni moduli tramite il programma di Fondazione Vodafone "100% Insieme", che dal 2008 dà la possibilità a clienti e dipendenti Vodafone di svolgere un’attività lavorativa retribuita presso enti non profit. Dal 2002 la fondazione ha collaborato con diversi istituti, tra cui il carcere di Nisida a Napoli e il Due Palazzi di Padova per la realizzazione di laboratori di pasticceria, fotografia e scrittura, e il potenziamento delle attività e competenze di lavanderia e stireria tra le detenute della casa di reclusione Giudecca a Venezia. Complessivamente, dal 2002 il programma di donazione di Vodafone Italia ha destinato a istituti scolastici, pubbliche amministrazioni e terzo settore oltre 2500 dispositivi aziendali ricondizionati tra laptop e tablet e coinvolto oltre 200 mila over 55 attraverso il programma di alfabetizzazione digitale "Insieme a scuola di Internet". "Con la donazione di 130 personal computer in 10 carceri, vogliamo dare un contributo concreto alla formazione digitale dei detenuti" - dichiara Maria Cristina Ferradini, Sustainability manager di Vodafone e consigliere delegato di Fondazione Vodafone. "Come Fondazione da oltre 14 anni siamo impegnati nella realizzazione di iniziative di solidarietà sociale e, oggi più che mai, promuoviamo la tecnologia e il digitale quali strumenti di integrazione e innovazione sociale". Orlando preme sui tempi della riforma per la giustizia penale. Ma senza esito di Dino Martirano Corriere della Sera, 16 novembre 2016 Era il 12 dicembre del 2014 il giorno in cui il governo Renzi presentò il mastodontico disegno di legge delega che riforma la giustizia penale e il diritto processuale. Sono passati due anni e quel testo - approvato dalla Camera e poi stoppato sulla porta dell’Aula del Senato per motivi tattici in vista del referendum - assomiglia sempre più alla classica "occasione perduta": un treno che non ripassa tanto presto considerato il ritardo accumulato, anche se il Consiglio dei ministri ha autorizzato da settimane il ricorso al voto di fiducia per superare le difficoltà poste da centristi e verdiniani riottosi sulla prescrizione più lunga per i processi per corruzione. A spingere quel testo verso la meta sono rimasti in pochi. Il ministro Andrea Orlando, che difende una sua creatura, e in solitario i dem Donatella Ferranti e Valter Verini (in compagnia del renziano David Ermini che curò le trattative con Ncd di Alfano) che conoscono bene il valore di una giustizia penale efficiente. Tutti gli altri si sono defilati in nome di un ordine che blocca il voto in Aula prima del referendum: "Sarebbe un errore non approvare il ddl prima del 4 dicembre", si è sgolato il ministro Orlando, ma né i colleghi di governo né i senatori del Pd (uno solo dei quali ieri avrebbe potuto sollevare il tema del calendario in Aula) hanno dato cenno di risposta. Chi in Parlamento rema contro la riforma penale (c’è anche il giro di vite contro la pubblicazione delle intercettazioni non rilevanti penalmente) ora si affida ai magistrati dell’Anm che sabato decideranno se mettersi di traverso con un clamoroso sciopero delle toghe. Stallo sulle pensioni, torna l’ipotesi sciopero delle toghe di Errico Novi Il Dubbio, 16 novembre 2016 Governo muto, venerdì il direttivo del sindacato dei giudici. All’incontro del 24 ottobre Renzi si era spinto oltre. Aveva concesso aperture all’Associazione magistrati non solo su un riaggiustamento dell’età pensionabile (a 72 anni per tutti) e su una deroga per i trasferimenti dei giudici di prima nomina (ora costretti a restare 4 anni nella prima sede). Il presidente del Consiglio si era detto possibilista anche su un’altra e imprevista novità: equiparare il trattamento economico dei magistrati ordinari a quello dei giudici amministrativi. Tanta carne messa a cuocere. Ma a più di tre settimane dal vertice di Palazzo Chigi, sulla brace non c’è nulla. E si intravede di nuovo il rischio di uno sciopero, che l’Anm potrebbe annunciare già dopodomani, nella nuova riunione del proprio direttivo. Allo stato infatti non c’è un provvedimento che sia prossimo all’approvazione e che possa accogliere le norme promesse da Renzi. Avrebbe dovuto trattarsi della riforma penale: ma nonostante il pressing del guardasigilli Andrea Orlando, nulla sembra muoversi al Senato. Al momento non è neppure alle viste una conferenza dei capigruppo. E are evidente che la volontà di riparlarne solo dopo il referendum sia del premier più che di Palazzo Madama. L’Anm sarà costretta a prendere atto dello stallo. Nell’ultima riunione del direttivo, lo scorso 28 ottobre, il sindacato dei giudici aveva approvato un documento di "attesa": si sollecitava una risposta dell’esecutivo sulle questioni sollevate nell’incontro con Renzi e Orlando, e ci si dava appuntamento al 18 novembre per tirare le somme in un nuovo direttivo. Il presidente Piercamillo Davigo ha osservato l’impegno con cui il guardasigilli nelle ultime ore si è battuto per rimettere in moto il ddl penale. Dopo averne parlato lunedì sera a "Porta a porta", Orlando è intervenuto ieri per ribadire ieri che "sarebbe un errore non approvare la riforma prima del referendum". Dal ministro viene proposto un ragionamento simile a quello presentato in un articolo a quattro mani pubblicato domenica sull’Unità da altri due esponenti dem, Donatella Ferranti e Walter Verini: "Penso che il referendum lo vinceremo, però penso anche che tenere ferma una riforma così importante in questo momento rischia in qualche modo di indebolire il profilo riformista di un governo che si è cimentato su molti campi", dice Orlando, "compreso quello della giustizia, con risultati importanti". Ma l’appello non pare far breccia nel muro innalzato tra Palazzo Madama e Palazzo Chigi. Il vertice dell’Anm, Davigo in testa, ha atteso in questi ultimi giorni che potesse muoversi qualcosa. Ma le misure che Renzi si era impegnato ad approvare non arrivano. A questo punto si rischia di andare fuori tempo massimo: la norma sul riallungamento dell’età pensionabile, in particolare, dovrebbe essere approvata entro fine anno, o chi sta per andare in pensione non potrà fruirne. Si era ipotizzato anche di inserire le due misure attese dai giudici in Finanziaria, se non addirittura nel milleproroghe. Tutto resta incerto. E però dopodomani il direttivo dell’Anm potrebbe cambiare strategia. Non c’è una linea precostituita, ma nell’Associazione non si esclude di inviare al governo un vero e proprio ultimatum. Suonerebbe più o meno così: o si procede a stretto giro su pensioni e trasferimenti o il sindacato delle toghe potrebbe approvare uno sciopero. Esito clamoroso, se si considera il clima di distensione venutosi a creare con l’esecutivo nelle ultime settimane. Ma come spiega un componente del direttivo, "sarebbe intollerabile dover verificare che le aperture del governo nascondevano in realtà una presa in giro". L’Anm fa muro in tutta Italia contro il voto agli avvocati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 novembre 2016 Da Milano a Messina, fioccano le delibere critiche sul ruolo dei difensori nei consigli giudiziari. Non si placa la polemica all’interno della magistratura contro la proposta, avanzata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, di rafforzare il ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, in particolar modo per quanto attiene alle valutazioni di professionalità delle toghe. Dopo la dura presa di posizione dell’Associazione nazionale magistrati con cui si esprimeva "la netta contrarietà" al rafforzamento del ruolo della classe forense negli organismi distrettuali, anche considerato che si tratta, secondo il sindacato dei giudici, di "profilo che non attiene al perseguimento degli obiettivi di efficienza del sistema giudiziario", la replica da parte degli avvocati non si era fatta attendere. A suscitarla ha contribuito anche l’ulteriore affondo del presidente Anm Piercamillo Davigo sulla necessità di dimezzare la platea degli avvocati e di introdurre per questo il numero chiuso a Giurisprudenza. Una prima risposta era stata data nelle scorse settimane dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Messina. In una delibera votata all’unanimità, oltre ad esprimere "sconcerto" per le affermazioni di Davigo che descrivevano l’avvocatura come "una categoria di professionisti intellettualmente disonesti", si metteva in evidenza un paradosso proprio a proposito delle tanto temute valutazioni di professionalità. "Non si capisce", scrivevano gli avvocati messinesi, "come la nostra categoria sia idonea al giudizio se si tratta di vestire i panni di giudici onorari per alleviare il carico dei togati o di giudicare gli stessi giudici onorari, e diventi invece inidonea se si tratta di giudicare i magistrati ordinari". Anche il Consiglio dell’Ordine di Milano, sulla scia dei colleghi siciliani, aveva votato all’unanimità nei giorni scorsi una delibera in cui si affermava che "le dichiarazioni del presidente dell’Anm circa il ruolo degli avvocati all’interno del Consiglio giudiziario ed in particolare relativamente alla possibilità che agli stessi sia riconosciuto il diritto di partecipare con il proprio voto alle valutazioni di professionalità dei magistrati, sono del tutto gratuite e offensive per l’avvocatura ed esprimono una visione corporativa del sistema Giustizia", orientata a "escludere il contributo degli avvocati nella funzione di controllo sull’operato dei magistrati". A tali dichiarazioni, in una catena di repliche ormai interminabile, ha risposto la giunta distrettuale dell’Anm del capoluogo lombardo lo scorso fine settimana. Al termine di una riunione convocata ad hoc, è stato confermato il pieno appoggio all’operato di Davigo, ma nel comunicato diramato al termine dei lavori è stato anche manifestato "sconcerto che la posizione dell’Anm, espressa a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, possa essere letta come gratuita ed offensiva per l’avvocatura". Anzi, "la posizione dell’avvocatura milanese non può essere in alcun modo condivisa né esser posta in relazione con il ruolo positivo ed attivo dell’avvocatura nell’amministrazione della giustizia". A questo punto la partita è tutta politica. Bisognerà vedere, infatti, se il governo vorrà sostenere fino in fondo il ministro della Giustizia nella sua battaglia per il rafforzamento del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. Al momento, comunque Orlando, nonostante il fuoco di sbarramento delle toghe, non ha manifestato l’intenzione di fare marcia indietro. Caso Mastrogiovanni, tutti condannati di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 16 novembre 2016 Medici e infermieri colpevoli per la morte del maestro in Tso. Sei medici e undici infermieri colpevoli. 17 persone condannate per la morte del maestro anarchico Francesco Mastrogiovanni, avvenuta nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania (Sa). Così ha stabilito la Corte d’Appello di Salerno alla fine di un lungo processo durato due anni e otto giorni. Sentenza che riduce le pene dei medici, equilibra le colpe e le distribuisce anche al personale paramedico. Colpo duro per gli undici infermieri assolti nella sentenza di primo grado emessa il 30 ottobre 2012 dal tribunale di Vallo della Lucania, mentre i sei medici erano stati condannati a pene tra i due e i quattro anni di reclusione. La Corte d’Appello di Salerno nella sentenza mette in prima fila gli infermieri e condanna Giuseppe Forino, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Marco Scarano a un anno e tre mesi di reclusione; Maria D’Agostino Cirillo, Carmela Cortazzo, Antonio De Vita, Massimo Minghetti, Raffaele Russo e Antonio Tardio ad un anno e due mesi. I medici del reparto Rocco Barone e Raffaele Basso vengono condannati a due anni; Michele Di Genio, primario, a un anno e undici mesi; Amerigo Mazza e Anna Angela Ruberto ad un anno e dieci mesi; Michele Della Pepa a un anno e un mese. Tutti gli imputati sono condannati sotto il vincolo della continuazione del reato perché la loro condotta protratta nel tempo ha determinato la morte di Mastrogiovanni. Ma per la prima volta i giudici affermano che non basta ubbidire ad un ordine per non essere ritenuti responsabili di un reato. Nella requisitoria del 10 aprile 2015 il Procuratore Generale Elio Fioretti aveva chiesto pene di quattro e cinque anni per i sei medici e pene di quattro e cinque anni per gli infermieri. La dr.ssa Maddalena Russo, subentrata al dr. Fioretti, nella sua brevissima replica di ier mattina conferma le richieste del collega, ribadendo la responsabilità anche degli infermieri. Francesco Mastrogiovanni il 31 luglio 2009 era stato sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio illegale ordinato dall’allora sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, ma eseguito nel territorio del comune di San Mauro Cilento, dove Mastrogiovanni trascorre tranquillamente le vacanze. La sera prima sarebbe entrato con la macchina nell’isola pedonale di Acciaroli per uscirne a folle velocità, secondo l’accusa, ma senza causare danni a niente e nessuno. Inseguito e braccato la mattina successiva entra nel mare di Acciaroli dove resta per due ore. Nel frattempo un medico, capovolgendo la norma e assecondando la richiesta del sindaco, chiede il Tso e una dottoressa, specializzata in medicina dello sport, lo conferma. Prima di salire sull’ambulanza, Mastrogiovanni supplica: "Non mi fate portare all’ospedale di Vallo della Lucania, perché li mi ammazzano", ma nessuno da peso alle sue parole. In ospedale è tranquillo e saluta i medici ma dopo mezz’ora viene ordinata la sua contenzione. Mentre dorme è legato, mani e piedi al letto mani e piedi. Resterà legato per 88 ore senza mangiare né bere. E per sei ore resta legato anche una volta morto. Sua nipote, Grazia Serra, va a trovarlo, ma un medico le vieta di entrare. La mattina dopo è il sindaco di Castelnuovo Cilento a telefonare alla sorella di Mastrogiovanni: "Franco non è più con noi", le dice. La tragica morte di Mastrogiovanni è documentata in un lungo video disponibile su internet che documenta le atrocità alle quali è sottoposto per quattro giorni, senza trascrivere la contenzione fisica in cartella. "Si tratta di un verdetto importantissimo che sanziona comportamenti di inaudita gravità da parte del personale sanitario", è il commento alla sentenza del presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi. Per il segretario dei radicali Italiani Riccardo Magi, invece, la sentenza "afferma il principio per cui la qualificazione professionale dell’infermiere e la manifesta criminosità della condizione a cui era stato ridotto Franco Mastrogiovanni, impongono di condannare chi ha assistito ed avallato con il suo operato tutto ciò senza opporvisi". Detenuto in semilibertà si reca in salumeria: motivo insufficiente per revocare il beneficio quotidianogiuridico.it, 16 novembre 2016 Cassazione penale, sez. I, sentenza 4 novembre 2016, n. 46583. Pronunciandosi su un ricorso contro la ordinanza del tribunale di sorveglianza che aveva revocato il beneficio della semilibertà concesso ad un detenuto in relazione alla pena in corso di espiazione, la Corte di Cassazione (sentenza 4 novembre 2016, n. 46583) - nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui aveva errato il tribunale a non considerare che l’uomo era stato autorizzato al suo datore di lavoro ad allontanarsi dal posto di lavoro per acquistare dei generi alimentari nonché della modesta entità della violazione, consistente in un allontanamento di pochi minuti - ha ribadito che in tema di revoca delle misure alternative alla detenzione, secondo cui la revoca non può conseguire al mero riscontro di violazioni di legge o delle prescrizioni della misura, ma il Tribunale deve valutare (e spiegare) le ragioni per le quali la violazione commessa deve ritenersi indicativa di una volontà di allontanamento dalle finalità proprie della misura stessa. Stupefacenti: raddoppia il tetto per l’ingente quantità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 14 novembre 2015 n. 47978. Per le droghe leggere, il quantitativo minimo di principio attivo al di sotto del quale non scatta l’aggravante dell’ingente quantità, é pari a 4 mila volte e non più 2 mila volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno. La Corte di Cassazione, con la sentenza 47978, corregge la rotta sulla determinazione dell’ingente quantità, raddoppiando i valori da 2 mila a 4 mila, come effetto dell’annullamento da parte del Tar del decreto ministeriale del 2006. Il Tar Lazio (sentenza 2487 del 2007)ha, infatti, annullato la norma con la quale il ministero della Salute aveva innalzato il moltiplicatore della dose media singola da 20 a 40. Su quei valori, fissati prima del colpo di spugna dei giudici amministrativi, si erano basate le Sezioni unite (Sentenza Biondi 36258/2012) per determinare, nelle droghe legge e in particolare nell’hashish, la quantità massima giornaliera di principio attivo che poteva essere detenuta, indicandola "espressamente nella misura di 1.000,00 mg, ipotizzando una percentuale media di principio attivo del 5% e un quantitativo lordo di sostanza di circa 50 kg". Dopo l’annullamento del Dm da parte del Tar Lazio il "tetto" di principio giornaliero massimo è stato riportato nella misura originaria di 500 mg. Per i giudici della terza sezione penale è dunque giusto "correggere" i valori indicati dalla Sentenza Biondi. Per la Suprema corte dunque la quantità minima di principio attivo di sostanza stupefacente, tipo hashish, al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante, prevista dall’articolo 80 del Dpr 309/1990, deve essere necessariamente pari al doppio di quelle indicata, erroneamente dalle Sezioni unite Biondi. Il "limite" è pari a 4 mila e non 2 mila volte "il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg di principio attivo, che del resto coincide con quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)". Nel caso specifico, il raddoppio del valore non salva però il ricorrente dall’aggravante. Nella vicenda esaminata dai giudici, infatti, il principio attivo e la enorme quantità di dosi ricavabili, dallo stupefacente detenuto era tale da "invadere un’intera città di provincia in un solo giorno". La Cassazione ricorda che la ratio della legge 309/1990 sta proprio nell’incremento del pericolo della salute pubblica, che scatta ogni volta che il quantitativo di sostanza, oggetto di imputazione, pur non raggiungendo i valori massimi, è tale da creare le condizioni per agevolare il consumo da parte di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo la valutazione "del giudice di merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza". Pedone fuori dalle strisce? Omicidio sempre colposo di Francesco Barresi Italia Oggi, 16 novembre 2016 L’omicidio è comunque colposo anche se il pedone attraversa la strada fuori dalle strisce. La Corte di cassazione ritorna sul punto, con la sentenza 39474/2016 del 23 settembre, in cui ha rigettato il ricorso di un automobilista che ha investito un pedone, nel cuore della notte e in una strada priva di illuminazione pubblica, che a causa delle gravi ferite ha perso successivamente la vita. Citando delle sentenze precedenti del 2013 (la 10635 e la 332017) i porporati aggiungono ulteriori principi di diritto. "In tema di omicidio colposo, per escludere la responsabilità del conducente per l’investimento del pedone, chiosano i giudici, è necessario che la condotta di quest’ultimo si ponga come una causa eccezionale e atipica, imprevista e imprevedibile dell’evento", quindi i porporati specificano che "quando una strada è costeggiata su entrambi i lati da case ed esercizi commerciali, il conducente di un’autovettura, pur non trovandosi nell’immediata prossimità di un attraversamento pedonale, deve considerare possibile l’eventuale sopravvenienza di pedoni e, quindi, tenere un’andatura e un livello di attenzione idonei a evitare di investirli". La Corte infine tiene a precisare che "seppur la vittima ha tenuto una condotta poco prudente non si può ritenere che il suo comportamento integri una causa eccezionale, del tutto atipica, imprevista e imprevedibile da sola idonea a causare l’evento lesivo e, quindi, tale da escludere qualsivoglia profilo di colpa del conducente". Truffa online, il luogo dell’incasso regola la competenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 14 novembre 2016 n. 48027. In caso di truffa perpetrata mediante vendita online, qualora il pagamento sia avvenuto tramite bonifico bancario, il giudice competente è quello del luogo dove la somma viene riscossa e non quello in cui è stata data la disposizione di pagamento. Sulla base di questo principio la Corte di cassazione, sentenza 14 novembre 2016 n. 48027, ha accolto il ricorso dell’imputato annullando senza rinvio sia la sentenza di primo grado che quella di appello per incompetenza territoriale, e trasmettendo gli atti alla Procura competente. La vicenda - Una donna condannata per truffa online ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte di Appello di Trento che aveva confermato la competenza del tribunale di Trento - vale a dire quello del circondario nel quale le vittime effettuarono il bonifico sul conto corrente postale dell’imputata - e non quello dove l’imputata riscosse le somme - ossia Taurianova, con conseguente competenza del Tribunale di Palmi, o, in via residuale, quello di residenza (Marina di Gioiosa Ionica, e quindi, il Tribunale di Locri). La motivazione - La Cassazione premette che il reato di truffa è un "reato istantaneo e di danno che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimoni" del soggetto passivo e che, quindi, si consuma nel momento in cui si verifica l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato". Trattandosi di un bonifico bancario, dunque, prosegue la sentenza, chi effettua il pagamento (le persone truffate) perde subito il denaro (anche se, fino al momento della riscossione, l’ordine può essere revocato), mentre il beneficiario (l’imputato agente), consegue il profitto solo quando riscuote il denaro. Così ricostruito il meccanismo però, continua la Cassazione, dal momento che non si conosce il luogo in cui la somma fu materialmente riscossa - e cioè se presso l’ufficio postale di Taurianova, dove era stato acceso il conto corrente, o presso la filiale dell’ufficio postale di Marina Gioiosa Ionica - si applicano le regole suppletive di previste dall’articolo 9 del Cpp ossia si deve guardare (a) al giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione; (b) al giudice del luogo di residenza. Ma siccome non è noto neppure il luogo sub a), non rimane che applicare la regola prevista al punto b) e dichiarare la competenza del tribunale di Locri. In conclusione la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: "nell’ipotesi di truffa contrattuale realizzata attraverso la vendita di beni on line, ove il pagamento, da parte della parte offesa, avvenga tramite bonifico bancario con accredito sul conto corrente dell’agente, il reato si consuma nel luogo ove costui consegue l’ingiusto profitto (riscossione della somma) e non già in quello in cui viene data la disposizione per il pagamento da parte della persona offesa. Nell’ipotesi in cui, non vi sia prova del luogo di riscossione, si applicano le regole suppletive di cui all’art. 9 cod. proc. pen.". Diffamazione se la notizia non viene aggiornata dopo l’esito favorevole del processo di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2016 Tribunale di Genova - Sezione I penale - Sentenza 20 giugno 2016 n. 3582. Chi inserisce notizie a mezzo internet relative ad indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l’esito positivo per l’indagato o l’imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa. Questo è quanto emerge dalla sentenza 3582/2016 del Tribunale di Genova. Il caso - Al centro della vicenda vi è la pubblicazione sul sito internet di un associazione di consumatori, da parte del suo presidente, della notizia relativa al rinvio a giudizio del presidente e vicepresidente di un’associazione concorrente per il reato di concussione in ordine ad una maxi-inchiesta su alcuni importanti appalti. In seguito, veniva emessa una sentenza di non luogo a procedere per i fatti di reato contestati, ma la notizia originaria non veniva aggiornata. Di qui il giudizio penale con l’autore della notizia che veniva imputato per il reato di diffamazione a mezzo stampa. La decisione - Per il Tribunale il reato di cui all’articolo 595 comma 3 c.p. sussiste in quanto non c’è dubbio che l’omesso aggiornamento mediante inserimento dell’esito del procedimento penale costituisce un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l’immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico", come nella fattispecie. Pertanto, la notizia - vera al momento dell’inserimento - avrebbe dovuto essere aggiornata (o quantomeno eliminata) perché non più reale e smentita dall’evolversi del processo penale, all’esito del quali i soggetti coinvolti risultavano completamente scagionati da ogni accusa. Difatti, "la verità della notizia - afferma il Tribunale - deve essere riferita agli sviluppi di indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all’epoca dell’acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". L’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2016 Reati sessuali contro i minori - Dichiarazioni della persona offesa - Particolare condizione soggettiva della persona offesa - Attendibilità. Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento della responsabilità penale dell’imputato, a condizione che sia verificata, con corredata motivazione, la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca del suo racconto. Tale verifica deve essere in tal caso più penetrante e rigorosa rispetto a quella prevista per le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Eventuali particolari condizioni soggettive della persona offesa (nello specifico: sindrome di Down) non rendono la sua deposizione inattendibile di per sé ma obbligano il giudice di merito non solo alla verifica analitica della coerenza, costanza e precisione ma anche a ricercane eventuali elementi esterni di supporto. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 novembre 2016 n. 47238 Reo e persona offesa dal reato - Persona offesa dal reato - Testimonianza - Attendibilità - Valutazione - Riscontro delle dichiarazioni - Responsabilità dell’imputato. La possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza dell’offeso attraverso l’individuazione di precisi riscontri, va espressa in termini di "opportunità’" e non di "necessità", occorrendo lasciare al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo dell’attendibilità nel caso concreto. Infatti, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 settembre 2016 n. 37988. Reo e persona offesa dal reato - Persona offesa dal reato - Articolo 192 c.p.p. comma 3 - Dichiarazioni rese dalla persona offesa - Penale responsabilità dell’imputato - Credibilità soggettiva - Attendibilità intrinseca. Le regole dettate dall’articolo 192 c.p.p., comma 3, non trovano applicazione con riguardo alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e tuttavia hanno evidenziato che la verifica circa l’attendibilità deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, soprattutto nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, nel qual caso può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 maggio 2015 n. 20126. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Decisione - Dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dalla persona offesa - Ritrattazione - Inattendibilità di quest’ultima - Utilizzo delle stesse - Valutazione. Nell’ipotesi di dichiarazioni accusatorie rese in sede di indagini dalla persona offesa e di successiva ritrattazione non inequivocabilmente idonea a svalutarle, il giudice, in sede di giudizio abbreviato, può legittimamente assegnare peso probatorio alle prime dichiarazioni, a condizione che eserciti su queste un controllo più incisivo, possibilmente esteso ai motivi della variazione del dichiarato, potendo anche giungere a ritenere che la ritrattazione inattendibile o mendace si traduce, proprio perché tale, in un ulteriore elemento di conferma delle accuse originarie. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 1 febbraio 2016 n. 4100. Liguria: politiche sociali, 250 mila euro per recupero dei detenuti genovapost.com, 16 novembre 2016 Stanziati dalla giunta regionale, su proposta della vicepresidente e assessore regionale alle Politiche Sociali Sonia Viale, 250 mila euro per interventi di sostegno alle persone sottoposte a provvedimenti penali attraverso i patti di sussidiarietà dando continuità alle azioni sul territorio regionale della "Rete che unisce", di cui il consorzio Agorà è capofila nell’associazione temporanea di scopo composta da varie associazioni dislocate nell’estremo Ponente ligure. Detenuti - "I risultati del progetto avviato dalla Rete che unisce sono stati positivi - spiega la vicepresidente Viale - pertanto abbiamo ritenuto di proseguire l’esperienza e di allargarla anche a nuovi soggetti interessati a portare il proprio contributo sul territorio con attività rivolte al miglioramento della vita in carcere, fornendo anche supporto al personale di polizia penitenziaria nello svolgimento dei propri compiti con i detenuti, mediazione penale minorile, con particolare attenzione alla prevenzione, e a supporto alla genitorialità". Contributi - Attraverso un bando pubblico, le associazioni liguri del Terzo settore potranno presentare alla Regione Liguria le proprie proposte progettuali e, in caso di giudizio positivo, sottoscrivere il Patto di sussidiarietà che dà l’accesso ai contributi economici regionali, pari al 70% del valore economico complessivo del progetto. Varese: digiuno dei detenuti al Miogni per chiedere l’amnistia o l’indulto La Prealpina, 16 novembre 2016 La chiedono 50 detenuti: "Niente cibo dal carrello, qui non vogliamo più tornare". Due giorni di sciopero della fame. O, meglio, di "digiuno dal carrello della mensa". Per chiedere l’amnistia o l’indulto. Anche a Varese, nella casa circondariale dei Miogni, ha avuto grande successo l’iniziativa che in tutte le carceri italiane ha coinvolto 17.000 detenuti. A Varese sono stati oltre 50, cioè quasi tutti, quelli che per due giorni, dal 5 al 6 novembre, hanno deciso appunto di non prendere cibo dal carrello della mensa (e di prepararsi eventualmente da mangiare in autonomia, se fosse risultato impossibile resistere alla fame) e poi hanno firmato una petizione. A farlo sapere gli stessi detenuti del carcere di Varese, i quali spiegano in una lettera alla Prealpina "che nella situazione in cui ci troviamo abbiamo ormai capito che quando usciremo dal carcere non dovremo più commettere reati, altrimenti ci ritroveremo ancora a vivere questa brutta esperienza". "Visto che è da parecchio tempo che non ci sono in Italia l’amnistia o l’indulto (per la prima bisogna tornare indietro nel tempo fino al 1990, mentre per quanto riguarda l’indulto l’ultimo risale al 2006, ndr), speriamo che questa nostra azione - concludono i detenuti del Miogni - serva a farci sentire, così da favorire la nostra uscita dal carcere". L’appello ad adottare un gesto di "clemenza" a favore dei carcerati, prima di Papa Francesco, era stato chiesto anche da Giovanni Paolo II in due occasioni specifiche: nel corso del Giubileo del 2000, nella giornata dedicata ai detenuti, e in occasione della sua visita al Parlamento italiano a novembre del 2002. Una richiesta appoggiata da tante forze politiche, sostenuta da associazioni e intellettuali ma che non ebbe il successo sperato. La risposta agli appelli di Papa Giovanni Paolo II arrivò infatti, e parzialmente, solo nel 2003, con il cosiddetto "indultino", un provvedimento che escludeva dai benefici diverse tipologie di reato e veniva applicato senza automatismi. Tre anni dopo, quando il Papa polacco già non c’era più, fu varato l’indulto. Era il 2006. L’indulto, a differenza dell’amnistia, estingue la pena ma non il reato. L’ultima amnistia vera e propria, in Italia, risale al 1990 e diverse se ne contano anche in precedenza. Gorizia: "la sezione protetta per i gay va chiusa", raccomandazione del Garante nazionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2016 Al carcere di Gorizia continua a persistere la doppia pena per i detenuti omosessuali. La denuncia arriva dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nel suo ultimo rapporto. La vicenda era già stata denunciata dal garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia, Pino Roveredo, insieme all’ex capogruppo di Sel in regione, Giulio Lauri. In pratica, all’inizio del 2016, è stato istituito un reparto riservato a tre detenuti omosessuali con lo scopo di "proteggerli" dal clima omofobo che regna nel carcere. L’intento apparentemente appare nobile, ma il risultato è stato quello di isolarli forzatamente, non lasciandogli lo spazio ad alcuna attività. La visita al penitenziario di Gorizia che ha effettuato Mauro Palma è stato l’esame dell’evoluzione della particolare sezione per detenuti protetti omosessuali. Nel rapporto precedente il Garante nazionale aveva evidenziato alcuni importanti criticità: l’anti-economicità del progetto, in considerazione del numero delle persone che vi sono state ristrette nel corso di più di dieci mesi trascorsi dall’apertura, dell’eccessiva ampiezza degli spazi in un contesto in cui tutte le altre sezioni soffrono della ristrettezza dei locali; l’inaccettabile situazione di isolamento di fatto verificatasi per i detenuti ristretti in tale sezione, per i quali la richiesta di protezione si è convertita in mera offerta di isolamento, in chiaro contrasto con obbligazioni internazionali relative all’isolamento sulla base di connotazioni soggettive e, in particolare, del proprio orientamento sessuale; l’inesistenza dell’offerta trattamentale per i detenuti ristretti in questa sezione e la complessiva centralità di una visione chiusa dell’esecuzione penale, peggiore di quanto offerto ad altri detenuti, seppure attuata in condizioni materiali di molto superiori; la propria perplessità circa la scelta in sé di aprire una sezione con tali caratteristiche e tale destinazione che, al di là delle positive intenzioni di chi l’ha concepita e avviata, di fatto rischia di aggiungere un’ulteriore stigmatizzazione a quanto di per sé la carcerazione determina nei soggetti e di aggiungerla sulla base del proprio orientamento sessuale. Conseguentemente, Mauro Palma aveva formulato delle raccomandazioni relative al regime offerto ai detenuti ristretti in tale sezione, nelle more dello sviluppo di una più approfondita riflessione sull’opportunità in sé dell’esistenza di tale sezione. La nuova visita ha evidenziato che nessuna delle raccomandazioni formulate per tale sezione è stata implementata. Nel giorno della visita ? si legge nel rapporto - la sezione ospitava due persone detenute già presenti nel maggio scorso, indicate come Detenuto 3 e Detenuto 6 (rispettivamente M. D. e S. I.). Erano in due stanze distinte, totalmente separate e chiuse rispetto al resto dell’Istituto e l’unica attività loro concessa era la possibilità di andare in biblioteca una volta settimana. Nonostante le stanze fossero all’interno di una sezione di per sé chiusa, le loro porte continuavano a essere chiuse dalle ore 16 di ogni giorno. Inoltre la sezione continuava a essere munita per attività in comune (tra i due) soltanto di un "calcio-balilla" e tenuto conto che uno dei due detenuti (Detenuto 6) aveva avuto e continuava ad avere frequenti e prolungate assenze dal reparto sia per ricoveri ospedalieri, sia per trasferimenti ad altre sedi per ragioni di giustizia, la proposta di tale unica attività ludica (il "calcio-balilla") per un detenuto frequentemente solo ? si legge sempre nel rapporto - "suscita soltanto amara ironia". Il Garante nazionale dei detenuti, al di là delle richieste avanzate dai due detenuti che si trovano di fatto in isolamento, ritiene che sia giunto il momento di fare il punto sulla iniziativa intrapresa con l’apertura di una sezione di questo tipo, sul significato che essa inevitabilmente assume, sul rischio di ulteriore stigmatizzazione che essa può comportare sulle persone che vi sono ospitate e, più in generale sulla accettabilità in sé di una sezione così connotata, destinata ad accogliere persone detenute da un territorio che copre tutto il Triveneto e a proporre loro un regime diverso dall’ordinario sulla base del loro orientamento sessuale. Rinnova comunque la sua raccomandazione: che sia posto termine all’esperienza della sezione per protetti omosessuali nella Casa circondariale di Gorizia e che le persone attualmente ristrette siano trasferite altrove. Pisa: "penitenziario fuori legge", Rita Bernardini ha inviato un esposto alla procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2016 Il carcere Don Bosco di Pisa versa in condizioni talmente critiche che, almeno una parte del reparto penale, andrebbe evacuato. Sono queste le conclusioni shock della relazione presentata dal garante locale per i diritti dei detenuti Alberto di Martino. Il report passa al setaccio tutte le criticità della casa circondariale che conferma le problematiche - come già riportato da Il Dubbio - denunciate dalla radicale Rita Bernardini dopo la sua ultima visita. Non solo il sovraffollamento, ma ci sono forti criticità per le infrastrutture, la situazione delle donne e gli stranieri. Per quanto riguarda la detenzione delle donne, la condizione - così la definisce il Garante - è "infelice". Le celle si trovano al piano superiore lungo un ballatoio che si affaccia sul corridoio del piano terra. Come misura adottata per evitare i problemi da sovraffollamento, le detenute possono stare fuori dalla cella per un certo numero di ore al giorno, ma - ad oggi - non possono sostare sul ballatoio; possono solo riunirsi a gruppi nelle celle (idonee al massimo per due persone) oppure recarsi al piano inferiore in una sala comune. Il ballatoio dispone di una cucina professionale moderna, tuttavia - nonostante sollecitazioni in tal senso anche da parte del garante regionale Franco Corleone - non è accessibile all’uso ordinario quotidiano: resterebbe accessibile per attività di carattere occasionale. La direzione della casa circondariale sottolinea la non gestibilità dei profili di responsabilità innanzitutto civile che potrebbero essere connessi all’uso ordinario dell’impianto. Poi c’è il problema igienico-sanitario. Conferma quello che già denunciò Rita Bernardini: i gabinetti sono a vista così che i detenuti sono costretti a defecare o orinare alla presenza dei loro compagni di cella e del personale penitenziario. Inoltre non c’è nessun bidet con erogazione dell’acqua calda, che è disponibile soltanto nelle docce. Le finestre di alcune celle, nelle quali è stato sistemato un letto a castello, non consentono l’apertura completa degli stipiti. Per questo problema, il garante Di Martino spiega nel report che "un pronunciamento recente della magistratura di sorveglianza, anche sollecitata dai ricorsi promossi dalle detenute con l’assistenza dei volontari de "L’Altro Diritto", ha intimato all’amministrazione di risolvere strutturalmente, entro sessanta giorni, il problema della separazione del vano sanitari dal resto della stanza". Per i problemi infrastrutturali va ricordato che il carcere, progettato tra il 1928 ed il 1933 e costruito tra il 1934 ed il 1935, fu preso in consegna nel 1941 ed iniziò la sua attività nel 1944. Si trova all’interno del tessuto urbano, dalla stazione si è collegati con corse di autobus. La struttura era inizialmente composta da 8 palazzine collegate da corridoi, nel 1955 ne venne aggiunta un’altra per officina e lavanderia. Le sezioni detentive si trovano prevalentemente nei tre piani del blocco centrale, mentre gli spazi per le attività e i principali spazi comuni sono collocati a piano terreno. L’elenco delle criticità stilato da De Martino è lunghissimo. Si va dalla insufficiente altezza di barriere e parapetti in relazione alle norme vigenti, all’inadeguatezza, vetustà, deperimento delle linee telefoniche, del sistema di videosorveglianza alla porta principale al deperimento del manto del campo da calcetto. L’area dei detenuti in semilibertà necessita di un totale rifacimento, e preferibilmente la dislocazione all’esterno della casa circondariale. Il garante non usa mezzi termini: la struttura andrebbe rifatta da cima a fondo. Ma non finisce qui. Come già denunciato dal garante regionale dei detenuti Franco Corleone, l’istituto penitenziario si trova di fronte ad un ecomostro. Parliamo di un manufatto, mai portato a termine, che avrebbe dovuto ospitare il nuovo centro clinico. Attualmente il fortilizio versa in condizioni di abbandono tanto da creare un fondo acquitrinoso emanando odori che ammorbano l’aria del carcere adiacente. Infine c’è la situazione critica riguardo i detenuti stranieri. C’è difficoltà linguistica per mancanza dei traduttori. Di Martino e i volontari de "L’altro Diritto" si sono adoperati per reperire i traduttori, ma è stato possibile gestire solo le situazioni critiche. A confermare il degrado nel quale versa il carcere è stato anche il sindacato Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Con una delegazione guidata dal segretario generale Angelo Urso, ha fatto visita al carcere Don Bosco per verificare lo stato dei luoghi. Il giudizio è assolutamente negativo tanto da richiedere la chiusura per ristrutturazione. Nel frattempo l’esponente dei Radicali Rita Bernardini ha inviato un esposto alla Procura della Repubblica per denunciare la situazione illegale del carcere Don Bosco. Roma: benvenuti a Rebibbia, il carcere più pazzo del mondo di Valeria Di Corrado Il Tempo, 16 novembre 2016 Per ben nove giorni il carcere di Rebibbia è rimasto isolato dal mondo. Dallo scorso 6 novembre, fino a ieri, non hanno funzionato le linee telefoniche all’interno del più grande penitenziario di Roma. È stato impossibile per i magistrati notificare tramite fax ai detenuti del nuovo complesso provvedimenti di scarcerazione, avvisi di conclusione delle indagini preliminari e atti di qualsiasi altra natura. Allo stesso modo gli avvocati non hanno potuto mettersi in contatto telefonicamente con i loro assistiti, visto che persino il centralino risultava irraggiungibile. E tutto questo perché? Per le forti e violente precipitazioni atmosferiche che hanno colpito due domeniche fa la Capitale. A causa della "bomba d’acqua" (quindi non di una vera bomba) è saltata infatti la centralina telefonica del penitenziario di via Bartolo Longo. Solo nella giornata di ieri i tecnici sono riusciti a ripristinarla. Per la stessa ragione è stato difficile contattare la nuova direttrice del carcere, Rosella Santoro, che ha preso il posto del suo predecessore Mauro Mariani, in malattia dal giorno in cui c’è stata l’evasione di tre detenuti. Ma i problemi a Rebibbia non finiscono qui. Due anni fa nel carcere romano fu installato, per due milioni di euro, un sofisticato sistema di allarme con videosorveglianza a fotocellule. Qualche mese dopo però, data la sensibilità del sistema (l’allarme scattava di continuo anche per il volo di un uccello), fu disinstallato. Anche l’attuale sistema presenta limiti evidenti. Nell’ultima evasione, infatti l’allarme, a detta degli agenti, non si sarebbe attivato. Quindi nessuna elemento avrebbe consentito ai poliziotti del penitenziario di focalizzare la loro attenzione sul monitor che ritraeva i tre fuggitivi mentre scavallavano i muri di cinta con delle lenzuola. Un’altra ipotesi, altrettanto preoccupante, potrebbe essere quella di un blackout. È una situazione ormai allo sbando - ammonisce Donato Capece, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria Sappe - Qualcuno si deve domandare: ma il carcere di Rebibbia dove lo vogliamo portare? Perché se vogliamo trasformarlo in un collegio, a quel punto non c’è più bisogno di poliziotti. Una delle cose più insopportabili è questo finto perbenismo: sembra che siano tutti bravi ragazzi, invece si tratta di persone che si trovano in carcere perché sono ladri, stupratori, assassini, terroristi". "Il vero problema è l’incapacità dei dirigenti di questa amministrazione che hanno perso il timone nella gestone delle carceri. Qualcuno al Dap - prosegue Capece - dovrebbe farsi l’esame di coscienza e domandarsi se sono in grado di garantire la sicurezza. Non possono scaricare tutte le responsabilità sulla polizia penitenziaria, noi siamo solo esecutori di ordini". L’ultimo eclatante episodio che dimostra che a Rebibbia sia più di una cosa a non funzionare (non solo i telefoni e fax) è l’evasione di tre detenuti di origine albanese avvenuta la notte tra il 26 e il 27 ottobre scorso e tuttora ricercati. Il tutto a otto mesi dalla fuga di altri due carcerati romeni, poi catturati. "Non si può subire una prima evasione a febbraio e non prendere provvedimenti - fa notare il segretario generale del Sappe - Oramai si riscontra un abbassamento della sicurezza a livelli minimi. I reclusi non sono mica scemi, studiano le falle per cercare di scappare. E di falle a Rebibbia ce ne sono tantissime: il sistema di anti-scavalcamento e di anti-intrusione non funzionano". Solo ora, dopo la seconda evasione, hanno ripristinato il servizio delle sentinelle. Da due anni, infatti, a causa dei tagli, il muro esterno non era più perlustrato dalle volanti della penitenziaria. "Non potevano metterle già da febbraio, dopo la prima evasione? - si domanda Capece - Già ci sono 300 agenti in meno, in più si continua a non vedere la debolezza del nuovo sistema di vigilanza "aperto". Il detenuto è libero di circolare in sezione, di organizzarsi con gli altri ed è così in grado di fregare la sorveglianza. Prima la vigilanza era fissa, ora si va di tanto in tanto a controllare". Alessandria: nelle carceri restano le criticità, situazione in linea con il resto del Paese alessandrianews.it, 16 novembre 2016 Presentata lunedì 14 nel Carcere di San Michele dal Garante Comunale dei Detenuti, Davide Petrini, la Relazione annuale sulle attività svolte. La Commissione Consiliare Politiche Sociali e Sanitarie del Comune di Alessandria, presieduta da Rossella Procopio, si è riunita nella mattinata di lunedì 14 presso la Casa di Reclusione di San Michele - presenti il Direttore della Casa di Reclusione di San Michele dr. Domenico Arena e il Direttore della Casa Circondariale Cantiello e Gaeta dr. Alberto Valentini - per ascoltare la relazione del Garante dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della liberta personale, prof. Davide Petrini. Alla presenza del Sindaco, Rita Rossa, dell’Assessore Mauro Cattaneo, del Garante Regionale dei detenuti, Bruno Mellano, dei Parlamentari Federico Fornaro, Daniele Borioli, Fabio Lavagno e del Presidente della IV Commissione del Consiglio Regionale, Domenico Ravetti, il Garante Comunale ha esposto una ricca analisi della situazione all’interno delle due carceri cittadine, evidenziandone le criticità. "La scelta di svolgere la Commissione in carcere non è casuale - spiega Rossella Procopio, Presidente della Commissione -. Abbiamo voluto, in accordo con il Garante prof. Petrini, che i rappresentanti delle varie Amministrazioni Pubbliche ed Associazioni di Volontariato coinvolte venissero proprio qui perché questo luogo non deve essere percepito come altro, rispetto alla città, ma come un quartiere, come parte integrante di essa. è un segnale importante dell’attenzione dell’Amministrazione verso queste realtà dove ci sono, attualmente, 1100 persone, tra detenuti e operatori della polizia penitenziaria e dell’amministrazione, oltre alle Associazioni di Volontariato che vi operano". Dalla relazione emerge che esiste un alto tasso di sovraffollamento delle carceri nonostante il quadro generale della Regione Piemonte rilevi che gli Istituti penitenziari piemontesi siano in genere "sotto-affollati" e ciò determina un trasferimento di detenuti da altre Regioni. All’interno di entrambe le Strutture (Cantiello Gaeta e San Michele) sono previste delle attività scolastiche, formative, lavorative e trattamentali per i detenuti. Tuttavia il numero dei detenuti che possono beneficiare della possibilità di essere ammessi ad un lavoro non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per le c.d. attività "domestiche", è molto esiguo. Per il Comune di Alessandria l’unica eccezione a riguardo attiene al forno gestito, nella casa di reclusione di San Michele, dalla cooperativa Pausa Cafè che impegna una decina di detenuti e dal progetto di attività agricola gestita da Company (4 detenuti). Il Carcere di San Michele è il primo produttore di camomilla. L’80% dei detenuti risulta costretta all’ozio forzato ed a condizioni di dipendenza, dal punto di vista economico, dai familiari esterni. La mancata possibilità di instaurare percorsi esterni e la scarsa possibilità di accedere alle misura alternative alla detenzione, determina spesso un fine pena che, di fatto, espelle dal carcere soggetti privi di reddito ed opportunità lavorative. Questi due fattori aumentano, di conseguenza, il tasso di recidiva. Non si registrano, in entrambi gli Istituti, grosse criticità a livello locale, oltre quelle che, in modo diverso, ma costante, affliggono la quasi totalità degli Istituti Penitenziari Italiani (carenza di educatori, elevata percentuale di detenuti stranieri, difficoltà a reperire attività lavorative, ozio forzato per la gran parte dei reclusi). Si segnala, tuttavia, la cronica difficoltà di accesso ai benefici penitenziari, nonché una situazione precaria dal punto di vista strutturale, in particolare al Cantiello e Gaeta (celle fatiscenti, umidità nei locali, carrelli del vitto e dei medicinali arrugginiti etc.). Le problematiche che emergono dai colloqui del Garante con i detenuti riguardano problemi di ordine sanitario (difficoltà ad accedere alle visite per terapie specialistiche, importanza del ruolo del Ser.T Penitenziario, in fase di riorganizzazione), difficoltà a soddisfare le richieste di trasferimenti in altre carceri e la necessità di maggiori opportunità di attività lavorative. Si evidenzia, inoltre, una difficoltà a sostenere la genitorialità e per i detenuti stranieri, emergono forti difficoltà a scontare la pena nel proprio Paese di provenienza, anche quando, all’esito di una richiesta del detenuto stesso, sia già stato emesso il decreto di espulsione. Altro ambito particolarmente complesso è quello delle pratiche e procedure amministrative che spesso risulta difficile poter esplicare (recente è il caso dell’impossibilità di un detenuto di riconoscere il figlio naturale nei termini previsti dalla Legge). "Questo momento di confronto è stato molto utile per porre in evidenza tutti gli ambiti in cui l’Amministrazione può intervenire - ha concluso il Sindaco Rita Rossa. Siamo disponibili a collaborare e con il contributo delle Autorità presenti, possiamo portare questi temi di discussione sui tavoli del Governo centrale". Firenze: in carcere con il cane, così genitori detenuti e figli si incontrano dietro le sbarre fanpage.it, 16 novembre 2016 Gli amici a quattro zampe possono aiutare i figli dei detenuti e i loro genitori a incontrarsi nelle visite in carcere. Si chiama Oscar, è un bellissimo cane di razza Terranova e da anni è uno dei più affidabili compagni dei figli dei detenuti del carcere di Sollicciano, a Firenze, che accompagna almeno una volta al mese agli incontri con i loro genitori. Oscar aiuta quei bambini a superare le snervanti attese, i tempi morti e la paura delle guardie penitenziarie che ai loro occhi non sempre sono figure rassicuranti. Ebbene, grazie a un accordo stretto al Rotary Club di Fiesole fra i due provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria di Toscana-Umbria e Puglia-Basilicata insieme all’Ente nazionale della cinofilia italiana l’esperienza di Oscar potrebbe essere esportata in altre carceri italiane. Per questo prossimamente verrà istituito un "Master per unità cinofile in ambito penitenziario", finalizzato a formare gli operatori che svolgeranno la loro attività, con l’ausilio degli amici a quattro zampe, all’interno delle strutture di reclusione. Ha dichiarato Monica Sarno, responsabile del progetto: "Una fase di formazione è fondamentale, perché sia i cani che i loro educatori devono conoscere le dinamiche degli istituti, le complessità delle strutture. Saper entrare in carcere è sempre il passo più difficile. Ma con l’esperienza di Oscar abbiamo capito che ne vale la pena. Certo, un cane non può risolvere tutti i problemi legati a un momento così difficile. Ma abbiamo constatato che i bambini, con lui al fianco, sono più sereni e rilassati, e riescono ad affrontare meglio l’incontro con i genitori". Parma: Luciana ci ha lasciato, si spegne uno dei volti umani del volontariato penitenziario di Roberto Cavalieri (Garante dei detenuti) Ristretti Orizzonti, 16 novembre 2016 La volontaria Luciana Gardoni ci ha lasciato l’altro ieri nel primo pomeriggio dopo una breve e spietata malattia. Dal 2003 era presente nel carcere di Via Burla come assistente volontaria ex art. 78 dell’Ordinamento penitenziario, ovvero un ruolo di spessore per la collaborazione con l’Istituzione nel sostegno morale dei reclusi e il loro reinserimento nella società. Era nata sessantasei anni fa, viveva a Felino nel parmense. Dopo una vita passata a lavorare nello studio del fratello commercialista e consulente del lavoro, aveva collaborato con il patronato Acli di Parma e da 13 anni si presentava pressoché quotidianamente in carcere per assistere i detenuti e salvaguardare i loro diritti come lavoratori, ammalati, pensionati o nulla tenenti. Luciana era conosciuta da tutta la comunità penitenziaria di Parma per le sue sempre aggiornate competenze tecniche e le infinite qualità umane che l’hanno portata a conquistarsi la fiducia di tutti i detenuti che affidavano a lei la tutela della loro dignità spesso annichilita dalla burocrazia, dalla inefficienza e dalla diffidenza che la vita detentiva porta a conoscere. Il suo spirito, il suo cuore al servizio della comunità penitenziaria, la sua umiltà l’avevano portata ad affrontare complessi casi amministrativi spesso avvolti dall’indifferenza delle Istituzioni. Non si commette un errore nel dire che oggi per i detenuti di Parma è un giorno triste e doloroso perché se ne è andata una delle loro più importanti assistenti e garanti della loro dignità. Roma: Seac, il 2 e il 3 dicembre un convegno su minori autori di reato agensir.it, 16 novembre 2016 Torna a Roma l’annuale evento pubblico del Seac, il Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario. Quest’anno il focus è sui "Minori autori di reato e altre vulnerabilità dietro le sbarre". L’appuntamento si apre venerdì 2 dicembre alle ore 9 presso il Carcere di Regina Coeli (via della Lungara, 29). Proseguirà alle ore 15 presso la Casa delle Donne (via della Lungara, 19), dove si concluderà sabato 3 con una sessione di gruppi di lavoro dalle ore 9.30 alle 13. La prima sessione, venerdì dalle 9 alle 13, approfondisce "Le origini della devianza, le carenze educative, da vittima ad autore di reato" e "Il reclutamento dei minori da parte della criminalità organizzata". Partecipano Laura Marignetti, presidente Seac; Luisa Prodi, consigliere Seac; Silvana Sergi, direttrice carcere Regina Coeli; padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli; Ettore Cannavera, fondatore comunità La Collina, già cappellano carcere minorile Quartuccio di Cagliari; Maria Monteleone, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Roma; Gianluca Guida, direttore istituto penale minori Nisida di Napoli; Maria de Luzemberger, procuratore presso il Tribunale minori di Napoli. La seconda sessione, dalle 15 alle 18, presieduta da Ettore Cannavera, ha l’obiettivo di fare il focus su "Il tempo della pena, il reinserimento sociale", "Dal carcere alle misure di comunità" e "Giustizia riparativa e mediazione penale". Partecipano Francesco Cascini, capo Dipartimento Giustizia minorile e di comunità; Lucia Castellano, dirigente generale Dipartimento Giustizia minorile e di comunità; Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia Sociale e Giuridica presso Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali Università degli Studi di Sassari. Infine, sabato dalle 9,30 alle 13, la sessione conclusiva è dedicata a tre gruppi di lavoro: "La pratica delle misure di comunità" con Silvia Buoncristiani, consigliere Seac, e Alberto Visonà, responsabile Seac Vicenza, Uepe di Verona e Vicenza; "Sex offenders" con Fabio Tognotti, vice presidente Seac, e Carla Maria Xella, psicologa psicoterapeuta, coordinatrice del programma per "sex offenders" di Rebibbia Nuovo Complesso, Cipm Roma; "Detenute madri con figli al seguito. Diritti dei figli di genitori detenuti" con Adriana Caruso, consigliere Seac, e Daniela De Robert, giornalista Rai, volontaria Vic e membro del Collegio del Garante nazionale dei detenuti. Conclusioni a cura della presidente Seac, Laura Marignetti. Torino: altolà del Corecom, niente dibattito sul referendum in carcere di Jacopo Ricca La Repubblica, 16 novembre 2016 Parere condiviso con l’Agcom: "Contenuti informativi non neutrali". In carcere non si può parlare di referendum. Parola di Corecom, il comitato Regionale per le Comunicazioni del Piemonte, che lunedì sera ha inviato al direttore delle Vallette, Domenico Minervini una nota in cui si spiegava che il dibattito sulla riforma costituzionale organizzato per ieri pomeriggio nel Polo Universitario del Lorusso-Cotugno non si poteva fare. "L’evento contiene contenuti informativi non neutrali che possono fornire una rappresentazione suggestiva, a fini elettorali, dell’amministrazione stessa e dei suoi organi" scrive il presidente del Corecom, Alessandro De Cillis. Nel linguaggio burocratico del parere, concordato con l’Agcom, si dice insomma che è meglio vietare qualsiasi appuntamento per non rischiare che possa sembrare che il carcere faccia campagna elettorale. Il riferimento è alla legge sulla "par condicio" che era stata già utilizzata per vietare, in un primo momento, un evento di propaganda per il No all’Università. In questo caso però il confronto, ideato dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, era stato organizzato dal Polo universitario per permettere agli studenti detenuti e a un altro gruppo di carcerati, individuati in rappresentanza delle diverse sezioni delle Vallette, di assistere a un dibattito tra sostenitori del Sì e del No alla riforma costituzionale Renzi-Boschi. L’occasione era la presentazione del libro "La Costituzione spezzata. Su cosa voteremo con il referendum costituzionale" di Andrea Pertici, ma sarebbero dovuti intervenire anche il referente del polo Franco Prina, e i costituzionalisti Elisabetta Palici di Suni e Roberto Zaccaria, ex presidente della Rai: "Con gli organizzatori del Polo Universitario avevamo fatto molta attenzione che fossero presenti le diverse posizioni sul referendum - racconta il garante - Quando è arrivato questo parere scritto, però non si poteva fare altro che annullare l’evento. È un peccato perché era un’occasione di coinvolgimento dei detenuti in uno dei momenti fondamentali della democrazia che è l’esercizio di voto nel passaggio storico di riforma della Costituzione". Una decisione a cui è adeguato anche il direttore del carcere Minervini che non poteva autorizzare ingressi e spostamenti di detenuti in violazione di un parere vincolante. All’evento avrebbero dovuto assistere una cinquantina di detenuti: "Anche il Garante nazionale Mauro Palma aveva sollecitato iniziative nelle carceri per agevolare la partecipazione alle consultazione elettorali dei detenuti - continua Mellano. Ma proprio nel momento più caldo del dibattito pubblico in carcere non si può parlarne". Udine: scuole e carcere, incontro con lo scrittore Pino Roveredo di Margherita Terasso Messaggero Veneto, 16 novembre 2016 Il sottile confine tra trasgressione e illegalità, i comportamenti a rischio, le conseguenze della violazione delle leggi, il ritorno alla vita libera e il faticoso reinserimento sociale. Carcere e scuola si incontrano in uno stimolante appuntamento sul tema della vita carceraria, che coinvolgerà anche lo scrittore Pino Roveredo, giovedì 17 dalle 8.15 alle 11 nell’Auditorium del Liceo Percoto, in via Leicht. L’occasione è la giornata nazionale "A scuola di libertà. Le scuole imparano a conoscere il carcere", promossa dalla Conferenza nazionale volontariato giustizia di Roma, in collaborazione con Miur e Caritas e con il patrocinio del Ministero della Giustizia. Cosa può raccontare della libertà chi ne è stato privato perché colpevole di un reato? È effettivamente tutelato il diritto agli affetti dei carcerati? Qual è il ruolo dei volontari all’interno di un carcere? L’iniziativa, che coinvolge studenti degli istituti scolastici superiori (Malignani, Deganutti, Stringher, Percoto, Uccellis, Sello e Marinelli, quelli della rete "Il piacere della legalità? Mondi a confronto, Legami di responsabilità) ed istituzioni, organizzata dall’associazione volontari penitenziari Onlus Speranza, sarà utile a dare risposte a questi e a molti altri interrogativi. Oltre alle testimonianze di alcuni carcerati e gli interventi delle autorità - da Mariangela Cunial, Magistrato di Sorveglianza, a Irene Iannucci, direttore della Casa Circondariale di via Spalato, allo scrittore Roveredo, Garante dei diritti dei detenuti del Friuli Venezia Giulia - si discuterà di minori, dei loro comportamenti a rischio (come il bullismo, con un focus sulla sua versione 2.0, il cyber bullismo) e dei reati che commettono più frequentemente. Bologna: il film sulla squadra di rugby del carcere al Festival dei Popoli di Ambra Notari Redattore Sociale, 16 novembre 2016 Sarà presentato in anteprima a Firenze il primo dicembre il nuovo film di Enza Negroni "La prima meta", lungometraggio su Giallo Dozza, la squadra di rugby composta da 40 detenuti della casa circondariale di Bologna. Negroni: "Lo sport è un meraviglioso strumento di recupero". Sarà Firenze la cornice del debutto de "La prima meta", il nuovo film documentario di Enza Negroni dedicato alla squadra di rugby del carcere bolognese. L’appuntamento è per giovedì 1 dicembre alle ore 17.15 al Cinema della Compagnia del capoluogo toscano, in occasione della 57esima edizione del Festival dei Popoli, "la manifestazione più importante in Italia per il documentario sociale. Siamo molto orgogliosi che ci abbiano selezionato: per noi è una grande opportunità anche per farci conoscere a livello internazionale", commenta Enza Negroni. Protagonista del film, come detto, la squadra Giallo Dozza - come il colore del cartellino dell’espulsione temporanea di 10 minuti previsto nel rugby - della casa circondariale di Bologna, composta da 40 detenuti di nazionalità diverse, con pena da 4 anni all’ergastolo, senza precedenti esperienze in questa disciplina. Iscritta al campionato ufficiale Fir (Federazione italiana rugby) di serie C2 è guidata da coach Massimiliano Zancuoghi. Con l’arrivo di 3 giovani detenuti, il film segue le vicende dei Giallo Dozza nel corso del loro primo campionato (2014-2015), giocato forzatamente sempre in casa. Tra allenamenti estenuanti e i ritmi lenti della quotidianità in cella, il film racconta il difficile cammino dei detenuti per raggiungere la meta non solo in campo, ma anche nella vita con una ritrovata dignità sociale. Giallo Dozza nasce all’interno del progetto educativo "Tornare in Campo", coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928, finalizzato all’insegnamento della palla ovale nella casa circondariale bolognese e al recupero fisico, sociale ed educativo dei detenuti, che hanno sottoscritto un codice etico che prevede specifici meccanismi sanzionatori in casi di violazione, fino all’esclusione dalla squadra. "Lo sport è un catalizzatore, un meraviglioso strumento di recupero - spiega Negroni, che ha passato un anno con la squadra -. Nella Giallo Dozza si compie la vera integrazione, ci sono così tante nazionalità; unisce come nessun altro impegno, e diventa un luogo anche formativo e pedagogico. I ragazzi ogni sabato incontrano il fuori, gli avversari: pensare che le relazioni con l’esterno, in carcere, sono di solito rarissime. E con il ‘fuorì vivono il terzo tempo, passaggio cruciale nel rugby". Già, perché ogni sabato, dopo la partita e dopo essersi cambiati, si cena tutti insieme nella palestra del carcere. Tra pastasciutta e dolci, c’è un’ora di tempo per chiacchierare. "I Giallo Dozza hanno deciso di mettersi in gioco, e così tutte le altre squadre del campionato, chiamate a entrare in un istituto penitenziario, con tutte le limitazioni e i controlli che ne derivano, per giocare una partita", sottolinea che Negroni, che torna a ribadire il grosso impegno condiviso che ha portato alla realizzazione del film, "a partire dai detenuti-atleti che hanno accettato di avere una telecamera puntata addosso". Ma sono tante le realtà che la regista vuole ringraziare: la Regione, Ibc Movie, Unipol Banca, Illumia, il ministero della Giustizia, il Provveditorato regionale, la casa circondariale Dozza, "che ci ha appoggiato sin dall’inizio". Alla proiezione del lungometraggio a Firenze saranno presenti la regista, l’allenatore e alcuni ex giocatori, ora in libertà: "I ragazzi non l’hanno ancora visto: lo vedremo tutti insieme al festival. Il film è bello e merita di essere visto sul grande schermo, non su quello di un computer o di un televisore. Sarà un’emozione che vogliamo condividere con tutti". Napoli: il regista Roberto Faenza fra i detenuti di Secondigliano, presenta il suo nuovo film di Ilaria Urbani La Repubblica, 16 novembre 2016 "Torno con piacere al carcere di Secondigliano: il mio film parla del coraggio della verità, lo stiamo difendendo da querele di ex malavitosi che si sentono chiamati in ballo, ma racconta fatti dimostrabili". Roberto Faenza, regista de "La verità sta in cielo" sul caso Emanuela Orlandi, è impegnato in un piccolo tour partenopeo: alle 10.30 alla premiazione del concorso Arci Movie "Lo Schermo e le emozioni - Scrivi una storia per il Cinema" alla Basilica di San Giovanni Maggiore; alle 15 incontro al carcere di Secondigliano per la presentazione del film "La verità sta in cielo". Poi Faenza è ospite a Ponticelli alle 18 e alle 20 per la doppia proiezione del film che inaugura la 27esima edizione del cineforum Arci Movie al cinema Pierrot. Faenza, cosa si aspetta dalla proiezione in carcere? "Sono già stato l’anno scorso a Secondigliano, un incontro che mi ha arricchito, i detenuti erano preparati, facevano osservazioni acute. Oggi voglio ascoltarli. Voglio la loro opinione sul caso Orlandi". Presiede la giuria del concorso per studenti "Lo Schermo e le emozioni", tra i giurati anche Cristina Donadio. Che rapporto hanno i ragazzi col il cinema? "Nelle storie che ho letto gli studenti non parlano quasi mai di Napoli, inventano storie ambientate in America o in Inghilterra, scrivono di avventura, azione, fantascienza, pochi parlano di sé. Pensavo che vivendo una realtà come questa della Campania, con alti elementi di conflittualità, avrebbero scritto anche di questo. Molti guardano Gomorra in tv, e invece scrivono storie di evasione: la realtà che sta intorno a loro non gli piace, scrivono altro, forse per necessità, in cerca di una via di fuga...". Ci saranno tanti giovani anche al cinema Pierrot stasera a Ponticelli per la doppia proiezione del suo film… "Insegno alla Sapienza: in un sondaggio venne fuori che i ragazzi di media ricordano fatti fino a non oltre cinque anni prima e tendono ad ignorare il passato. Sono ancora più contento di presentare "La verità sta in cielo", un film che parla di una storia quasi dimenticata". Ferrara: i detenuti invitano il papa per un flash mob "sarai con noi?" Dire, 16 novembre 2016 Un flash mob in onore di Papa Francesco, a favore dell’integrazione: detenuti del carcere di Ferrara marocchini, brasiliani, italiani, tunisini, inglesi, greci, cubani… di religioni differenti cattolici, musulmani, ortodossi, realizzeranno il primo flash mob della storia in un carcere maschile italiano. Saranno circa 70 i detenuti uniti nel danzare insieme il flash mob "Pope is pop", dedicato al Papa in occasione del Giubileo, che fa seguito a quello organizzato in apertura del Giubileo dalla casa circondariale femminile di Rebibbia, a Roma, nell’ottobre 2015. I detenuti ‘ferraresì hanno deciso di invitare il papa in persona e lo fanno con dei brevi video in cui gli chiedono, con un sorriso, se vuole partecipare. L’appuntamento, con il flash mob, è per giovedì 1 dicembre 2016, presso il Teatro della Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara, a partire dalle 10 del mattino: l’evento farà da simbolica chiusura al Giubileo, con l’obiettivo di lanciare un importante messaggio: quello della possibilità della convivenza delle diversità. Tutto ciò avviene in un ambiente "difficile" come quello carcerario. Un "modello esportabile" di fratellanza, in un microcosmo che crede in questa possibilità e ci mostra come ciò sia realizzabile, attraverso l’iter trattamentale pedagogico che il carcere porta avanti nei confronti dei suo detenuti, con tante attività atte a reintegrare i propri detenuti e a far sì che condividano il più armoniosamente possibile lo stesso tetto. Milano: l’esercito a presidiare le strade non è la soluzione, ma un chiaro segnale politico di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 16 novembre 2016 Il sindaco ha rotto un tabù rispetto alla sua maggioranza e al suo predecessore per non sottovalutare il problema. "Esercito" è una parola che fa notizia, perché lascia pensare a una guerra in corso o imminente contro qualcuno, ma può essere letta anche come un segnale politico di discontinuità se la pronuncia un sindaco di sinistra nella città della narrazione felice, davanti alla presidente della Camera Laura Boldrini che invita alla collaborazione con le comunità straniere, mentre le bande di latinos si sgozzano intorno a piazzale Loreto. Così, con la richiesta dei militari per presidiare zone sensibili e quartieri a rischio, il sindaco di Milano Beppe Sala ha rotto un tabù nella sua maggioranza e spiazzato il centrodestra, interpretando più l’umore dei cittadini che la linea politicamente corretta del suo predecessore Giuliano Pisapia. Si è intestato, pur con distinguo e puntualizzazioni, un tema caro ai suoi oppositori, che sulle divise in strada hanno fatto in passato comizi e campagne elettorali: da Gabriele Albertini a Letizia Moratti, che addirittura ha sfilato con i residenti e con le fiaccole contro il governo Prodi, e successivamente proclamato il coprifuoco. Ma non c’è nessuna Apocalisse a Milano: non ci sono i nove morti in nove giorni del terribile gennaio 1999, quando l’emergenza criminalità diventò questione nazionale e l’esercito arrivò davvero, con la centrale unica delle forze dell’ordine e un massiccio invio di rinforzi; non c’è il clima surriscaldato del 2006, con i cortei del centrodestra e le rivolte da banlieue nella Chinatown di Paolo Sarpi, ostile ai nuovi regolamenti comunali sul carico e lo scarico delle merci; non c’è nemmeno l’aria avvelenata del 2010, quando in via Padova, dopo un accoltellamento mortale e una rissa tra immigrati venne sequestrato un autobus e Matteo Salvini invocò un blitz e subito dopo usò la parola "rastrellamento". Oggi c’è la preoccupazione diffusa di una sottovalutazione del problema, la sensazione di non essere ascoltati. E in epoca di "trumpismo" e populismo, il messaggio che viene da Milano attraverso le parole del suo sindaco, al netto di ogni eccesso, può essere questo: la sicurezza non è di destra o di sinistra, semplicemente non si può indietreggiare, perché in certe zone, la sera, la gente ha paura. Degrado, spaccio, prostituzione, abusivismo, lotte tra bande alimentano proteste e contestazioni sottotraccia, in una città che negli ultimi mesi è apparsa arroccata sulla linea dell’accoglienza. Solidarietà e generosità restano tratti distintivi, il meglio che si può offrire a chi ha perso tutto, ma oltre agli immigrati c’è un’altra Milano che chiede aiuto. Troppi profughi e clandestini nelle strade, sotto i ponti, nei tunnel abbandonati, nelle vie intorno alla Stazione, nei tuguri che affittano in nero, e poche risposte del governo per restituire tranquillità a chi si sente sotto assedio. Troppe luci intorno al centro, nella Milano attrattiva e glamour, che si declina sempre in positivo, che piace, è innovativa e internazionale, ma ancora vaghe promesse per le periferie, dove il disagio incrocia il degrado e la richiesta di mimetiche in strada, di divise, poliziotti o vigili di quartiere è sentita dai residenti e dai comitati di zona. Milano è una città "duale", come scrivono alcuni sociologi, con una vetrina da esporre ma anche tanta polvere nascosta sotto il tappeto. Cresce la richiesta di porte blindate, di inferriate ai piani bassi, di allarmi nei condomini. I dati di Questura e Prefettura non presentano cifre allarmistiche, i grossi reati sono in calo, ma furti e violenze a volte nemmeno denunciati, creano grumi di malessere. In certe periferie, oltre il volontariato e le parrocchie, i riferimenti per la sicurezza sono sempre troppo pochi. Anche i vigili sarebbero un baluardo, un presidio di legalità. Ma troppo spesso non si vedono. L’esercito non è una soluzione, la via della sicurezza passa per altro. Bisogna ridare dignità a chi l’ha persa, portare un riequilibrio abitativo, contrastare l’abusivismo, garantire la legalità. Temi battuti e ribattuti in campagna elettorale, forse più dai competitor, Parisi e Passera, che dall’ attuale sindaco. "Non facciamo della sicurezza il punto centrale della città", ha precisato Sala. Ma con una parola lunedì sera ha riacceso i riflettori sull’altra Milano, quella che lui vuole cambiare: una periferia che non deve più essere chiamata così. Abbandono, intolleranza e ruspe. Migranti sotto tiro in Calabria di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti Il Manifesto, 16 novembre 2016 Dallo Ionio al Tirreno. Amendolara, africani in condizioni disumane e alta tensione con la cittadinanza. E a Falerna sul Tirreno è sotto sgombero il Residence degli ulivi. "Vedi queste scarpe e il pigiama che indosso? Sono vestito così da due mesi. Me lo hanno dato persone incontrate per caso. E guarda il mio piede: questa è scabbia". Appena gli chiedi il nome, il ragazzo che poco prima mormorava le sue disgrazie, comincia a urlare: "Non ce l’ho un nome. È annegato insieme ai miei amici, durante il viaggio dalla Libia". Altri quattro ospiti mostrano i segni della malattia: "La gente ha paura di noi - affermano - a molti facciamo schifo, sputano a terra quando passi vicino. Se entriamo in chiesa la domenica i fedeli si scansano". Pare che scatti una sorta di coprifuoco per cui, vox populi, è rischioso passeggiare per le strade del paese dopo le 21. È guerra tra poveri quella che si vuol scatenare ad Amendolara, il paese dei mandorli e della "secca", dove la mitologia vuole che la ninfa Calipso trattenne Ulisse. Oltre 200 profughi dimorano alla marina. Dovevano restare per 3-4 giorni in due alberghi, invece si ritrovano da due mesi in strutture pagate dalla prefettura di Cosenza, che non eroga loro alcun servizio. Solo perché giuridicamente non deve. "Sin dall’inizio abbiamo fatto quel che potevamo. Ho accompagnato personalmente dai medici questi ragazzi. Ma questa è una struttura d’emergenza. E l’erogazione del pocket money non spetta a noi", ci dice Otello Spacciante, responsabile della Pamag Srl che gestisce l’hotel Grillo, non ancora ufficialmente Centro di accoglienza straordinaria. Qui sono alloggiati 100 migranti provenienti da Nigeria, Ghana, Mali, Sudan, Pakistan. A poca distanza c’è un altro edificio, l’ex Hotel Enotria, gestito dalla Cooperativa Senis Hospes e trasformato da un anno in Cas. La tensione in paese è alta. C’è chi invoca un nuovo caso Goro. Anche se a parole nessuno vuol passare per razzista e rinnegare "la buona predisposizione degli amendolaresi all’accoglienza". "Il nostro lavoro di denuncia - spiega Emilia Corea della campagna LasciateCIEntrare - ha fatto emergere il malaffare legato all’accoglienza. Da Spineto, passando per Amantea, Bocchigliero, Pedivigliano, Montalto, Rogliano, Castiglione Cosentino, Carolei, Amendolara, Arcavacata e Rende". L’attività finora svolta ha portato alla chiusura di tre Cas, quelli di Spineto, Feroleto e Lamezia con situazioni di disumanità "come quella di un ospite del Cas di Rogliano che accusava da mesi un dolore lancinante al piede. È stato lasciato per sei mesi senza assistenza. Poi una RX gli ha trovato 20 pallini di fucile vicini all’osso del piede". Come uscire da questa situazione? "Evitare - conclude Corea - grandi numeri in un centro. Sistemare le persone in abitazioni dignitose. Importante sarebbe l’inserimento lavorativo nel contesto territoriale di approdo". Altro mare, stessa musica. A Falerna sul Tirreno è sotto sgombero il Residence degli ulivi. Vi dimorano 120 superstiti dell’operazione umanitaria Emergenza nord Africa del 2011, dopo le "primavere arabe2. Il sindaco Giuseppe Costanzo (Pd) vuole sbaraccare. L’ordinanza di sgombero immediato è lapidaria: "Inagibilità, sicurezza e problemi igienico sanitari dei fabbricati". Domani arriveranno le ruspe. Un linguaggio poco democratico e molto salviniano. Lo stesso della sindaca di Amantea, Rossana Sabatino, anch’ella dem. Ha scritto al prefetto: "Basta centri di accoglienza. È gente che delinque e chiede l’elemosina. Ci rovina il turismo". Droghe. La canapa vince, un dilemma per Donald Trump di Marco Perduca Il Manifesto, 16 novembre 2016 Se il sentimento anti-establishment che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca resta ancora tutto da dimostrare, e ancora di più la sua risposta politica alla rabbia anti Wall Street che lo ha sostenuto nella sua corsa verso la presidenza, l’8 novembre scorso per il regime proibizionista, almeno quello che negli Stati uniti riguarda la cannabis, è arrivata una sonora sconfitta. La stragrande maggioranza degli oltre 82 milioni di cittadini che hanno avuto la possibilità di promuovere la regolamentazione legale della marijuana si è infatti schierata per un cambiamento radicale su questa materia. La legalizzazione della cannabis per fini medici ha vinto in Arkansas con il 52,18%, in Florida con il 71,25% (per le iniziative dei cittadini il quorum è del 60%), in Montana con il 55,76% e in North Dakota con il 63,66%. La marijuana sarà invece legale per qualsiasi tipo di uso in California dove ha vinto con il 55,75%, in Massachusetts con il 53,36%, in Nevada con il 54,21% e in Maine con il 51%. Solo in Arizona la proposta è stata bocciata con il 47,82%. Dal 2017 quindi, dall’Alaska alla California, tutta la West Coast degli Usa avrà legalizzato la cannabis per qualsiasi fine, mentre si consolida la possibilità della prescrizione medica della pianta in più della metà degli stati degli Usa. Se si tiene in considerazione l’annuncio del Canada di essere pronto a legalizzare totalmente dal marzo dell’anno prossimo e della tendenza alla depenalizzazione per uso personale del Messico, nei prossimi due anni quasi 200 milioni di persone sulla costa pacifica americana potranno consumare cannabis e i suoi derivati senza incorrere in sanzioni di alcun tipo. E i fiumi di turisti che ogni anno visitano San Francisco, Los Angeles e Las Vegas potrebbero portare il numero dei consumatori legali a cifre significativamente superiori. Il voto per la legalizzazione negli Usa cozza frontalmente con l’elezione di Donald Trump (che in quegli Stati comunque non ha vinto) ed è anche in controtendenza con la vittoria schiacciante dei repubblicani alla Camera e al Senato. Trump non è un politico di professione, ha uno "stile di vita" che si potrebbe ritenere "libertario", in passato si è espresso a favore della marijuana medica e non ha mai preso una posizione chiara sul resto. Da "buon" repubblicano ritiene che il governo federale non debba immischiarsi nelle scelte degli stati, ma da "neo" affiliato a quel partito, per non alienarsi il Congresso, dovrà ricorrere a politici e amministratori, come Rudi Giuliani e Chris Christie, noti per la loro predilezione verso politiche di "legge e ordine" e che nel loro "conservatorismo compassionevole" hanno sempre preferito il pugno di ferro all’approccio socio-sanitario. Il vice Mike Pence è invece un noto reazionario da sempre totalmente contrario anche all’uso terapeutico della marijuana. Trump presto annuncerà i primi nomi del suo esecutivo, l’attorney general sarà centrale su questa questione sia per quanto riguarda la regolamentazione sia per le priorità di politica giudiziaria e penitenziaria per i prossimi quattro anni. Nessuno pensa, né forse ha mai pensato, che il governo federale degli Stati uniti fosse pronto a cambiare atteggiamento sulla proibizione, è molto probabile che già in primavera si aprano contenziosi, più politici che legali, contro la legalizzazione, ma il fatto che otto stati Usa consentano la produzione, il consumo e il commercio legale della marijuana lascia ben sperare e conferma che i cittadini, quando sono posti di fronte a scelte che li riguardano, nella stragrande maggioranza dei casi scelgono pragmaticamente e con buon senso. Cina. La condanna a morte che ha commosso tutto il Paese di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 16 novembre 2016 Jia Jinglong, il giovane contadino cinese che aveva assassinato il capo-villaggio dopo una disputa per l’abbattimento della sua casa è stato giustiziato. Il boia ha eseguito la sentenza: Jia Jinglong, il giovane contadino cinese che aveva assassinato il capo-villaggio dopo una disputa per l’abbattimento della sua casa è stato giustiziato ieri mattina nella Cina che uccide "legalmente" più di mille condannati ogni anno (i dati non sono pubblici). E secondo i sondaggi, la stragrande maggioranza dei cinesi è a favore dell’esecuzione capitale per i reati più gravi. Quello commesso da Jia Jinglong, trentenne della provincia dello Hebei, era un delitto feroce: aveva inchiodato il funzionario comunista che governava il suo villaggio usando una pistola per saldature edilizie. E aveva premeditato l’omicidio. Ma proprio sui motivi della premeditazione avevano insistito i suoi avvocati. Il capo-villaggio, probabilmente corrotto, aveva fatto abbattere la casa della famiglia Jia proprio mentre il giovane la stava ristrutturando per sposarsi: era il 2013, mancavano 20 giorni alle nozze. La demolizione entrava nei piani di nuovo sviluppo urbano. Di solito i proprietari sfrattati si mettono d’accordo per un risarcimento. Jia Jinglong invece si era opposto ed era stato picchiato. Il suo matrimonio era saltato. Nel 2015 la vendetta omicida. Poi la sentenza di morte. Perché gli fosse risparmiata la vita e la condanna fosse commutata in ergastolo, si erano mobilitati decine di avvocati e migliaia di persone che sul web e con lettere e appelli alla Corte suprema avevano chiesto clemenza a causa dell’ingiustizia subita. Si era aperto un dibattito al quale ha partecipato anche la stampa governativa. Ma la giustizia di Pechino non si può smentire. Jia Jinglong è stato ucciso ieri mattina, dopo aver donato i suoi organi. "È il trionfo dello stato di diritto - scrive in un editoriale un giornale di Pechino - perché la legge rispetta solo i fatti e non accetta compromessi con il sentimento della gente". Succede in molti altri Paesi, anche in Occidente. Afghanistan. Schiaffo dell’Aja alla guerra sporca americana di Emanuele Giordana Il Manifesto, 16 novembre 2016 La Corte penale internazionale contro gli Usa. Denunciati i centri di detenzione segreti gestiti dalla Cia dal 2003 fino al 2014 per torture, violenze e stupri negli interrogatori. Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan - paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe - e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono "ragionevoli basi" per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso "torture" e altri "crimini di guerra". Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani. Il teso del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda "tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014", in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram. Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai. Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale Fatou Bensouda, una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: "tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro". Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition, ndr) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008. Il documento chiarisce che "questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati uniti nel conflitto in Afghanistan". Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti. Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Usa probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini e verdetto. Sono in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale. In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard: colpire i deboli e lasciar stare i potenti. Ma questa volta le cose vanno diversamente. La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni. Afghanistan. La Corte penale internazionale accusa: detenuti torturati dall’esercito di Mattia Sheridan interris.it, 16 novembre 2016 Esisterebbero prove di crimini di guerra come la tortura, da parte dell’esercito americano e della Cia, a detenuti in Afghanistan. Le forze armate Usa, secondo un rapporto esaminato dalla Corte penale internazionale (Cpi), "sembrano aver sottoposto a tortura almeno 61 persone in Afghanistan, tra il 2003-2004" e agenti Cia potrebbero aver torturato almeno 27 prigionieri nel Paese. I procuratori decideranno "presto" se chiedere l’autorizzazione all’apertura di un’indagine per crimini di guerra. La notizia non sorprende più di tanto. Già nel dicembre 2014 uscì un rapporto della commissione Intelligence del Senato Usa nel quale si evidenziava come la Cia avesse torturato i sospetti terroristi di al-Qaeda con metodi ben oltre i limiti legali. "Gli abusi sui terroristi islamisti compiuti nell’era Bush - era il contenuto del report - non sono serviti "a nulla" e quelle durissime tecniche di interrogatorio si sono rivelate "inefficaci" e sono state "più brutali" di quanto l’Agenzia stessa abbia ammesso. Tra i prigionieri, inoltre, uno su cinque era tenuto in stato di detenzione per sbaglio, in particolare, "per un errore di identità o a causa di cattive informazioni di intelligence". Le tecniche utilizzate, si leggeva nelle 6700 pagine (di cui sono stati rilasciati degli estratti e le conclusioni), hanno inflitto dolore e sofferenze ai prigionieri. E l’Agenzia mentiva. Nel rapporto si legge di come abbia "ripetutamente fornito informazioni inaccurate al dipartimento per la Giustizia, ostacolando un’appropriata indagine legale sui metodi di interrogatori utilizzati nell’ambito del Programma di detenzione". All’epoca la Cia replicò per bocca del suo direttore, John Brennan: "Le tecniche di interrogatorio dure "hanno prodotto informazioni di intelligence e contribuito a evitare attacchi, a catturare terroristi e a salvare vite umane", dopo la diffusione del rapporto. Nello stesso tempo ha aggiunto che "uomini e donne dell’Agenzia hanno lavorato nel mondo 24 ore al giorno per prevenire attacchi terroristi". Ora le accuse ritornano, e oltre agli 007 coinvolgono anche l’esercito, peraltro già finito anch’esso sotto i riflettori per gli orrori in Iraq, per la tortura di deprivazione del sonno ai prigionieri iracheni, prima degli interrogatori, o le tecniche barbare mostrate nelle foto della prigione di Abu Ghraib. Egitto. Cancellata la condanna a morte di Morsi per salvare il regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 16 novembre 2016 La Corte di Cassazione ordina un nuovo processo. Così si evita il rischio di sollevazioni dei Fratelli Musulmani in un periodo di grave crisi economica. Con due sentenze ieri la Corte di Cassazione ha sia sconfessato (apparentemente) il governo sia confermato le sue radici. Per prima cosa, ha annullato la condanna a morte inflitta al deposto presidente Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, e ordinato un altro processo. Imputato ad un’infinità di processi, quello per cui gli era stata inflitta la pena capitale riguarda un’evasione di massa dal carcere nel 2011, ordita - dice l’accusa - con soggetti stranieri tra cui Hamas. In secondo luogo la Corte ha rigettato l’appello che si opponeva al rilascio dei figli di Mubarak, Alaa e Gamal. I due, con il padre, erano stati condannati a tre anni per truffa e uso di fondi pubblici. Secondo la corte, sommando gli anni di carcere preventivo a partire dal 2011, i due hanno già scontato la pena. A monte una più generale amnistia che ha salvato l’establishment dell’ex dittatore, di cui buona parte è colonna portante dell’attuale regime a cominciare dall’esercito. La cancellazione della pena di morte per Morsi sembrerebbe a prima vista un colpo alla lotta alla Fratellanza Musulmana, pietra angolare della narrativa del regime, visto che cancella anche l’ergastolo per cinque co-imputati tra cui il leader spirituale del movimento, Mohamed Badie: dal massacro di Rabìa dell’agosto 2013 (oltre mille sostenitori del gruppo uccisi) agli arresti di massa dei suoi membri fino alla messa al bando, Il Cairo del golpe ha intessuto relazioni esterne (in primis con il Golfo) e si è garantito il sostegno di molti partiti politici del paese (compresi quelli di sinistra) proprio grazie alla promessa di disinnescare il cosiddetto pericolo "islamista". Con la repressione della Fratellanza - migliaia di esili, omicidi extragiudiziali, arresti di cui gli ultimi 229 alle proteste di venerdì - al-Sisi giustifica il controllo capillare della società civile. In realtà la sentenza di ieri potrebbe servire i suoi interessi: l’eventuale condanna a morte accenderebbe proteste difficilmente controllabili in un periodo di surreale calma. Il rischio di una sollevazione viene così elegantemente evitato mentre Morsi resta dietro le sbarre: rimangono infatti in piedi tutte le altre sentenze di ergastolo o a 40 e 20 anni inflitte per i casi di spionaggio a favore del Qatar e di Hamas e l’uccisione di manifestanti nel dicembre 2012. Un colpo al cerchio e uno alla botte, confermato dal voto ieri della Camera che ha approvato la proposta di legge che pone le ong sotto il controllo governativo, obbligandole a registrarsi e ad accettare lo scioglimento se l’esecutivo le reputa pericolose. Il regime non tira troppo la corda in un periodo di grave crisi economica e rabbia popolare - per ora - soffocata. Venerdì il Fondo Monetario Internazionale ha approvato i 12 miliardi di dollari di prestito in tre anni, ma in pochi credono in un miglioramento delle condizioni di vita. Soprattutto dopo la svalutazione del 48% della sterlina egiziana che ha fatto perdere ai salari più della metà del loro valore. Kenya. Chiude il più grande campo rifugiati del mondo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 novembre 2016 Il Kenya ospita oltre mezzo milione di rifugiati, almeno 330.000 dei quali sono somali. Di questi, circa 260.000 si trovano nel campo di Dadaab, il più grande del mondo. Come annunciato a maggio, il 30 novembre Dadaab chiuderà: per ragioni di sicurezza (negli ultimi tre anni il Kenya è stato colpito da gravissimi attentati rivendicati dal gruppo armato somalo al-Shabaab), economiche e ambientali e per la mancanza di assistenza da parte della comunità internazionale. Già da subito dopo l’annuncio, funzionari del governo hanno rilasciato dichiarazioni alla stampa ed effettuato visite a Dadaab, intimando ai rifugiati di lasciare il campo prima della sua chiusura. Per i rifugiati presenti nel campo, si legge in un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, la scelta ora è andarsene "volontariamente", con un piccolo incentivo economico e con un passaggio su un pullman fino alla frontiera della Somalia o andarsene con la forza, a piedi e coi figli sulle spalle. I pericoli relativi al conflitto armato in Somalia sono fortemente minimizzati dalle Nazioni Unite e dalle Ong che stanno facilitando le procedure di rientro nel paese dal campo di Dadaab. La Somalia è sconvolta da oltre 20 anni di conflitto. Gli scontri tra le forze governative, sostenute dalle truppe dell’Unione africana, e i combattenti di al-Shabaab hanno causato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione civile e la devastazione dei servizi e delle infrastrutture di base. Questo paese, che oltretutto deve fare i conti con oltre 1.100.000 profughi interni, non ha le risorse necessarie per affrontare un rientro su larga scala di rifugiati da Dadaab. Si registra un’acuta scarsità di rifugi, strutture mediche ed educative. Alla maggioranza dei rifugiati che non intendono tornare in Somalia, né il governo del Kenya né la comunità internazionale stanno offrendo alternative. Alle ragioni per cui non vogliono lasciare Dadaab oltre all’insicurezza, molte delle persone incontrate da Amnesty International - soprattutto quelle con disabilità e gli appartenenti alle minoranze etniche - hanno aggiunto la mancanza dei servizi essenziali e la paura di subire discriminazioni. Mouna, madre di un bambino disabile, ha detto: "In Somalia non esistono strutture per le persone disabili. In quanto rifugiati, già siamo considerati ultimi in tutto. Avendo bambini disabili ci ritroveremmo in fondo alla fila per ricevere aiuti". Amina, madre di un figlio di sei anni affetto da albinismo, è preoccupata: "Un altro grande motivo per cui non vogliamo ritornare in Somalia è che lì la gente non capisce cos’è l’albinismo. Già qui al campo qualcuno sostiene che ho un figlio illegittimo, che si tratta di uno straniero. Gli altri bambini lo prendono di mira perché è diverso. In Somalia sarà persino peggio e non potrà neanche avere la crema protettiva per la pelle". La mancanza del sostegno internazionale al Kenya, che si manifesta con l’insufficiente finanziamento dei programmi umanitari e le scarse opportunità di reinsediamento per i rifugiati più vulnerabili, ha contribuito alla tremenda situazione in cui si trovano gli abitanti di Dadaab. Il Kenya è uno dei 10 paesi che ospitano più della metà dei 21 milioni di rifugiati del mondo. Qualche numero rende bene l’idea. Al 31 ottobre 2016, l’appello dell’Unhcr per un finanziamento di 272 milioni di dollari era stato coperto appena per il 38 per cento. In tutto, soltanto 5001 rifugiati sono stati reinsediati dal Kenya, oltre 3500 dei quali negli Usa. Solo 671 rifugiati vulnerabili sono stati reinsediati nei paesi dell’Unione europea. Nel 2016 vi sono state finora 1648 partenze verso gli Usa e 118 verso i paesi dell’Unione europea. Mancano due settimane alla chiusura di Dadaab. Se non si trova una soluzione sostenibile e di lunga durata per i rifugiati somali, si rischia il caos più totale. E, quella soluzione, non spetta solo al Kenya trovarla. Cuba. Amnistia per il Giubileo della Misericordia, liberati 787 detenuti Avvenire, 16 novembre 2016 L’annuncio su "Granma" il quotidiano ufficiale del partito comunista cubano. Esclusi i condannati per omicidio, corruzione di minori, stupro e traffico di droga. Le autorità cubane hanno deciso di concedere l’amnistia a 787 prigionieri, tra cui donne, minori e ammalati, in risposta all’appello del Papa lanciato in occasione dell’Anno Santo della Misericordia. L’annuncio è stato riportato su Granma, il quotidiano ufficiale del partito comunista di Cuba. "Sono stati presi in considerazione la natura delle accuse, il comportamento in carcere e la durata della pena scontata" si afferma, specificando che le donne, i bambini e gli ammalati sono stati rilasciati per "motivi umanitari". Le autorità hanno escluso i condannati per "omicidio, corruzione di minori, stupro, traffico di droga". Già a settembre del 2015, in occasione del viaggio apostolico di Francesco, L’Avana aveva concesso la grazia a 3.522 detenuti. Egitto. Fonti stampa: il presidente al Sisi grazierà 83 giovani detenuti Nova, 16 novembre 2016 Il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi potrebbe concedere la grazia a 83 giovani detenuti nelle prossime ore. Lo riferisce un aggiornamento del sito web del quotidiano statale "Al Watan", secondo cui la lista dei detenuti è stata preparata da una commissione di cinque parlamentari. La grazia dovrebbe essere estesa anche a diverse altre persone attualmente imprigionate nelle carceri egiziane. Lo scorso 26 ottobre, il capo dello Stato si era detto disposto a concedere la grazia ai giovani detenuti arrestati nonostante non avessero preso parte a proteste violente e che sono ancora in attesa del giudizio. Al Sisi aveva parlato alla "Conferenza nazionale dei giovani", l’iniziativa voluta dal capo dello Stato per coinvolgere maggiormente i giovani egiziani, che rappresentano circa il 40 per cento della popolazione, nel processo decisionale del paese. Secondo il rapporto 2016 della ong Amnesty International sull’Egitto, "nelle carceri e nei commissariati di polizia, le condizioni di detenzione sono rimaste estremamente difficili. Le celle erano oltremodo sovraffollate e prive di igiene; in alcuni casi, le autorità hanno impedito a familiari e avvocati di portare cibo, farmaci e altri beni ai prigionieri".