Riforma Giustizia, basta aspettare di Donatella Ferranti e Walter Verini (Pd) L’Unità, 13 novembre 2016 Quasi due anni fa, il 12 dicembre 2014, il Governo presentò un disegno di legge di riforma della giustizia penale, intervento tra i più significativi di questa legislatura, che prevede la riforma di ampi settori del diritto penale e del diritto processuale penale ma anche importanti modifiche in tema di rafforzamento delle garanzie difensive e durata ragionevole dei processi. Contiene infine la delega al governo in materia di pubblicabilità delle intercettazioni e quella per la riforma dell’ordinamento penitenziario e l’effettività rieducativa della pena. Si tratta di un vasto e incisivo progetto di riforma, intorno al quale si è sviluppata nella Commissione Giustizia dei due rami del Parlamento una discussione che ha coinvolto in maniera proficua tutti i soggetti della giurisdizione e della dottrina. Pur muovendo da posizioni diverse, rappresentate anche in un recente incontro con il Presidente del Consiglio e il Ministro della Giustizia, l’Associazione Nazionale Magistrati e il sistema ordinistico dell’Avvocatura ne sollecitano oggi l’approvazione. È trascorso più di un anno dal voto favorevole della Camera, durante il quale c’è stato un confronto serio e ci sono oggi le condizioni e la possibilità per il voto del Senato. Non vediamo ragioni - né di metodo, né di merito - per rinviare il percorso legislativo di questa importante riforma di sistema. La riforma migliora infatti il funzionamento della giustizia sotto molti aspetti: contribuisce ad alleggerire i carichi che affliggono procure e tribunali; introduce una nuova disciplina in materia di giustizia riparatoria; contribuisce a rendere prevedibili i tempi di fase dei processi; aggiorna il sistema di garanzie dell’imputato; prevede inasprimenti di pena per reati che destano allarme sociale, come il furto a domicilio, lo scippo, la rapina. Con la legge si interviene anche in materia di prescrizione dei reati. E lo si fa assicurando alla giurisdizione tempi idonei allo svolgimento delle attività di accertamento dei fatti, pur nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Il provvedimento prevede infatti, dopo la condanna in primo e in secondo grado, specifiche parentesi di sospensione (di 18 mesi ciascuna per ciascun grado di impugnazione: Appello e Cassazione) così da dare un periodo congruo per lo svolgimento delle ulteriori fasi processuali finalizzato a consentire la pronuncia di una sentenza di merito. Si tratta di un punto di equilibrio che ha raggiunto il consenso necessario fra le forze politiche e che può quindi essere senz’altro portato ad approvazione. Anche le istituzioni internazionali esprimono apprezzamento per la riforma. L’Ocse ne ha caldeggiato l’approvazione per via del più forte contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione che essa permette. I riflettori dell’opinione pubblica, tutti puntati sul tema della prescrizione (e sulle intercettazioni su cui il Governo agirà per delega senza ridurne l’utilizzo nella fase delle indagini e lavorando tenendo insieme i principi del diritto all’informazione e quello alla privacy per intercettazioni senza rilevanza penale e di contesto), non debbono oscurare anche un altro pilastro della riforma, che riguarda l’esecuzione penale. Si rende effettivo l’art. 27 della Costituzione e si raccolgono le sollecitazioni venute sia dalle corti europee, che da altissime autorità morali come Papa Francesco, che ha più volte espresso, nell’anno giubilare della misericordia, la sua preoccupazione per le condizioni della detenzione nel nostro Paese. La delega al Governo, fortemente incisiva, va nel solco degli interventi legislativi che hanno già fatto fronte all’emergenza-sovraffollamento. Questo è il contenuto del provvedimento nelle sue linee essenziali, che peraltro riprende e fonda le basi sui lavori di autorevoli commissioni di studio a cui hanno partecipato autorevoli esponenti dell’Avvocatura, della Magistratura e della dottrina e che si è arricchito degli approfondimenti effettuati nelle Commissioni Giustizia. Riteniamo allora che si possa e si debba lavorare tutti per portare all’approvazione il provvedimento, evitando così il rischio di rallentare o di interrompere un disegno riformatore di così ampia portata. Di più, farlo ora in prossimità di un appuntamento referendario nel quale è in gioco il cambiamento del Paese, contribuirebbe a dimostrare ancora più e meglio la volontà e l’ambizione riformatrice del governo e di questa maggioranza. La riforma penale è infatti un pezzo di questa dimostrazione. È coerente con le finalità complessive del referendum costituzionale, che punta a rendere l’organizzazione dei poteri pubblici più efficiente e a dotare il Paese degli strumenti necessari per venir fuori dall’impasse e immobilismi. Per costruire un sistema Italia democratico, efficiente ed efficace, del quale elemento centrale è una giustizia più moderna, più civile, più giusta. Il Presidente Mattarella telefona a Rita Bernardini, ringrazia per impegno sulle carceri Adnkronos, 13 novembre 2016 Rita Bernardini ha ricevuto ieri mattina la telefonata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre era in visita con una delegazione di Radicali Catania al carcere cittadino di piazza Lanza. Lo rende noto Radio Radicale. Nel momento della chiamata la delegazione si trovava nell’ufficio del direttore aggiunto Giorgia Gruttadauria, presente il vice-comandante di reparto Vincenzo La Greca. Il presidente ha ringraziato il partito Radicale per l’impegno profuso per le carceri e ha ringraziato i digiunatori (Rita Bernardini, Irene Testa, Maurizio Bolognetti e Paola Di Folco, n.d.r.) per aver sospeso lo sciopero della fame dopo 32 giorni, esprimendo fiducia nelle istituzioni. Bernardini ha a sua volta ringraziato il presidente Mattarella per la sua sensibilità, preannunciando l’intenzione di volergli far dono delle firme dei 17.000 detenuti che il giorno 5 e 6 novembre hanno digiunato in concordanza con gli obiettivi del Partito Radicale. Giubileo della Misericordia: chi vuol credere, creda di Don Marco Pozza (Cappellano del carcere di Padova) Il Mattino di Padova, 13 novembre 2016 Sono storie piene di crepe da tutte le parti: storie da crepacuore, anche. È nelle crepe, però, che s’infila la luce: storie luminose, dunque, dal momento che "nelle crepe sta in agguato Dio" (L. Borges). Le biografie dei poveri sono tutte così: crepate, slacciate, sfrangiate. Sudice di polvere, di notti passate col naso all’addiaccio, di speranze che il tempo ha reso quasi-defunte. Si assomigliano quasi tutte quelle storie. Ad accomunarle, soprattutto quelle rese infami dalle gesta compiute, è sempre la solita tentazione, quella di rinchiudersi nel passato: "Nessuno di voi si rinchiuda nel passato! Non cadiamo nella tentazione di pensare di non poter essere perdonati", ha raccomandato Francesco durante il Giubileo dei Carcerati di domenica scorsa a Roma. L’istigazione che ha fatto di Satana il principe del suicidio, il disperato che insegna a tutti i costi a disperare. Poi, nell’attimo esatto in cui meno l’attendi, giunge una voce di sorpresa: inaspettata, gagliarda, luce nell’oscurità. È la Grazia, quella che a guardarla da fuori non pare comprensibile. È bastato un cenno, sotto un cielo di tempesta, a squarciare delle vite di tempesta: "Andiamo a trovare papa Francesco. Ci sta aspettando". Un grido che per loro - i banditi della società, quelli banditi dalla società - era anche annuncio: Dio ti cerca ovunque tu sia, Dio ti trova. Non te lo perdere, altrimenti sei perduto. Anche Dio certi giorni sembra perduto senza la loro compagnia: "Non esiste tregua né riposo per Dio fino a quando non ha ritrovato la pecora che si era perduta" aveva detto il papa nella messa del mattino. Poi un ciuffo di quelle pecore le ha chiamate da lui, giusto a casa sua. Da buon pastore - da novello Francesco di Gubbio - sapeva bene il vecchio detto popolare secondo il quale il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ciò che quel gesto voleva dimostrare era la fallacia di quel proverbio: se è vero che il lupo perde il pelo e non il vizio, è altrettanto vero che con un pizzico d’amore ci sono lupi che sanno anche perdere il vizio. Il vizio del male, quella droga-quotidiana ch’è sempre una brutta faccenda: "La storia passata, anche se lo volessimo, non può essere riscritta. La storia che inizia oggi è ancora tutta da scrivere, con la grazia di Dio e con la vostra personale responsabilità" era stato il monito del papa francescano. Che, forse, tra i potenti è il solo che calcola la presenza di una variabile: l’idea che la povertà possa essere un terreno fecondo per la nascita di un crimine. Per l’inizio di una disavventura, come di un’avventura. Mentre lo tenevano sotto assedio a-casa-sua, il mio divertimento è stato lo scrutare i loro volti: teste marchiate da cicatrici, tatuaggi stampati sulla pelle, le occhiaie smunte dal troppo fissare il vuoto. Addosso portavano camice non più in commercio, pantaloni di quinta-mano, qualcuno dei denti ha solo qualche accenno. Eppure ciò che rende bello un deserto, raccontava il Piccolo Principe, è che da qualche parte nasconde un pozzo. Il pozzo di uno sguardo, quello del Papa: li fissa, lo fissano, inanellano discorsi senza nemmeno aprir bocca. Loro, uomini d’armi e di battaglia, tremano. Lui, uomo di pace e di guerra al male, ha la gioia del bambino sul volto. Di pomeriggio, a casa, si apre la porta agli amici, alla compagnia che rallegra il cuore. Anche il Papa ha fatto così: mentre i sondaggisti, dall’America, mostravano una capacità di leggere l’andamento della storia da far ridere le capre, Francesco ha scelto di non perdere il contatto con la storia: quella vera, sempre più bella di quella immaginata. Domenica scorsa i detenuti, questa domenica i clochard. Si dice spesso "Dulcis in fundo". Eccolo il delicato finale dell’intero Giubileo della Misericordia, quasi una sintesi: senza i poveri, scordatevi Cristo. Senza la base, scordatevi le altezze. Nessuno obbliga a seguire Cristo. Chi vuol credere, creda: questo è tutto. Lombardia: dietro le sbarre morti e sommosse, il grido d’allarme da Lodi a Como di Luca Rinaldi Corriere della Sera, 13 novembre 2016 Cresce nella regione la popolazione carceraria e si moltiplicano i casi di autolesionismo, proteste e scioperi della fame. A soffrire di più le strutture di Brescia, Vigevano, Como e Lodi. Nel penitenziario di Monza mercoledì scorso si è tolto la vita un detenuto. Mercoledì pomeriggio si è impiccato all’interno della sua cella nel carcere di Monza, dove da oltre un mese era detenuto in attesa di giudizio. Quello di Vito Angelo Caruso, 43 anni, incensurato, è il trentaduesimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane, il primo in Lombardia nel 2016. All’interno della casa circondariale monzese negli ultimi cinque anni sono morti otto reclusi. Un episodio che arriva a pochi giorni dalle celebrazioni del Giubileo dei detenuti, che aveva portato il tema delle carceri anche al centro delle parole di papa Francesco. I discorsi però non bastano mai e oggi per la morte di Caruso si punta il dito soprattutto sul regime di detenzione delle persone in attesa di giudizio: il 43enne accusato per reati di droga si trovava in una sezione del carcere dove le celle restano chiuse per quasi tutto il giorno. A fasi alterne si accendono le luci sulle carceri italiane, che a fronte di 50 mila posti letto ospitano 54.912 detenuti: 4.850 persone in più rispetto alla capienza regolamentare dell’intero sistema delle 192 strutture detentive sul territorio nazionale. Peggio dell’Italia in quanto a sovraffollamento fanno Macedonia, Albania, Francia e Spagna. Non fanno eccezioni i diciotto istituti lombardi che, stando agli ultimi dati del ministero della Giustizia di ottobre, accolgono 1.736 detenuti oltre la soglia prevista. Un sovrappopolamento che ha ripreso a crescere nei primi mesi del 2016 dopo una iniziale flessione dovuta alla sentenza Torreggiani, alla dichiarata incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e all’estensione degli arresti domiciliari delle pene fino a 3 anni. Dai 62 mila detenuti del 2012 si è passati a 52 mila del 2015. A oggi la quota è risalita a quasi 55 mila e a guidare le classifiche dell’affollamento sono gli istituti di pena lombardi di Brescia, Vigevano, Como e Lodi. "Questi numeri sono sotto la nostra costante attenzione. Sono scesi, ma questa inversione di tendenza testimonia che c’è ancora tanto da lavorare", dice Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, o private della libertà personale. Un lavoro che deve necessariamente guardare più che ai numeri alla vita dietro le sbarre, dove quotidianamente reclusi e personale delle carceri si trovano di fronte a quelli che nel gergo si definiscono "eventi critici", cioè atti di autolesionismo, aggressioni, decessi, evasioni e proteste. La più recente a Sondrio, dove 25 dei 38 ospiti della struttura hanno fatto uno sciopero della fame per le condizioni della struttura e i rapporti con il direttore Stefania Mussio. Una situazione che aveva portato anche alle dimissioni del locale garante dei detenuti Francesco Racchetti, il quale aveva puntato il dito sulla limitazione dei colloqui e sull’impossibilità di svolgere il proprio lavoro. Sul piede di guerra erano scese anche le associazioni di volontariato e il personale di polizia: a far esplodere la protesta era però stato il divieto di ingresso al medico per le visite programmate. Oggi la contestazione è rientrata dopo l’intervento del direttore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, e a breve a Sondrio arriverà il nuovo garante. Ma non ci sono solo gli scioperi della fame, che in Lombardia hanno raggiunto quota 770. La rilevazione del ministero ha censito anche 183 rifiuti del vitto o delle terapie e 82 danneggiamenti. Causa scatenante le condizioni di vita, il sovraffollamento, la carenza di assistenza sanitaria o dei servizi. La modalità di protesta più utilizzata è quella rumorosa, cioè la "battitura" su cancelli e inferriate della prigione. Nel documento sono censite anche otto tra evasioni e mancati rientri, la maggior parte dei quali avvenuti durante il lavoro esterno. "Uno scenario - dice Palma - che spiega molto anche su come gli istituti di pena vengono diretti e, soprattutto, di come gli ambienti più aperti all’esterno tramite attività e contatti frequenti siano anche quelli più sicuri. Se il carcere si chiude in se stesso il senso di abbandono aumenta dando il via a episodi di protesta e autolesionismo". I 145 atti di autolesionismo e i 13 tentati suicidi di Cremona su una popolazione carceraria di 446 detenuti sono uno dei dati più significativi dell’intera regione, così come i 562 episodi di colluttazione e i 118 ferimenti che si sono verificati negli istituti lombardi. Non è il solo sovraffollamento a caratterizzare le criticità delle carceri, ma anche il fatto che "il circuito carcerario - dice Valeria Verdolini responsabile per le Lombardia dell’Associazione Antigone - si sia trasformato negli ultimi anni in una sorta di ammortizzatore sociale e sanitario". Le fa eco Luigi Pagano: "Diventando catalizzatori di situazioni già difficilmente gestibili all’esterno del carcere, trasferendo le problematiche all’interno il quadro si complica e dobbiamo cercare come personale di arginare gli eventi critici anche tramite le iniziative e il lavoro". L’attivazione di percorsi lavorativi è da sempre una misura che incontra il favore di chi ha responsabilità e impegni nell’ambito carcerario. Nel 2015 sono stati 14.550 i detenuti impegnati in attività nelle carceri italiane, circa il 30% dell’intera popolazione penitenziaria. A scendere sono state però le retribuzioni e i fondi assegnati. Lo rivela l’ultima Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti trasmessa al Parlamento dal ministero della Giustizia. Dai 71,4 milioni assegnati nel 2006 si è passati ai 60,3 milioni per 15.524 detenuti. Uno stanziamento che rispetto all’anno passato è aumentato di circa 5 milioni, ma che fa mettere nero su bianco al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, che "il budget largamente insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell’istituto (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato, ecc.) incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari". Catania: carcere di Piazza Lanza, i delegati del Partito Radicale in visita di Cassandra Di Giacomo meridionews.it, 13 novembre 2016 Rita Bernardini: "Abbiamo saputo dei casi di scabbia". Un appuntamento per ispezionare il penitenziario catanese e per salutare i detenuti che hanno partecipato all’ultima manifestazione del gruppo politico, organizzata a Roma il mese scorso. Nel giorno in cui scoppia il caso scabbia. "Due casi certi tra i detenuti, quattro da accertare, un agente sotto osservazione", dice il segretario Uil-Pa. Una visita al carcere catanese di piazza Lanza per "verificare le condizioni di detenzione e per ringraziare i detenuti che hanno aderito al digiuno del 5 e del novembre scorso indetto da noi per spingere sull’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario". Sono questi gli elementi che fanno da contorno all’iniziativa del partito Radicale guidata da Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del gruppo. Che domani riproporrà l’appuntamento nella casa circondariale di Caltagirone. "L’appuntamento con la direttrice è fissato per le undici", dice la politica pochi minuti prima di entrare penitenziario catanese. In un giorno particolare in cui "ho letto che si sarebbero verificati dei casi di scabbia tra i detenuti e ciò - precisa Bernardini - è molto grave perché significa che le condizioni igienico-sanitarie sono preoccupanti". Una patologia che - come riportato dal quotidiano La Sicilia - avrebbe colpito pure un agente penitenziario. "Un poliziotto è stato accompagnato in ospedale da un’auto dell’amministrazione del carcere perché avrebbe manifestato prurito e l’insorgere di alcune macchie sulla pelle", spiga, contattato da MeridioNews, il responsabile nazionale del sindacato Uil-Pa Armando Algozzino. "Attendiamo ancora il referto ma i suoi colleghi sono molto preoccupati perché temono il contagio per loro e per le rispettive famiglie e - spiega il sindacalista - colgo l’occasione per chiedere che si lavori sulla prevenzione, migliorando un ambiente che è pure di lavoro". "Attualmente sappiamo solo che ci sarebbero due casi di scabbia accertati tra i detenuti e quattro ancora da verificare", conclude Algozzino. Un punto che rientra anche nella riforma del sistema penitenziario per l’approvazione del quale lotta il partito Radicale. Ma che non è il solo. E a spiegarne i punti salienti è Bernardini. "La riforma è un provvedimento di amnistia e di indulto. La prima serve ai magistrati perché c’è un affollamento di processi, oltre cinque milioni, destinati a una lunga prescrizione: sarebbe meglio sgomberare le scrivanie dei giudici per fare posto ai procedimenti importanti", dice la politica. Per quanto riguardo le condizioni di detenzione, invece, "bisognerebbe intervenire su attività di rieducazione perché sono pochissimi i detenuti che hanno la possibilità di lavorare o studiare". "Il carcere, spesso, diventa ozio e ciò determina un tasso di recidiva altissimo, di circa il 70 per cento, rispetto a quello di altri Paesi che è sul 20", aggiunge Bernardini. Che è fiduciosa sul futuro evolversi della vicenda. Anche grazie al supporto dei detenuti, circa 17mila, che hanno aderito alla scorsa manifestazione e al sostegno di papa Francesco "al quale Marco (Pannella, ndr) indirizzò la sua ultima lettera". Il quale, per la prima volta, in quell’occasione "ha pronunciato le parole atto di clemenza nei confronti di chi è in carcere mentre a noi è stato concesso di tenere in piazza del Vaticano uno striscione con scritto amnistia", conclude. Cuneo: carceri svuotate da leggi e legionella, inchiesta sugli istituti penitenziari di Erica Asselle La Stampa, 13 novembre 2016 Quattro delle tredici carceri piemontesi si trovano in provincia di Cuneo ma, ad eccezione di Fossano, nessuna delle strutture detentive della "Granda" funziona a pieno regime. Chiuso, da gennaio, dopo un’epidemia di legionella, il "Giuseppe Montalto" di Alba (140 posti), ha detenuti e personale smistato altrove. A breve dovrebbe essere definito il cronoprogramma dei lavori di ristrutturazione per la riapertura, graduale, nel corso del 2017. Ancora inutilizzabili i padiglioni del "Vecchio giudiziario" del "Vecchio Cerialdo" di Cuneo: dopo la dismissione del regime 41 bis, sono necessari aggiornamenti e manutenzioni importanti sulle celle. Dei 424 posti "sulla carta" ne sono disponibili soltanto 192 e i detenuti sono 224. Anche a Saluzzo, al "Rodolfo Morandi" (262 posti, 259 detenuti) sono pronti i nuovi padiglioni, con 192 posti di "alta sicurezza", ma per una serie di questioni amministrative e burocratiche l’apertura deve ancora essere fissata, anche se è conclusa la fase dei collaudi. Il Garante - Bene il "modello Fossano", come spiega il garante regionale per i detenuti, Bruno Mellano, che nei giorni scorsi ha visitato alcune delle strutture cuneesi e sollecitato Roma sui lavori da fare e sulle scadenze da rispettare. "Fossano ospita detenuti a custodia attenuata, tra cui molti a fine pena, e può essere considerato un esempio efficace della concezione contemporanea della detenzione che punta al trattamento, al reinserimento. È un carcere che, storicamente e per la sua collocazione in città, vive un progetto definito e ha una sua identità". Un buon esempio, ma che va integrato. "In generale in provincia di Cuneo - continua Mellano - abbiamo strutture che possono essere eccellenti e in alcuni casi lo sono già a patto che facciano sistema, tra loro e con le realtà del territorio. Scuola, formazione, lavoro e il volontariato sono strade da perseguire per costruire curricula dei detenuti, sia dal punto di vista penitenziario che sociale". Il personale - E il personale? Ciclicamente i sindacati di categoria lamentano carenze dell’organico di polizia penitenziaria. "Ho una posizione radicale in merito - precisa Mellano. In alcuni casi mancano funzionari e una progettualità che caratterizzi ciascun carcere. Servono educatori e personale dedicato al trattamento, adeguatamente formato, se abbiamo chiaro in mente che il fine del carcere non è solo, come era invece in passato, la custodia". Stando ai dati più aggiornati dei 3 istituti attivi, su una pianta organica totale di 605 agenti (con diverso ruolo) ne sono effettivi 491. Su 21 educatori previsti, ce ne sono 11. Il Rems - A proposito del reparto Rems (Residenza per l’esecuzione della misure di sicurezza sanitaria), post Ospedali psichiatrici giudiziari, aperto un anno fa alla casa di cura San Michele di Bra, Mellano: "Funziona bene, ma non è un carcere e i pazienti non sono detenuti. La prossima settimana sarà aperta a San Maurizio Canavese una struttura analoga e provvisoria, da 20 posti". C’è poi una fetta di persone, 1000 in provincia, sottoposte a misure di esecuzione penale che non prevedono il carcere (detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, lavori di comunità). "I numeri sono tali - spiega il direttore Ufficio Esecuzione penale esterna di Cuneo, Laura Bottero - da non poter essere trascurati nel recupero e reinserimento". Il Cuneese si candida a un progetto di eccellenza: "Lavoriamo con direttori delle carceri e avvocati per aprire, a fine anno, a Fossano e Cuneo sportelli di orientamento giuridico per informazioni legali ai detenuti", chiude il garante. Roma: Premio "Goliarda Sapienza", quando la letteratura nasce dietro le sbarre La Gazzetta di Mantova, 13 novembre 2016 C’è Stefano che tentando di recuperare il rapporto con la figlia riesce a perdonare la madre che l’aveva abbandonato quando era bambino. ("Tornando da scuola, mi sedevo sempre davanti alla porta, sullo scalino e aspettavo mia madre. Quel giorno l’attesi fino al tramonto e fino a che si accesero le stelle in cielo, poi mi addormentai sull’uscio. Al sorgere del sole, quando riaprii gli occhi, ero ancora solo"). Gabriele, che scopre quanto coraggio serva per scrivere, dopo vent’anni, una lettera al figlio del gioielliere che ha ucciso: più che per fare una rapina. Adelmo, che capisce che per trovare un antidoto al veleno che lo sta distruggendo deve partire da suo padre, perdonare lui per perdonare se stesso. ("L’ho odiato: Freddo e presuntuoso, credeva di essere Dio in terra. Farsi amare da lui era talmente impossibile che per riuscirci ho cercato di eguagliarlo"). È il perdono, su ispirazione del Giubileo dei carcerati, il filo rosso che lega i 25 racconti finalisti della sesta edizione del Premio Goliarda Sapienza, l’unico concorso letterario in Europa dedicato a detenuti, affiancati per l’occasione tutor d’eccezione. A Regina Coeli la proclamazione dei vincitori nel corso di un evento presentato da Serena Dandini: per la sezione adulti Michele Maggio accompagnato da Sandro Ruotolo con "Cemento urlante" (secondo Stefano Lemma, terzo Salvatore Torre), per quella minori e giovani adulti da Antonio accompagnato da Erri De Luca con "Il biglietto di Rosa Parks" (secondo Unknown, terzo Raffaele Amabile). Come per gli anni scorsi è stato chiesto ai detenuti di tutta Italia di scrivere un testo autobiografico che trattasse della condizione del carcere. Sono arrivati cinquecento testi, alcuni molto lunghi, scritti a mano o in dialetto. Dopo una prima scrematura, basata sulla forza della storia e della scrittura, sono stati affidati alla giuria del Premio, presieduto da Elio Pecora, che ha poi decretato i vincitori. Per sorteggio a ogni detenuto finalista è stato assegnato un tutor. Tra loro Mogol, Luca Barbarossa, Cinzia Tani, Pino Corrias, Alessadro D’Alatri, Fiamma Satta, Andrea Vianello, Federico Moccia. Hanno scritto un’introduzione al racconto e, a Regina Coeli, accompagnato sul palco gli autori. Racconti e introduzioni sono raccolti nel volume "Così vicino alla felicità, Racconti dal carcere" a cura di Antonella Bolelli Ferrera e con una prefazione di Dario Edoardo Viganò (Rai Eri). Colpisce, racconta la curatrice, la mancanza di pietismi e autocommiserazione. E poi l’interpretazione data al tema: il perdono è chiesto a se stessi, non ad altri, come passaggio necessario. Qualcuno ha il coraggio di dire che ancora non è pronto. "Non sono ancora in grado di chiedere perdono, il cammino è molto lungo. Ma a chi sa, dico: abbiate fede e attendetemi. Non arriverò correndo, ma arriverò", scrive il vincitore Michele Maggio. Sono storie soprattutto al maschile di violenza, abusi, emarginazione. C’è chi devia dall’autobiografia in strade surreali, chi impasta realtà a deliri vissuti. Nell’insieme è l’affresco di un’umanità che pare avere un destino inesorabile. "Mi sento petaloso, ma cresciuto in un posto sbagliato" scrive Valia. Esistono un determinismo ambientale e genetico? Si chiede Antonio Pascale che firma l’introduzione del racconto in cui Gianluca Migliaccio racconta un’infanzia di abusi per le strade di Napoli. "Non trovo un’alternativa, posso solo proseguire, andare incontro al mio destino", scrive. Il carcere è visto come luogo dove "ogni giorno ci si ritrova colpevoli del migliore e più inutile dei delitti: si sorpassa la vita ammazzando il tempo", come scrive Zazza. Il senso del Premio Goliarda Sapienza nasce proprio da qui, dice Antonella Bolelli Ferrera, "per dare senso all’articolo 27 della Costituzione: siamo convinti che la detenzione non sia solo un modo per ripagare la società, deve reintegrare le persone nelle società. E il recupero avviene anche attraverso un percorso culturale". Milano: Cooperativa E.s.t.i.a., il teatro-carcere tra dentro e fuori di Camilla Fava milanofree.it, 13 novembre 2016 Giovedì 10 novembre è stata presentata, al Teatro Elfo Puccini, la stagione 2016/2017 della Cooperativa E.s.t.i.a., Evocazioni simboli tracce invisibili all’occhio. La Cooperativa, nata nel 2003, si impegna ad offrire attività nelle carceri milanesi finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti operando in particolare nella Casa di Reclusione di Bollate. Nonostante in Italia il costo per ogni detenuto sia di circa 150 euro, di questi solo 19 centesimi vengono utilizzati per attività di riabilitazione ed educative. In un tale contesto opera E.s.t.i.a che ha come obiettivo proprio il reinserimento di queste persone nella società tramite un percorso di maturazione dell’autonomia professionale da iniziare nelle carceri e da proseguire successivamente alla riconquista della libertà. Le attività della cooperativa si concentrano su Teatro e Teatro-danza, coinvolgendo detenuti ed ex detenuti in laboratori e attività che danno i loro frutti nella concreta realizzazione di spettacoli. La stagione 2016/2017 comprende nuove produzioni della cooperativa, tra cui Pinocchio e Ci avete rotto il Caos! realizzati dai detenuti in quasi completa autonomia. E.s.t.i.a., da sempre aperta a collaborazioni con altre strutture, tra cui in passato lo Iulm e l’Università degli studi di Milano, quest’anno ha coinvolto la Naba per la nuova produzione Il rovescio e il diritto tratto dagli scritti giovanili di Albert Camus, in scena dal 26 al 28 gennaio 2017 nel carcere di Bollate. Le ragazze dei corsi di Design, Moda e Comunicazione dell’Accademia sono intervenute durante la conferenza stampa sottolineando la necessità di aprire i canali di comunicazione tra chi è dentro e chi sta fuori: due mondi percepiti come lontani e diversi, ma che, entrando in carcere e svolgendo attività culturali, si avvicinano, permettendo di mescolare la società civile a quella altra della reclusione, unite dalla e nella stessa esperienza artistica. Quest’anno la stagione inizia "fuori", al Teatro Ariberto di Milano il 17 novembre con Pinocchio, in scena fino al 19. Dal 24 al 26 novembre sarà invece la drammaturgia e regia collettiva "Ci avete rotto il caos!" a portare dentro il carcere di Bollate il pubblico: tra la violenza dei black-block nelle manifestazioni e i sogni che si hanno da bambini questo spettacolo racconta tante storie, come fossero una sola. A dicembre, dal 13 al 15, torna nella casa di Reclusione di Bollate Camerieri di vita, una cena spettacolo in grado di far sentire gli spettatori parte attiva del progetto che anima la cooperativa stessa, quel processo di relazione e inclusione necessario per vivere in una società sana. Le relazioni interpersonali rendono possibile un’educazione emotiva capace di abbattere il tasso di recidiva dal 68% stimato in Italia al 6% di chi frequenta i corsi teatrali attivati nel carcere di Bollate, chiaro segnale di come E.s.t.i.a. sia una di quelle buone pratiche da seguire, non solo in Italia. Milano: Papa Francesco farà tappa nel carcere di San Vittore di Zita Dazzi La Repubblica, 13 novembre 2016 Andrà a San Vittore, il Papa, il 25 marzo. Il carcere più duro, quello più affollato e fatiscente. Anche se vicino a Milano ci sono i penitenziari "modello" di Opera e di Bollate dove si sperimentano arditi modelli di reinserimento sociale, il Pontefice farà visita ai detenuti della struttura più problematica, quella che da tempo la politica progetta di chiudere o spostare lontano dal centro. È questo il primo punto fermo di un programma che resta ancora in gran parte avvolto nel segreto, in attesa del visto Vaticano. I tempi stringono e i palazzi milanesi sono in allerta, perché la visita di Francesco - bene della durata di un solo giorno - comporta un grande sforzo organizzativo, sia sotto il profilo logistico, sia per le questioni della sicurezza, sia perché si prevede l’afflusso di non meno di mezzo milione di fedeli. Il punto critico è quello della messa conclusiva. Quando venne Ratziger per il raduno mondiale delle famiglie, nel giugno 2012, la liturgia e la grande serata finale in diretta Rai si svolsero al campo volo di Bresso. Che era appena stato collegato al centro dalla linea Lilla del metrò. Oggi però a Bresso ci sono l’hub dei profughi e il centro d’accoglienza straordinario della prefettura, con 500-600 ospiti in container e tende. Non è certo quello il posto più indicato per far convergere anche alcune centinaia di migliaia di fedeli da tutta la Diocesi e anche oltre. La scelta potrebbe quindi cadere sul sito Expo, che è ugualmente collegato alla città dalla metropolitana. È anche un’area creata con le condizioni ideali per garantire i massimi livelli dei controlli e della presenza delle forze dell’ordine. I fedeli potrebbero occupare il chilometro di percorso del Decumano e il Papa potrebbe celebrare nel grande teatro-auditorium. Il cantiere che ora occupa l’area per lo smontaggio dei padiglioni Expo sicuramente per quella data sarà finito da tempo e non saranno ancora presenti le gru per i lavori successivi previsti. Ma per ora, nulla è detto e la società Expo non ha avuto nessuna comunicazione da parte della Curia, che a sua volta sta aspettando dal Vaticano indicazioni sul programma. Altre aree che potranno essere prese in considerazione sono l’ex caserma Perrucchetti (un milione di metri quadri in zona Forze Armate) o il parco di Monza, con buona pace delle preoccupazioni degli ambientalisti sulla cura del verde. Altri punti fermi per quel sabato di fine marzo sono sicuramente la visita in Duomo, dove il Santo Padre potrà salutare i preti ambrosiani, e in Curia, dove è l’abitazione dell’arcivescovo Angelo Scola. Francesco ha poi chiesto di visitare un quartiere di periferia. Ed è facile pensare che questa tappa sarà in un quadrante della città non lontano dal luogo della messa finale. Intanto oggi si celebra la fine del Giubileo straordinario della misericordia, in Duomo ma anche nelle sette carceri della Diocesi. A salutare e pregare con i detenuti di San Vittore andrà monsignor Mario Delpini; a Bollate andrà monsignor Erminio De Scalzi, a Opera ci saranno monsignor Bruno Marinoni e monsignor Luca Bressan, a Monza monsignor Pierantonio Tremolada, a Lecco monsignor Luigi Stucchi, a Busto Arsizio monsignor Paolo Martinelli. A Varese la celebrazione è stata presieduta questa sera da monsignor Franco Agnesi. I vicari porteranno ai detenuti un messaggio del cardinale Scola, che invece chiuderà la porta della misericordia della cattedrale, annunciando l’inizio dell’Avvento ambrosiano durante la messa delle 17.30. Vicenza: violenze nel carcere San Pio X, tre agenti feriti di Ilaria Martini vicenzareport.it, 13 novembre 2016 Ieri mattina tre agenti della polizia penitenziaria, in servizio al carcere San Pio X di Vicenza, sono finiti al pronto soccorso dell’ospedale San Bortolo, in seguito alle lesioni riportate dopo una aggressione durante un turno di servizio nella casa circondariale cittadina. Per due dei feriti la prognosi è di circa una settimana. Ad aggredirli un giovane detenuto marocchino e sembrerebbe che a scatenare la sua violenta reazione sia stata una perquisizione a sorpresa. Alcune guardie, infatti, si sono presentate nella cella del ragazzo verso le 8 di venerdì con l’ordine di svolgere un controllo. Nonostante il marocchino abbia provato ad ostacolare questa ispezione, della quale avrebbe voluto essere avvisato prima, ed abbia pure insultato gli agenti che stavano facendo il loro lavoro, il controllo è stato portato a termine e ha dato esito negativo. Le violenze sarebbero iniziate in seguito, durante il trasferimento del giovane in un’altra sezione del carcere. È durante il tragitto, infatti, che il detenuto avrebbe iniziato a colpire, con calci, pugni e sputi le guardie che lo stavano scortando e le avrebbe pure percosse con una sedia. Dopo qualche minuto di disordini gli agenti sono riusciti a ristabilire la calma e a portare il marocchino nella sua cella. A causa di questo comportamento, ora, il giovane recluso avrà una minore liberà rispetto al "regime aperto" di cui godeva fino a ieri. Torino: un riconoscimento per Fratel Marco, che trasforma i carcerati in attori e volontari di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 13 novembre 2016 Tra gli infiniti riconoscimenti arrivati dal mondo al Cottolengo, da ieri ce n’è uno inedito. Il presidente della Repubblica ha insignito un religioso, Fratel Marco Rizzonato, 55 anni, del titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, uno dei 40 italiani "esempi di impegno civile". Un riconoscimento alla carità che risponde ai nuovi bisogni. La motivazione: "Per lo spirito di solidarietà e umanità mostrato nelle sue molteplici e innovative iniziative a favore di detenuti, poveri e disabili". Il presidente Mattarella ha voluto sottolineare in particolare l’impegno in carcere, dove 16 anni fa fratel Marco era entrato per raccontare la sua esperienza con i disabili e da dove non si è più allontanato. "I detenuti sono diventati volontari del Cottolengo, negli anni ne abbiamo incontrati 120", racconta lui, modesto per Dna, convinto che l’arte possa tagliare traguardi altrimenti inarrivabili, generare relazioni speciali. "Questa onorificenza - dice - va alla Piccola Casa, a tutti coloro con cui lavoriamo in carcere, per la povertà e la disabilità". È stata di Fratel Marco l’intuizione di poterli mettere a contatto con gruppi di ospiti disabili della Piccola Casa, con reciproco beneficio, facendoli salire tutti quanti in palcoscenico all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno con progetti via via autobiografici, di riflessione sulla vita. Un "format" che Fratel Marco non ha voluto abbandonare neppure adesso che i contributi che per anni avevano permesso quel progetto si sono interrotti. "Significherebbe non dare loro più nulla, abbandonarli all’isolamento", ripete E naturalmente guarda avanti. "Sta partendo un nuovo progetto, "I cinque sensi in cella": cosa significa sentire sempre gli stessi odori, vedere sempre lo stesso palazzo? Ne faremo un libro". E sono numerose le iniziative che stanno cambiando l’immagine della Piccola Casa in cui c’è di mezzo la creatività del neo-Ufficiale. Niente eccessi, solo una sorta di racconto per capitoli rivolto a chi già conosce come a chi non sa: sono le campagne di sensibilizzazione/ informazione sull’impegno del Cottolengo a favore di poveri, senza dimora e malati degli ultimissimi anni. Oggi la Piccola Casa è associata al colore blu: campagne per il cinque per mille, per suggerire il pagamento di un ticket (il cerotto blu), di un pasto di Casa Accoglienza (il cucchiaio di legno blu) che di pasti ne distribuisce 130 mila l’anno. Presto ne partirà un’altra, sul "calore umano". Al centro ci sarà una coperta azzurra. "Il Cottolengo diceva che prima si dà risposta alle necessità umane, poi viene lo spirito. Ai detenuti ora teniamo anche un corso sulla Bibbia". La prima campagna, Fratel Marco l’aveva mandata a Francesco. "Lui aveva risposto: "Sei sulla strada giusta". Ciò che dice il Papa, "uscite dalle sacrestie e andate nelle periferie", noi lo facciamo con le attività artistiche, andando nei grandi contenitori, festival cinematografici, teatri. A Paratissima le opere realizzate con l’Associazione Outsider le hanno viste migliaia di persone. Così facciamo conoscere le perle che abbiamo, persone di cui la gente parlava come di "mostri" e che sì sono mostri, ma di meraviglia". Roma: premiata Tullia Passerini "il mio impegno in carcere a fianco delle madri e dei figli" di Maria Corbi La Stampa, 13 novembre 2016 Tullia Passerini, 46 anni, non si abituerà mai al silenzio assordante, ai rumori metallici, al portone che si chiude sulla libertà nelle carceri. Lei, impiegata al Ministero dell’Ambiente, il suo tempo libero lo passa qui, dove "si viene deprivati di tutto", il carcere. Dopo una vita dedicata ai bambini disagiati dal settembre 2012 ha iniziato un percorso di volontariato a Rebibbia, con l’associazione "A Roma Insieme - Leda Colombini" (è nel comitato direttivo). Impegnata a fianco delle detenute madri e dei piccoli che per tre anni "scontano" la pena insieme a loro. Insieme a degli sponsor privati, ha realizzato due progetti: la ristrutturazione degli spazi del reparto femminile del carcere e la creazione di un campo polifunzionale per permettere alle detenute lo svolgimento di attività sportive come forma di reinserimento sociale. "Perché giocare a pallavolo, fare uno sport di gruppo aiuta", dice. Non è facile rendere meno dura la vita dei bambini dietro le sbarre. Tullia e i gli altri volontari il sabato cercano di fargli capire cosa è la libertà, portandoli fuori dall’istituto penitenziario. "Sono avidi di conoscere il mondo", dice. L’associazione si occupa anche di preparare i piccoli al distacco dalle mamme, quando compiono tre anni di età e di cercare famiglie di supporto a cui eventualmente affidarli in attesa che possano tornare in famiglia. "C’è tanto da fare e io faccio così poco, non c’è nessun eroismo nell’aiutare chi è in difficoltà, gli ultimi. E vi assicuro che chi lo fa riceve molto di più". Milano: oggi il Giubileo dei detenuti nella Diocesi Adnkronos, 13 novembre 2016 Oggi si celebra il Giubileo dei detenuti nelle sette carceri sparse sul territorio della Diocesi di Milano. A incontrare i detenuti di Milano-San Vittore sarà monsignor Mario Delpini; a Bollate andrà monsignor Erminio De Scalzi, a Opera ci saranno monsignor Bruno Marinoni e monsignor Luca Bressan, a Monza monsignor Pierantonio Tremolada, a Lecco monsignor Luigi Stucchi, a Busto Arsizio monsignor Paolo Martinelli. A Varese la Celebrazione è stata presieduta questa sera da monsignor Franco Agnesi. I vicari, spiega la Diocesi, porteranno ai detenuti un messaggio del cardinale Angelo Scola, che li invita ad abbandonarsi "fiduciosi alle braccia della Madre, certi che le sue mani instancabili scioglieranno tutti i nodi che soffocano e paralizzano la nostra vita". Oltre all’Eucarestia il rito prevede una preghiera penitenziale e di intercessione cui parteciperanno anche i fedeli musulmani, che riconoscono il gesto come un momento di spiritualità. In alcuni istituti, dove i numeri lo consentono, ci saranno anche momenti conviviali. Il Giubileo dei detenuti ambrosiano coincide con la chiusura in diocesi dell’Anno Santo dedicato alla Misericordia. Dopo la celebrazione del Papa dell’analogo giubileo a Roma la scorsa domenica con migliaia di carcerati, si è deciso di non sovrapporre le date per permettere a una delegazione di 150 detenuti milanesi di poter partecipare alla celebrazione con Francesco in San Pietro e di realizzare comunque un segno concreto e visibile per tutti quei detenuti dei penitenziari di Milano che non avrebbero potuto essere con il Santo Padre. Cosenza: Giubileo dei detenuti, la dignità umana va sempre rispettata di Alessia Rausa cosenzainforma.it, 13 novembre 2016 Ipocrisia è scegliere il carcere come unica via per chi ha sbagliato. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, la soluzione praticabile quando tutte le altre non lo sono più. Invece dilaga poca fiducia nella riabilitazione del detenuto. Papa Francesco chiede un atto di clemenza durante l’Omelia che ha tenuto nella basilica vaticana durante la celebrazione del Giubileo dei carcerati. Erano presenti molti famigliari dei carcerati, i cappellani delle carceri e i volontari che operano negli istituti penitenziari. Tra le tante associazioni che si occupano di volontariato penitenziario era presente anche l’associazione "LiberaMente" che insieme alla Caritas e al cappellano Don Giancarlo operano all’interno della Casa Circondariale di Cosenza. Associazione nata nel 2004 che ha lo scopo di operare in favore di coloro che sono ammessi a misure alternative, dei detenuti e degli ex detenuti per prestare loro assistenza morale e materiale e per facilitarne il reinserimento sociale e lavorativo, di sostenere le famiglie e di sensibilizzare l’opinione pubblica verso la realtà della detenzione. "Mai dire mai" questa sera su TV2000 alle 23 la seconda puntata Ristretti Orizzonti La seconda puntata del docu-film ‘Mai dire mai’ di Andrea Salvadore, promosso da Tv2000 e Diocesi di Padova, sarà trasmesso da Tv2000 (canale 28) in seconda serata, il 13 novembre 2016. Il documentario è un viaggio attraverso i volti e le storie di dieci persone detenute (otto uomini e due donne) nel carcere "Due Palazzi" di Padova e alla "Giudecca" di Venezia. Le loro esperienze sono narrate in due puntate che alternano le narrazioni dei detenuti all’intervista al vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, le esperienze dei cappellani del carcere di Padova, don Marco Pozza, e di Venezia, fra Nilo Trevisanato, il dialogo con i direttori delle Case di reclusione Ottavio Casarano (Padova) e Gabriella Straffi (Venezia) e la voce di operatori di altre realtà che operano nei due Istituti di pena. L’idea di fondo del docu-film nasce dal progetto di Ristretti Orizzonti "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", molte delle testimonianze sono di detenuti della redazione. Questa sera alle 23 la seconda puntata. Migranti. "Hub di Bresso sovraffollato. E mancano cure adeguate" di Andrea Cegna Il Manifesto, 13 novembre 2016 Un dossier-denuncia sulle condizioni di vita dei migranti nel centro lombardo: ci sono detenzioni che possono durare anche mesi. I migranti ospitati a Bresso, nell’hub regionale lombardo con funzione di smistamento, denunciano le gravi condizioni a cui sono sottoposti nell’accoglienza, denuncia resa pubblica grazie al supporto della rete People Before Borders. "Parallelamente agli ospiti in transito, nell’hub di Bresso è stata rilevata la presenza di un cospicuo numero di ospiti la cui permanenza all’interno del centro è superiore ai tre mesi (non si potrebbero superare i 30 giorni, ndr), arrivando in alcuni casi a superare anche l’anno. Dunque un Hub trasformato di fatto in una Centro di accoglienza straordinaria, si legge nel dossier preparato dalla rete People Before Borders e presentato ieri mattina davanti al centro di smistamento. Un luogo pensato per ospitare 150 persone nel quale se ne trovano oltre 500, chi accolto in container e chi in tendoni. Chi è nel centro, anche da oltre un anno, non sa cosa sarà del suo futuro, non sa quando potrà andare via e soprattutto lo stato dell’arte della sua richiesta di protezione umanitaria. A termini di legge, superando i tre mesi i migranti avrebbero diritto all’iscrizione anagrafica presso il Comune di riferimento (come da art. 6 comma 7 del Testo Unico delle leggi sull’Immigrazione), che poi è il presupposto necessario per poter richiedere la carta d’identità. A Bresso questo non accade. I richiedenti asilo sono condannati a far nulla, a stare intere giornate senza attività. La struttura mette a disposizione solamente due insegnanti di italiano per le oltre 500 persone presenti nel centro, la possibilità di apprendere la lingua è condizione necessaria per costruire un percorso d’integrazione. "Parte dei migranti presente al campo di Bresso - prosegue la denuncia - lamentano la scarsa quantità e qualità del cibo; inoltre molti ospiti hanno problemi intestinali. E poi: "Nel campo è prevista la presenza di un medico due volte alla settimana. Dovrebbe visitare e orientare gli ospiti presso i servizi sanitari pubblici. Visto il numero di persone nel campo, le due presenze settimanali del medico non sono sufficienti per coprire le necessità di tutti gli utenti, che non hanno la possibilità reale di essere visitati in maniera approfondita. A ciò si aggiunge l’assenza di una mediazione linguistica adeguata; agli utenti non viene spiegato il funzionamento dell’iter sanitario, né vengono guidati ai servizi, così capita spesso che debbano subire lunghe attese". "Fa freddo, manca l’acqua calda, non abbiamo vestiti, il pocket money ci è dato sotto forma di ricarica telefonica da 2,5 euro al giorno. Dobbiamo cercare nella spazzatura ciò che ci serve", dicono alcuni dei ragazzi. È la Croce Rossa a gestire il centro attraverso una convenzione con cui la prefettura di Milano ha appaltato il servizio d’assistenza, l’hub è posto all’interno del centro polifunzionale di emergenza della stessa Cri. Gli attivisti di People Before Borders hanno preso in visione l’accordo e denunciano come molti punti siano disattesi, tanto da chiedere la sospensione della convenzione. Il tentativo di parlare con la direttrice dell’Hub per presentare il dossier è stato respinto dai carabinieri. "Di fatto - si legge in un comunicato emesso dagli attivisti - la richiesta legittima di poter accedere a un luogo di servizio statale viene gestita come un problema di ordine pubblico e questo Hub, come svariati centri in tutto il paese, diventano zone militarizzate inaccessibili". Droghe. Cannabis legale, la lobby dei contrari riparte all’attacco di Monica Rubino La Repubblica, 13 novembre 2016 Quasi 60 mila firme, tra cui quelle di Roberto Saviano e Vasco Rossi, raccolte dai Radicali per la legge di iniziativa popolare. Ma in Parlamento c’è chi lavora per farla finire su un binario morto. Hanno firmato anche Vasco Rossi e Roberto Saviano, la sindaca di Torino Chiara Appendino, il primo cittadino di Napoli Luigi De Magistris e quello di Parma Federico Pizzarotti. Alla fine i Radicali sono riusciti a raccogliere 57.500 firme a sostegno della legalizzazione della cannabis, 7.500 in più di quelle necessarie a presentare una legge di iniziativa popolare. Sono state depositate venerdì alla Camera. Ma adesso la sfida del comitato promotore, composto anche dall’associazione Luca Coscioni e dalle principali organizzazioni antiproibizioniste italiane, è di ottenere in tempi più o meno brevi la calendarizzazione del provvedimento in Aula. Le premesse non sono rosee: una precedente proposta di legge trasversale, presentata da 220 deputati e 80 senatori raccolti nell’intergruppo "cannabis legale", dopo l’approdo nell’aula di Montecitorio è stata rispedita velocemente nelle commissioni Giustizia e Politiche sociali, dove rischia di essere affossata per sempre sotto una pioggia di emendamenti. Il fronte del "no" annuncia battaglia anche contro la nuova iniziativa. E mentre i senatori di Idea Gaetano Quagliarello e Carlo Giovanardi e il forzista Maurizio Gasparri annunciano un’interrogazione parlamentare contro Rocco Schiavone, il commissario della nuova fiction di Rai2 che "si droga facendosi una canna ogni mattina", l’agguerrita pattuglia di parlamentari centristi, capitanati da Maurizio Lupi e Paola Binetti, si dichiara pronta a smontare punto per punto tutti gli argomenti degli antiproibizionisti. Per i quali, invece, i tempi sono ormai maturi per superare le barriere ideologiche e ammettere che liberalizzare le droghe non ne aumenta il consumo ma riduce invece la criminalità collegata alla produzione e allo spaccio. Seguendo l’esempio degli Usa, dove nel recente voto quattro Stati - California, Nevada, Maine e Massachusetts - si sono espressi anche su quesiti referendari, decidendo di legalizzare la cannabis a scopi "ricreativi". Sono quasi 50 anni che in Italia si fumano spinelli. Secondo il Centro europeo per il monitoraggio delle droghe (Emcdda) l’Italia è al terzo posto in Ue per uso di cannabis, dopo Danimarca e Spagna. E i dati dell’ultima relazione annuale (2015) al Parlamento del Dipartimento sulle politiche antidroga dicono che il 32% degli italiani ha provato la cannabis almeno una volta nella vita: poco più di 12 milioni e mezzo di persone fra i 15 e i 64 anni, di cui circa 5 milioni di età compresa fra i 15 e i 34 anni. "Rispetto alla proposta già presentata, la nostra è più avanzata - spiega Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani - perché permette di coltivare fino a cinque piante di marijuana senza chiedere nessuna autorizzazione e di possedere fino a 15 grammi di sostanza per uso personale". La legge dei radicali si spinge fino a proporre la depenalizzazione dell’uso di tutte le droghe, comprese quelle pesanti, "sul modello Lisbona", sostiene Magi. Il Portogallo, infatti, quindici anni fa ha depenalizzato il possesso di qualunque tipo di stupefacente, una decisione che all’epoca provocò sconcerto nel mondo. Ma oggi il bilancio è positivo: nel paese iberico sono in calo sia consumatori di eroina che i detenuti per reati legati alla tossicodipendenza. Ma non bastano questi dati a convincere il fronte del no: "Non è dimostrato che legalizzare le droghe serva a combattere la criminalità - afferma Lupi, capogruppo di Ap alla Camera - e anche all’interno della magistratura il dibattito è aperto". Mentre la Binetti (medico di professione) rimarca "i danni al cervello provocati dalle droghe leggere, specie nei più giovani". Eppure anche l’oncologo Umberto Veronesi, scomparso di recente, aveva commentato positivamente la bocciatura, due anni fa, da parte della Consulta, della legge Fini-Giovanardi, che equiparava droghe pesanti e leggere e prevedeva pene fino a 20 anni di reclusione. E contestava la tesi che lo spinello sia l’anticamera di sostanze più pericolose. "I contrari alla legge sono una minoranza in Parlamento, ma fanno leva sul loro potere di ricatto nei confronti del governo. E sono una minoranza anche nel Paese", sottolinea Magi. In verità, stando ai sondaggi, i sì non sono ancora la maggioranza anche se crescono: "Negli ultimi vent’anni i favorevoli alla legalizzazione della cannabis sono raddoppiati, passando dal 20 al 42 per cento" spiega Roberto Weber, sondaggista di Ixè. Droghe. Con la depenalizzazione chiudono le carceri, aumenta la qualità delle comunità di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 13 novembre 2016 Nello stesso luogo dove qualche anno fa venivano rinchiuse centinaia di persone colpevoli di aver venduto, trasportato o consumato marijuana oggi c’è una fattoria che produce cannabis medica: è uno degli effetti della legalizzazione della cannabis in diversi stati degli Stati Uniti, ma anche la conseguenza delle nuove buone pratiche per riutilizzare spazi che altrimenti sarebbero abbandonati a degrado e abbandono. Secondo un articolo pubblicato su Stateline, periodico del Pew Charitable Trusts, e riportato dal Guardian dalla recessione del 2008 sono ben 150 gli istituti di pena che sono stati chiusi per ragioni di costi negli Stati Uniti. Questo ha portato da un lato a un lieve declino della popolazione carceraria - lieve perché in molti Stati si è deciso di privatizzare le carceri con un notevole peggioramento delle condizioni dei detenuti e del rispetto dei diritti fondamentali - e dall’altro ad un notevole risparmio di costi, nell’immediato, trasformatosi successivamente però in un grande dilemma: che cosa fare di queste strutture? Il mantenimento delle carceri infatti, seppure inattive, rappresenta comunque un costo per la pubblica amministrazione americana: evitare il degrado di mura e impianti, mantenere la pulizia, garantire la sorveglianza per scongiurare atti di vandalismo, la struttura di un carcere resta un bene immobile pubblico che va conservato. Il 17 aprile del 2012 il Gainesville Correctional Institute di Gainesville, carcere di media sicurezza della Florida, è stato chiuso e i detenuti trasferiti altrove. Oggi quel luogo si chiama Grace Marketplace ed è un rifugio per senzatetto: all’interno dell’area, nel cuore del quartiere industriale della città, vivono 115 persone e lavorano decine di operatori dei servizi sociali, che offrono loro pasti gratuiti, formazione professionale e fanno da ponte tra i servizi pubblici e di welfare e queste persone bisognose. Il risultato è che la popolazione di senzatetto di Gainesville, città universitaria, si è dimezzata nel giro di pochi anni. Nel 2004 ci furono aspre polemiche per le leggi locali che limitavano i luoghi dove i senzatetto potevano trovare rifugio e, cosa ben più assurda, il numero di pasti gratuiti che le mense per poveri potevano servire. Oggi Gainesville è, sotto questo profilo, all’avanguardia del Paese. A Grace Marketplace, ad esempio, gli ex-detenuti trovano oggi un luogo dove riscattarsi: è il caso ad esempio di Rickey Bradley, qui detenuto dal 2008 e oggi aiuto cuoco nella nuova struttura. E il sindaco della cittadina della Florida si è detto entusiasta: "La nostra comunità sta molto meglio di prima" ha dichiarato. E questo non è l’unico esempio virtuoso di come un luogo di detenzione e sofferenza, nelle carceri USA il tasso di violenza è altissimo, possa trasformarsi in un luogo di speranza: un’organizzazione no-profit di Manhattan, New York, ha ottenuto di recente l’autorizzazione per convertire l’ex-carcere femminile nella sede dell’associazione, che si occupa di assistenza alle ex-detenute nel loro percorso riabilitativo. In California e in Colorado diversi imprenditori puntano a convertire due vecchie carceri in mega serre per la produzione di cannabis medica. A Boston, in Massachusetts, una di queste strutture è oggi un hotel extralusso: si chiama, con una punta quasi di ironia, The Liberty e la camera più economica costa 416 dollari a notte. Nello Stato di New York la popolazione carceraria era di 63.800 persone nel 2007 mentre oggi sono circa 52.000 persone. Dal 2011 lo Stato ha chiuso 13 istituti di pena, cosa che ha permesso di risparmiare diverse centinaia di milioni di dollari di soldi pubblici. Il timore di molti è che per le strade possa dilagare la delinquenza, ma la realtà ci dice che è solo una questione di approccio e progettualità: "Abbiamo riconosciuto l’impatto che la chiusura di un carcere può avere sulla comunità rurale, soprattutto in zone rurali. Per questo abbiamo lavorato a stretto contatto con la gente e queste comunità, per arrivare a ipotizzare dei piani di riutilizzo delle strutture" ha spiegato al Guardian Alexis Offen, funzionario e vicepresidente del settore immobiliare dello Stato di New York. Insomma, la diminuzione della popolazione carceraria e la riconversione condivisa delle strutture penitenziarie non hanno aumentato la criminalità. E questa è, di per sé, già una notizia su cui riflettere. In North Carolina tra il 2011 e il 2014 la popolazione carceraria è scesa di 3.400 unità e dal 2009 lo Stato ha chiuso 14 prigioni: l’ex-carcere di Wagram, città rurale nel cuore dello Stato, è diventato una fattoria e un centro di educazione per ragazzi problematici, affetti da disagio psichico o vittime di violenze in famiglia. La torre di guardia dalla quale i cecchini osservavano i detenuti nell’ora d’aria diventerà nel prossimo futuro una parete d’arrampicata e nelle abitazioni dove viveva il personale del carcere potranno trovare alloggio i veterani di guerra, che negli Stati Uniti sono una categoria sociale. L’idea è venuta a Nolan Sanford, che ha istituito una associazione senza scopo di lucro chiamata Growing Change: "Dobbiamo avere un’ottica più ampia di quella della giustizia penale per utilizzare le carceri chiuse per raggiungere obiettivi sociali" ha dichiarato Sanford al Guardian. La chiusura di un carcere, in un Paese che fa della spietatezza penale il proprio fiore all’occhiello, rappresenta un problema notevole per l’economia locale: aziende fornitori di servizi (dal cibo ai vestiti per i detenuti), operatori di sicurezza e sanitari, personale amministrativo, attorno al carcere ruotano centinaia di figure fondamentali per il suo funzionamento. Una volta chiuso queste persone si trovano senza più lavoro: nel 2012 la chiusura del carcere minorile di Murphysboro, in Illinois, ha "devastato l’economia locale" secondo la parlamentare repubblicana dello Stato Terri Bryant. Il carcere minorile era il principale datore di lavoro della città e oggi, ha dichiarato Bryant, la sua riconversione in un centro di formazione professionale potrebbe "ridurre la recidiva" e creare nuovi posti di lavoro. Un piano simile sta prendendo piede nel Bronx, a New York, dove una vecchia prigione è stata venduta a un’organizzazione no-profit che si occupa del reinserimento dei detenuti nella società. Si tratta di fare scelte politiche chiare e nette, che rappresentano in parte anche un cambio nel paradigma culturale americano della giustizia penale come panacea di tutti i mali. Scelte che implicano coraggio e determinazione per chi le fa, scelte che non sempre si risolvono in benefici a breve termine e che quindi possono risultare impopolari e lesive di una carriera politica: a Moundsville, nel West Virginia, la prigione di Stato - un edificio vecchio di 150 anni - è stata chiusa 21 anni fa ma è diventata fonte di entrate per le casse pubbliche solo in tempi recenti, quando è stata riconvertita in centro per eventi pubblici. A Madison County, nell’Iowa, contea più famosa per l’ambientazione del romanzo di Robert James Waller che per le sue pratiche virtuose di riabilitazione dei detenuti, il tentennamento non ha portato sin qui nulla di buono: nell’aprile del 2015 è stato proposto di creare all’interno delle vecchie strutture carcerarie un campo estivo di scienza e tecnologia, poi un centro yoga, poi un centro di formazione. Ad oggi non è successo ancora nulla, come nulla è successo ancora nella vecchia prigione di Staten Island, New York, perché al momento non è stato ancora trovato un accordo tra lo Stato e un’agenzia di produzione cinematografica che vorrebbe installare i suoi uffici nel vecchio istituto di pena. Insomma, sembra che diverse amministrazioni locali americane, sia democratiche che repubblicane, stiano comprendendo appieno il valore sociale dell’integrazione tra la pena e la riabilitazione: il carcere, nelle comunità dove questi progetti virtuosi vanno avanti, non rappresenta più un rimosso della coscienza collettiva ma un’opportunità per creare una società migliore attraverso l’accoglienza, il lavoro e il riutilizzo degli spazi. La differenza tra questo approccio e quello di chi invece propone di "costruire nuove carceri" anche perché "portano lavoro alle comunità" è nel tasso di recidiva, molto più basso nel primo caso secondo diversi governatori - anche se statistiche ufficiali non ne sono state ancora stilate. Il che significa che laddove si chiudono le carceri, si depenalizzano reati - come quelli legati alla produzione, alla vendita e all’uso di cannabis - e si aprono centri di formazione per detenuti la società ne trae benefici enormi in termini di sicurezza. Il prossimo 11 novembre Radicali Italiani e l’Associazione Luca Coscioni consegneranno alla Camera dei Deputati migliaia di firme raccolte per strada sulla legge di iniziativa popolare per la legalizzazione della cannabis in Italia. Domenica 6 novembre per la prima volta nella storia d’Italia uno striscione con la scritta "Amnistia" firmato da un partito politico, il Partito Radicale, è stato autorizzato ad entrare in piazza San Pietro nel giorno del giubileo dei carcerati: "C’è una certa ipocrisia che spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione. Per questo chiedo un atto di clemenza" ha detto Papa Francesco nella sua omelia rivolgendosi ai carcerati. Parole condivisibili che vanno riportate per quello che sono: un atto di coraggio, tra l’altro molto impopolare. Francia. La catastrofe culturale del terrorismo di Massimo Nava Corriere della Sera, 13 novembre 2016 Sotto accusa è finito un modello di società che esclude troppo e una politica estera molto ambigua, piena di giravolte. Un anno fa, il terrorismo islamico colpiva al cuore Parigi. La strage del Bataclan, affollato di giovani con gli occhi pieni di spensieratezza, dopo Charlie Hebdo, prima di Nizza, prima di altri attentati "minori", alcuni portati a termine, altri sventati e archiviati nel tritatutto dei media. Un attacco che ha precipitato la Francia in uno dei momenti più tormentati della sua storia, aprendo crepe profonde nel tessuto sociale e nella vita politica e culturale. Come in un "terremoto", il terrorismo islamico ha squassato le fondamenta. E come in un terremoto, la ricostruzione è faticosa, piena di insidie, persino di speculatori e sciacalli, nonostante il sussulto repubblicano delle prime ore e la solidarietà internazionale. La Francia ricorda oggi le povere vittime trucidate come in un far west selvaggio e cinematografico, con la mente a tutti i caduti di questo terribile biennio, dalla strage della redazione di Charlie Hebdo alla strage di Nizza, all’odioso sgozzamento di un vecchio sacerdote a Rouen. Sono centinaia i morti e i feriti, e sono migliaia i francesi colpiti negli affetti: un amico, un parente, un vicino di casa, un compagno di scuola, persone che, come si dice, magari si conoscevano solo "di vista" o si erano "perse di vista", e sono state ritrovate nelle cronache funebri. Sono talvolta i necrologi a ridare vita a persone dimenticate. Come in cerchi concentrici, l’onda sismica ha investito il quartiere, e poi la città e infine la Nazione. Colpiti gli uomini e anche le "cose": luoghi simbolici e cari a tutta l’umanità come Parigi o la Promenade des Anglais, l’economia, il turismo, la congressista, e una cosa fondamentale: l’immagine del Paese. Le cifre dei danni sono spietate, oltre al danno immateriale che si chiama insicurezza e che allontana i turisti e spinge i francesi, anche giovani, a uscire di meno, a prenotare con meno anticipo teatri e concerti, ad andare più all’estero. La Francia, incline ad autocelebrarsi e ad esaltare il senso dello Stato, dei valori nazionali, della sua missione storica e umanistica nel mondo, è una collettività ripiegata su sé stessa, incerta sul proprio futuro, rabbiosa verso tutto, soprattutto verso la classe politica e lo Stato accusati di non avere saputo proteggere e prevenire. Le falle nel sistema di sicurezza ci sono state, ma sarebbe ingeneroso mettere sul banco degli accusati la polizia e i servizi d’intelligence che hanno fatto uno straordinario lavoro di "bonifica" e di controlli che hanno comunque permesso di fermare, schedare e tenere sotto sorveglianza centinaia di individui, persino minorenni, luoghi e obiettivi sensibili, aree a rischio di proselitismo. Sul banco dell’accusa c’è un modello sociale e culturale di cui la Francia è orgogliosa senza riuscire a interrogarsi sui limiti e sugli errori di gestione del modello stesso: basti pensare alla situazione delle periferie, luoghi di marginalità culturale e etnica che hanno finito per produrre prima l’antagonismo verso i principi della Repubblica laica e egualitaria e poi la ribellione, contaminata dall’estremismo religioso e terroristico: la molla che ha spinto centinaia di giovani francesi ad arruolarsi nell’Isis, a passare nella clandestinità, mimetizzandosi facilmente in quartieri dove ha poco senso parlare di controllo sociale e relazioni familiari o di vicinato. Sul banco dell’accusa ci sono anche le ambiguità di una politica estera che ha fatto non poche giravolte, guardando agli affari e alle commesse militari più che a una strategia che tenesse insieme alleanze e valori. Dopo Chirac, accusato da alcuni di "terzomondismo" e "antiamericanismo", la Francia si è avventurata nella guerra in Libia, è stata costretta a sovraesporsi nel Maghreb e nell’Africa subsahariana, ha giocato con il fuoco in Siria e nelle relazioni con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, i grandi investitori sul suolo francese. Sul banco dell’accusa ci sono anche le grandi correnti politiche, la "gauche" e il "gaullismo", socialisti e repubblicani, in ritardo nell’aggiornare analisi e contromisure. La sinistra si è impantanata nella sociologia buonista che tollera e giustifica. La destra tende a dar retta alle sirene di un populismo che erode l’elettorato di entrambe. Certo, una catastrofe naturale non è paragonabile a un’aggressione odiosa e preordinata a colpi di mitra e di bombe, ma anche il "terremoto francese" lascia un Paese da ricostruire in termini di certezze, obiettivi, solidarietà e uno sciame sismico fatto di diffidenze verso tutto ciò che è "altro" e straniero, di rancori verso intere comunità religiose, di chiusure verso l’immigrazione, di tentazioni autoritarie e nazionalistiche che stanno premiando il partito che meglio le rappresenta: il Front National di Marine Le Pen, con conseguenze abbastanza immaginabili nel gioco politico delle presidenziali di primavera e sui destini dell’Europa. Stati Uniti. L’America di Trump e la crescita, un errore illudersi di Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 13 novembre 2016 La vittoria di Trump genera incognite su tutti i piani, da quello economico a quello geopolitico. Su un aspetto del suo programma economico, quello delle politiche di bilancio, sembra però che ciò che Trump vuole fare sia più vicino ai programmi dell’ala progressista del partito democratico che alla tradizionale posizione conservatrice. Ma le cose non stanno così. Trump ha dichiarato di volere spendere un trilione di dollari (mille miliardi) in infrastrutture per stimolare la crescita. Ed è vero che, con questa proposta, l’outsider, inviso alle élite politiche e intellettuali, sembra paradossalmente sposare una visione keynesiana della politica economica, vicina al "nuovo consenso" oggi creatosi tra accademici e esperti, incluso il Fondo Monetario Internazionale. "Nuovo consenso" perché rivaluta lo strumento di spesa pubblica finanziata a debito ai fini della stabilizzazione dell’attività economica. Jason Furman, il capo del consiglio economico di Obama, per esempio, scrive recentemente che quest’ultima è uno strumento con il debito ed è uno strumento potente per far fronte alla bassa crescita associata a tassi di interesse e inflazione vicini allo zero che caratterizza le economie avanzate di oggi. Una bella differenza di vedute rispetto al consenso precedente, nato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, secondo cui la spesa pubblica finanziata a debito ha effetti incerti sull’attività economica o addirittura negativi poiché, causando un aumento dei tassi d’interesse, disincentiva la spesa privata. Keynes è di nuovo popolare. Ma ha conquistato anche Trump? Dopo otto anni di quantitative easing e con i tassi di interesse vicini allo zero c’è certamente meno fiducia sulla efficacia della politica monetaria e in molti ormai pensiamo che lo strumento fiscale debba essere usato in coordinamento con essa. Ma andiamo a vedere meglio il programma del presidente eletto. Corrisponde a questa visione? Il Comitato per la responsabilità di bilancio calcola che nei prossimi dieci anni la Trump-economics implicherà un deficit di 5,3 trilioni di dollari spiegato da 5,8 trilioni di diminuzione delle tasse e da 1,20 di diminuzione della spesa primaria. Un deficit elevato quindi, ma generato da un piano molto più reaganiano che keynesiano. Infatti, da quello che si capisce dalla discordante informazione della campagna e dalle dichiarazioni recenti, il trilione di investimento in infrastrutture non sarà spesa pubblica ma in parte generato da partnership pubblico-privato e alimentato da crediti all’imposta. Molti ritengono questo irrealistico, un messaggio elettorale con poca sostanza. Il credito d’imposta rende più profittevoli i progetti esistenti, ma non è sufficiente a stimolare investimenti nelle aree più povere dove la redditività è più bassa. Se ne deduce che per arrivare a spendere un trilione si dovrà mobilitare la spesa pubblica e in quel caso il deficit supererà i 6 trilioni. Difficile immaginare che un Congresso e un Senato a maggioranza repubblicana possano approvare una misura del genere. È molto probabile, invece, che quello che resterà delle roboanti dichiarazioni elettorali sarà un massiccio taglio alle tasse il cui costo si stima essere di circa 440 miliardi annui, più del doppio dei tagli fiscali di Reagan del 1981, più del quadruplo di quello di George Bush del 2001. Ma questo non ha niente a che fare con il nuovo consenso sugli effetti keynesiani della politica fiscale. I tagli di Reagan e Bush, come quelli di Trump, sono giustificati da fantasiose stime sui loro effetti di stimolo all’offerta (incentivi alle imprese), non dal loro potenziale effetto di sostegno alla domanda di consumo e investimento. Ricordiamo che quando, all’epoca di Reagan, quegli effetti di offerta si rivelarono essere molto minori delle aspettative e generarono deficit invece della attesa crescita, la politica economica cominciò ad enfatizzare sempre più la disciplina di bilancio fino a introdurre negli anni seguenti un tetto legale al debito pubblico. Per questo non bisogna confondere il piano di Trump con un nuovo keynesismo. È il suo contrario. Ed è possibile che, come nel passato, il deficit che genererà porterà ad una maggiore enfasi sul consolidamento fiscale, una stretta sui conti pubblici a scapito della spesa che avrebbe dovuto agevolare la crescita. Nonostante quindi il "nuovo consenso" tra economisti e esperti indichi la necessità di combinare politiche attive di stabilizzazione attraverso il bilancio pubblico con quelle monetarie effettuate dalle banche centrali, si va nel senso opposto: negli Usa per via della svolta conservatrice e in Europa, per i vincoli del patto di Stabilità. La conseguenza è che le banche centrali continueranno ad avere il monopolio delle politiche di stimolo all’economia. Questo avverrà nonostante sia ormai chiaro che la politica monetaria da sola non ce la può fare, specialmente quando i tassi d’interesse sono a zero, i bilanci delle banche centrali già gonfi e, quindi, di fronte a possibili avvenimenti avversi, gli strumenti d’intervento limitati. In un dibattito politico che si è involuto in battaglie demagogiche, chi oggi chiede giustamente misure aggressive per la crescita e crede di essere stato ascoltato, è destinato ad essere deluso. Siria. Aleppo assediata dalla propaganda dei due fronti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 novembre 2016 Damasco contrattacca e riprende i quartieri a ovest occupati a suon di missili e kamikaze dalle opposizioni. La Russia minaccia nuovi raid mentre arrivano le navi da guerra. A pagare sono i civili. La Siria non è un solo campo di battaglia, ma teatro di conflitti diversi legati da un filo invisibile. Gli scontri più violenti si combattono a nord, come se nel resto del paese la guerra civile fosse congelata. Così non è, il brutale confronto si svolge quotidianamente anche a sud e intorno Damasco, ma molte delle forze in campo si concentrano nei distretti settentrionali nella convinzione che decideranno vinti e vincitori. Raqqa e Aleppo, in tale contesto, sembrano mondi a parte. Da una parte si lotta per estirpare lo Stato Islamico, dall’altra per stabilire chi si prenderà la Siria, tra i fronti anti e pro-Assad. Eppure i due conflitti sono collegati: giunta al suo ottavo giorno, l’operazione "Ira dell’Eufrate" delle Forze Democratiche Siriane dirà molto del futuro del paese. Ad avanzare sono i kurdi di Rojava provocando mal di pancia alla Turchia che lì svolge un doppio ruolo: barriera all’avanzata kurda e supporto militare alle opposizioni. Si arriva così ad Aleppo dove l’attenzione dei media è calata nonostante la perdurante atmosfera bellica che la avvolge. La controffensiva di fine ottobre delle opposizioni guidata dall’ex al-Nusra (oggi Jabhat Fatah al-Sham) ha ucciso 100 civili e 143 soldati - contro 215 miliziani - e permesso di entrare in alcuni quartieri occidentali sotto il controllo governativo aprendosi la strada con kamikaze e missili. Il presidente Putin ha però imposto alla sua aviazione di non riprendere i raid interrotti a metà ottobre, per le opposizioni un "silenzio" volto a intensificare i bombardamenti su Idlib, sotto Fatah al-Sham, e a preparare un attacco più consistente con l’aiuto di una portaerei e due caccia torpedinieri arrivati a Tartous. Un’eventualità riportata anche da alcuni media libanesi che parlano del dispiegamento di altre unità militari alla periferia di Aleppo. A muoversi è stato dunque l’esercito di Damasco che ieri ha ripreso il quartiere Dahiyet al-Assad e nei giorni scorsi il distretto 1070 Apartaments e colline nella zona sud-ovest, fondamentali per il passaggio sicuro delle truppe di Assad verso il centro. Mosca, per ora, preferisce un ruolo falsamente defilato dove minacce e promesse si alternano: tre giorni fa ha paventato una ripresa dei raid nel caso nuove controffensive delle opposizioni per poi rivolgersi ieri all’Onu per chiedere conferme sulla consegna degli aiuti così da mantenere in piedi la propria tregua. Secondo i russi i cessate il fuoco sono stati resi vani dai "ribelli" che hanno attaccato i convogli umanitari, versione contestata dall’altro fronte che imputa a Damasco il sabotaggio della tregua parziale. Le accuse incrociate hanno il sapore amaro della propaganda bellica: nessuno dei due fronti è interessato a garantire protezione ai civili sfibrati dalla scarsità di cibo, acqua e medicinali, guadagnando di più dallo sfruttamento delle sofferenze della popolazione e dall’uso dei civili come scudi umani, fisici e simbolici. E se muoiono tant’è, i decessi sono utili a sostenere l’una o l’altra narrativa. Alle organizzazioni internazionali non resta che denunciare il collasso sanitario e la malnutrizione che ormai soffocano la città doppiamente assediata: venerdì l’Onu ha fatto sapere che le ultime razioni alimentari distribuite nei mesi passati ad Aleppo est sono terminate. Mauritania. Domani l’appello dei 13 anti-schiavisti in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 novembre 2016 Domani, lunedì 14 novembre, si svolgerà il processo d’appello nei confronti di 13 militanti di Ira-Mauritania (l’Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista che lotta contro la schiavitù nel paese dell’Africa nord-occidentale) che a metà agosto sono stati condannati a pene da tre a 15 di carcere per una serie di reati tra cui "appartenenza a organizzazione non riconosciuta", "ribellione" e "uso della violenza". I 13 erano stati arrestati tra il 30 giugno e il 9 luglio nella capitale Nouakchott, all’indomani di una protesta contro lo sgombero forzato di un insediamento per far posto a un vertice della Lega araba: un insediamento abitato in larga parte dagli haratin, la casta cui un sistema ereditario di sottomissione assegna il ruolo di schiavi. Sebbene abolita ufficialmente nel 1981 e considerata reato dal 2007, in Mauritania la schiavitù tradizionale è praticata ampiamente. Secondo gli avvocati dei 13 imputati, impossibilitati a difendere i loro clienti, il processo è stato una "pagliacciata" (nella foto, la conferenza stampa tenuta appena appreso il verdetto). Difficile essere in disaccordo se si pensa che nessuno di loro aveva preso parte alle proteste: ad esempio, il giorno della protesta Mohamed Jarrulah si trovava a 1200 chilometri di distanza ed è stato condannato a tre anni di carcere. I giudici non hanno neanche battuto ciglio, dichiarandosi "non competenti" a esaminarle, di fronte alle denunce dei 13 uomini di essere stati torturati in carcere. Per Amnesty International si è trattato dell’ennesimo atto persecutorio contro i difensori dei diritti umani, molti dei quali sono in esilio o entrano ed escono continuamente dal carcere. L’organizzazione (un cui osservatore assisterà domani al processo) ha sollecitato il proscioglimento e il rilascio dei 13 attivisti. Iran. Nessuno Tocchi Caino: la "legge del taglione", accecato un condannato La Repubblica, 13 novembre 2016 Aveva provocato la cecità ad una bambina di 4 anni: gli sono stati cavati gli occhi in una prigione vicino Teheran, l’8 novembre scorso. Un’impiccagione in Giappone. Negli Usa tre stati rifiutano con un referendum di abolire la pena capitale. Le autorità iraniane - rende noto Nessuno Tocchi Caino - hanno accecato entrambi gli occhi di un uomo di Qorveh (provincia del Kurdistan), identificato come "Mohammad Reza", che avrebbe lanciato della calce sulla faccia della nipote di quattro anni, rendendola cieca. L’attuazione di questa Qisas (pena dell’ "occhio per occhio") è avvenuta alla vigilia di un nuovo round di colloqui tra le autorità iraniane e l’Unione europea. I colloqui si svolgeranno a Bruxelles dove i funzionari dovrebbero discutere, come parte del dialogo, sulla situazione dei diritti umani in Iran. È la seconda esecuzione dal 1958. Mohammad Shahriari, capo della Procura della Repubblica presso il tribunale penale di Teheran, ha detto che questa è la seconda sentenza di accecamento eseguita in Iran dopo l’approvazione di un articolo della legge iraniana sulla punizione degli attacchi con acido, introdotta nel 1958. Nel 1958, la legge suddetta non includeva ancora la pena dell’occhio per occhio, che è stata introdotta dopo la nascita della Repubblica Islamica. L’altra sentenza di accecamento fu eseguita nel marzo 2015. Giappone - Giustiziato l’autore di due omicidi. Ieri all’alba, un uomo condannato per due omicidi è stato impiccato nel carcere di Fukuoka a Kyushu. Lo ha reso noto il Ministero della Giustizia giapponese. Kenichi Tajiri, 45 anni, era stato condannato a morte nel 2012 in due casi di omicidio e rapina aggravata commessi nella Prefettura di Kumamoto nel 2004 e 2011. L’esecuzione, la seconda a seguito di una condanna a morte stabilita col sistema della giuria popolare, è giunta dopo che ad ottobre la Federazione Giapponese delle Associazioni Forensi ha pubblicato un manifesto per l’abolizione della pena capitale. È il 17° dal 2012. Si tratta della prima esecuzione in Giappone da marzo e anche della prima sotto il ministro della giustizia Katsutoshi Kaneda, del Partito Liberal-Democratico (LDP) al governo, che si è insediato nel mese di agosto. Tajiri è il 17° detenuto messo a morte dal dicembre 2012, quando l’LDP ha preso le redini del governo. Secondo la sentenza, Tajiri fece irruzione nel 2004 nella casa di un medico a Uto, Prefettura di Kumamoto, uccise la moglie di 49 anni e fuggì con circa 180.000 yen (1.700 dollari) in contanti e altri oggetti. Nel 2011, accoltellò a morte la moglie 65enne di un dirigente di società e ferì gravemente il marito nella casa della coppia a Kumamoto. Fuggì con 10.000 yen e altri oggetti. Fu lui a ritirare il suo appello. Tajiri fu condannato a morte col sistema della giuria popolare nella Corte distrettuale di Kumamoto. Nel 2012, ritirò il suo appello alla Corte Suprema, e la sentenza divenne definitiva. Nel mese di ottobre, la Federazione Giapponese delle Associazioni Forensi per la prima volta ha adottato un manifesto che chiede al governo "di abolire la pena di morte entro il 2020 e al suo posto introdurre l’ergastolo senza condizionale." Stati Uniti - Abolizione della pena di morte: 3 Stati si rifiutano. La giornata elettorale dell’8 novembre scorso ha portato 3 risultati negativi per il movimento abolizionista, e uno positivo. In California è fallito per la seconda volta il tentativo di abolire la pena di morte per via referendaria. Nel 2012 con una percentuale 53/47 gli elettori non avevano approvato una proposta di legge per abolire la pena di morte. Quest’anno una proposta praticamente identica è stata respinta 54/46. Per la precisione, il quesito referendario denominato Proposition 62 ha ottenuto 3.971.872 Sì e 4.650.097 No (46.07% contro 53.93%). Una proposta di segno contrario, che limita le possibilità di ricorso dei condannati a morte e inoltre dispone che durante la detenzione abbiano l’obbligo di lavorare e versare il 70% di quanto guadagnato ai parenti delle vittime (Proposition 66) ha ottenuto 4,210,163 Sì e 4,058,667 No (50.92% contro 49.08%). In Nebraska, con il 61,2% dei voti, è stata approvata la proposta "Referendum 426" che invalida la legge del maggio 2015 con la quale il Parlamento aveva abolito la pena di morte. A favore dell’abrogazione della legge, e quindi della reintroduzione della pena di morte, hanno votato 443.506 elettori, contro 280.587 (38,8%). Subito dopo la comunicazione del risultato definitivo il governatore Pete Ricketts, che ha capeggiato il fronte per la reintroduzione, finanziando anche con denaro personale la campagna elettorale, ha detto che riavvierà subito le procedure per le esecuzioni rimaste in sospeso. Di contro il senatore Ernie Chambers, che aveva coordinato il movimento abolizionista, ha detto che ripresenterà la legge per l’abolizione. In Oklahoma il 66% degli elettori ha votato a favore di State Question 776, che inserisce la pena di morte nella Costituzione dello stato, con l’intento di rendere più difficile l’eventuale l’intervento di un giudice o una corte per fermare le esecuzioni. A favore hanno votato 941.336 persone, contro 477.057 (34%). In Kansas si è registrato l’unico risultato che può considerarsi positivo per il movimento abolizionista. Agli elettori era chiesto di confermare o meno la nomina di 11 giudici, 5 per la Corte Suprema di Stato e 6 per la Corte d’Appello. Alcune associazioni favorevoli alla pena di morte avevano fatto campagna elettorale chiedendo non venisse dato il voto di conferma per 4 dei candidati alla Corte Suprema, considerati troppo "liberali" per avere, in passato, emesso troppe sentenze critiche del sistema capitale in vigore. I cittadini del Kansas, che potevano votare pro o contro ogni singolo giudice, hanno approvato tutte le 11 nomine. I giudici "sotto attacco" hanno ottenuto una percentuale inferiore rispetto agli altri candidati, ma comunque sempre superiore al 54,9%.