Oltre 12.000 studenti e 1.000 volontari contro i pregiudizi nelle carceri Ansa, 15 novembre 2016 Oggi nelle scuole di tante città si parlerà in modo nuovo di carcere, di pene, di giustizia, cercando di sconfiggere luoghi comuni e pregiudizi. Nell’iniziativa - promossa da Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e Ristretti Orizzonti - saranno coinvolti oltre 12.000 studenti e impegnati circa un migliaio di volontari. "La Scuola e il Carcere sono due mondi che oggi, e poi molti altri giorni dell’anno scolastico in corso, avranno l’occasione di conoscersi e confrontarsi per riflettere insieme sul sottile confine fra trasgressione e illegalità, sui comportamenti a rischio, sulla violenza che si nasconde dentro ognuno di noi. Quest’anno - spiegano i promotori dell’appuntamento - rifletteremo assieme ancora sul diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, che non sono sufficientemente tutelati, e poi ci occuperemo di minori, dei loro comportamenti a rischio, dei reati che commettono più di frequente, di carceri minorili, di pene alternative al carcere". Orlando: misure alternative benefiche, passate da 12mila a 40mila Ansa, 15 novembre 2016 "Nel 2010 - ha osservato il guardasigilli - erano poco più di 12mila le persone sottoposte a esecuzione penale esterna, mentre oggi sono 40mila "È vero che per un’amnistia serve una maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento ma per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri nel nostro Paese si può fare ancora molto, nel senso che noi abbiamo diminuito il numero di detenuti aumentando le pene alternative. Questa è una soluzione efficace che abbiamo seguito fin qui". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, intervenendo alla registrazione di "Porta a Porta" che andrà in onda questa sera su RaiUno. "Nel 2010 - ha osservato il guardasigilli - erano poco più di 12mila le persone sottoposte a esecuzione penale esterna, mentre oggi sono 40mila. E sottolineo che non è come si dice che abbiamo messo i detenuti per strada: abbiamo semplicemente utilizzato strumenti alternativi". Radicali Italiani: le carceri italiane sono una discarica sociale, altro che rieducazione radicali.it, 15 novembre 2016 La tanto amata (a parole!) Costituzione italiana afferma che la pena ha come obiettivo rieducare il condannato. Nonostante lo spirito illuminato della Costituzione, le prassi che regolano le carceri in Italia e alcune leggi, hanno come obiettivo evidente punire e colpire soprattutto chi non ha i mezzi per difendersi. Lo dimostrano i dati del Dossier "Dentro o fuori" (clicca qui per leggerlo e scaricarlo) pubblicato in queste ore da Openpolis, da cui emerge tra l’altro che l’Italia è sesta in Europa per sovraffollamento con un tasso del 109 per cento che in alcuni istituti, come Canton Mombello a Brescia, supera il 190%; su un totale di 54 mila detenuti, gli stranieri sono quasi il 34% mentre 18.500 sono reclusi per violazione della normativa sugli stupefacenti; oltre il 34% è in attesa di giudizio definitivo, di cui la metà in attesa di primo giudizio. Dal 2000 a oggi i detenuti con più di 70 anni sono aumentati di oltre l’80%; 5.720 detenuti hanno la licenza elementare, 16.203 la licenza media e solo 514 la laurea. Secondo una ricerca commissionata dal Ministero della Giustizia, nel 2007 il tasso di recidiva dei detenuti era pari al 68%, contro solo il 19% di chi aveva scontato la pena ai servizi sociali, eppure i lavori di pubblica utilità sono usati solo per le violazioni del codice della strada, e non come reale alternativa al carcere per altri reati, e meno del 30% dei detenuti lavora in carcere (dato tuttavia in costante aumento negli ultimi 5 anni). Rispetto al sempre evocato "Piano carceri" una relazione della Corte dei conti del settembre 2015 ne ha certificato il fallimento: è stato speso l’11% del budget 2010-2014 e i posti letto sono aumentati di 4.415 unità a fronte dei 12 mila previsti. Intanto in carcere si continua a morire: dal 2000 ad oggi annualmente i suicidi sono stati da un minimo di 43 a un massimo di 72; 23 i detenuti che si sono tolti la vita nei soli primi sei mesi del 2016. Dichiarazione di Igor Boni e Silvja Manzi (Direzione nazionale di Radicali Italiani): "Dai dati emerge una fotografia disarmante della situazione carceraria italiana e che il progetto seguito da ogni Governo è stato semplicemente quello di fare fronte alle più gravi emergenze, senza mettere concretamente mano al problema. In una situazione di questa natura è evidente che un provvedimento di amnistia - come chiesto a più riprese da Marco Pannella e dai radicali - consentirebbe di decongestionare le strutture e ridurre l’immane numero di pratiche sulle scrivanie dei magistrati. Ma insieme a questo si deve smettere di considerare le carceri come una discarica umana riservata alle fasce più deboli. Il lavoro in carcere, le pene alternative e l’affidamento ai servizi sociali sono strumenti fondamentali per migliorare la situazione, insieme alla radicale modifica delle leggi sull’immigrazione e sugli stupefacenti. Occorre investire su chi sta in galera, in istruzione e lavoro, se si vuole ridurre la recidiva e provare a seguire i dettami della nostra Costituzione, troppo spesso usata come foglia di fico per non far vedere il disastro sociale e umano che alimentiamo dietro le sbarre". Ddl penale, ennesimo appello di Orlando: "Subito in calendario al Senato" Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2016 Ennesimo appello del ministro Pd della giustizia da Porta a porta perché ri-approdi in Senato il provvedimento osteggiato dai centristi della maggioranza, soprattutto sul fronte della prescrizione. "So che nel mio partito e nel governo ci sono perplessità". Soprattutto all’avvicinarsi del referendum. Il Papa chiede atti di clemenza per i detenuti? "Nel testo ci sono". Il ministro della Giustizia torna a chiedere che il ddl penale, quello che contiene fra l’altro le norme assai divisive sull’allungamento dei tempi di prescrizione dei reati, venga almeno riportato in aula al Senato. "Domani o dopodomani ci sarà una conferenza dei capigruppo: mi auguro che questo provvedimento sia calendarizzato. So che anche nel mio partito ci sono resistenze e nel governo ci sono perplessità". È l’ennesimo appello di Andrea Orlando, nella registrazione di Porta a porta in onda stasera su Raiuno, perché l’aula di Palazzo Madama esamini e voti finalmente il provvedimento profondamente osteggiato soprattutto dai centristi della maggioranza. Alfaniani in testa, che ai primi tentativi di sbarco in aula - dopo una lunga gestazione in Commissione giustizia - hanno fatto saltare ripetutamente il numero legale, mandando a monte la discussione. Poi, con l’avvicinarsi della scadenza referendaria, il ddl penale - già approvato alla Camera - è addirittura sparito dal calendario di palazzo Madama. In un’occasione, è stato persino sbalzato dal ddl sul cinema. Dato che la riforma del codice penale contiene anche novità sul fonte dei benefici di pena, il ministro Pd lega la sua calendarizzazione alla recente richiesta di un "atto di clemenza" verso i detenuti arrivata da Papa Francesco. Orlando fa "appello per costruire sistema penitenziario più in linea con la nostra Costituzione". Non ci sono invece, secondo il ministro, margini per un provvedimento di amnistia: "Non se ne parla, servono i voti di due terzi del Parlamento, che non ci sono". "Le parole del Papa sul carcere - ha detto Orlando nella registrazione di Porta a Porta - potrebbero essere raccolte approvando la riforma del processo penale, perché all’interno c’è una delega che dice esattamente quello che ha auspicato il Papa, che non ha parlato di amnistia, ha detto di tenere conto dei detenuti meritevoli. Noi", prosegue il ministro, "abbiamo fatto una delega che dice che se il detenuto si comporta bene è giusto abbia degli sconti di pena, mentre oggi purtroppo abbiamo un automatismo". "Ho avuto il privilegio - ha concluso - di essere ricevuto dal Santo Padre con cui ho parlato un’ora di questo tema. Cambiare il carcere significa aumentare la sicurezza. Orlando chiama il Senato: "Giustizia, subito la riforma" di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2016 Appello del ministro: sbloccate il ddl penale, dentro c’è la delega sul carcere. Altre volte Andrea Orlando aveva ricordato la centralità del tema carcere nella riforma della giustizia. Mai lo aveva fatto con le parole nette di ieri. "Ho incontrato papa Francesco, siamo stati insieme un’ora a parlare della condizione dei carcerati, tutti conoscete il suo appello a tener conto dei detenuti meritevoli: bene", ha aggiunto il ministro della Giustizia dai microfoni di "Porta a porta", "le parole del Santo Padre potrebbero essere raccolte approvando il ddl sul processo penale che è al Senato". È un richiamo rivolto a Palazzo Madama, al Pd e indirettamente al governo. "Mi auguro che il provvedimento possa essere calendarizzato subito. Da qui rivolgo un appello affinché si possa costruire un sistema penitenziario più efficiente". L’intervento del guardasigilli arriva da una trasmissione del servizio pubblico molto seguita, che dà meritoriamente spazio al tema della detenzione. Non a caso in chiusura Orlando ringrazia Bruno Vespa per l’attenzione e lo stesso conduttore non ha problemi a riconoscere che quella del carcere è questione tenuta quasi sempre da parte. Ma l’impegno del ministro per rimettere in carreggiata il ddl su processo penale e sistema penitenziario non è isolato, almeno nel Pd. Poche ore prima che il guardasigilli intervenga sulla Rai, un appello analogo al suo parte dal quotidiano del Pd, l’Unità. La presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti pubblica sul numero di domenica un articolo a doppia firma con Walter Verini, che della commissione di Montecitorio è il capodelegazione dei democrat. "Riteniamo che si possa e si debba lavorare tutti per portare all’approvazione il provvedimento, evitando così il rischio di rallentare o di interrompere un disegno riformatore di così ampia portata". L’idea di Ferranti e Verini è che dare il via libera alla riforma penale "in prossimità di un appuntamento referendario nel quale è in gioco il cambiamento del Paese, contribuirebbe a dimostrare ancora più e meglio la volontà e l’ambizione riformatrice del governo e di questa maggioranza". Il richiamo non è casuale: la concomitanza del referendum costituzionale è il vero ostacolo sul definitivo decollo del ddl penale. Il timore diffuso nel governo, e avvertito in particolare proprio da Renzi, è duplice: da una parte spaventano le possibili defezioni a Palazzo Madama di Ncd e verdiniani, ma il vero incubo è l’attacco dei Cinque Stelle su due punti chiave del ddl, intercettazioni e prescrizione. I grillini sparerebbero in modo istantaneo contro un provvedimento che allunga sì i tempi del processo, ma che dal loro punto di vista sarebbe sempre troppo "generoso con i corrotti". Condizionata dallo spettro di una pesante campagna sulla giustizia in pieno rush finale per il "Sì", Renzi ha finora inviato a Palazzo Madama segnali di "frenata". Le parole di Orlando, l’articolo sull’Unità e altre dichiarazioni arrivate sempre ieri da parlamentari dem come Anna Rossomando e Monica Cirinnà, puntano a riaprire la partita. E può suonare persino sorprendente che il guardasigilli nel suo tentativo si affidi all’improvvisa visibilità di un tema come il carcere. Tenuta di solito nascosta, la questione penitenziaria è stata rilanciata venti giorni fa proprio da Renzi con la visita all’istituto "Due Palazzi" di Padova. Orlando dedica al carcere gran parte del suo intervento a "Porta a porta". "Abbiamo aumentato le pene alternative, i detenuti sono diminuiti per questo", ricorda, "le persone sottoposte a esecuzione penale esterna sono 40mila". E poi appunto il richiamo alle "parole del Papa", alla necessità di "assegnare gli sconti di pena secondo il suo appello a riconoscere i detenuti meritevoli", dunque al di fuori "di un sistema che ora funziona soprattutto in base agli automatismi". Nella delega sull’ordinamento penitenziario i principi di questo aggiornamento di sistema sono ben presenti. "Da qui rivolgo un appello per dare sul punto risposte efficienti, che corrispondano alle indicazioni della Costituzione", ribadisce il ministro alla Rai. Il guardasigilli parla anche di altri incroci tra giustizia e referendum. Della campagna per il "No" condotta da Magistratura democratica, per esempio: "È una questione di opportunità quella di arrivare a un attivismo così forte, ma non ci può essere nessuna norma che abolisce il prendere posizione". Certo "non si può dire che venga modificato il Titolo IV, che si altera il funzionamento di organi terzi come Consulta e Csm: non vengono modificati di una virgola, e se un magistrato dice il contrario c’è da chiedersi se abbia letto effettivamente la riforma costituzionale". Serve "una democrazia tempestiva", secondo il ministro della Giustizia. Convinto che "parte degli elettori di Forza Italia e Movimento Cinque Stelle guardino al merito". Ma Orlando è da Vespa per difendere, oltre alle ragioni del "Sì", soprattutto quelle della "sua" riforma penale. Consapevole dei rischi di un suo rinvio oltre le colonne d’Ercole del referendum, inevitabile in base all’attuale calendario di Palazzo Madama. Nell’ultimo ordine dei lavori c’è spazio persino per il ddl sulla "Produzione vitivinicola", all’esame dell’Aula giovedì prossimo. Non si è trovato uno spiraglio per riprendere la discussione su processo penale e carcere. Il ministro della Giustizia prova a dare una scossa. Convinto che lasciarsi paralizzare dalla paura non sia un buona strategia neppure per difendere le ragioni del Sì al referendum. Giustizia: il referendum ha sepolto la riforma di Alessandro Da Rold lettera43.it, 15 novembre 2016 Carceri sovraffollate, tribunali con poco personale, accorpamento degli uffici: tutto bloccato in attesa del referendum. E Renzi e Orlando sono ai ferri corti. "Il referendum ha monopolizzato il dibattito, come se la Giustizia non fosse la vera urgenza del Paese". Annalisa Chirico, del think tank "Fino a prova contraria", non usa mezzi termini nel giudicare la situazione di stallo della riforma della Giustizia in Italia. I problemi che il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando aveva annunciato di risolvere sono ancora lì tutti sulla carta. Il sovraffollamento delle carceri, la carenza di organico nei tribunali, l’accorpamento degli uffici giudiziari, la riforma del codice penale: è tutto fermo in attesa del 4 dicembre 2016. Solo qualche slogan. Da sette mesi si sono conclusi gli "Stati generali dell’esecuzione penale", ma tutto si è mescolato con il disegno di legge sul processo, tra prescrizione e intercettazioni, come ha ricordato Luigi Ferrarella sul Corriere della sera. "Sarebbe importante andare oltre i gesti simbolici", ha scritto il giudiziarista criticando la visita di Renzi nel carcere di Padova il 28 ottobre. Perché a parte qualche slogan nulla si muove. In molti si augurano di poter fare passi avanti, ma in realtà in pochi, soprattutto tra gli addetti ai lavori, si espongono, appesi alla stabilità politica dell’esecutivo dopo il passaggio referendario. "Io voto Sì", spiega Chirico, "perché è una buona riforma: perfettibile, ma buona. E un sistema legislativo più snello ed efficiente aiuterà le riforme a partire da quella della Giustizia". Ma non c’è solo questo dietro ai tentativi di risolvere l’annoso problema della Giustizia in Italia. "Ci rendiamo conto che le banche estere ci dicono che dopo la Brexit si trasferirebbero a Milano se non fosse per la qualità del nostro sistema giudiziario?", aggiunge l’ideatrice di "Fino a prova contraria". Scontro tra Renzi e Orlando. Ma sullo sfondo di questo impasse cova lo scontro tra l’Associazione nazionale dei magistrati (Anm) di Piercamillo Davigo e il premier Matteo Renzi. Come pure una certa tensione tra lo stesso Renzi e Orlando. Si mormora che il ministro della Giustizia potrebbe essere un candidato alla segreteria del Partito democratico. Sono voci che però raccontano bene cosa covi sotto le ceneri della riforma. Come quelle che circolano intorno a Davigo, silenzioso dalla fine di ottobre, dopo l’incontro con il presidente del Consiglio e da cui a quanto pare avrebbe ricevuto rassicurazioni sulla proroga dei pensionamenti per gli organi direttivi, come già fatto per la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato. Per saperlo però bisogna aspettare l’esito del referendum. Allo stesso tempo, mentre solo papa Francesco e i Radicali continuano le loro battaglie su argomenti considerati scomodi dalla politica tradizionale, la situazione è sempre più preoccupante. Un pò dappertutto si levano voci di proteste sullo stato dei tribunali o appunto delle carceri. E fa impressione che a lamentarsi tra i magistrati ci sia per esempio il presidente del tribunale di Firenze, città del presidente del Consiglio. Marilena Rizzo lo ha detto chiaro e tondo durante un convegno organizzato proprio da "Fino a prova contraria". "Il 70% dei procedimenti che pesano sul tribunale sono ricorsi di immigrati cui è stato negato status di rifugiato politico. Per la legge italiana hanno diritto di ricorrere e di restare fino a sentenza di primo grado in Italia a spese dello Stato". Mole di lavoro insostenibile. Il problema si ripercuote su diversi tribunali, ma pure sulla vita sociale delle nostre città come sui centri di accoglienza. Perché l’emergenza immigrazione non sta facendo che aumentare la mole di lavoro. "I problemi sono di sicurezza pubblica nonché economici come di compromissione dei diritti, anche perché devono stare nei centri di accoglienza", ha spiegato la Rizzo. "Abbiamo una mole di lavoro considerevole che non era prevedibile". I numeri parlano chiaro. Solo al tribunale di Firenze sono stati presentati nel 2013 200 ricorsi, nel 2014 ce ne sono stati 490, nel 2015 sono diventati 1.034, dal primo gennaio a settembre 1.606. Carenza di personale. "C’è una carenza di personale amministrativo, qui siamo di fronte a un problema di collettività. Noi magistrati non possiamo restare con il cerino in mano". Anche qui è tutto fermo. La proposta di Orlando di riformare il processo civile con l’eliminazione del grado di Appello per chi ha ricevuto un diniego dell’asilo in primo grado giace congelata. Dopo che già Open Migration aveva mosso delle critiche. I problemi proseguono un pò dappertutto. In Abruzzo l’accorpamento dei tribunali è bloccato. Ma a soffrire per carenza di organico è pure una procura come quella di Milano dove il capo Francesco Greco lanciò l’allarme alla fine di agosto. "Rischio paralisi", spiegò: un monito rimasto sulla carta, raccolto nei primi giorni dal governo ma poi subito superato dai problemi e dal dibattito sul referendum. Non solo. A gravare c’è poi l’istituto della prescrizione con tribunali che si muovono a macchia di leopardo. I detenuti tornano a salire. Infine, la situazione più preoccupante: quella delle carceri. Certo, i 67 mila carcerati del 2011 sono un ricordo lontano, ma a inizio 2016 i numeri sono tornati a salire. I dati del ministero di Grazia e Giustizia parlano chiaro. Al 31 ottobre su una capienza regolamentare di 50 mila unità il sovraffollamento è superiore alle 4 mila persone, con casi preoccupanti come quello della Lombardia dove su una capienza di 6.120 persone sono presenti quasi 8 mila detenuti. E come ogni anno si calcolano i suicidi, 33 da gennaio, contro i 43 di tutto il 2015. Carceri troppo stipate. L’associazione Openpolis ha diramato un dossier che spiega bene il punto della situazione. "Dalle amnistie della Prima Repubblica, passando per indultini e svuota-carceri, fino ai provvedimenti più recenti per riportare a livelli accettabili il numero di detenuti nelle strutture, la situazione è migliorata, ma restano alcuni punti critici: circa 2/3 delle carceri sono troppo stipate". E si spiega: "Ha contribuito alla riduzione della popolazione carceraria la sentenza della Corte costituzionale che nel febbraio del 2014 ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti. La sentenza ha ripristinato la precedente normativa, più favorevole per i condannati, che hanno potuto usufruire di un ricalcolo delle pene". Un aiuto è arrivato pure dalla legge Torreggiani come dall’estensione degli arresti domiciliari per le pene fino a tre anni. Ma resta evidente che i problemi e i nodi da sciogliere sono ancora tutti sul tappeto. Dopo il referendum cambierà qualcosa? O saremo di fronte alla solita riforma tampone prima delle prossime elezioni politiche? Giudici di pace in rivolta. "Denunciamo il governo" di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2016 I magistrati onorari citano lo Stato davanti al Tar. Il timer era partito da tempo, a questo punto fermare l’innesco sarà difficile: i giudici di pace saranno in sciopero per tutta la settimana prossima, dal 21 al 25 novembre. Si fermano magistrati e viceprocuratori onorari, che secondo il ministero della Giustizia evadono addirittura un terzo del contenzioso civile e penale. Protesta di cui oggi si occuperà anche il Csm: ci sarà un incontro con le organizzazioni di categoria, previsto come ogni anno dall’ottava commissione di Palazzo dei Marescialli. Non si tratta di un tentativo di "mediazione" dunque, ma di un dialogo già in calendario che il Consiglio superiore ha preferito non rinviare. Da qui al giorno dell’astensione, difficilmente interverranno novità di rilievo, che possano indurre le rappresentanze a tornare sui loro passi. Lo si intuisce anche dall’atto di citazione depositato ieri davanti al Tar del Lazio dall’Unione nazionale dei giudici di pace (Unagipa) "contro il governo italiano nelle persone del premier Renzi e del ministro della Giustizia Orlando". Vi si denuncia la violazione dell’ordinamento comunitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. Sarebbero "oltre 300" i magistrati onorari ad aver sottoscritto l’azione. Non sembra la premessa di un armistizio. A far precipitare un quadro in realtà molto difficile già da anni è stata la legge delega sulla categoria approvata ad aprile scorso. Provvedimento di cui sono ancora attesi i decreti delegati ma che non ha soddisfatto i giudici di pace. I nodi riguardano le "infrazioni" di cui, secondo il segretario dell’Unagipa, Alberto Rossi, il governo italiano sarebbe responsabile: si denuncia la "violazione di tutte le norme europee sul lavoro a danno dei giudici di pace mediante la reiterazione abusiva di contratti a termine, il mancato riconoscimento di un compenso fisso e dignitoso, l’assenza di tutele della maternità, della salute e da infortuni sul lavoro, addirittura il disconoscimento dello stesso diritto alla pensione in aperta violazione di una sentenza della Corte di Giustizia europea". A luglio si è pronunciato a favore dei magistrati onorari italiani il Comitato europeo dei Diritti sociali presso la Cedu, su sollecitazione di un’altra sigla, l’Angdp. E a breve la commissione europea dovrebbe aprire l’ennesima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. "Siamo i lavoratori in nero della giustizia, la riforma in corso accentua il nostro precariato e la sudditanza dei giudici di pace allo Stato, prevedendo solo doveri e nessun diritto", lamenta la presidente dell’Unagipa, Mariaflora Di Giovanni. La quale confida in una "posizione netta di condanna del governo" da parte del Csm. Ma difficilmente il Consiglio superiore potrà inserirsi nella discussione, così come pare impervia la strada verso un accordo in extremis di qui a lunedì prossimo. Terrorismo islamico, la Cassazione: "Indottrinare al martirio non è reato" La Repubblica, 15 novembre 2016 La Suprema corte dopo le assoluzione per la moschea di Andria: il reato di terrorismo internazionale non è configurabile senza "l’addestramento di adepti da inviare nei luoghi di combattimento". Niente condanna per il reato di terrorismo internazionale di matrice islamica a carico di imam o dei loro seguaci impegnati in attività di indottrinamento e proselitismo "finalizzata a indurre una generica disponibilità a unirsi ai combattenti per la causa islamica e a immolarsi per la stessa", se la "formazione teorica" degli aspiranti kamikaze non è affiancata anche con "l’addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento". Lo rimarca la Cassazione nelle motivazioni relative all’assoluzione - emessa lo scorso 14 luglio, suscitando clamore - dei quattro jihadisti della moschea di Andria: un gruppo ritenuto dalla Suprema corte a limitata "operatività", tale da non costituire una minaccia per la collettività. Secondo i supremi giudici - si motiva nella sentenza 48001 - l’indottrinamento "può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito". Chi si dedica al solo proselitismo, dunque, non rischia condanna ma al massimo viene espulso. Lo scorso agosto l’iman di Andria, il tunisino Hosni Hachemi Ben Hassen, dopo l’assoluzione è stato rimpatriato. A suo carico era rimasta, da rideterminare, soltanto la pena per incitazione all’odio razziale. Poco tempo dopo è stato espulso, perché inneggiava agli attentati avvenuti in Francia, anche un altro degli imputati - cinque in origine - che dopo la condanna in primo grado non aveva più fatto ricorso. A spingere la Cassazione ad annullare le condanne per i quattro imputati, tre dei quali tunisini e uno di origini magrebine ma nato nel trapanese a Castelvetrano, è stata anche la circostanza che dalle intercettazioni il personaggio che "si distingueva per il tenore particolarmente cruento delle sue espressioni" era un certo Alì, non meglio identificato Quel che lui diceva, osserva la sentenza, non era sempre ben compreso dagli altri. Che però erano tutti d’accordo nel programma di esaltare "il martirio e l’aspirazione a raggiungere i luoghi di combattimento per conseguire tale obiettivo". Importanza non è stata data nemmeno al fatto che gli imputati facessero riferimento al "procacciamento e alla visione di filmati", perché si tratta di "attività strumentali all’indottrinamento". Per la Cassazione, infine, "riprova" della non pericolosità del gruppo si ricava dal fatto che le intercettazioni sono del 2009 e il loro arresto è avvenuto nel 2013: per tutto quel periodo nessuno è partito per far strage di "infedeli" o ha commesso atti di terrorismo. Fatti che confermano "l’incapacità del gruppo di raggiungere un livello organizzativo tale da affrontare le contingenti e non certo imprevedibili difficoltà di una attività terroristica di carattere internazionale". In primo grado l’imam di Andria era stato condannato a cinque anni e due mesi e gli altri a tre anni e quattro mesi, ridotti dalla Corte d’assise d’appello di Bari nel 2015 a due anni e otto mesi soltanto per un imputato "minore". La Cassazione decide sulla frode fiscale. Il prestanome non ha più scuse di Debora Alberici Italia Oggi, 15 novembre 2016 Rischia una condanna per frode fiscale il prestanome che firma le fatture false anche se lo fa sotto la minaccia del licenziamento da parte dell’amministratore di fatto. La scriminante opera infatti solo in caso di denuncia da parte sua dell’attività illecita del gestore. Ma non basta. L’imputato non ha neppure diritto a sconto di pena per l’attenuante del contributo concorsuale di minima importanza. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 47972 del 14 novembre 2016, ha confermato e reso definitiva la condanna a carico del rappresentante legale di una società di Palermo accusato per frode fi scale. In particolare per la terza sezione penale bene ha fatto la Corte d’Appello siciliana a evidenziare la durata per nulla breve del periodo di esercizio dell’attività e la mancanza totale di denunce a carico dell’amministratore di fatto. Dunque, in questo caso non opera, la scriminante dello stato di necessità. Infatti in presenza di questa causa di estinzione del reato l’imputato ha l’onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non aver potuto sottrarsi al pericolo. Nulla da fare neppure sul fronte dello sconto di pena. Infatti, si legge in fondo alla sentenza, la circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza ex art. 114 cpp trova applicazione laddove l’apporto del correo risulti così lieve da apparire trascurabile. Pisa: fatiscente e con problemi igienico sanitari, consiglieri regionali al carcere Don Bosco La Nazione, 15 novembre 2016 Carceri, Nardini, Brogi e Marras: "Bagni a vista violano privacy e dignità: facciamo mettere le porte ai detenuti, diamo loro la possibilità di lavorare". "Dopo essere già stata nei mesi scorsi, con altre colleghe del gruppo Pd, in visita al reparto femminile di Sollicciano, a Firenze, mi è sembrato urgente vedere anche le condizioni del carcere pisano, in questi giorni al centro dell’attenzione per lo sciopero della fame dei detenuti e per le successive denunce fatte dal garante dei detenuti della città, Alberto Di Martino - spiega Alessandra Nardini, consigliera regionale pisana del Partito Democratico. È doveroso mantenere solido un contatto tra quello che avviene dentro le carceri e l’esterno; queste due prime tappe sono l’inizio di un impegno civile e politico che voglio portare avanti". "Se non fosse per qualche segnale di modernità, come tv e qualche apparecchio elettronico si potrebbe quasi dire che il tempo al Don Bosco si è fermato più o meno agli anni 30, quando il carcere è stato costruito - commentano Nardini, Enzo Brogi, consigliere per i diritti della Regione Toscana e Raffaele Marras, segretario regionale dei Giovani Democratici. Qui vivono 277 detenuti rispetto ai 226 per cui è stato realizzato. Il penitenziario pisano è un posto fatiscente, con evidenti problemi igienico sanitari, non stupisce lo sciopero della fame dei detenuti e le denunce sulle sue condizioni fatte pochi giorni fa dal garante dei detenuti, Alberto Di Martino. Urgentissimo il problema dei bagni, innanzitutto perché privi di porta, con dei muriccioli che non garantiscono rispetto della dignità della persona. Pensate a cosa significa tutto questo soprattutto per quel gruppo di circa venti donne che vive qui. Ci chiediamo quanto possa costare finanziare delle porte, ci chiediamo perché si debba vivere in certe condizioni. Lanciamo una proposta: perché non potrebbero essere proprio i detenuti ad operare nella struttura, manutenendola, magari coadiuvando esperti che insegnano loro il mestiere? Proprio i detenuti hanno già dimostrato come riuscire a rendere più umano l’ambiente con dipinti bellissimi. Sabato, quando siamo stati lì non c’era né riscaldamento, né acqua calda, ci hanno parlato di un malfunzionamento temporaneo, che in parte già si stava risolvendo. Come si era verificato un guasto alle linee telefoniche. Speriamo sia così e che ci si adoperi affinché sia totalmente risolto e non ciò non si ripeta. Oltre alle necessità igieniche ci sono poi quelle legate al reinserimento lavorativo e sociale. Dentro le mura del penitenziario vi sono varie aule per attività, una ad esempio dedicata alla falegnameria che potrebbe consentire ai detenuti di imparare un mestiere, di avere una carta da giocare una volta finita di scontare la pena. Ci hanno detto che questo corso adesso è autogestito dai detenuti, ad insegnare non va più nessuno. I fondi per le attività di questo tipo sono stati in buona parte sospesi, e questo ci pare controproducente: la pena deve essere rieducativa, recita la nostra Costituzione. Il campino in cui oltre a giocare i detenuti venivano organizzati tornei con squadre esterne, adesso è in disuso e chiediamo che sia ripristinato e rimesso in funzione. Pensiamo all’importanza di questo luogo per la convivenza e l’integrazione tra le tante e diversissime comunità che popolano il penitenziario: dei 277 detenuti, 164 sono stranieri, tunisini, marocchini, albanesi, rumeni, 113 italiani. Ci sono alcuni spazi del carcere che ancora oggi danno buon esempio: il progetto Prometeo, che punta alla convivenza tra sieropositivi e non, e la sezione universitaria - concludono Nardini, Brogi e Marras. Ricordiamo l’importantissimo contributo della Scuola di Teatro, progetto recentemente rifinanziato dalla Regione Toscana, portato avanti dalla compagnia "I Sacchi di Sabbia", che registra una ventina di partecipanti. Il carcere se continua a rimanere luogo lontano, nascosto ed isolato dalla società non potrà mai adempiere alla funzione di rieducazione, ma rischia di restare luogo di sofferenza e reclusione. Nella realtà pisana, come in tante altre della nostra regione, abbiamo visto che se si accende il motore dell’operosità i risultati arrivano". Gorgona (Li): Fns-Cisl; una motovedetta dismessa, ferma in porto, adibita a guardiola di Lara Loreti Il Tirreno, 15 novembre 2016 Una delegazione di agenti della Fns-Cisl si è rivolta alla prefetta per lamentare le condizioni di disagio in cui svolgono il servizio. Una motovedetta dismessa, ferma in porto, adibita a guardiola perché il prefabbricato, utilizzato fino a un anno e mezzo fa, ha problemi strutturali. Niente parcheggi per le auto degli agenti usate per andare a lavoro, nessun collegamento per Gorgona all’infuori delle vedette della penitenziaria. E poi aumento dei detenuti sull’isola carcere a fronte di una diminuzione dei poliziotti: 26 invece che 40 come da pianta organica. Dura vita per gli agenti penitenziari della Gorgona, alle prese con mille problemi, per ora irrisolti. È così che l’altro giorno una rappresentanza della Fns (Federazione Nazionale Sicurezza) - Cisl è andata dalla prefetta Anna Maria Manzone per chiedere un aiuto e una presa di posizione sui problemi con cui i poliziotti, sia "di terra" sia della squadra navale, si confrontano quotidianamente. A recarsi dalla prefetta, una delegazione sindacale della Fns-Cisl formata da Pierangelo Campolattano, segretario a Gorgona, e Giacomo Di Martino, segretario generale a Livorno. Più detenuti, meno agenti. Il primo problema esposto dai rappresentanti dei lavoratori alla prefetta riguarda la carenza di personale. A partire dalla scorsa estate, infatti, la popolazione dei detenuti dell’isola è cresciuta, ma a questo aumento non è corrisposto un rafforzamento numerico dei poliziotti, anzi. Lo spiega Campolattano: "Nel corso dell’estate i detenuti sono passati da 56 ad 80: questo per una precisa strategia del Dipartimento della penitenziaria che, nella persona del capo, Santi Consolo, ha voluto incrementare le presenze per dare un impulso al lavoro agricolo sull’isola. Il problema, però, è che noi agenti siamo sempre di meno: adesso si contano 26 persone, la pianta organica, invece, dovrebbe essere di oltre 40". Collegamenti, che passione. La vexata quaestio dei trasferimenti da Livorno alla Gorgona e ritorno sembra non trovare soluzione. Il problema viene riproposto ciclicamente da più parti, ma per il momento è lontano dall’esser risolto. Ora i sindacalisti della Fns-Cisl ci riprovano e chiedono alla prefetta di intercedere per riattivare le linee Toremar. "C’è una piccola comunità di residenti che ha necessità di muoversi: non può accettare di affidarsi solo alle nostre vedette", dice Campolattano. L’ufficio galleggiante. Fino a un anno e mezzo fa, la squadra navale della penitenziaria in porto aveva una guardiola tradizionale, cioè un prefabbricato come sede dove svolgere le operazioni di registrazione dei passeggeri diretti a Gorgona e dove depositare le armi di reparto. "Poi il prefabbricato è stato chiuso perché inagibile - spiega Campolattano - e da allora l’ufficio è rappresentato da quella vedetta fuori uso. Morale della favola: nel momento in cui i colleghi della navale devono depositare le armi, devono rivolgersi alla Guardia di finanza perché sulla vedetta ovviamente non c’è un’armeria. A bordo è stata anche montato un palo con l’antenna per poter seguire le news: questo è inaccettabile". La prefetta, dal canto suo, ha ascoltato le rimostranze della Cisl e ha manifestato la sua disponibilità a interessarsi ai problemi. Milano: progetto "Eyes Up", così i detenuti aiutano i bambini artslife.com, 15 novembre 2016 Sono tanti i bambini nel mondo ai quali mancano i primari beni di sussistenza e d’istruzione, ma grazie al volontariato qualcosa si può fare e lo dimostrano l’Associazione "The Sense of Art" di Leonida De Filippi e sua moglie Paola Ferrario che hanno organizzato, insieme alla Nuova Galleria Morone, una giornata di beneficenza grazie anche al contributo dei detenuti della Casa Circondariale di Bollate. Per l’occasione abbiamo intervistato Leonida De Filippi, artista e docente dell’Accademia di Brera, dove insegna tecnica extra-mediale, la relazione tra le nuove tecnologie e le arti visive. Per sei mesi Leonida De Filippi ha tenuto un laboratorio di fotografia presso la Casa Circondariale di Bollate, il risultato di questo impegno si potrà vedere e acquistare mercoledì dalle ore 16 in poi. Le fotografie realizzate dai detenuti, che insieme formano il Collettivo Fotografico di Bollate, saranno messe in vendita a 50 euro l’una e andranno a finanziare un progetto a beneficio di due scuole albanesi. Leonida, insieme alla moglie Paola Ferrario, sono i fondatori dell’Associazione The Sense of Art. Come nasce il progetto? Il progetto nasce da una collaborazione tra l’Accademia di Brera, dove insegno, e la Casa Circondariale di Bollate, grazie a Tiziana Tacconi, docente di Brera, e Isabella Mai, coordinatrici del Corso di Terapeutica Artistica. Già da anni, grazie ai docenti volontari, all’interno della Casa Circondariale sono attivi numerosi corsi: teatro, pittura, disegno e rappresentazione. Mentre il corso di fotografia non era ancora stato sviluppato, quando mi è stato proposto ho accettato. Per sei mesi, una volta a settimana, ho varcato la soglia del carcere per insegnare un lavoro ai carcerati. All’inizio doveva essere solo un corso per insegnare a utilizzare la macchina fotografica ma quando ho capito che per alcuni di loro il progetto rappresentava uno stimolo importante, ho pensato di coinvolgerli in qualcosa di più concreto. Immagino che non vi fossero molto oggetti/soggetti da immortalare in carcere, dove hanno trovato la fonte d’ispirazione? Poi ben immaginare che non è come uscire in strada e fotografare qualsiasi cosa attragga lo sguardo. Avevo portato tutte le mie macchine fotografiche, non avendo trovato nessuno che sponsorizzasse o ci imprestasse la strumentazione, quindi i primi esperimenti sono stati condivisi. Inizialmente avevo dato un tema da seguire ma che per loro era difficile da eseguire, quindi, come faccio con i miei studenti, ho cominciato a lavorare sulle sensibilità individuali, di conseguenza il progetto è virato sull’architettura e le entità umane. All’inizio ho fatto qualche lezione teorica e poi abbiamo iniziato a identificare una serie di elementi da fotografare, è stato tutto sempre work in progress perché la soglia di attenzione è pari a 30 secondi. Penso di aver lavorato sull’umanità del singolo. Come mai gli "artisti" coinvolti in questa vendita sono di origine albanese? Inizialmente il gruppo dei partecipanti era numericamente elevato, la partecipazione era libera e comprendeva adulti tra i 18 e i 65 anni, il gruppo era composto da membri di ogni nazionalità ma nell’arco dei mesi molti di loro hanno abbandonato. È rimasto solo un piccolo gruppo, è un caso che siamo tutti albanesi, ma quello che è importante è che si siano resi totalmente disponibili a cedere le loro fotografie per scopo nobile. Le foto usciranno come gruppo denominato "Collettivo Fotografico Bollate". Come definiresti la tua esperienza d’insegnante all’interno del carcere? All’inizio ero timoroso non avendo mai avuto nessuna esperienza analoga a quella che mi si prospettava. Superati i primi incontri, ho potuto constatare, che l’ambiente in cui vivono i detenuti è abbastanza accogliente. Molti lavorano all’interno della struttura, ci sono i campi da basket, tennis, calcio, palestre, una scuola di rugby, c’è il teatro, una redazione per il giornale interno, c’è Radio Popolare che ha una sua postazione, una serra e un ristorante per gli esterni. C’è un fortissimo fermento culturale e tutte queste attività si devono grazie ai volontari e alla direzione, precedente e attuale, che ha messo in moto questo processo di reinserimento. Sembra che la recidiva sia pari allo zero, questo vuol dire che è un modello che funziona. È un’esperienza che ti arricchisce a livello umano e personale, e che ripeterò anche l’anno prossimo. A chi verranno destinati i fondi? L’associazione fondata da me e mia moglie si occupa di scolarizzazione in territori come l’Albania, Romania e Marocco. La vendita di queste fotografie, saranno una sessantina in tutto, finanzieranno la donazione di alcuni computer e materiale didattico per due scuole in Albania a Fang e a Perrenjas. Napoli: Quatrano tenta di salvare Mohamed dalla pena capitale Corriere del Mezzogiorno, 15 novembre 2016 Oggi in Mauritania udienza decisiva per il ragazzo, cittadino napoletano, accusato di blasfemia. Oggi alle 11 si svolgerà una udienza decisiva per le sorti di Mohamed Cheikh ould Mohamed ould M’kheìtir, un contabile dì 31 anni, condannato a morte dalla Corte Criminale di Nouadhibou (Mauritania), il 24 dicembre 2014 per apostasia. L’udienza è fissata davanti alla Corte Suprema della Mauritania chiamata a valutare la sincerità del pentimento, sola circostanza che può salvare l’imputato dalla pena capitale. La trasmissione degli atti alla Corte Suprema rappresenta un effetto della forte mobilitazione internazionale sulla vicenda. All’udienza parteciperà come osservatore internazionale il giudice del Tribunale di Napoli Nicola Quatrano - che ha seguito in tale veste le varie fasi del processo - su incarico della Unione delle Camere Penali Italiane e del Comune di Napoli (a M’kheitir, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris conferì la cittadinanza onoraria). L’accusa rivolta al giovane mauritano è quella di blasfemia per un articolo postato su un blog, nel quale M’kheitir esprimeva valutazioni ritenute offensive nei confronti del profeta Maometto. Era stato arrestato il 2 gennaio 2014. A tutt’oggi, M’kheitir è detenuto da quasi tre anni, n 18 aprile 2016 la Corte di Appello di Nouadhibou ha deliberato di trasmettere gli atti alla Corte Suprema per la valutazione della sincerità del pentimento, negata nel giudizio di primo grado. M’kheìtir - spiegano gli attivisti che stanno partecipando alla mobilitazione per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale - appartiene alla casta dei "fabbri", malvista e emarginata. In una società fortemente gerarchizzata come quella mauritana, dove sopravvive la schiavitù. Napoli: progetto "Esperienza Vitale", la speranza di un futuro migliore dopo il carcere livenet.it, 15 novembre 2016 Tornare alla vita con la speranza di un futuro migliore, dopo aver scontato la pena per gli errori commessi; dare ai detenuti l’opportunità di una rinascita sociale dopo l’esperienza in carcere. Con questi obiettivi l’associazione "Liberi di Volare Onlus" e il Centro Diocesano di Pastorale Carcerale di Napoli hanno promosso una raccolta fondi in favore del progetto "Esperienza Vitale", dando appuntamento a venerdì 18 novembre per un incontro sul tema nella Sala Marrama in via dei Tribunali 213 alle ore 18. L’iniziativa ha lo scopo di stimolare e sviluppare le attitudini personali dei soggetti presi in carico, detenuti ed ex detenuti, attraverso una metodologia che coniuga l’attenzione alla cura della persona e ai suoi contenuti psicologici con l’apprendimento pratico di abilità manuali. Nello specifico, le attività previste saranno: laboratori di falegnameria; laboratori di bigiotteria e oggettistica sacra; colloqui di sostegno psicologico; momenti di verifica sul progetto educativo, nei quali elaborare la capacità di portare a termine il lavoro, rispettare le regole e i tempi dell’apprendimento, creare relazioni corrette all’interno del gruppo di lavoro; collegamento con i servizi per la co-progettazione del piano educativo, formativo, individuale. La struttura destinata a queste attività permetterà di ospitare fino a 8 detenuti residenziali, in affido dagli arresti domiciliari o in semi libertà; e 2 detenuti in licenza premio. La "casa" ha un compito educativo e di accoglienza dei detenuti direttamente dal carcere, in seguito ad una serie di colloqui preventivi e ad una volontà di cambiamento da parte dei soggetti, del proprio stile di vita Milano: Shakespeare va in carcere, al minorile Beccaria le sue tragedie in versione rap di Luigi Bolognini La Repubblica, 15 novembre 2016 Shakespeare in carcere? Sì, ma a tempo di hip hop. Perché si sa che i classici sono opere che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire, per usare una vecchia definizione. E attualizzandole un pò possono arrivare anche a un pubblico in teoria difficilissimo, se non impossibile, i detenuti del carcere minorile Beccaria: ragazzi presi a calci dalla vita che - si potrebbe pensare - non hanno certo interesse a opere teatrali che parlano dei grandi temi della vita. Invece basta farlo nel modo giusto, come ha fatto ieri e ripeterà oggi Kingslee James Daley, in arte Akala, rapper londinese, animando un laboratorio teatrale all’interno del penitenziario minorile, invitato da Margaret Rose e Mariacristina Cavecchi dell’università Statale, nell’ambito di un convegno scespiriano che domani e dopodomani farà dialogare sull’opera del Bardo giovani studiosi ed esperti in via Festa del Perdono. Un’iniziativa nata in collaborazione con l’associazione Puntozero e il British Council. "Ho portato "Sogno di una notte di mezza estate" - spiega Akala - a un gruppo di giovani che comprendeva una decina di ragazzi del Beccaria, altrettanti di Puntozero e una ventina della Statale. E il bello è che a un certo punto non si capiva più chi venisse dal carcere e chi no, tutti erano conquistati dalla forza della recitazione e delle parole di Shakespeare: chi cantava, chi recitava, chi ballava sulle singole scene, la commistione era unica e magica". Conferma tutto, con sorpresa e gioia, don Gino Rigoldi, lo storico cappellano del Beccaria: "I ragazzi hanno scoperto la forza del teatro, la capacità di esprimere le passioni che hanno dentro. E l’hip hop, una musica così nei loro gusti, ha fatto cadere le diffidenze". E a chi potrebbe storcere il naso all’idea di uno Shakespeare in versione rap, Akala risponde chiaro: "Invece molti dei suoi scritti, a cominciare pressoché da tutti i suoi sonetti, hanno un ritmo rap, sono un flusso di parole continuo, modernissimo, davvero paragonabile al flow che facciamo noi rapper. E lui, di estrazione era fuori dai giri che contavano, anche se poi era diventato un artista del popolo ed era riuscito a farsi accettare dal mondo accademico, a essere considerato arte. Esattamente come è capitato a noi rapper adesso. Ogni tradizione poetica, d’altronde, può benissimo essere aggiornata in seguito al linguaggio del tempo. E la forma più accessibile e contemporanea ora è sicuramente l’hip hop". Akala ci crede così tanto che nel 2009 ha fondato la compagnia Hip-Hop Shakespeare Company, patrocinata da Ian Mckellen, per far conoscere i versi del Bardo ai giovani delle disastrate periferie inglesi. "Ma, lo confesso, in una prigione non ero mai stato. Da noi in Inghilterra ci sono supponenza e diffidenza verso quel mondo. Invece un errore può capitare a chiunque, specie a una certa età e in una certa società, e William Shakespeare può essere un modo per iniziare a riflettere seriamente sulla vita che avranno davanti quando usciranno da qui". Ad aiutarli in questo pensa ad esempio Puntozero, associazione che da vent’anni opera all’interno del Beccaria collaboratori teatrali e tecnici, per provare a insegnare delle professionalità che torneranno utili una volta fuori dal carcere: "Diversi sono poi stati assunti da Scala e Piccolo", dice Lisa Mazoni, di Puntozero. Ora ha ristrutturato un teatro che era dismesso dal 1995, raggranellando i 500mila euro necessari: "Lo inaugureremo il prossimo 13 dicembre con la compagnia della Scala che verrà a mettere in scena la "Cenerentola", e i nostri ragazzi si mescoleranno ai tecnici della Scala. Sarà uno spettacolo aperto alla città a cui ne seguiranno altri ancora in fase di definizione". In più, i giovani del Beccaria di Puntozero saranno al Piccolo Teatro Studio dall’1 al 5 febbraio proprio con il "Sogno di una notte di mezza estate" diretto da Giuseppe Scutellà. Milano: il rapper Emis Killa canta in carcere con i detenuti di San Vittore Askanews, 15 novembre 2016 Rappano con lui, ballano, lo sfidano nel free style, si emozionano sognando la libertà. Emis Killa ha incontrato una settantina di detenuti under 25 al carcere di San Vittore a Milano, nell’ambito di un evento promosso della Comunità di Sant’Egidio. Il rapper milanese non ha mai nascosto di venire dalla strada. "Mi piace stare a contatto con i giovani, questi sono tutti ragazzi di strada e mi trovo a mio agio ed è una cosa che faccio molto volentieri. Spero di regalare loro un momento di aggregazione e di divertimento, magari per un momento con la testa possono essere fuori da qui, perché non è facile stare qui e quindi in realtà la mia mansione oggi è di regala un momento divertente e di spensieratezza". Lo dice e lo ripete, "io sono uno di voi". "Qualcuno lo conosco davvero, perché uscivamo tutti a Milano al Muretto che era un luogo di aggregazione in cui sono cresciuto artisticamente e ne combinavamo di tutti i colori". Un amico del tempi del Muretto lo ricorda con orgoglio. "Venivano vari rapper a sfidare Emiliano, ma non ce ne era per nessuno, perché lui era molto più bravo di loro. Sono molto contento che è arrivato, ha spaccato e rappresenta la compagnia, uno di noi è arrivato". Due dischi di platino, oltre 2.800.000 fan sui social, conduttore televisivo e radiofonico Emiliano Giambell, in arte Emis Killa, ammette di avercela fatta grazie alla musica. "A volte la noia e non avere una passione ti può portare a fare delle cose sbagliate, io per primo le ho fatte e potevo benissimo esserci qui io oggi dall’altra parte diciamo". I giovani di San Vittore hanno festeggiato Emis Killa che ha cantato con e per loro nel giorno del suo compleanno e poi ha ricambiato con un augurio speciale: "A tutti auguro di avere serenità, e una volta fuori da qui di non ricadere nella stessa trappola che poi ti riporta inevitabilmente qui dentro, perché c’è veramente gente che entra ed esce ed entra nel loop della galera, invece auguro loro di trovare qualcosa che li tiri fuori per davvero anche con la testa". Perché internet è sempre meno libero di Andrea Signorelli La Stampa, 15 novembre 2016 Due terzi degli utenti del mondo vivono in paesi in cui i social network sono sottoposti a censure. Crescono le nazioni in cui per un like su Facebook si può finire in carcere. Nati con la promessa di diffondere la libertà d’informazione in tutto il globo, internet e il world wide web si trovano invece sottoposti a restrizioni e censure sempre maggiori. Il report Freedom of the net 2016, appena pubblicato dal think tank Freedom House, mostra come il livello di libertà di internet nel mondo sia in declino per il sesto anno consecutivo, a causa della crescente repressione da parte dei governi. Nel report è stato analizzato il comportamento dei governi in 65 paesi del mondo, rappresentativi dell’88% della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, la Cina si è dimostrato il paese più restrittivo nei confronti della rete, seguita da nazioni come Siria e Iran (la Corea del Nord non è stata inclusa nel rapporto). L’Italia, nonostante riceva un punteggio inferiore rispetto al 2015 (forse a causa della contestata legge sul cyberbullismo, il cui iter non si è però ancora concluso), si inserisce tra i paesi che godono di maggiore libertà; gruppo guidato da Estonia e Islanda e di cui fanno parte le nazioni dell’America del nord, dell’Europa occidentale, oltre a Giappone, Australia, Sudafrica, Kenya e Filippine. Ma si tratta di un piccolo gruppo privilegiato: a vivere in paesi in cui internet è davvero libero è solo il 24% della popolazione globale, mentre ben il 64% vive in nazioni che non garantiscono la libertà della rete (tra cui vanno segnalate anche Russia e Turchia) oppure la garantiscono solo parzialmente, come l’India, il Messico o l’Ucraina. Nel 2016, inoltre, i governi autoritari hanno scoperto un nuovo nemico nei servizi di messaggistica istantanea, in particolare quelli che proteggono le comunicazioni con la crittografia come WhatsApp e Telegram. Durante il 2016, WhatsApp (il più colpito) è stato bloccato in ben 12 paesi, tra cui Bangladesh, Bahrain ed Etiopia; Telegram è invece stato fermato in Cina, dove stava diventando sempre più popolare tra i sostenitori dei diritti civili. I bersagli prediletti, però, rimangono sempre i social network: nel 2016 ben 24 governi hanno impedito l’accesso a Facebook, Twitter o altre piattaforme (erano 15 l’anno scorso), con il risultato che il livello di libertà su internet è peggiorato in 34 paesi sui 65 presi in considerazione. In particolare, il Brasile e la Turchia sono stati declassati da "parzialmente liberi" a "non liberi". Nel complesso, il 27% degli utenti di internet vive in paesi in cui è possibile venire arrestati per aver pubblicato, condiviso o anche solo messo un like a qualche contenuto sgradito su Facebook. Ad allarmare è anche il fatto che le nazioni che effettuano arresti per simili ragioni sono aumentate del 50% rispetto al 2013. Tra i casi più noti, viene ricordato l’arresto di uno studente 22enne in Egitto, condannato a tre anni di carcere per aver postato un’immagine del presidente al-Sisi con le orecchie di Topolino; mentre in Turchia un uomo ha ricevuto un anno di condanna (con pena sospesa) per aver affiancato delle foto di Erdogan ad alcune immagini di Gollum, il personaggio del Signore degli Anelli. Le cose vanno ancora peggio in Arabia Saudita, dove un uomo è stato condannato a 10 anni di prigione e 2mila frustate per aver diffuso l’ateismo attraverso i suoi tweet. Ma nel report vengono citati anche esempi positivi - provenienti da Argentina, Giordania, Nigeria e altri paesi ancora - in cui campagne politiche nate sui social network hanno avuto effetti concreti nel promuovere i diritti della comunità Lgbt, delle donne e nel diffondere gli ideali di giustizia sociale e libertà politica. Le stesse ragioni per cui, sempre di più, i governi autoritari vedono in internet un pericoloso nemico. L’avvocato che ha denunciato Facebook: "non rimuove i post razzisti per suo interesse" di Andrea Nepori La Stampa, 15 novembre 2016 Mentre qualcuno si chiede se Facebook non sia da ritenere, in parte, responsabile di aver diffuso notizie false su Hillary Clinton, favorendo l’elezione di Trump, il social network ha ben altri problemi nel Vecchio Continente. Mark Zuckerberg, la responsabile delle operazioni Sheryl Sandberg, il capo della policy europea Richard Allan e altri top manager di Facebook sono sotto inchiesta in Germania per il reato di incitamento all’odio razziale. L’accusa è quella di non aver agito in maniera efficace contro la diffusione di contenuti razzisti, xenofobi e antisemiti sulle bacheche e nei gruppi del social network. Le indagini preliminari avviate dalla procura di Monaco dovranno determinare se l’omesso controllo dei contenuti razzisti segnalati dagli utenti possa configurarsi come reato. L’azienda non vuole commentare l’indagine nel merito. Un portavoce ci ha tuttavia riferito che "le accuse sono infondate e non vi è stata alcuna violazione della legge tedesca da parte di Facebook o dei suoi dipendenti. Non c’è spazio per l’odio su Facebook. Altre indagini simili sono già state archiviate in passato". L’avvocato Chan-jo Jun, autore della denuncia che ha innescato l’indagine, non è d’accordo: secondo lui Facebook, pur avendo le possibilità di agire più efficacemente, non sta facendo abbastanza per rispettare le leggi tedesche. Pochi mesi fa, durante la sua visita a Berlino, Mark Zuckerberg aveva rivelato che in Germania lavora un team di 200 persone per filtrare contenuti razzisti. Cosa pensa di questa iniziativa? Facebook è sempre stata in grado di rispondere velocemente ma con una scarsa qualità. Questo aspetto non è migliorato in maniera significativa. Quando a settembre abbiamo segnalato contenuti che ritenevamo illegali, meno del 15% è stato rimosso alla prima notifica. Giusto di recente ho segnalato un’inserzione pubblicitaria per un negozio online di marijuana, una per lo shop di armi illegali Migrantenschrek (letteralmente "scaccia-migranti", è un e-commerce russo in lingua tedesca che vende scacciacani e altre armi a salve, nda) e un gruppo a favore dell’incesto. Nessuno di essi viola gli Standard della comunità. È un problema di policy interne, quindi, o secondo lei c’è di più? Quando il Policy Manager di Facebook Richard Allan è stato messo di fronte alla cancellazione dei contenuti sbagliati da parte del team di controllo, ha detto che i responsabili avrebbero meritato il licenziamento. Io credo invece che il lavoro venga svolto secondo le direttive e che siano proprio queste ultime a richiedere una revisione. Quando ho chiesto a un avvocato di Facebook perché i suoi clienti continuassero a pubblicare contenuti evidentemente illegali, la sua risposta è stata: "Non sempre seguono le nostre raccomandazioni". Facebook non è impossibilitata a soddisfare le richieste, semplicemente non lo vuole fare. Quindi i metodi usati da Menlo Park per filtrare i contenuti illegali sarebbero volontariamente fallati? Sì. È chiaramente una scelta del management di Facebook, che in Turchia soddisfa le richieste più assurde delle autorità, mentre in Germania no. Secondo lei perché? Il motivo è che non c’è stata sufficiente pressione contro l’azienda in Germania. Il Ministro della Giustizia, Heiko Maas, sta ancora offrendo un periodo di adeguamento per apportare cambiamenti volontari alle pratiche di controllo dei contenuti illegali. I risultati di uno studio condotto dai ricercatori del ministero della Giustizia tedesco mostrano che Facebook cancella in media solo il 47% dei contenuti razzisti segnalati dagli utenti. Twitter, contro cui tuttavia non è in corso alcuna indagine, ha ottemperato alle richieste solo nell’1% dei casi. Perché prendersela solo con Facebook? Ci siamo concentrati su Facebook perché non abbiamo abbastanza risorse per provare a perseguire anche Twitter e Google. E va considerato che l’impatto di Facebook è largamente superiore: si ricordi che movimenti xenofobi come Pegida sono emersi da gruppi Facebook. Qualche giorno fa il Guardasigilli parlava di ulteriori controlli da condurre nei prossimi mesi. Poi però è arrivata la notizia dell’indagine della Procura di Monaco. Come mai questo improvviso giro di vite? Nulla di improvviso. Appena resosi conto che i risultati del suo studio non erano soddisfacenti, Maas ha fatto sapere che gli sforzi fatti per limitare i contenuti illegali non stavano rispettando le promesse delle aziende. Va considerato che lo stesso ministro è sotto pressione, perché altri politici come Volker Kauder (CDU) e Winfried Bausback (CSU) stanno perdendo la pazienza. Perché avete denunciato Mark Zuckerberg, un cittadino americano, per reati potenzialmente commessi in Germania da una filiale della sua azienda? Quando non è chiaro chi sia la persona responsabile di un reato all’interno di un’azienda è pratica comune partire dal CEO per poi scendere lungo la scala gerarchica. Lo stesso principio è stato applicato nei casi contro Volkswagen e Deutsche Bank. Non abbiamo fatto il nome solo di Zuckerberg ma anche di altre figure rilevanti, come Siobhan Cummiskey, che è una semplice Policy Manager ma ha spiegato il lavoro di Facebook alla stampa lo scorso anno. Altri manager vivono e lavorano in Germania, così come i 200 dipendenti del team di Berlino. Si può tracciare un parallelo fra questo caso e quello di Diego Dzodan, il manager di Menlo Park arrestato in Brasile dopo che l’azienda aveva rifiutato di decifrare i messaggi Whatsapp di un sospettato in un caso d’omicidio? Non credo, non per il caso attuale. Per un incensurato la carcerazione è improbabile, se prova di aver agito in buona fede. Se tuttavia le pratiche illegali continueranno, non escludo che in futuro degli arresti siano possibili. Per il favoreggiamento all’odio razziale la legge prevede fino a cinque anni di carcere. Sarebbe tuttavia considerato un atto estremamente ostile e non credo che il sistema giudiziario tedesco potrebbe svincolarsi dalle eventuali implicazioni politiche. Pensa che questo caso possa diventare un precedente a livello internazionale? Non sarebbe legalmente vincolante per altri Paesi, ovviamente, tuttavia è un ottimo caso di studio per rispondere alla domanda "possiamo costringere Facebook ad adattarsi alle leggi locali?". Se la Germania avrà la meglio, sono sicuro che altre nazioni seguiranno l’esempio. Una denuncia analoga alla nostra è già stata depositata in Austria la scorsa settimana. Cosa dovrebbe fare Facebook per liberarsi dalle attuali accuse? Semplicemente rispettare la legge tedesca. Ebay e Amazon hanno adeguato il proprio business model alle regole dei paesi in cui operano. Non c’è nessuna ragione per cui Facebook non possa fare lo stesso. Unione Europea: da Bruxelles primo sì alla difesa comune Il Manifesto, 15 novembre 2016 Via libera dei ministri di Esteri e Difesa al piano (ridotto) presentato da Federica Mogherini. Per dirla con le parole del ministero degli Esteri Paolo Gentiloni "nessuno si messo di traverso", neanche la Gran Bretagna che pure solo fino a due giorni fa storceva la bocca ma che invece - probabilmente perché in uscita dell’Ue - alla fine ha preferito non interferire. E così l’idea che l’Europa possa in tempi non lunghissimi dar vita a un sistema di difesa comune ha fatto ieri un primo passo a Bruxelles, dove il progetto è stato discusso nel vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa. Quella che ha ottenuto il via libera è una versione limitata rispetto al piano messo a punto dalla rappresentante della politica estera Ue Federica Mogherini, ma in compenso ha riscosso un favore unanime, paesi dell’est compresi. Nella sua versione originale, discussa anche nel vertice di Bratislava di settembre, il piano prevedeva la creazione di unità multinazionali di intervento rapido da utilizzare - sotto la guida di un numero ristretto di Paesi - nelle situazioni di crisi internazionali, nonché la costituzione di una quartier generale a Bruxelles. "Il passo del programma che è stato varato prevede alcuni passaggi", ha spiegato invece ieri Gentiloni. "In primo luogo la creazione di una struttura centrale di pianificazione europea, che non è ancora uno Stato maggiore europeo ma che è la premessa". Poi "un coordinamento delle attività di ricerca e sviluppo il cui obiettivo è ridurre le sovrapposizioni e le spese per l’industria militare". Infine "la messa in comune di assetti su alcune questioni strategiche come l’intelligence, la copertura satellitare, i droni, i trasporti strategici, cioè le cornici comuni fondamentali per le azioni militari". L’intero pacchetto di proposte dovrà adesso ricevere l’approvazione definitiva nel vertice dei capi di stato e di governo che si terrà a dicembre. Secondo Gentiloni è stata la Brexit a dare la spinta necessaria perché, dopo decenni di tentativi finiti nel vuoto, si potesse passare a delle proposte concrete in materia di difesa comune. La Gran Bretagna si è infatti sempre detta contraria alla costituzione di un esercito europeo, visto come un di più rispetto alla Nato, ostacolo che adesso viene a mancare. A questo va però aggiunto che - al di là delle dovute cautele diplomatiche - l’elezione di Donald Trump non rassicura affatto i partner europei circa le intenzioni del nuovo presidente americano. Colpisce che l’unico politico del Vecchio continente incontrato dal giorno dell’elezione sia stato un antieuropeista come il leader dell’Ukip Nigel Farage. E preoccupano le affermazioni fatte da Trump circa il futuro della Nato, la richiesta agli europei di una maggiore partecipazione alle sue spese e, soprattutto, l’annunciata intenzione di non interferire in eventuali piani di Putin nei paesi baltici. Ipotesi che non spaventa solo Estonia, Lituania e Lettonia, tre paesi che fanno parte dell’Alleanza e dalla quale dipendono per la loro difesa, ma l’intera Europa orientale. Tutti elementi che alla fine hanno spinto i governi europei a mettere da parte le resistenze procedendo in direzione di una difesa comune nei confronti dell’Isis ma anche delle crisi del vicinato. Seppure con un piano limitato rispetto alle intenzioni, ma comunque definito dalla Mogherini come "ambizioso, concreto e pragmatico", e soprattutto "preparato a tempo di record". Quello che probabilmente nascerà nella prossima primavera non sarà dunque un esercito europeo e inizialmente potrà avere l’adesione solo di alcuni Paesi e non di tutti gli stati membri dell’Unione (come previsto dai Trattati) dando così vita a una sorta di Schengen della difesa. Non sarà però neanche una sovrapposizione della Nato, il cui ruolo ieri a Bruxelles nessuno si è sognato di mettere in discussione. Siria. Ankara sulla via per Aleppo ma i suoi "ribelli" si scontrano tra loro di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 novembre 2016 La Turchia prova a mostrarsi come alleato credibile nella lotta all’Isis. Ad Aleppo avanzata del governo, mentre la Russia incrementa la flotta. Le navi da guerra russe lungo la costa siriana aumentano. Ce ne sono almeno 20, più parecchi sottomarini e una portaerei, dicono alla Nato: "Stanno dispiegando tutta la Flotta settentrionale e parte della Flotta baltica". C’è chi dietro ci legge una prossima escalation della guerra siriana, chi una dimostrazione simbolica di potenza militare. Una provocazione più che un’effettiva bocca di fuoco perché non sarebbe conveniente usare la flotta per colpire Aleppo. È qui che lo scontro si intensifica: dopo aver cacciato le opposizioni dai quartieri occidentali occupati 10 giorni fa, domenica l’esercito governativo ha spostato il campo di battaglia nel quartiere est di Karam al-Turab e l’area di Al-Aziza, a sud est. Alle opposizioni è stato dato un ultimatum tramite sms nei telefoni dei residenti: 24 ore per lasciare Aleppo. Un giorno dopo, ieri, raid aerei hanno colpito i quartieri est. Sopra Aleppo non volano gli aerei russi, assenti dal 18 ottobre. Colpiscono invece ad Idlib, in mano all’ex al-Nusra, e prepara le navi. È possibile che la Russia stia apparecchiando il tavolo in vista del cambio della guardia alla Casa Bianca: se il presidente eletto Usa Trump abbandonerà davvero le opposizioni su cui Washington ha investito miliardi di dollari, il conflitto potrebbe cambiare faccia. Un eventuale asse Turchia-Usa-Russia farebbe esplodere le contraddizioni che accompagnano da sei anni la crisi. Chi si muove con più fervore è proprio Ankara che intende sfruttare il favore che Trump gli riserva. Ierii "ribelli" siriani hanno lanciato un’offensiva verso al-Bab. Dal cielo a coprirli sono i raid aerei turchi sulla cittadina considerata via di transito di uomini e armi a favore dello Stato Islamico. In poche ore, riporta la stampa locale, sono stati distrutti due centri militari, un deposito di armi e due quartier generali dall’Isis. Quando vuole, Ankara riesce a centrare gli islamisti: da agosto ad oggi le truppe turche in Siria hanno preso di mira quasi sempre i kurdi di Rojava. Stavolta però ci si deve avvicinare ad Aleppo e mostrarsi a Trump come alleato affidabile nella lotta all’Isis, magari soppiantando a Raqqa le Forze Democratiche Siriane nel cuore di Washington. Presa al-Bab Ankara potrà reclamare come area sotto la propria influenza tutto il corridoio dal confine occidentale con il proprio territorio fino a Jarabulus, sull’Eufrate, a due passi da Kobane. A indebolire i piani turchi sono le faide interne alle opposizioni: ieri Ankara ha dovuto chiudere il confine di Oncupinar per violenti scontri tra alcune unità dell’Esercito Libero e altre unità sostenute dai salafiti di Ahrar al-Sham per il controllo della cittadina di Azaz e del valico di frontiera di Bab al-Salam. Afghanistan. La Cpi denuncia "detenuti torturati da esercito Usa" rainews.it, 15 novembre 2016 Secondo la Corte penale internazionale esisterebbero prove di crimini di guerra come la tortura, da parte dell’esercito americano e della Cia, a detenuti in Afghanistan. Le forze armate Usa, secondo un rapporto esaminato dalla Cpi "sembrano aver sottoposto a tortura almeno 61 persone in Afghanistan, tra il 2003-2004" e agenti CIA potrebbero aver torturato almeno 27 prigionieri nel paese. I procuratori decideranno "presto" se chiedere l’autorizzazione all’apertura di un’indagine per crimini di guerra. Iran. Il regista Keywan Karimi in carcere per "oltraggio all’Islam" di Giona A. Nazzaro Il Manifesto, 15 novembre 2016 Sconterà 1 anno e 223 frustate per "Oltraggio all’Islam" il cineasta iraniano autore del film "Writing on the City" e di "Drum": "Per Panahi si sono mobilitati tutti - spiega - io temo di restare solo". "Volevo dirti che lunedì entro in prigione. Mi hanno avvisato che devo presentarmi". Incredulità. Silenzio. Poi il coraggio di dire una cosa stupidissima pur di spezzare il silenzio sulla conversazione in wifi. "Sei sicuro? È definitiva? Non è che rimandano ancora?". "Sì, è definitivo. Non c’è niente da fare. Per un anno dovrò stare in prigione. Non c’è altro da fare". Keywan Karimi, autore del documentario Writing on the City e di Drum, suo esordio nella finzione presentato nell’ambito della 31esima edizione della Settimana della Critica di Venezia, è rassegnato. Il suo calvario, fatto di convocazioni, interrogatori e minacce, trova la sua brutale conclusione nella conferma di un anno di prigione a causa del suo documentario che racconta la storia della repubblica islamica a partire dalla rivoluzione sino al secondo mandato di Ahmadinejad. Accusato di oltraggio all’Islam e offesa allo Stato, Karimi si è visto prima condannato a sei anni di carcere, poi ridotti a uno, e a 223 frustate. Nonostatne le pressioni esercitate e la presenza del suo film a Venezia, la comunità internazionale del cinema non ha risposto con la forza e la determinazione che la gravità della situazione avrebbe legittimamente richiesto. Più volte Karimi ha denunciato il suo sentirsi isolato dal mondo del cinema, non solo iraniano. E adesso il silenzio che circonda la sua condanna è ancora più insostenibile perché si associa inevitabilmente a un sentimento di impotenza e frustrazione. "Non ho paura di andare in prigione", spiegava al telefono. "Mi spaventano le frustate. Non so come potrò reagire. Sono molto spaventato. All’idea di vivere per un anno in prigione mi ci posso abituare, ma le frustate mi fanno paura. Non so che fare". L’assurdità di parlare con una persona, un artista, un creatore, un cineasta, un poeta, minacciato di carcere e frustate, è atroce. I limiti di un pensiero, occidentale e non solo, che di fronte a queste violazioni dei diritti fondamentali non può fare altro che restare impotente, è una delle molte contraddizioni della nostra "libertà". "Non capisco perché la gente non parla del mio caso", mi dice Karimi. "Per Panahi si sono mobilitati tutti. Io invece sono solo…". A questa domanda, legittima, di Karimi, si può rispondere parzialmente, anche se resta comunque inaccettabile, che il suo essere curdo pesa come un macigno sulla sua situazione e sul silenzio del resto del mondo. "Sì, temo anche io che il mio essere curdo pesi molto nella mia situazione…". Ora, nell’incertezza di fonti ufficiali, e nell’impossibilità di raggiungere Keywan Karimi, per accertarsi della sua incolumità, non resta che aumentare ulteriormente la vigilanza democratica e tentare di sensibilizzare al massimo il mondo civile e culturale nei confronti della situazione di Keywan Karimi. Inquieta inoltre la coincidenza fra le date dell’arresto del regista e il festival del documentario che fra qualche settimana inizia a Tehran. Come a volere lanciare un monito a quanti, cineasti e artisti, in prossimità anche delle prossime elezioni, pensavano di far sentire la loro voce. Ancora una volta le contraddizioni della società iraniana, ben più complesse di quanto un’analisi superficiale possa permettere di immaginare, ricadono sulla testa di quanti tentano di porsi al di là dei ragionamenti ufficiali. In questo senso Drum, l’esordio di Karimi nella finzione, con il suo approccio quasi fassbinderiano al racconto delle trasformazioni urbane e architettoniche di Teheran, offre semmai un ulteriore motivazione politica. In questo quadro di atroce incertezza, nel quale Keywan Karimi annuncia di dovere entrare in prigione oggi, e a fronte dell’assenza di qualsiasi conferma ufficiale, non si può non chiedere a tutti di alzare al massimo la soglia della vigilanza. Ed è fondamentale che Writing on the City e Drum siano proiettati in quante più situazioni possibili. L’appello pertanto va soprattutto ai programmatori, agli operatori culturali e ai festival. Chiudere gli occhi non è possibile. A meno che non sia voglia essere complici di questo crimine. Mi raccomando", chiede Keywan Karimi, "fai tutto quello che puoi per fare sapere della mia situazione. Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile". Olanda. Le carceri chiudono per mancanza di detenuti di Andrea De Vizio blastingnews.com, 15 novembre 2016 Contrariamente a quanto accade in molti Paesi, nei Paesi Bassi i penitenziari chiudono, ma c’è chi si oppone a questo fenomeno. I numeri indicano una tendenza chiara e difficilmente reversibile. I detenuti nelle carceri olandesi sono passati da circa 14 mila nel 2005 a poco più di 8 mila nel 2015. Leggendo questi dati da un’altra prospettiva, parliamo di 57 detenuti su 100 mila abitanti; nel 2006 se ne contavano 125. Osserviamo dunque che una terza parte delle celle nei penitenziari olandesi risulta essere disabitata, al punto che le stesse si affittano, ospitando detenuti provenienti da altri Paesi, soprattutto dalla Norvegia e dal Belgio. Questi ultimi hanno pagato 25.5 milioni di euro per raggiungere l’accordo sul trasferimento dei propri detenuti nei Paesi Bassi. Ci troviamo di fronte ad un miracolo? Certamente no. Il risultato è frutto di un lavoro strategico e preventivo effettuato dalle autorità olandesi. Infatti, molti trafficanti di droga sono stati identificati già all’arrivo in aeroporto, attraverso moderni sistemi di screening. Inoltre, si è deciso di concentrare gli sforzi degli agenti su attività criminali quali il terrorismo e il traffico di organi e non su altri reati. All’interno delle carceri si cerca di trattare i detenuti in modo individuale, cercando di comprenderne le ragioni che li hanno indotti a commettere un determinato reato e, in tal modo, facilitarne una vera rieducazione. Un lavoro psicologico insomma che sembra portare enormi benefici. Si vedono dunque detenuti che partecipano a corsi di cucina con tanto di coltelli potenzialmente pericolosi o impegnati in lavori socialmente utili; per non parlare poi di biblioteche, attività all’aperto e celle dotate di video camere e Skype, volte a non far perdere il contatto con il mondo esterno. Alcuni di essi sono ritornati presso le rispettive famiglie o hanno scontato la pena in una maniera alternativa al carcere, causando per l’appunto una diminuzione considerevole del numero di detenuti nelle prigioni. Tutto questo fa sì che tali individui (restano tali anche se hanno sbagliato, non dimentichiamolo!) si sentano ancora cittadini e non più prigionieri e credano davvero nella possibilità di avere una seconda opportunità di reinserimento nella società civile. Quanto alle carceri non più operative, sono state convertite in centri per anziani o addirittura hotel di lusso, creando così posti di lavoro per quelli che nelle carceri ci lavoravano da impiegati. I detrattori di questo fenomeno lo criticano, parlando di una sorta di negligenza da parte delle forze dell’ordine che, avendo visto ridotto il budget a loro disposizione, semplicemente non puniscono più i malviventi come accadeva in passato. Al di là della propaganda di parte, è difficile non riconoscere risultati che oggettivamente dimostrano come questo sia un grande successo per l’Olanda ed un concreto passo avanti nel modo in cui si gestiscono le carceri ed i detenuti. Sarebbe auspicabile che anche altri Paesi, in Europa e nel resto del mondo, ne prendano esempio. Il progresso e la civiltà di una comunità si misurano anche da questo. Cina. Eseguita la condanna a morte del giovane che aveva ucciso per amore di Angelo Aquaro La Repubblica, 15 novembre 2016 Il ragazzo aveva ammazzato il capo del suo villaggio che aveva fatto distruggere la casa dove doveva sposarsi. Il caso aveva suscitato forti reazioni contro la sentenza alla pena capitale da parte di attivisti, giuristi ed esperti, anche all’interno del regime cinese. La misericordia è una cosa dell’altro mondo in questo mondo: lo diceva don Giussani, e figuriamoci che cosa avrebbe detto di questa parte di mondo chiamata Cina. La pena di morte qui non fa più notizia da tempo: Pechino, dice Amnesty International, uccide per legge più di tutti gli altri paesi messi insieme. Ma l’esecuzione di Jia Jinglong non aggiunge soltanto un numero alla fila interminabile dei condannati che nel 2013, ultimi dati disponibili, ha raggiunto la cifra record di 2400 persone. Il caso era stato l’ennesimo a sollevare le proteste di giuristi ed esperti, tiepidamente condivisa perfino dai giornali di partito come Global Times, quando il 18 ottobre era arrivato il via libera all’esecuzione, e il ragazzo era diventato l’ennesimo dead man walking. La storia di Jia era quella tragica di un povero giovanotto di provincia colpevole di un crimine orribile, ci mancherebbe, l’assassinio del capo del suo villaggio nella provincia dell’Hebei, però concepito per vendetta, anzi prima di tutto per amore, dopo che quello gli aveva fatto demolire la casa dove doveva sposarsi. Sembra una storiella invece è il ritratto dell’altra faccia della Cina: quella delle campagne dove però l’avidità per la terra non è mica inferiore a quelle dei signori dei real estate nelle metropoli. Il capo villaggio aveva bisogno del pezzetto dove viveva Jia per costruirci su un appartamento. La famiglia del ragazzo si era piegata al sopruso, visto che inchieste successive hanno provato i maneggi amministrativi del capetto. Jia no, e da allora era praticamente impazzito quando la demolizione era andata avanti. Un ragazzo distrutto: la fidanzata che lo lascia, il lavoro perso, la testa ormai completamente fuori. Fino a prendere una sparachiodi e scaricarla sull’uomo che, pensava, gli aveva distrutto la vita. Ancora stamattina i giornali di qui riportavano la notizia dell’ultimo appello presentato alla Corte suprema da un gruppo di giuristi: mica contro la pena di morte, ci mancherebbe, ma perché il verdetto di revisione del caso che la Corte stessa aveva dato "viola gli standard del paese sulla pena di morte ed è contro la politica di usarla con cautela". Espressioni che da qualche altra parte del mondo faranno anche amaramente sorridere, ma qui riflettono parole pesanti come piete, scagliate da gente come Jian Ping, uno dei più grandi luminari di diritto, professore alla China University of Political Science. La politica della "cautela", del resto, è stata davvero fortemente caldeggiata dal regime negli ultimi anni, preoccupato di mettere un freno all’uso troppo facile: tanto più in questo caso, dove la storia del povero ragazzo vittima dei soprusi del capo villaggio sembrava esemplificare quella corruzione degli apparati denunciata dal presidente Xi Jinping. Il caso aveva infiammato anche i social media, appassionatisi alla vicenda del ragazzo che aveva ucciso "per amore", e naturalmente aveva scatenato gli attivisti di mezzo mondo, cavalcato soprattutto dai media anglosassoni. Ma le poche righe della notizia dell’esecuzione, battuta in cinese alle 10 del mattino dall’agenzia Xinhua, hanno spento ogni speranza: "La corte d’Appello di Shijazhuang ha eseguito la pena di morte per l’omicida Jia Jinglong. Prima dell’esecuzione, la Corte gli ha permesso di incontrarsi con i suoi famigliari, secondo quanto previsto della legge". Secondo quanto previsto dalla legge: la misericordia è una cosa dell’altro mondo in questo mondo.