Una cooperativa che lavora "dal carcere al territorio" Mattino di Padova, 14 novembre 2016 Il motto della cooperativa sociale AltraCittà è "dal carcere al territorio". Tra carcere e territorio la cooperativa costruisce dal 2003 per e con le persone detenute percorsi di formazione e autoformazione, di lavoro, di inserimento sociale, di conoscenza. È formata da trentaquattro soci e ha trenta lavoratori dipendenti (di cui 22 detenuti o ex detenuti). Dal 2004 ad oggi ha accompagnato al lavoro 75 persone detenute. Gestisce nella Casa di Reclusione di Padova laboratori di legatoria e cartotecnica, digitalizzazione e rassegna stampa, assemblaggio (in collaborazione con FischerItalia), inoltre le biblioteche della Casa di Reclusione e della Casa Circondariale di Padova. Nel territorio ha un negozio, AltraVetrina, e un laboratorio di legatoria, a Padova in via Montà 182; ha convenzioni con numerosi enti della città e della provincia per il restauro della carta e del libro, per il riordino e la gestione di archivi e biblioteche, per servizi cimiteriali. AltraCittà al lavoro nell’archivio dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie Sono trascorse da poco le nove del mattino, Francesco e Walter controllano il contenuto di grossi scatoloni. Al loro interno, faldoni da classificare e collocare. Siamo a Legnaro, nella sede dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, un ente pubblico di ricerca impegnato nella sicurezza alimentare e nella salute animale. Non è il primo appalto/incarico di gestione degli archivi vinto dalla cooperativa sociale AltraCittà: ci sono anche quello delle attività sociali del Comune di Padova e l’Archivio di Stato, solo per citarne alcuni. Il luogo di lavoro qui a Legnaro è l’archivio di deposito, dove transitano tutti gli scatoloni colmi di faldoni, lo scopo finale è permettere di conservare e consultare all’occorrenza tutte le documentazioni prodotte dall’ente nel tempo. Smistare, schedare e collocare: questo in sintesi il lavoro della cooperativa. È iniziato tutto con un appalto biennale nel settembre 2013. "Per due anni abbiamo lavorato per sistemare l’archivio storico. Decenni di attività di ricerca accatastati senza criterio in una gigantesca soffitta, parliamo di milioni di dati", racconta Valentina detta Valle (perché di Valentine in coop ce ne sono due), vicepresidente della cooperativa. L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie è un ente imponente dove transitano migliaia di persone ogni anno. Prima dell’arrivo della cooperativa, l’archivio di deposito e quello storico avevano le sembianze di un girone dantesco. Era complicato persino muoversi, così i dipendenti erano costretti a cercare i faldoni nella confusione totale, confidando nella propria memoria e nella buona sorte. Adesso è un vero e proprio archivio funzionale, tutto è schedato e si può procedere, finita l’emergenza, a gestire il corrente. Spesso i documenti vengono prelevati direttamente dagli uffici. "Ci chiamano per ritirare il materiale e noi andiamo. Lo schediamo, lo riordiniamo e cerchiamo una collocazione definitiva", conclude Valentina. Il primo incarico è stato conferito in via diretta. Poi, l’estate del 2015, l’Istituto ha indetto una nuova gara per la gestione biennale, vinta da AltraCittà che ha superato altri due concorrenti. La nota più bella è che tra i criteri del bando non c’era l’aver già lavorato presso l’ente. "Qualità del lavoro, partecipazione di persone svantaggiate e convenienza dell’offerta, questi i criteri principali. Vincere è stata una grande soddisfazione", confida Sabina, supervisore. La squadra è diretta da Mirko, archivista professionista, mente e coordinatore di tutto; poi ci sono Melissa, Sabina e Valentina, supervisori, che gestiscono da vicino la parte logistica del lavoro. Infine c’è la sezione operativa, impegnata nelle attività fisiche di trasporto e collocamento. In tre anni, hanno lavorato nella gestione dell’archivio in dieci tra detenuti ed ex detenuti. Molti hanno già interamente scontato la loro pena, sono uomini liberi e ottimi lavoratori. Come Francesco e Walter. All’inizio c’era diffidenza nei loro confronti, nonostante Rossella, presidente di AltraCittà, abbia organizzato un incontro di presentazione all’interno dell’Istituto. Poi però si rompe il ghiaccio, ci si conosce e si finisce per affezionarsi. Walter ad esempio lavora lì da due anni: "Non ho mai lavorato così tanto", racconta sorridendo. Ha iniziato a collaborare con AltraCittà quando ancora era dentro il carcere, svolgendo prima un periodo di volontariato nella biblioteca e occupandosi di digitalizzazione e rassegna stampa poi. Oggi è un uomo libero e lavora in pianta stabile presso l’archivio dell’Istituto. "All’inizio mi sentivo un po’ disorientato, soprattutto nel relazionarmi con le persone", aggiunge. Si è ambientato presto però, il lavoro aiuta anche in questo. Tra selezione e sfoltimento procede la mattinata. Verso le undici, la squadra si trasferisce nel padiglione di chimica, dove l’ente svolge i controlli sugli alimenti. C’è parecchio lavoro da fare, così Francesco e Walter riempiono un montacarichi con scatoloni da portare nell’archivio di deposito. Lì le scatole vengono aperte e i documenti visionati uno a uno, si comunica il contenuto e si procede a sfoltire e quindi catalogare il tutto. La gestione dell’archivio è un’attività fondamentale, soprattutto per un ente di ricerca. Non ci sono solo scartoffie burocratiche in attesa di essere smaltite dopo alcuni decenni, vengono conservati anche i risultati delle analisi e degli studi realizzati. Tutto ciò richiede professionalità e precisione, e la cooperativa risponde a questa esigenza. Oramai, infatti, sono diversi anni che AltraCittà si è specializzata nel settore. Un faldone dopo l’altro, ogni documento deve essere collocato definitivamente. Si crea così altro spazio, altre scatole da prendere in gestione. Altro lavoro da svolgere, sempre dal carcere al territorio, a dimostrazione che un altro modo di vivere questa città è non solo possibile, ma funziona. Dal carcere... alla gestione di tre cimiteri "Vedi quel cipresso" indicano Francesco e Walter "necessita di una potatura urgente". Tosare erba e siepi, potare cipressi e piante e curare la pulizia dei pavimenti e dei viali: questo in sintesi il lavoro di AltraCittà nel cimitero di San Giorgio in Bosco. Un lavoro che tutti i pomeriggi portiamo avanti, grazie al contributo di Francesco e Walter. "Sono circa sei anni che ci occupiamo della gestione dei cimiteri", racconta Francesco, socio storico della cooperativa e responsabile dei lavori di giardinaggio nel cimitero, "non ci occupiamo solo della cura del verde e della pulizia, ma offriamo anche supporto nelle funzioni funebri, occupandoci ad esempio di messa in posa dei marmi e tumulazioni". Pulizia e cura degli ambienti si protraggono anche alle zone perimetrali esterne. Un viale alberato e ben curato è importante tanto quanto un cimitero ordinato e pulito. Il cimitero rappresenta un luogo speciale nella cultura popolare italiana, tanto più nei piccoli paesi, dove il legame con parenti e antenati mantiene ancora un ruolo importante. Per questo la cura degli spazi cimiteriali è da sempre considerata fondamentale per le amministrazioni locali. AltraCittà lo sa bene e presta attenzione a tali incarichi. Attualmente si occupa della cura di tre cimiteri, quello di San Giorgio in Bosco e di altre due frazioni dello stesso paese. Spesso le competenze nei mestieri nascono da antiche abitudini o da passioni. È così anche per Francesco, un passato nell’agricoltura. Le sue origini rurali e l’hobby del giardinaggio hanno contribuito a fornirgli quelle competenze nella gestione del verde oggi indispensabili per il lavoro che svolge presso i cimiteri. Nel 2008, da persona detenuta, ha iniziato a occuparsi di lavori di giardinaggio presso le aree pubbliche del Comune. Quindi si è specializzato nel settore cimiteri e oggi, da persona libera, ne è responsabile per conto della cooperativa. E così, pomeriggio dopo pomeriggio, Francesco e Walter si prendono cura degli spazi cimiteriali del Comune. E quando il sole si accinge a calare raccolgono tutto il materiale e lo caricano nel furgone, lasciandosi alle spalle quel che resta del lavoro svolto da AltraCittà a San Giorgio in Bosco. Carceri, l’urgenza dell’umanizzazione della pena di Chiara Formica 2duerighe.com, 14 novembre 2016 È accaduto di nuovo, lunedì 7 novembre: ancora una volta un detenuto ha tentato il suicidio. Stavolta si tratta di un collaboratore di giustizia campano, recluso nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, nel quartiere le Vallette. Ha 39 anni, napoletano, detenuto per associazione mafiosa, omicidio e detenzione di armi. Si è impiccato ad una finestra, la notte di lunedì scorso. Ha utilizzato i lacci delle scarpe, fissate alle grate della finestra del bagno della sua cella, dove è rimasto rinchiuso. L’intervento delle guardie penitenziarie è stato tempestivo: ha impedito che il detenuto morisse ma le sue condizioni sono molto gravi, è in prognosi riservata, al momento in coma farmacologico, all’ospedale Maria Vittoria di Torino. Nonostante la tempestività delle guardie penitenziarie, è stata da subito, e ancora una volta, denunciata la mancanza di organico all’interno delle carceri italiane. A rendere noto l’accaduto, infatti, è l’Osapp, sindacato di Polizia Penitenziaria: "Servono interventi urgenti - dichiara il segretario generale Leo Beneduci - sul sistema delle carceri italiane e piemontesi, ormai connotato da profonda disorganizzazione a cui solo la professionalità degli agenti di polizia penitenziaria riesce a supplire arginando il fenomeno. Continuiamo a essere nel caos più totale: tra aggressioni, danneggiamenti, detenuti che compiono atti inconsulti, mancanza di vestiario per il personale, mancanza di mezzi e pessime condizioni igieniche e qualitative delle mense di servizio". La casa circondariale delle Vallette, che sorge tra le case popolari e la tangenziale, è confinata nella periferia torinese, lontano da occhi attenti, nascosta il più possibile dalla città per bene, borghese. È uno dei carceri più grande e complesso d’Italia: oltre mille detenuti e altrettanto personale operativo. La carenza di organico e il sovraffollamento - una delle più grandi emergenze del sistema penitenziario italiano - sono la causa scatenante delle condizioni disumane in cui versano i detenuti: nel 2009, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per trattamenti inumani nei confronti di un recluso, che aveva trascorso un periodo di detenzione, usufruendo, in cella, di uno spazio vitale inferiore a 3 mq. Nel gennaio 2010 il Governo italiano dichiara lo "stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale". Ancora nel 2013, la Corte Europea di Strasburgo condanna l’Italia per il ritardo nella risoluzione del problema, in nome della, ormai nota, Sentenza Torreggiani. Il malfunzionamento del sistema penitenziario e dell’amministrazione carceraria influisce sull’equilibrio psico-fisico di agenti e detenuti. È la Corte costituzionale, infatti, che precisa quanto segue: "chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale". Il compimento di gesti inconsulti ed estremi come quello di togliersi la vita simboleggia il disagio esistenziale e il riverbero tragico della prigionia, sulla coscienza del detenuto. Dopo il 2013, lo stato di emergenza relativo all’eccessivo affollamento delle carceri si è di molto stemperato, rendendo più vivibile la detenzione, ma come spiega il leader nazionale del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria "dal 1992 al 30 giugno 2016 il Personale di Polizia Penitenziaria delle carceri italiane ha salvato la vita, in tutta Italia, ad oltre 20.260 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 142mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo". L’amministrazione del sistema penitenziario ha per troppo tempo dimenticato e continua a dimenticare che la pena è, al contempo, afflittiva e rieducativa: deve punire il reo, che ha rotto il patto sociale, che ha violato le leggi, mettendo a rischio o ledendo totalmente la sicurezza personale e sociale degli altri cittadini, ma contemporaneamente la pena è rieducativa, deve tendere alla risocializzazione del detenuto. Gli anni di reclusione non possono ridursi a 20-22 ore al giorno di ozio forzato, che costringono i detenuti in uno spazio angusto e troppo ristretto, tale da non consentire i liberi, minimi spostamenti. Il reinserimento sociale è frastagliato da numerosi e radicali pregiudizi che spesso escludono definitivamente il reo dal tessuto sociale. È così che la prigione diventa discarica umana e sociale, dove la quasi totalità dei detenuti è composta da immigrati e tossicodipendenti, e questo non può essere un caso. Concludo con una citazione di Castellano e Stasio, in Diritti e castighi: "l’insostenibilità del carcere fa ammalare anche chi è in buona salute. Non a caso la prigione è l’unico luogo in cui si apre una cartella clinica a una persona sana, che non è malata, ma che probabilmente lo diventerà. Se la salute è un diritto fondamentale - e lo è - il carcere non può essere un posto in cui ci si ammala. È una contraddizione in termini". Le carceri italiane costano 2,6 miliardi, record di spesa in Ue siciliainformazioni.com, 14 novembre 2016 Quasi 2,6 mld di euro. Sono questi i soldi che ogni anno la collettività spende per i detenuti nelle carceri italiane. Un totale che deriva dal costo medio giornaliero di ognuno degli oltre 50mila detenuti nei penitenziari nazionali, secondo i dati del 2016. È quanto emerge elaborando i numeri resi noti da Openpolis nel minidossier "Dentro o fuori - Il sistema penitenziario italiano tra vita in carcere e reinserimento sociale". Un costo che potrebbe vedere una netta diminuzione in caso si arrivasse a provvedimenti di indulto o amnistia, come quelli nei cassetti della Commissione Giustizia del Senato, dove sono quattro i disegni di legge all’esame. Per gli "ospiti" dei penitenziari italiani si spendono poco più di 140 euro al giorno (141,80 nel 2014): di questi, meno di 10 euro servono per mantenere i detenuti, mentre oltre 100 euro servono a coprire le spese per il personale. Le spese per beni e servizi comprendono le utenze, la manutenzione ordinaria degli immobili, la formazione del personale, i rimborsi per le trasferte, l’uso dei mezzi di trasporto. Un costo che, dopo essere salito fino a 190 euro nel 2007, risulta compresso di molto tra 2009 e 2011, sia per i tagli al bilancio sia per l’aumento dei carcerati e nel 2013 si attestava attorno ai 124 euro. Dai dati del 2014, l’Italia risulta il paese dove il costo giornaliero per detenuto è più alto (141,80 euro). Tra i paesi europei, seguono il sistema penitenziario inglese (109,72 euro), quello francese (100,47 euro) e quello spagnolo (52,59 euro per carcerato al giorno). In Italia, inoltre, c’è il maggior numero di dipendenti dell’amministrazione penitenziaria in rapporto ai detenuti (40.176). Per ogni dipendente dell’amministrazione penitenziaria ci sono 1,4 detenuti, mentre sono 1,5 i carcerati per ogni agente di custodia. Altra caratteristica del sistema penitenziario italiano è che i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia (90,1%). In Inghilterra e Spagna il personale ha una formazione più eterogenea, con maggiore presenza di insegnanti, formatori professionali, mediatori culturali, psicologi. Ventimila detenuti che fanno lo sciopero della fame sono o no una notizia? di Valter Vecellio articolo21.org, 14 novembre 2016 L’avere in tasca un tesserino rosso non fa, per questo, nessuno di noi dei veggenti, nessuno di noi ha la palla di cristallo che consente di "vedere" il futuro. Il presente, però sì: dovremmo cercare almeno di fotografarlo; di raccontarlo riferendo fatti, quello che accade. Perché questa premessa? Non certo per rimproverare a nessuno la "sorpresa" delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, anche se, forse, molti di noi avrebbero dovuto superare pigrizie, e non limitarsi ad ascoltare il professore della Columbia o il giornalista del "NYT"; non sarebbe stato male oltrepassare il Washington Bridge, e dare un’occhiata un po’ più in là, verso Ovest. Ma questo è discorso che rischia di portarci lontano, anche se prima o poi si dovrà fare qualche riflessione sul fatto che spesso ci accade di vedere non quello che è, ma "solo" quello che vogliamo (e ci piace) vedere. Per il momento resto a qualcosa a noi più vicino, senza andare là: in quel continente "strano", e non facile da comprendere anche da chi ci vive da anni e anni. Volto la testa verso quello che è accaduto domenica 6 novembre. Quella mattina, giornata che, nell’ambito delle celebrazioni dell’Anno Santo, papa Francesco ha dedicato ai detenuti e alla più vasta comunità penitenziaria, un corteo parte dal carcere romano di Regina Coeli e si conclude a piazza San Pietro. Quella marcia, organizzata dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transnpartito è esplicitamente intitolato a papa Francesco e a Marco Pannella; chiede "Amnistia, Giustizia, Libertà", e vi ha aderito un ragguardevole numero di personalità di ogni filone e formazione politica. Oh, sì, giornali e TV ne hanno parlato. Hanno intervistato qualche marciatore eccellente, qualche volto non sconosciuto; ne hanno raccolto una manciata di dichiarazioni; e poi hanno riferito delle parole di quel papa venuto "da quasi la fine del mondo": parole di clemenza, misericordia, appello a dare una ulteriore chance a chi ha dimostrato con i suoi comportamenti, di aver intrapreso una strada di recupero, consapevolezza, riscatto. Bene. Poi? Poi nulla. E c’era da riflettere, invece su alcune cose che cerco di riassumere e portare all’attenzione di tutti noi. Per esempio: per la prima volta viene consentito ad esponenti di un partito politico di poter arrivare a piazza San Pietro. Il Vaticano, insomma, autorizza i radicali a "entrare" nella piazza con il suo striscione, slogan e simbolo compreso. Che succede? La composizione di quel corteo: ci sono le bandiere delle Acli, ma anche quelle della Comunità di Sant’Egidio; ha aderito Libera, una quantità di associazioni cattoliche impegnate nel sociale, e una valanga di sacerdoti, frati, suore; gomito a gomito con i "mangiapreti" e gli anticlericali radicali. Ognuno fermo nei suoi valori, ma convergenti in quella che il direttore dell’"Avvenire" Marco Tarquinio definisce "voluta stereofonia", nella risposta a una lettera aperta inviatagli da un gruppo di dirigenti radicali. "Siamo stati attenti a tante vostre iniziative e denunce in tema di carcere. Come potremmo non esserlo anche stavolta?", scrive Tarquinio. Non vale la pena di rifletterci un momento, su questa stereofonia, cominciata trent’anni fa, con le prime marce pasquali contro lo sterminio per fame e sete nel mondo? Ieri la fotografia che ritrae Karol Wojtyla, Pannella, Emma Bonino; oggi lo striscione radicale mentre a parlare e Jorge Bergoglio. Vaticanisti, ci siete? Battete un colpo… Torniamo a Francesco. Ha detto quello che ha detto, e quella mattina un lungo, grande applauso. Lo stesso applauso tributato a Wojtyla, quando dentro l’aula di Montecitorio invoca un gesto di clemenza. Dopo l’applauso? Niente, finita lì. Se si plaude a qualcosa, ci si attendono poi comportamenti coerenti e conseguenti. E invece? E commentatori, editorialisti, osservatori di questo e e quello? Un embrione uno di dibattito sulla situazione della giustizia, il carcere, quello che si fa e si è fatto, o non si fa e non si è fatto. Niente. Quel giorno, e il giorno prima, accade anche un’altra cosa: a un digiuno intrapreso da Rita Bernardini, Irene Testa, Paola Di Folco e Maurizio Bolognetti per chiedere la semplice calendarizzazione del pacchetto di riforme sulla giustizia annunciate dal governo Renzi, da tutte le carceri d’Italia, si uniscono i detenuti. Non cento, cinquecento, o mille, che pure sarebbe una notizia. Digiunano in ventimila. Capito? VEN-TI-MI-LA. Su cinquantaquattromila detenuti. Ventimila "chissà-chi", "colpevoli di chissà-cosa", responsabili (o magari molti "non responsabili") di chissà quali crimini, e magari tra loro anche mafiosi, camorristi, quello che vi pare, che per 48 ore imbracciano lo strumento classico del nonviolento: il digiuno; e chiedono - loro! - che lo Stato faccia quello che deve per rientrare in quella legalità che viola da mesi, da anni, condannato ripetutamente dalle Corti di Giustizia Europee. È esagerato paragonare questa manifestazione di nonviolenza di massa alle famose marce di Gandhi o di Martin Luther King? Qualcuno può dire se ha memoria di qualcosa del genere, in Italia e fuori dall’Italia? Eppure non ne ha parlato nessuno. Solo un filosofo, Aldo Masullo, ha colto sul "Mattino" di Napoli la portata di questo evento, e ne ha scritto con parole che ci dovrebbero tutti far riflettere. Per il resto… Comprendo che nelle redazioni sempre più si dà la caccia neppure più a "notizie" interessanti, devono essere "divertenti"; ma a forza di scompisciarci dalle risate i giornali stanno morendo, e i notiziari televisivi, con tutta la loro "allegria" non è che se la passino meglio. Riassumo: una marcia dove il "diavolo" radicale e "l’acquasanta" del mondo cattolico, si "trovano"; un "accesso" sorprendente a piazza San Pietro; uno digiuno di massa nelle carceri che coinvolge ventimila persone, con gli elenchi dei partecipanti che nei prossimi giorni verranno portati in "dono" al presidente Mattarella, al pontefice, al ministro della Giustizia Orlando… E il presidente della Repubblica che qualche ora fa telefona a Bernardini per ringraziarla, per tutto quello che lei e gli altri stanno facendo. Infine, un’ultima notazione: il digiuno di massa di ventimila detenuti viene completamente ignorato. Se al contrario due detenuti, e non ventimila, per una qualunque ragione, sequestrano un agente di polizia penitenziaria e minacciano sfracelli, ecco servizi televisivi e articoli a non finire. Ora ditemi: un detenuto che vuole dare amplificazione a una sua rivendicazione, a quale dei due comportamenti viene "naturalmente" spinto? E non c’è una nostra responsabilità, precisa, dal momento che il comportamento violento lo trasformiamo in "notizia", mentre quello nonviolento regolarmente lo mortifichiamo e non lo sappiamo neppure vedere? Ristoranti e conserve in carcere, detenuti sempre più chef 12alle12.it, 14 novembre 2016 La cucina, come strumento di riabilitazione sociale e preparazione a una nuova vita post-carcere, è una proposta che trova consenso crescente negli istituti di pena. L’impegno tra i fornelli, ma anche quello gli che ruota intorno, come il servizio in sala, si sta infatti dimostrando premiante per la rieducazione dei carcerati. Nella seconda casa di reclusione di Bollate-Milano, dove le iniziative legate a cucina e alimentazione sono una realtà sin dal 2004 grazie alla spinta della cooperativa "Abc la Sapienza in tavola" nata all’interno del carcere, la recidiva è meno del 20% contro il 70% della media nazionale". La cooperativa ha impiegato i detenuti con attività di mensa interna e li ha portati anche all’esterno con servizi di catering di alto livello. Un anno fa, poi, apriva i battenti il ristorante "InGalera", avviato dentro il carcere e aperto al pubblico su prenotazione a pranzo e cena. Sono sempre i detenuti a svolgere servizio, sia in cucina che in sala, con la sola presenza esterna del maître Massimo Sestito. L’esempio di InGalera ha fatto scuola e di recente è stato inaugurato un altro ristorante dietro le sbarre aperto al pubblico, è il "Liberamensa" che offre opportunità di lavoro ai detenuti della Casa Circondariale torinese "Lorusso e Cotugno". Destinato nella pausa pranzo agli agenti e a tutti coloro che lavorano nel penitenziario, di sera è aperto al pubblico tutti i venerdì e sabato. Detenuti-ristoratori, quindi ma anche "artigiani del gusto", in grado di realizzare preparati alimentari di qualità. In base a progetto di filiera sociale "a km 0" appena avviato, gli ortaggi biologici coltivati da migranti e disabili psichici in una azienda agricola nei pressi di Cremona vengono portati alla casa circondariale cittadina di Cà del Ferro e trasformati quindi in conserve e salse dai detenuti-chef. I detenuti, in una sequenza di corsi della durata di 120 ore, ottengono attestati su HACCP, antincendio, primo soccorso e sicurezza sul lavoro e, quindi, affrontano esercitazioni pratiche per apprendere come cucinare sotto la guida di uno chef professionista. Anche il vino e la sua coltivazione si ritagliano un posto all’interno degli istituti di pena nazionali. Nel carcere di Lecce, grazie a un’idea della cantina salentina Feudi di Guagnano, poliziotti-sommelier insegneranno ai detenuti la degustazione del vino, ma anche gli aspetti legati alla coltivazione della vite, le diverse tecniche di vinificazione e come si serve e conserva un vino. A dare poi appoggio in iniziative formative di ambito alimentare nelle carceri hanno provveduto le stesse aziende del settore: Giacinto Callipo Conserve Alimentari ha per esempio avviato un progetto con il penitenziario di Vibo Valentia assumendo per un mese sette detenuti con il compito di confezionare 10.000 confezioni regalo dei suoi prodotti in vista delle feste natalizie. Sinistri stradali: il conducente ha l’obbligo di prevedere anche le imprudenze altrui di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 ottobre 2016 n. 44323. Poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 4432 del 19 ottobre 2016. Responsabilità colposa da sinistri stradali - In altri termini, in tema di responsabilità colposa da sinistri stradali, il conducente ha l’obbligo di tenere un comportamento prudente e accorto, prevedendo anche le imprudenze altrui ragionevolmente prevedibili. La ricostruzione di un incidente - La ricostruzione di un incidente stradale nella sua dinamica e nella sua eziologia - valutazione delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti, accertamento delle relative responsabilità, determinazione dell’efficienza causale di ciascuna colpa concorrente - è rimessa al giudice di merito e integra una serie di apprezzamenti di fatto che sono sottratti al sindacato di legittimità se sorretti da adeguata motivazione. Il medico che preleva ovociti senza consenso commette violenza privata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione feriale penale - Sentenza 23 settembre 2016 n. 39541. Riconosciuta la responsabilità del medico che ha prelevato sei ovociti da una donna non consenziente. La Corte di cassazione con la sentenza n. 39541 del 23 settembre 2016 ricorda che, pur trattandosi di persona superiore ai 70 anni di età, non trova applicazione la sospensione condizionale in quanto il Tribunale aveva già evidenziato un gravo pericolo di recidiva e qualifica l’azione in violenza privata. Cosa mobile e violenza privata - I giudici della sezione feriale penale in questa occasione chiariscono anche che per concetto mobile - secondo la nozione desumibile, nella sua massima estensione, dall’articolo 624, comma 2, del Cp - deve intendersi qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento o appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo a un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo a un altro; tale qualità può peraltro essere attribuita anche alla cosa che sia stata mobilizzata a opera dello stesso autore del fatto mediante la sua avulsione o enucleazione. Ciò premesso, risulta allora evidente che il concetto di cosa mobile non può applicarsi con riferimento a parti del corpo umano finché la persona è in vita e questa conclusione vale anche per gli ovociti prodotti dal corpo della donna e destinati a essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione: è discutibile, infatti, se possano essere assimilati agli organi del corpo umano, ma non è dubitabile che facciano parte del circuito biologico dell’essere umano (da queste premesse, nella vicenda in esame - in cui era contestato in sede cautelare all’indagato il reato di rapina per avere prelevato dall’utero della donna sei ovociti, con violenza consistita nel trattenere la donna per le braccia e nel sottoporla, contro la sua volontà, ad anestesia - la Corte, rigettando sul punto il ricorso del pubblico ministero, ha ritenuto corretto che il tribunale del riesame avesse diversamente qualificato il fatto a titolo di violenza privata). Liguria: celle sovraffollate ed eventi critici, carceri del Ponente al collasso di Santo Scarfone primocanale.it, 14 novembre 2016 Continuano a preoccupare le condizioni all’interno delle carceri del Ponente ligure, con l’istituto di Sanremo che è il più sovraffollato di tutta la Liguria. La morte di un ventisettenne marocchino all’interno del carcere di Imperia (secondo quanto emerso finora, si tratterebbe di un suicidio) ha riportato l’attenzione sui problemi dell’istituto penitenziario del capoluogo del Ponente ligure. Problemi noti da tempo, che avevano portato lo scorso ottobre alla presentazione di un’interrogazione parlamentare indirizzata al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nel testo dell’interrogazione, presentata dagli onorevoli Massimiliano Fedriga e Nicola Molteni, si sottolineava come l’istituto di Imperia, che potrebbe ospitare al massimo 78 detenuti, al 31 luglio ne ospitasse ben 95. Seguiva, poi, un lungo elenco degli episodi critici registrati all’interno del carcere: dagli atti di autolesionismo alle proteste collettive, dai tentati suicidi alle aggressioni agli agenti di Polizia Penitenziaria. Non va meglio nell’istituto di Sanremo. "Siamo alla deriva completa, nel più clamoroso degli allarmi che nessuno di chi ha competenza sembra voler raccogliere", ha denunciato pochi giorni fa Fabio Pagani, Segretario regionale Uilpa polizia Penitenziaria. Parole dure, che fanno riferimento alla situazione di sovraffollamento presente nella casa circondariale in Valle Armea, dove ormai si è superata quota 250 detenuti a fronte di una capienza massima di 212. "È l’istituto maggiormente sovraffollato in regione, con la presenza di anche sei detenuti in alcune celle", ha sottolineato Pagani, che ha parlato di "condizioni disumane e incivili della detenzione". Tutto questo senza considerare i quasi 150 eventi critici registrati nell’istituto da inizio 2016. Calabria: carceri "aperte" grazie alla produzione di pane, olio, abiti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 14 novembre 2016 Protocollo d’intesa tra il presidente della regione e il Ministero della Giustizia. In Calabria il carcere cerca il territorio e il territorio entra in carcere attraverso un frantoio, una sartoria sociale e un laboratorio per la panificazione. Ci lavoreranno detenuti, detenute e minori in esecuzione penale, anche esterna. È il contenuto del protocollo di intesa siglato presso il dicastero di via Arenula tra il presidente della Regione Calabria Gerardo Mario Oliverio e il ministro della Giustizia Andrea Orlando il 19 ottobre scorso. Un accordo inserito nella programmazione comunitaria 2014-2020 nel segno dell’inclusione e reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro che dà seguito alla collaborazione inter-istituzionale già avviata con la precedente stipula dell’Accordo interregionale del 27 aprile 2011. È il tredicesimo protocollo che viene sottoscritto dall’insediamento del Governo, facendo seguito a quelli già siglati con le regioni Campania, Friuli- Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Umbria, Puglia, Sicilia, Lombardia, Molise, Piemonte e Basilicata, mentre altri due, con le regioni Emilia- Romagna e Toscana, erano stati firmati dal ministro Cancellieri. "Le risorse finanziarie per l’attuazione delle progettualità", cita il documento, "sono provenienti da fondi nazionali, regionali e comunitari a disposizione del Ministero della giustizia e della Regione Calabria che saranno individuati dalle singole amministrazioni con successivi adempimenti amministrativi". Beneficiari dell’iniziativa saranno i detenuti e le detenute dell’istituto di pena di Laureana di Borrello, in provincia di Rc, mentre un altro progetto di inclusione formativa e lavorativa coinvolgerà i minori dell’Istituto penale per minorenni "S. Paternostro" di Catanzaro. Il protocollo prevede anche un progetto pilota per il reinserimento socio-lavorativo dei giovani adulti, detenuti negli istituti penitenziari della Regione Calabria, per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, per un importo complessivo pari a 200 mila euro. Il frantoio - Produzione di olio d’oliva e commercializzazione dei prodotti. Sarà questo il lavoro offerto ai detenuti che lavoreranno al frantoio da realizzarsi presso l’Istituto, il progetto del costo totale di 200 mila euro, è formulato ipotizzando la disponibilità di una superficie coltivata con olivi pari a 10 ettari. Nella cifra totale, le voci di costo sono numerose: dai 100 mila euro di costo dell’impianto proseguendo con il costo di adeguamento locali per 20 mila, le spese di gestione e manutenzione quantificate in 4 mila euro, una linea di imbottigliamento semiautomatica del valore di 6 mila euro più altri 30 mila euro per lo stoccaggio dell’olio e di prodotti finiti da commercializzare e corsi di formazione professionale e tirocinio per 30 partecipanti del valore di costo di 40 mila euro. La sartoria - Il progetto prevede l’apertura presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Reggio Calabria di una "Sartoria sociale- Laboratorio di formazione e produzione" grazie all’inserimento socio-lavorativo di detenute nell’istituto ma anche delle ammesse al lavoro esterno o in semilibertà per un totale di 20 persone. Il progetto, del valore di 200 mila euro, prevede l’auto-sostenibilità economica della sartoria sociale che potrà sopravvivere attraverso commesse pubbliche e private, sartoria su misura, realizzazione di una linea di prodotti propri, anche creando un apposito marchio e la realizzazione conto terzi. Il forno - Lo specifico progetto si chiama "Il forno invisibile" ed è volto al recupero di giovani detenuti dell’Istituto penale per minorenni "S. Paternostro" di Catanzaro per i quali Ministero e Regione hanno scelto un percorso formativo e di produzione nella panificazione. Quantificato in 80 mila euro di costo, il progetto sarà monitorato e valutato anche per quanto riguarda il puntuale utilizzo delle risorse finanziarie da un comitato composto da un rappresentate designato dal Centro per la giustizia minorile e da un rappresentante della Regione Calabria chiamati a informare semestralmente il Dipartimento giustizia minorile e di comunità sull’andamento del progetto e sui risultati conseguiti. Pisa: carcere Don Bosco, presidio sanitario incompiuto di Carlo Venturini Il Tirreno, 14 novembre 2016 Il Garante per i diritti dei detenuti fa altre segnalazioni di degrado nel carcere pisano: "Quel manufatto? È un ecomostro". Continua la nostra indagine sulla casa circondariale Don Bosco, supportata dalle dichiarazioni ed azioni del Garante per i diritti dei detenuti Alberto di Martino. Ci sono problematiche attinenti ai detenuti tossicodipendenti, alla struttura sanitaria in costruzione definita come un vero ecomostro dallo stesso Garante, la mancanza di video sorveglianza e poi le cause intentate dai detenuti per il sovraffollamento. Tossicodipendenti. In base ai parametri dell’amministrazione sono 32 i tossicodipendenti in esecuzione di pena. La quantificazione dei tossicodipendenti è tuttavia oggetto di discussione, per la non condivisione di taluni parametri di valutazione dello stato di tossicodipendenza; su ciò è stato effettuato un confronto fra direzione, il garante pisano e quello regionale. Di Martino che insegna alla Scuola Sant’Anna, non usa mezze parole. "I tossicodipendenti in carcere non ci devono stare. Stop. Purtroppo, il tessuto socio sanitario non è ancora pronto ad allestire una rete assistenziale ottimale". La videosorveglianza. È insufficiente. Mancano le telecamere. "Una presenza più "muscolosa" delle telecamere aiuterebbe sia la polizia penitenziaria che gli stessi detenuti che potrebbero godere più liberamente, ma sorvegliati, delle loro ore in comune e fuori dalle celle". Sovraffollamento. Il Don Bosco può contenere massimo 226 detenuti; la cifra è salita a 277. Per ciò, sono state presentate 75 istanze ex art. 35ter, cioè la norma sui "rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati. "Si tenga conto che le istanze non si riferiscono soltanto a situazioni riscontrate a Pisa, ma anche ad altre carceri nelle quali il detenuto è stato ristretto in passato", dice il garante. L’ecomostro destinato a presidio sanitario. "È una situazione non altrimenti definibile che come scandalosa - dichiara il garante - quella dell’area di cantiere sulla quale era stato edificato un manufatto destinato al nuovo Centro diagnostico terapeutico, e rimasto incompleto per fallimento dell’impresa incaricata dell’esecuzione dell’appalto". Attualmente, il manufatto è in stato di totale abbandono con conseguente visibile degrado anche dell’area su cui esso insiste. Recentemente, l’intollerabilità della situazione è emersa in occasione di un sopralluogo che ha evidenziato un fondo acquitrinoso, incontrollata crescita della vegetazione, miasmi che ammorbano l’aria respirata dal prospiciente reparto penale. Sull’area sono rimasti fra l’altro "innumerevoli materiali di risulta accumulati dai lavori rimasti incompiuti". Stando al resoconto del garante, la situazione era tale che la stessa direzione segnalò che in assenza di provvedimenti urgenti "si vedrà quanto prima costretta ad incidere sulla disponibilità delle camere più direttamente interessate dalla criticità" e cioè, in soldoni, ad evacuare almeno in parte il reparto penale col trasferimento dei detenuti in altri istituti. Salerno: detenuti "fai da te" al carcere di Fuorni, impegnati nei lavori di muratura ottopagine.it, 14 novembre 2016 Gli "ospiti" impegnati nei lavori di muratura nelle celle, per loro un salario di 6 euro l’ora. Alla Casa Circondariale di Fuorni vige il "fai da te". Nonostante resti il sovraffollamento, con il carcere che attualmente ospita 403 detenuti a fronte dei 380 previsti per Legge, cambia qualcosa all’interno della struttura. Le ristrutturazioni interne, necessarie per impermeabilizzare anche alcune celle, sono state avviate da qualche tempo. L’idea, innovativa, del nuovo direttore della Casa Circondariale di Fuorni, Stefano Martone, che ha avviato una sorta di riqualificazione interna del carcere anche con l’aiuto degli stessi "ospiti". Insomma, sono gli stessi detenuti che sono impiegati nelle opere di muratura e negli interventi d’impermeabilizzazione delle celle. Manodopera interna, dunque, senza ricorrere a gare d’appalto, che avrebbero richiesto una procedura più lunga ma, soprattutto, l’invio di fondi. Un vero e proprio fai da te, un bricolage che vede impegnati in prima persona proprio i detenuti che, comunque, non lavorano gratis ma sono addirittura pagati per le loro prestazioni professionali. Non cifre eccessive, ma comunque importanti per la vita all’interno del carcere. Nel dettaglio, sei euro l’ora, con l’esperimento innovativo che ha anche una funzione sociale. In pratica, un primo passo verso il recupero del detenuto rivolto all’inserimento all’interno della società una volta espiata la pena. In questo modo, dunque, è stato possibile recuperare diversi ambienti della struttura carceraria, che erano abbandonati da anni, e riaprire aree che erano interdette a causa della caduta di calcinacci, o anche perché poco funzionali per le infiltrazioni d’acqua. Un esperimento, dunque, che è destinato a creare una sorta di scia, con i detenuti che non sono più ospiti forzati all’interno della casa di pena ma parte integrante, almeno per la durata della loro pena. E chissà che da questo test innovativo la società non si ritrovi con qualche manovale in più e un malvivente in meno. Grosseto: esce di prigione e scrive al carcere: "grazie di tutto, sono stato bene" di Antonio Menna notizie.tiscali.it, 14 novembre 2016 Forse non era mai successo che un ex carcerato ringraziasse per il periodo trascorso dietro le sbarre. L’umanità vince sulla violenza. E la direttrice si commuove. A volte finisce bene. È raro ma succede. Forse si contano sulle dita di una mano ma capita che il carcere svolga davvero una funzione rieducativa. Certo, è difficile credere che chi venga buttato in una cella e lasciato lì anni e non fare nulla, in un corpo a corpo con un ambiente violento per la sua stessa natura promiscua e costrittiva, a volte pigiato come una sardina nella scatola, svuotato come un sacco messo a deposito, coltivando una estraneità alla vita civile, una comunanza tra reietti, sotto lo sguardo guardingo dello Stato, possa diventare migliore. Il corto circuito - Difficile pensare che una società già così spaventata e chiusa, possa poi, all’uscita dal carcere, non accogliere l’ex detenuto come un uomo marchiato, di cui diffidare, da tenere lontano, da confinare. Difficile, infine, che quella stessa persona non finisca così di nuovo col delinquere, e poi rientrare in cella, e poi aspettare ancora l’uscita, e poi ripetere all’infinito un nuovo reato e un nuovo ingresso, in quella che in gergo tecnico si chiama recidiva, e sul piano umano non è che una condanna senza fine, un corto circuito perenne. Ma a volte - come detto - finisce bene. Due anni per droga - È il caso di un uomo del Marocco, residente sull’isola d’Elba, finito in cella per droga. Viene infilato nel carcere di Porto Azzurro. Poi a Grosseto. Ci passa due anni. Trova un ambiente duro, come non può che essere un penitenziario. Sconta una pena, appunto; trascina i suoi giorni nell’afflizione di un luogo espiativo. Ma viene privato solo della libertà, non della dignità. Può vivere la sua detenzione senza smarrire il senso di un progetto esistenziale. In carcere può studiare. Può passare il tempo facendo qualche lavoro. Impegnandosi in una traccia che guarda al dopo. Si chiama riabilitazione e l’uomo ci prova fino in fondo. La gratitudine - A volte finisce bene, abbiamo detto. E per lui è andata davvero così. I due anni passano, l’uomo esce e la prima cosa a cui pensa è consegnare una lettera di gratitudine alla direttrice del penitenziario, Maria Cristina Morrone. Ne dà notizia il quotidiano toscano Il Tirreno, che racconta della commozione della donna, a cui probabilmente una cosa così non era mai successa. Il rispetto - "Sinceramente non avrei mai immaginato come da detenuto avrei potuto vivere dei momenti particolari e anche belli - scrive l’uomo secondo quanto riportato dal Tirreno - e riuscire a creare un rapporto umano con una grande parte del personale che lavora nell’istituto, ricevendo anche il loro rispetto. Essere trasferito qui a Grosseto è stata la mia fortuna, qui ho trovato tranquillità, ho potuto fare un lavoro che mi piaceva, ho potuto studiare e frequentare la palestra". La bella figura - Grazie, grazie a tutti, dice l’uomo varcando quel portone, sentendo che la qualità di quella esperienza - pur nella durezza della detenzione, pur nel dolore di non essere libero - è stata la chiave per capire davvero e per voltare pagina. "Ho potuto godere di tutti i miei diritti - scrive nella lettera - e l’umanità dei comportamenti mi ha dato la carica giusta per svolgere con passione e impegno il mio lavoro". L’uomo nella missiva ringrazia la direttrice, il personale, lo staff medico, il cappellano. E infine anche l’Italia, che "per come mi ha trattato, ha fatto una bella figura". Educa più l’umanità - Un esempio da ricordare, quello di quest’uomo che, lasciata la cella, ha deciso di tornare in Marocco e di provare ad aprire un ristorante. Cambiare vita. Voltare pagina. Offrire a se stesso una chance. Capita che un detenuto riesca a coltivare nel cuore una speranza, nella testa un progetto, nelle mani una voglia nuova, e riesca a preservarla anche attraversando l’inferno, e poi a tenere duro quando esce, a non ricaderci, a spezzare per sempre la catena. A volte capita, a volte succede. Quando avviene, il carcere trova un senso, per il singolo ma anche per la collettività, perché è più utile riconsegnare alla società un uomo più sereno, pacificato, che uno incattivito, duro e senza speranza. Insegna più l’umanità che la violenza. Educa più l’esempio che la vendetta. Dovremmo ricordarcene sempre. Campobasso: reinserimento sociale, alla Sea sette lavoratori al servizio della collettività seitorri.it, 14 novembre 2016 Il Consiglio di Amministrazione della Sea ha approvato una bozza di convenzione con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), al fine di sopperire alla carenza di personale, avvalendosi del lavoro socialmente utile degli ex detenuti e delle persone "in messa alla prova" che hanno aderito a un progetto riparativo. In attesa della riorganizzazione della Sea SpA, dunque, le sette persone che, attualmente, sono adibite allo spazzamento dell’intera città, avranno come supporto altra forza lavoro, dando l’opportunità, a coloro che rientrano nella categoria di persone individuate nella bozza di convenzione, di iniziare un percorso di reinserimento nella società, attraverso un servizio indispensabile in favore della collettività. La Sea, in sostanza, si rende disponibile a inserire nella propria struttura condannati o imputati in attività non retribuite, a beneficio della collettività, nei servizi che svolge per realizzare le proprie finalità statutarie e istituzionali. La categoria delle persone in regime di messa alla prova è stata introdotta nell’ordinamento italiano nel 2014, riguarda i reati puniti con la pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore ai quattro anni e consiste nella sospensione del procedimento penale prima del giudizio, con un programma di trattamento il cui periodo è deciso dal magistrato. L’esito favorevole della possibilità concessa all’individuo consente allo stesso di poter chiedere l’estinzione del reato. "Lo svolgimento di attività a beneficio della collettività - il commento del CdA della Sea - ci consente di raggiungere un triplice obiettivo: il recupero sociale dell’autore del reato, la riparazione del danno commesso ai danni della collettività e, dunque, rendersi utili alla Sea e alla comunità con azioni di sensibilizzazione nei confronti dei cittadini. Il nostro ordinamento giuridico è volto al recupero del reo e, dunque, la nostra struttura si mette a disposizione per quell’obiettivo supremo cui mira la condanna penale". L’UEPE, in tal ottica, si impegna a collaborare con la Sea nelle attività di sensibilizzazione verso i temi ambientali, cui saranno inseriti i soggetti segnalati, indicando la professionalità prescelta, in modo che la Sea la possa collocare al meglio nella propria struttura. Perugia: polli "a piede libero" da Capanne a Todi iltamtam.it, 14 novembre 2016 Attivata una collaborazione tra la fattoria del penitenziario perugino e quella dell’Istituto Agrario che valorizza aspetti produttivi ed etico-sociali. Ha compiuto tre anni la fattoria del carcere di Capanne, dove appunto dal 2013 si è voluta dare una opportunità lavorativa ai detenuti del complesso penitenziario di Perugia. Si tratta di un’azienda agricola, che sfrutta i terreni intorno al carcere, grazie ad una convenzione attivata con la Cooperativa Sociale 153 Onlus (che deve il suo nome ai 153 pesci pescati miracolosamente da Simon Pietro nel Vangelo di Giovanni). "Proprio questo episodio - spiega il Presidente Michelangelo Menna - ha ispirato l’idea di nobiltà del lavoro per l’uomo, la stessa che sostiene il progetto di reinserimento nel mondo del lavoro per i detenuti del carcere". È nata così "Fattoria Capanne" che, con il lavoro di 11 detenuti, utilizza al meglio gli oltre 12 ettari intorno alla casa circondariale, suddivisi in circa 5 a frutteto (mele, pere, prugne, pesche e fichi), 3 ettari per la produzione di ortaggi in pieno campo, 2 ettari e mezzo ad oliveto e i restanti per ospitare quattro serre per la produzione di ortaggi. È stato avviato anche l’allevamento del pollo ruspante, della razza "a collo nudo", che risponde al disciplinare del "pollo rurale Umbria" con filiera completa all’interno dell’azienda, compreso il macello interno, unico esempio in Italia. "Il pollo a piede libero", questo il nome dato alla produzione, una volta cresciuto viene macellato ed arriva in punti vendita selezionati, tra i quali si è inserita di recente anche la Bottega Montecristo dell’Istituto Agrario di Todi, dove i polli vengono prenotati il sabato per essere ritirati già pronti il mercoledì mattina. Quella di Capanne non è una semplice azienda agricola. Per i detenuti, che hanno così un’occupazione in un momento di crisi noto a tutti, anche interno alle carceri. Stando ai numeri emersi da uno studio, infatti, la recidiva per i detenuti che non svolgono alcuna attività lavorativa vera all’interno delle carceri si attesta al 70/90%. Tra i detenuti che seguono invece un percorso di reinserimento lavorativo la recidiva scende all’1/2%. L’altra reale opportunità è per gli acquirenti, che possono acquistare prodotti freschi, coltivati con la massima cura ed eliminando tutti i passaggi intermedi dal produttore al consumatore. Una filosofia questa che, unita all’aspetto etico, ha portato ad attivare la collaborazione con l’azienda-fattoria didattica dell’Istituto Agrario tuderte, già impegnato sul fronte sociale con altre produzioni agricole quali il vino e l’olio. Genova: "A scuola di libertà", al Salone Orientamenti si incontrano carcere e scuola genova24.it, 14 novembre 2016 Il 15 novembre dalle ore 9 alle ore 11 La Conferenza Regionale Volontariato Giustizia presenterà alla Sala Marin dei Magazzini del Cotone, nell’ambito del salone Orientamenti, la Quarta giornata Nazionale dedicata al progetto "A scuola di libertà. Le scuole imparano a conoscere il carcere", un progetto che vuole fare incontrare il Carcere e la Scuola. Due mondi che si devono conoscere e confrontare, per riflettere insieme sul sottile confine fra trasgressione e illegalità, sui comportamenti a rischio, sulla violenza che si nasconde dentro ognuno di noi. Ma cosa ci può raccontare sulla libertà chi ne è stato privato perché ha commesso un reato? E cosa ci possono insegnare tutti quei volontari, che entrano ogni giorno nelle carceri italiane per contribuire a renderle più "civili" e meno "lontane" dalle città? Quest’anno si parlerà di minori, dei loro comportamenti a rischio, dei reati che commettono più di frequente, delle carceri minorili, delle pene alternative al carcere, nonché del diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, che non sono sufficientemente tutelati. Milano: "Il Girasole", da dieci anni un tramite tra dentro e fuori il carcere milanopost.info, 14 novembre 2016 Tra il 18 e il 20 novembre alcune iniziative celebrano il decennale dell’associazione milanese che fa anello di collegamento tra i detenuti e i loro familiari, svolgendo diversi importanti servizi anche nell’ottica dell’accompagnamento e del reinserimento. I familiari dei detenuti li riconoscono perché sono sorridenti e pazienti. Da dieci anni ormai i volontari dell’associazione "Il Girasole" si preoccupano di fare da tramite tra il mondo del carcere e l’esterno, tra i detenuti e i loro familiari. Il primo approccio è nella sala colloqui di San Vittore, dove le persone arrivano per parlare con i rispettivi parenti, di cui magari hanno scoperto da poco l’arresto. L’accoglienza avviene allo "Sportello San Vittore", una postazione presso la sala d’attesa del carcere dove i volontari forniscono tutte le mattine le prime indicazioni ai familiari o conoscenti di detenuti. L’aiuto alle famiglie dei detenuti prosegue all’esterno. Una volta alla settimana i parenti possono passare allo "Sportello Girasole", a pochi metri dall’ingresso del carcere, in via degli Olivetani. Qui ricevono un pacco alimenti, "perché molto spesso le famiglie quando un congiunto è in carcere, si trovano improvvisamente anche senza una fonte di reddito", chiarisce Francesca Papini, educatrice presso l’associazione. "È una risposta concreta ai bisogni che abbiamo conosciuto, un’intuizione nata dalla vicinanza - quasi fisica - al carcere - spiega la giornalista della Diocesi Luisa Bove, fondatrice e presidente dell’associazione nonché parrocchiana di San Vittore al Corpo, a pochi passi dalla casa circondariale -. Mi è sempre sembrato naturale che come parrocchia e come comunità cristiana ci facessimo carico di queste situazioni". Il servizio non si ferma alle famiglie dei detenuti. Fin dai primi anni "Il Girasole" si è dotato di un appartamento, dove accogliere detenuti in permesso premio e incontrare i familiari all’esterno del carcere. "Noi li accompagniamo in punta di piedi - confida Papini -, perché questi sono i primi momenti in cui il detenuto può ritrovare una propria sfera di intimità". Gli appartamenti, tre attualmente, sono utilizzati anche da chi sconta l’ultimo periodo di pena attraverso un’esecuzione esterna al carcere. Ogni caso è valutato dai magistrati a partire da una relazione scritta dagli operatori degli istituti penitenziari. Una volta "fuori" i detenuti sono seguiti secondo progetti specifici dagli educatori dell’associazione. Regole che li aiutano a reinserirsi nel mondo esterno: dal rispetto degli orari alla gestione dell’appartamento, alla capacità di gestire la convivenza con gli altri ospiti. Nell’accompagnamento socio-educativo rientra anche il tentativo di riallacciare il rapporto affettivo con la propria famiglia, un percorso di ricostruzione del proprio vissuto. I 10 anni di attività saranno raccontati nel convegno di venerdì 18 novembre a Milano, dove verrà presentato anche il primo Bilancio sociale di sostenibilità dell’associazione Porto Azzurro (Li): detenuto violento mette in crisi la sicurezza in carcere tenews.it, 14 novembre 2016 La denuncia del sindacato Ugl: intervenga il Provveditorato Regionale. Le violenze e le provocazioni di un detenuto di origini bulgare rischiano di mettere in crisi la sicurezza all’interno del carcere di Porto Azzurro. La denuncia è dei segretari provinciali del Sindacato Ugl. Polizia Penitenziaria di Livorno Angelo Montuori e Sabato Angelo: "Dopo aver sollecitato la direzione del carcere ed il dell’amministrazione Penitenziaria di Firenze in data 4 novembre 2016 con un intervento sindacale, ottenendo esito negativo come da risposta ricevuta il 10 novembre per la richiesta di allontanamento del soggetto - si legge in una nota - evidenziamo la grande preoccupazione che circola, da circa due mesi dall’assegnazione del detenuto, tra il personale del reparto di Polizia Penitenziaria di Porto Azzurro che è costretto a subire quotidianamente continui atteggiamenti offensivi, indisponenti e apparentemente minacciosi dal detenuto in questione di origini bulgare, durante il servizio di vigilanza ed osservazione in sezione". I comportamenti ostili più gravi, ai danni di due agenti, si sono verificati prima il giorno 1 novembre e, l’ultimo di una lunga serie, nel pomeriggio del 9 novembre. In quella occasione il detenuto, oltre a mettere in atto delle provocazioni rivolte all’agente di sezione, ha danneggiato interamente la propria stanza detentiva mettendo a repentaglio l’ordine e la sicurezza della 13^ Sezione del Terzo Reparto cercando di influenzare altri detenuti presenti a comportarsi allo stesso modo. "La Ugl Polizia Penitenziaria - si legge ancora nella nota - chiede al Provveditorato Regionale dell’amministrazione Penitenziaria della Toscana e Umbria che il soggetto in questione, connotato da tratti alquanto critici, prima che possa mettere in atto atteggiamenti provocatori, ai danni del personale o possa promuovere disordini ancora più gravi, venga trasferito in altri istituti della penisola a regime chiuso, magari più adatti e più sicuri, con l’obiettivo di non destabilizzare l’ordine e la sicurezza del 3^ reparto della casa di reclusione elbana". Come è noto, da decenni nel penitenziario di Porto Azzurro vige un circuito penitenziario a socialità aperta che inizia alle 08:30 e termina alle ore 19:00 e da un anno a questa parte la direzione si sta adoperando per rilanciare questo istituto con iniziative lavorative, trattamentali e rieducative a favore dei detenuti come ci viene chiesto dal Codice Penitenziario e dall’articolo 27 della Carta Costituzionale. "Ma la presenza di questi soggetti - dice ancora l’Ugl - difficili da gestire, per i loro comportamenti volti alla ribellione e all’agitazione dell’ambiente che li circonda e che li ospita, non aiutano, anzi ostacolano la direzione ed il personale della Polizia Penitenziaria a raggiungere gli obiettivi di recupero della persona condannata: senza sicurezza non ci può essere trattamento penitenziario e progetti rieducativi. Qualora l’amministrazione Penitenziaria non dovesse procedere al trasferimento del soggetto - conclude la nota - il sindacato Ugl Polizia Penitenziaria si riserva di inviare un atto di diffida con messa in mora considerato che l’amministrazione ha il dovere di salvaguardare l’integrità fisica e la personalità morale dei poliziotti penitenziari che sono chiamati, giornalmente con sacrificio e spirito di abnegazione, a garantire la sicurezza all’interno dei penitenziari". Nuoro: "Mastros in Nùgoro", i detenuti-attori conquistano piazza Satta di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 14 novembre 2016 Il successo della rappresentazione ispirata ai capolavori di Shakespeare L’educatore Pietro Era: "Una chance per riscattarsi e per farsi conoscere". Shakespeare libera sei detenuti di Badu e Carros in regime di massima sicurezza. Amleto, fuori dalla scena Vincenzo, è in carcere da vent’anni e ieri grazie al teatro, per la prima volta da quando ha messo piede nella casa circondariale di Badu e Carros, ha potuto assaporare un pizzico di libertà. Quello che non ti aspetti dal carcere è accaduto ieri mattina nell’ambito della manifestazione "Mastros in Nùgoro" tra le quattro mura di piazza Sebastiano Satta, quando Vincenzo, Aldo, Luigi, Bruno, Alessandro e Aldo detenuti "As3" cioè alta pericolosità, hanno recitato - accompagnati dai volontari delle associazioni Caravella e Sesta Opera, liberi e senza nessuna sorveglianza - un estratto dell’opera da loro scritta "Liberami padre. Shakespeare e dintorni" nel cuore della città, piazza Sebastiano Satta. Non sono semplici detenuti, bensì attori veri e propri della compagnia teatrale stabile "Nuova Jobia" di Badu e Carros, la prima nelle carceri dell’isola riconosciuta dal ministero della Giustizia, che nel 2013 grazie a un protocollo d’intesa tra l’amministrazione comunale e l’amministrazione penitenziaria, si è trasformata da semplice laboratorio teatrale a compagnia stabile. A crederci più di tutti allora fu Pietro Era, educatore di strada, o per meglio dire di prossimità, per conto dei Servizi sociali del comune di Nuoro che due volte la settimana, il lunedì è il giovedì, in prestito si reca al penitenziario nuorese in qualità di regista, volontario (il sabato), all’occorrenza anche attore e direttore artistico della compagnia teatrale da lui creata. "La giornata di oggi è sicuramente un sovvertimento culturale - commenta Pietro Era durante la rappresentazione, sia per i detenuti che scoprono mondi insospettati ai quali viene concessa una chance per riscattarsi agli occhi di un pubblico, sia per i cittadini comuni che hanno la possibilità di entrare in contatto con queste persone fatte di carne e ossa proprio come loro -. Quattro anni fa entrai in carcere perché convinto che attraverso la recitazione, lo studio e l’immedesimazione avrei potuto aiutare concretamente queste persone nel percorso di riabilitazione verso una vita normale e serena. Oggi posso dire di esserne certo". Ma il teatro è una delle tante attività che con regolarità si svolgono all’interno della casa circondariale nuorese. "Badu e Carros è inoltre l’unico istituto in Italia dove grazie alle apparecchiature in dotazione ai detenuti possono essere realizzati Dvd fotografici - aggiunge la direttrice Luisa Pesante. È fondamentale tenere in attività i detenuti e attrezzarli alla vita fuori dalle mura carcerarie" sottolinea la direttrice di Badu e Carros. "Crediamo nella rieducazione delle persone carcerate non nella mera e sterile punizione" aggiunge Gianfranco Oppo, Garante dei diritti delle persone private della libertà. Questo pomeriggio, alle ore 17, si terrà il secondo appuntamento dell’iniziativa con i detenuti/attori della compagnia Nuova Jobia, in scena in piazza Sebastiano Satta con letture di testi e poesie che coinvolgeranno il pubblico in una riflessione sui valori fondanti della comunità. Milano: carcere di Bollate, il ristorante "InGalera" compie un anno Il Giorno, 14 novembre 2016 Per il primo anno di vita "InGalera" organizzerà a breve una festa in sala. "InGalera", il primo ristorante nato all’interno di un carcere - quello di Bollate - nel quale i detenuti preparano i tavoli e servono in tavola, spegne la sua prima candelina. "L’obiettivo - spiega Silvia Polleri, responsabile della cooperativa sociale Abc-La Sapienza in Tavola nata nel 2004 all’interno del carcere stesso - è insegnare loro un mestiere o poterlo continuare a farlo se venivano da questo settore prima della detenzione. Inoltre vogliamo creare un ponte con il mondo esterno, vogliamo che la società tocchi con mano che i detenuti non sono extraterrestri". A un anno dall’avvio del ristorante, il bilancio è più che soddisfacente. "Ogni giorno registriamo il tutto esaurito - osserva Polleri - e adesso a creare i piatti straordinari che abbiamo in menu è un detenuto chef che ha preso il posto dello chef esterno con cui abbiamo iniziato l’avventura. Di esterno nel nostro ristorante è rimasto ora solo il maitre, Massimo Sestito". Polleri con la cooperativa Abc ha scelto di puntare sul comparto alimentare e della ristorazione per svolgere riabilitazione sociale. La cooperativa Abc è ben nota per offrire un servizio di catering e rinfreschi di alto livello dove sono impegnati i detenuti, dall’aiuto in cucina al servizio in sala effettuato in giacca e guanti bianchi. "Ho insegnato il bon ton ai detenuti - osserva Polleri - ed è sicuramente importante. Da parte mia ho imparato da loro a vedere la vita da aspetti differenti". Per il primo anno di vita "InGalera" organizzerà a breve una festa in sala, "dove celebreremo insieme anche il Natale - conclude Polleri, intanto abbiamo messo su Facebook il disegno di una torta con la candelina". La sfida della sicurezza "social" di Susanna Sandulli Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2016 Una delle tematiche più ricorrenti degli ultimi anni riguarda la tutela della sicurezza nello svolgimento delle attività online; se tale questione, da una parte, concerne indubbiamente la lotta al terrorismo internazionale e la repressione di altri reati come la pedopornografia, notevoli problemi si pongono a causa dello sviluppo dei social networks, in quanto la sicurezza pubblica può essere minacciata da diverse forme di cybercrime. Il fulcro della questione è ravvisabile nelle ripercussioni economiche che tali fattispecie di reato possono produrre, poiché nella Rete sono presenti molti dati riguardanti imprese o patrimoni individuali e, pertanto, la cosiddetta business continuity è sottoposta a un forte rischio. La necessità di una maggior implementazione dei sistemi di sicurezza è stata sottolineata anche dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la quale, tramite la raccomandazione sulla sicurezza digitale e la gestione del rischio del 1° ottobre 2015, ha evidenziato che essa si pone come un problema non solamente di ordine tecnologico, ma anche economico. Come rimarcato dal presidente del Garante per la tutela dei dati personali, Antonello Soro, non è pensabile eliminare del tutto i rischi derivanti dal digitale e, in un certo senso, questi devono essere accettati in ragione dei plurimi obiettivi che l’Italia e l’Unione europea si sono poste; tuttavia, ciò non può esonerare i governi dei singoli Stati dall’adottare una serie di strategie che assicurino la tutela della privacy dei cittadini, conferendo a quest’ultima il ruolo di obiettivo primario dei piani di sviluppo. L’innovazione, infatti, a parere dell’Ocse, deve essere considerata un aspetto fondamentale nell’attività di gestione della sicurezza digitale, la quale, per essere efficiente, deve garantire una piena collaborazione non solo tra soggetti pubblici e privati, ma anche fra i diversi Stati, dando vita a una compenetrazione fra diritto nazionale e sovranazionale. Infine, sebbene la digital security influenzi profondamente il raggiungimento dei diversi obiettivi economici e sociali, essa deve andare sempre di pari passo con la salvaguardia dei diritti fondamentali, affinché la tutela di questi non risulti, in alcun modo, diminuita. A partire dagli eventi dell’11 settembre 2001 e a seguito dei, purtroppo, numerosi attentati terroristici che sono stati realizzati in Europa negli ultimi anni, la necessità di una maggior sicurezza ha comportato un’ingerenza notevole di dati personali che potrebbe ledere quel sistema di protezione così difficilmente realizzato; pertanto, la Corte di giustizia ha sottolineato la necessità che il controllo sui dati personali degli utenti per ragioni di sicurezza incontri limiti ben precisi. Proprio per questo, il 6 luglio 2016 sono state approvate dal Parlamento europeo le norme relative alla strategia sulla sicurezza informatica ("Cyber security") e fra queste anche la direttiva Nis (Network and Information Security), applicabile a tutti i soggetti che svolgono attività ascrivibili ai cosiddetti servizi essenziali; essa nasce dalla consapevolezza che il sistema moderno si caratterizza per una logica di interoperabilità dei servizi, la quale aumenta in maniera esponenziale i rischi e, infatti, la direttiva, oltre a imporre agli Stati membri di riferire a un’apposita Autorità nazionale i vari incidenti che si verificano, obbliga questi ultimi a istituire il Cert (Computer emergency response team), ossia un network che si occupi delle reti più critiche, monitorando gli eventuali incidenti verificatisi a livello nazionale. Sebbene, dunque, la sicurezza e la privacy degli internauti costituiscano uno dei più importanti obiettivi che l’Ocse si è prefissata di raggiungere mediante l’instaurazione di un clima di maggior fiducia, è innegabile che, in realtà, giungere alla creazione di un diverso e migliore mosaico giuridico, comunitario e internazionale, sia un risultato estremamente ambizioso; infatti, oltre che delle indubbie difficoltà applicative, è necessario tener conto anche dei diversi valori che caratterizzano gli Stati, europei e non. Englaro e la triste fine del testamento biologico di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 novembre 2016 Tutti a dire: che peccato, se n’è andato Umberto Veronesi che tanto parlava (con posizioni aperte, ovviamente passibili di ogni critica) di una buona legge sul fine vita. Ecco allora: che fine ha fatto la legge sul testamento biologico? Sparita, annegata, impantanata in qualche commissione parlamentare, all’oscuro dell’opinione pubblica. Ricordate il caso di Eluana Englaro? Allora ci si appassionò. Ci dilaniammo, anche con toni esagitati ed estremi, sulla vita e sulla morte, pensavamo che non si potesse aspettare troppo, che una legge nuova fosse all’ordine del giorno, che la non scelta lasciasse troppo spazio all’arbitrio su un tema fondamentale, ineludibile. E invece? Tranne i Radicali che si battono per l’eutanasia, e i gruppi cattolici oltranzisti che non vogliono lasciare spazio a nessuno spiraglio di autodeterminazione e di autonomia delle persone, nessuno mette più il tema del testamento biologico in cima all’agenda delle cose importanti da fare. Era il 2009, quando l’opinione pubblica si divise sul caso Englaro. Sono passati sette anni e noi sappiano con certezza che ne passeranno altrettanti prima di avere una legge, prima di interessare i vertici della politica, prima di scongelare la discussione sul fine vita dal frigorifero di una commissione parlamentare che esaminerà le varie proposte di legge con negligente lentezza. Un tema così importante che coinvolge la vita delle persone, gli affetti primari delle famiglie, che affronta dimensioni così importanti per la società e per i singoli come il dolore, la dignità dell’esistenza, la malattia, le ragioni stesse del vivere, questo tema viene messo da parte. L’opinione pubblica, si sa, è ondivaga, ha un rapporto volubile con le emozioni collettive: un giorno è trascinata nel gorgo delle passioni, il giorno dopo si re-immerge nell’indifferenza. Ma la politica non dovrebbe essere schiava delle emozioni collettive. Dovrebbe proporre soluzioni che anticipino l’emergenza. E purtroppo la triste fine della legge sul testamento biologico dimostra che non sono farraginosi meccanismi istituzionali e costituzionali (come si dice in questa campagna referendaria) a seppellire ogni innovazione nella lentezza inconcludente, bensì la mancanza di convinzione, la voglia di rimandare tutto all’infinito, nel sapere che in questa legislatura il tema del fine vita non verrà mai alla ribalta, neanche fosse una quisquilia, un lusso superfluo. Stati Uniti. Trump: caccerò 3 milioni di immigrati di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 14 novembre 2016 Sono "criminali, pregiudicati; fanno parte delle gang; sono trafficanti di droga". Verranno "cacciati" o "messi in prigione". Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione. Via "due o tre milioni di migranti illegali". Sono "criminali, pregiudicati; fanno parte delle gang; sono trafficanti di droga". Verranno "cacciati" o "messi in prigione". Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione. Rispunta anche il muro al confine con il Messico che non era stato più evocato dopo la vittoria dell’8 novembre. "Lo faremo e sarà il Messico a pagarlo. In alcuni tratti potrà essere una recinzione, ma lo faremo". Il presidente eletto ha parlato a lungo in un’intervista a "60 minutes", una delle trasmissioni più seguite della Cbs. L’emittente ha anticipato nel corso della giornata alcuni stralci, mentre la versione integrale è andata in onda alle 19 (l’1 di notte in Italia). Trump ha ripreso, dunque, i toni della campagna elettorale su uno dei temi che si sono rivelati decisivi per battere Hillary Clinton. L’uscita del neopresidente ha di nuovo spiazzato il vecchio gruppo dirigente del partito repubblicano. Lo speaker della Camera dei rappresentanti, Paul Ryan, ha commentato con la Cnn : "In questo momento le deportazioni di massa non sono una priorità per i repubblicani. Penso che dovremo tranquillizzare le persone su questa storia delle deportazioni". Ieri sera Trump ha nominato il suo futuro capo di gabinetto: sarà Reince Priebus, presidente del Republican National Commitee, l’organo di governo del partito. In realtà il "transition team", il gruppo che sta curando il passaggio delle consegne alla Casa Bianca, sembra molto concentrato sul tema "law and order". Due giorni fa Kris Kobach, responsabile per l’immigrazione, aveva annunciato che l’obiettivo era di "aumentare del 75%" le espulsioni rispetto all’era Obama. Secondo le stime vivono, e spesso lavorano, negli Stati Uniti tra gli 11 e i 12 milioni di stranieri senza permesso. Nel corso della campagna elettorale il costruttore newyorkese aveva prima promesso di mandarli via tutti. Poi era sceso a 6 milioni. Ieri, nella prima uscita televisiva da neopresidente, si è attestato "sui 2-3 milioni". L’annuncio di Trump ha già suscitato polemiche e ulteriori divisioni nell’opinione pubblica. Nelle principali città americane sono state programmate proteste anche per la serata di ieri. Sabato migliaia di persone avevano marciato a New York, Chicago, Los Angeles. A Portland, nell’Oregon, gruppi di attivisti hanno lanciato oggetti contro la polizia. Venti arresti. Stati Uniti. Al confine con il Messico un muro lungo 3.200 chilometri di Guido Olimpio Corriere della Sera, 14 novembre 2016 Dei circa 3.200 chilometri di confine Usa-Messico circa 1.070 sono già protetti da ostacoli. Il neopresidente ha parlato di una spesa oscillante tra i 10 e i 12 miliardi di dollari. A pochi metri dal confine con l’Arizona, erano in tanti a seguire lo spoglio elettorale americano. Potenziali immigrati, famiglie che hanno i parenti che vivono negli Usa e loro, i re del traffico. I contrabbandieri di uomini e droga. La vittoria di Trump può avere un grande impatto. Tutti si chiedono se e come creerà la grande muraglia. I numeri - Dei circa 3.200 chilometri di confine Usa-Messico circa 1.070 sono già protetti da ostacoli: 1) Il muro vero. 2) Palizzate in rete. 3) Barriere costruite con le piattaforme in metallo "reduci" dei conflitti in Vietnam e nel Golfo. 4) Strutture per bloccare il passaggio di veicoli. 5) Recinzione elettronica composta da sensori, telecamere. 6) Filo spinato. Poi vi sono zone, quelle più impervie e lungo il Rio Grande, dove non esiste nulla. In Arizona, uno dei punti più esposti la situazione è la seguente: 123 miglia di protezione contro l’attraversamento a piedi; 180 miglia contro il transito di mezzi; 66 miglia scoperte. Lo Stato del Sudovest è uno dei pochi ad avere stanziato un proprio budget di 750 milioni di dollari per aumentare le difese. 750 è un numero che ritorna: è quello delle miglia che i repubblicani vorrebbero blindare. Una compagnia israeliana sta lavorando ad una nuova versione della "rete invisibile", composta appunto da macchine che vedono, sentono, inquadrano per poi permettere alla Border Patrol di intercettare gli intrusi. I fondi - Di denaro ne serve tanto. Il neopresidente ha parlato di una spesa oscillante tra i 10 e i 12 miliardi di dollari. Altri l’hanno abbassata della metà. Altri ancora l’hanno raddoppiata. Cifre diverse perché ci sono molti progetti sul tavolo. Una che trova d’accordo i "tecnici" - e probabilmente anche Trump - prevede non di alzare la palizzata esistente, bensì di raddoppiarla. Ossia una seconda recinzione, con in mezzo una strada pattugliata dagli agenti. In modo da creare un percorso a ostacoli per chiunque provi a violarla e contenere il flusso. Perché è noto che contrabbandieri e clandestini sono capaci di superare agevolmente il muro: un video mostra che bastano appena 18 secondi. I narcos (e affini) hanno sviluppato tattiche e si adeguano. Scavano sotto, come a Nogales e Tijuana le due città dei tunnel segreti. Impiegano rampe poggiate su veicoli. Tagliano la rete. La sfondano con i cric. Oppure, sfidando deserto, calore e scorpioni, mandando i loro portatori a ovest di Nogales, nella riserva indiana Tohono. Qui la giurisdizione è dei nativi, anche se la Border Patrol sorveglia. La frontiera in questo settore ha uno sbarramento piuttosto basso o neppure quello. Sarà dura modificarlo. I capi della tribù hanno già fatto sapere che non concederanno mai l’autorizzazione. Le vittime - Non va dimenticato che il "muro" è stato ampliato sotto i democratici e che è stato Bill Clinton a varare un piano che ha lasciato esposta l’area desertica proprio per mettere gli illegali davanti ad un bivio. Provano ad attraversare i quadranti sorvegliati, con il rischio di essere intercettati oppure tentano lungo il Camino del Diablo, sfidando le insidie climatiche e geografiche. Dal 2001 sono oltre 2.500 i migranti trovati senza vita nella regione, numero che va moltiplicato almeno per tre. Valutazione espressa dalle associazioni umanitarie che abbiamo accompagnato lungo sentieri difficili. Gli uomini della frontiera - Jim Chilton è il proprietario di un ranch che si estende fino alla frontiera. Lui e la moglie Sue si considerano abbandonati nella "terra di nessuno". Difficile non dare loro ragione. La linea che marca la divisione con il Messico è un fil di ferro. La zona è attraversata da gruppi di spalloni della droga, spesso protetti da scorte armate di kalashnikov, una spola così intensa che lui ha sistemato delle telecamere nascoste per filmarli. È una processione di uomini in mimetica, con zaini e sacche, le scarpe protette da pezze per non lasciare orme. Gli immigrati ci provano sempre, anche se non come nel passato. Nell’anno fiscale 2016 la polizia ha catturato circa 600 mila clandestini sull’intero lato meridionale degli Usa, il 23 per cento in più rispetto al 2015. Un affare per il racket che spesso chiede 4 mila dollari per portarti fino alla più vicina cittadina statunitense. Oltre agli arresti le deportazioni. Durante l’amministrazione Obama è stato raggiunto il picco: oltre 2,5 milioni. Dati che scivolano via su chi pensa nel tradimento da parte di Washington. Ora Jim spera che le cose cambino. Preoccupazioni per chi si sente minacciato nel suo quieto vivere, fatto di lavoro, legame con la terra, tradizioni. Poi la cena al tramonto preceduta da una breve preghiera. Il cowboy non è un cacciatore di stranieri, tutt’altro. Auspica una legge sull’immigrazione, chiede sicurezza. Discussioni che non possono prescindere da due aspetti. Il primo è la domanda di braccia: l’America ne ha bisogno, senza di loro tutto si ferma. Anche il secondo è una domanda: quella della droga. I cartelli mandano i loro carichi perché la richiesta di stupefacenti negli Usa non conosce "inappetenza". Dimenticarlo è un errore capitale. Filippine. Gli squadroni di Duterte, il presidente che fa uccidere i pusher di Angelo Aquaro La Repubblica, 14 novembre 2016 Manila, una notte all’inferno. Il racconto del Far West quotidiano nelle strade della capitale filippina. E per evitare l’agguato spacciatori e consumatori si denunciano da soli. Il primo pusher stramazza dove comincia Quezon City, il Cristo dell’Iglesia Luzon è solo una statua di pietra e i poliziotti possono scaricare senza timore di Dio la doppia canna d’ordinanza sul corpo di Ariel Tabucuran, detto Aying, 22 anni di spaccio e chissà cos’altro. Sono le 2.30 a Manila e un’altra notte di strage è appena cominciata. "Quanti morti? La sera dei record ne abbiamo contati 22. E chi se la scorda più quella settimana di settembre", dice Linus Guardian Escandor II, l’ex fotografo del Manila Bulletin che da quando tutto questo è incominciato s’è messo in proprio per tenere un diario dell’orrore. Anche stanotte la pattuglia è arrivata fin lassù seguendo la solita soffiata, a Old Balara c’è una "shuba session", il party dei poveracci dove ci si sballa con le anfetamine. Lo spacciatore è saltato fuori da quella porticina al numero 123 che adesso è circondata dai nastri gialli: "Police Line Do Not Cross". La scritta "Mafia" sul muro macchiato di sangue sembra lasciata lì da uno sceneggiatore di polizieschi di serie B e invece è tragicamente vera come l’insegna sgangherata del "Mary Jane Store" di fronte che promette "Fruit Soda & Juicy Lemon". Ti dicono, lo fanno sempre, che lo spacciatore ha reagito, "He fought back": ma lo sanno tutti che il tentativo di reazione è solo un trucco per giustificare la strage dei 4700 morti, ultima incredibile conta nella guerra alla droga di Rodrigo Duterte, il presidente- sceriffo che sta trasformando in Far West questo popolosissimo arcipelago del Far East, più di 100 milioni di anime. Una carneficina. Venerdì notte l’esecuzione è avvenuta perfino in prigione. Rolando Espinosa, l’ex sindaco di Albuera accusato di narcotraffico, è stato ammazzato con la scusa che proprio lì, dietro alle sbarre però armato fino ai denti, avrebbe reagito alla perquisizione delle guardie: sicuro che è andata così, come no. "Ha reagito". E si spara a bruciapelo, senza arresto né processo, secondo la legge di questi tropici neppure troppo tristi se ti lasci incantare dai lussuosissimi mall di Makati circondati notte e giorno da eserciti di vigilantes, e soprattutto se guardi alle cifre del Pil che continua a crescere del 7.3% l’anno: fino a quando l’occhio non ricade sull’indice di povertà ancora inchiodato alla media agghiacciante del 26%, più di uno su quattro sotto la soglia di sussistenza. Quanti poveri cristi si nasconderanno, per esempio, nei vicoli del Barangay Poblacion? Qui il "tandem", la moto dei giustizieri mascherati che viaggiano sempre in due, e fanno il lavoro ancora più sporco di quello che fa la polizia, arriva un’ora più tardi: sono le 3.30 e quel che resta di Nemencio Roque, 64 anni, è il corpo senza vita che indovini alla fine del vicolo buio. L’indirizzo sembra anche questa una licenza da B-movie, Paraiso 333, dove il civico del Paradiso è l’altra metà del numero dell’Inferno. Nella stanza accanto una ragazzina continua a stirare, canta già il gallo e lo spacciatore è disteso lì per terra, i pantaloncini bianchi e viola, il ventilatore che gli è finito addosso nella caduta. Cronaca di una morte più che annunciata: Nemencio era da tempo nella lista dei consumatori- spacciatori del Barangay, il vecchio barrio, cioè nella lista dei morti viventi, altro che i "Walking Dead" dello show ispirato al serial tv che per una spiacevole coincidenza proprio in questi giorni va in scena qualche chilometro più in là, fino ?all’11novembre, all’Eastwood Central Plaza. "Funziona così", spiega padre Jerome Secillano, "la polizia compila una lista di spacciatori e consumatori, molti ormai si denunciano da soli sperando almeno di evitare di finire in una soffiata: se ti beccano un’altra volta sei praticamente certo che la prossima vittima sarai tu". La parrocchia di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso è alla fine di un incubo di strada chiamato Calamba Coronel, perfino i taxi si spingono fin qui solo dopo lunga e costosa contrattazione. "Siamo terra di confine tra Intramuros e Quezon City, la vecchia e la nuova Manila: e ogni notte, qui, c’è qualcuno che ci lascia la pelle". La Vergine di Guadalupe domina il salottino con altarino e acquario dove padre Jerome offre caffè forte e parole di saggezza, come la Mother Mary dei Beatles "speaking words of wisdom": ma "Let It Be", così sia, è una preghiera che a Manila recitano al contrario. "Per loro vuol dire: padre, si faccia i fatti suoi, pensi al Vangelo, cosa vuole che ne sappia lei della nostra guerra?". Le proteste dei parrocchiani contro le prediche inutili sono nulla di fronte alle minacce che padre Secillano, che è pure il portavoce della conferenza episcopale, continua a ricevere sui social network. "Ci ha provato anche l’arcivescovo, Socrates Villegas, con un pronunciamento pastorale. Citava il Vangelo: "Trasformerò la vostra paura in gioia". Figuriamoci se il presidente che bestemmia e dà del "figlio di", oltre che a Barack Obama, pure a Papa Francesco, si fa zittire da una parabola. "Per tutta risposta ci ha dichiarato guerra, un’altra. Sfidando il no della Chiesa alla pena di morte, che il Congresso vuole reintrodurre entro la fine dell’anno. E sapete che cosa vuol dire in un Paese dove anche la giustizia è così corrotta?". Cosa vuol dire lo sa benissimo un signore che si chiama Steve Cutler e negli ultimi trent’anni qui nelle Filippine ha visto di tutto: con il piccolo aiuto dei suoi ex colleghi dell’Fbi. Oggi Stephen P. Cutler, laurea in criminologia e fiorentissimo business nel comparto sicurezza, non teme di fare l’avvocato del diavolo inteso come Duterte: "Ma come pensavano di liberarsi di una tragedia come la droga?". Per il Dipartimento di Stato americano oltre il 2 per cento della popolazione fa uso di stupefacenti, le Nazioni Unite hanno incoronato le Filippine capitale delle anfetamine e un’inchiesta giornalistica della tv di Manila Abs-Anc parla di giro d’affari da 8.2 miliardi di dollari. "Però finora in questo Paese arrestare uno spacciatore era praticamente impossibile: per legge serve la presenza congiunta di un funzionario locale, di un avvocato e anche di un rappresentante dei media". Domanda: non era meglio cambiare la legge? Nel giardino tropicale dell’americanissima "Coffe Bean", al Greenbelt dell’Ayala Center, di fronte allo storico Hotel Peninsula, l’ex agente non si scompone: "Hanno sopportato anni di legge marziale, controlli e arresti senza mandati: nessuno oggi rinuncerebbe mai più a certe garanzie". Peccato per i danni collaterali. La bambina di 5 anni finita in agosto sotto il fuoco della polizia. Le esecuzioni senza processo. "Per non parlare dei cosiddetti vigilantes: che cosa succederà quando questa gente si accorgerà che può andare in giro a farsi giustizia da sola e restare impunita?". Magari succederà quello che è già successo in una città chiamata Davao, dove Rodrigo "The Punisher" Duterte ha regnato come sindaco per decenni. Anche lì la guerra alla droga l’hanno combattuta soprattutto i vigilantes, gli squadroni della morte che arrivano dove non basta la polizia: e che cosa è successo? Niente. Anzi è cominciata proprio così l’ascesa dell’uomo che allora giurava di far ingrassare i pesci della sua isola con i cadaveri dei criminali e oggi invidia Adolf Hitler per aver ucciso, dice lui, 3 milioni di persone: il numero di drogati e trafficanti che vorrebbe egli stesso ammazzare. Anche per questo Leila De Lima aveva chiesto di aprire un’indagine su tutti quei morti nella capitale: davvero agisce solo la polizia, cos’è questa storia degli squadroni? Il presidente ha risposto con stile: il suo. Accusando la signora di una relazione sentimentale con l’ex autista e guardia del corpo - nonché sospetto trafficante. De Lima non è una semplice senatrice: è l’avvocato di grido che Gloria Arroyo, l’ex presidente che cancellò la pena di morte, nominò a capo della commissione per i diritti umani, e Benigno Aquino, altro ex inquilino del Malacanang, il palazzo presidenziale, volle al dicastero della giustizia. Anche lei, dunque, è finita nella lista nera: proprio in queste ore Jaybee Sebastian, un boss in cella, l’ha accusata di aver approfittato del traffico di droga nella prigione di New Bilibid. La senatrice, che non ha risposto a due richieste di intervista di Repubblica, nega e ribatte: "Sebastian è stato costretto, fa parte del suo patto con le forze del male, per lui è una questione di vita e di morte". Solo per lui? Ci vuole uno stomaco così per non farselo strizzare di questi giorni a Manila. Ci vuole uno come B.L., che di professione fa, anzi faceva, il poliziotto: "Il prossimo della lista sono io" dice abbassando per una volta lo sguardo in uno dei tanti caffè ristorante di Adriatico Street, tra lo struscio dei turisti locali e l’immancabile troupe tv in cerca di folklore. B. L. è stato temporaneamente allontanato con l’accusa di far parte della popolatissima pattuglia dei ninja-cops: i poliziotti- spacciatori. Anche lui, ovviamente, nega. E spiega che la sua unica colpa è essersi messo di traverso in un trasferimento importante. Bisognava fare spazio agli uomini di Ronald dela Rosa, il generale con una sola stella che dalla sua Davao, dove aveva guidato la prima, sanguinosissima guerra alla droga, sempre Duterte ha promosso armi e bagaglio a nuovo capo della polizia. "Sapete quanto può arrivare a guadagnare un poliziotto? Ventiseimila pesos al mese. E sapete quanto valgono gli spacciatori morti ammazzati? Diecimila pesos se il morto porta un calibro 38. Venticinquemila se porta un calibro 45". L’ammazzatina della polizia a cottimo e a peso d’arma sarebbe, se provata, l’ultima vergogna di Manila: e spiegherebbe anche l’escalation di morti firmata dalla polizia. Ma B. L. giura sui suoi due figli che c’è di peggio. Racconta di un altro collega "condannato a morte perché accusato di droga. Era musulmano. E una delle sue donne aveva una relazione con uno spacciatore: è bastato". La tecnica è sempre quella: ucciso da altri poliziotti perché, dicono, cercava di reagire. "Nessuno sa nemmeno i loro nomi. Nessuno sa nemmeno se siano davvero tutti poliziotti". Nessuno sa neppure quando, e soprattutto se, Duterte fermerà mai questo Far West. L’uomo che ha stramaledetto l’alleato americano per abbracciare l’ex nemica Cina ora dice che la prossima guerra la farà al terrorismo: "Dove credete che andranno tutti i fighters dell’Isis che si ritira da Aleppo? Indonesia, Malesia, Filippine". Non è una previsione sbagliata: ma non sarà anche un’altra scusa per tirare ancora di più la corda della democrazia? I militari, che di guerra se ne intendono, la vedono diversamente. "Da Abu Sayaf agli altri gruppetti islamici lì vinciamo solo se giochiamo di sistema: la forza senza politica non basta" avverte Restituto Padilla, portavoce delle Forze Armate, sorseggiando Ginger Turmeric Tea ("Ottimo per le giunture: e lo dico dopo 2700 ore di elicottero ") nel quartier generale di Camp Aguinaldo. Il generale applaude agli sforzi dello sceriffo: "La tregua con gli islamici del Moro National Liberation Front era stata intavolata da tempo: ed è stato lui a dare la svolta decisiva". La differenza è che con Isis e Abu Sayaf non si negozia promettendo l’impunità. Ma che importa? E soprattutto: a chi? L’ultimo sondaggio di PulseAsia Research, è vero, dà don Rodrigo in calo di 5 punti - ma dal 91 all’86%. E nelle baracche la gente continua a sostenere la strage dei cattivi: sempre meglio lo sceriffo dei politici che hanno rubato fin qui. Dov’è allora lo scandalo se da Quezon City a Paraiso Street i bambini fanno ogni sera ciao ciao con la manina ai fotografi che si lasciano i cadaveri alle spalle? Le jeepneys coloratissime e senza fari, che qui sono i bus dei più poveri, non smettono di imbarcare pendolari e perdinotte neppure a quest’ora. Sono le 5 del mattino a Manila: domani è un’altra notte.