Corte europea dei diritti dell’uomo: 74.150 procedimenti pendenti, il 9,1% contro l’Italia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 novembre 2016 I dati della Corte europea sui Paesi che "vantano" il maggior numero di ricorsi. La Corte europea dei diritti dell’uomo è una corte internazionale istituita nel 1959. Si pronuncia sui ricorsi riguardanti violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, attualmente ratificata da parte di tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. In quasi 50 anni la Corte ha adottato più di 10mila sentenze che, vincolanti per gli Stati interessati, hanno portato i governi a modificare la loro legislazione e la propria prassi amministrativa in molti settori. Alla data del 30 settembre sono 74.150 procedimenti pendenti. In continuo aumento. L’Italia ha il non invidiabile record di far parte della top five, dopo Ucraina, Russia, Ungheria, Turchia, degli Stati che generano il contenzioso più elevato. Il presidente della Cedu, il giudice italiano Guido Raimondi, intervenuto ieri a un incontro in Cassazione, ha espresso però soddisfazione sui numeri complessivi: dopo essere stati superati dalla Turchia di Erdogan, la Romania sta per scalzarci dal quinto posto. L’Italia ha oggi il 9,1 per cento dei ricorsi totali. Tanto per fare un esempio impietoso, la somma dei ricorsi provenienti dagli altri 37 Stati, fra cui Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, non arriva al 15 per cento. Un record presso la Corte di Strasburgo, comunque, è solo nostro. Il numero dei ricorsi per l’eccessiva durata dei processi. Ed il fatto che lo Stato italiano, nonostante venga puntualmente condannato, paghi con estrema difficoltà e a distanza di anni, le vittime di questo sistema giudiziario lento e farraginoso. Un primato che dovrebbe indurre più di una riflessione, nel momento in cui il Senato si accinge a esaminare una riforma che prevede di allungare a dismisura i tempi di prescrizione dei reati. Se davvero le norme inserite nel disegno di legge sul processo penale entrassero nell’ordinamento, lo score già inarrivabile dell’Italia raggiungerebbe probabilmente vette stratosferiche. Non è un caso che Raimondi, da presidente della Corte di Strasburgo, abbia lasciato trapelare un sentimento misto di impotenza e sconcerto, nel presentare le statistiche durante l’incontro di ieri presso la Suprema corte. Secondo il quadro offerto dal magistrato italiano (di cui in questa pagina trovate un’ampia intervista, ndr), i giudici della Cedu non sanno in quale altro modo sollecitare un intervento di governo e Parlamento italiani sul tema dell’irragionevole durata dei processi. I ricorso arrivano puntuali e numerosissimi, la Cedu li evade, pur con i tempi inevitabilmente lunghi della giustizia sovranazionale, le sentenze richiamano continuamente Roma ad assumere misure per rimediare all’ingiustizia. Solo che l’Italia non sa trovare soluzioni. E anzi adesso si predispone a varare una legge che rischia di rendere ancora più lunghi i tempi della giustizia penale. I giudici di Strasburgo fanno tutto quello che possono. Ma come si è compreso dall’incontro di ieri, non resta loro che lasciarsi cadere le braccia. Guido Raimondi, Presidente della Cedu: "tempi biblici, così si ingolfa anche la Corte" di Valentina Stella Il Dubbio, 12 novembre 2016 Si è tenuto ieri presso l’Aula magna della Corte di Cassazione l’incontro dal titolo Fattore "tempo" e diritti fondamentali. Cassazione e Corte Edu a confronto. Organizzato dall’Ufficio dei referenti per la formazione decentrata, è stato coordinato dal padrone di casa, il primo presidente Giovanni Canzio, e ha visto la partecipazione del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ospite d’onore Guido Raimondi, presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo. Raimondi, commentando il lavoro della Corte di Strasburgo, ha stigmatizzato l’aumento esponenziale dei ricorsi. Segno evidente che qualcosa nei rimedi normalmente esperiti negli Stati non funziona. In Italia non è stato ancora introdotto il reato di tortura. Naturalmente è una questione di grande importanza. C’è una sentenza della Corte piuttosto nota, la sentenza Cestaro contro Italia, che riguarda i fatti della Diaz, avvenuti durante il G8 di Genova: la Corte ha rilevato che vi si registrarono diversi episodi di tortura. In questi casi si richiede una risposta adeguata, anche dal punto di vista della punizione dei responsabili, e la Corte ha verificato che l’ordinamento italiano è carente. Non ha proprio detto che secondo la Convenzione c’è un obbligo di introdurre il reato di tortura, questo casomai è un obbligo che viene da altri strumenti internazionali, però ha sentenziato che così com’è l’ordinamento italiano è insufficiente. Ma suo giudizio sarebbe giusto introdurre questo tipo di reato? Io non devo entrare nell’arena politica, ma mi sembra evidente che questo possibile sviluppo sarebbe estremamente positivo. La Corte, invece, si è espressa sull’ergastolo ostativo e sul 41bis? Sul 41bis la Corte è stata chiamata a pronunciarsi diverse volte. Fino ad oggi non ha trovato una violazione della Convenzione, quindi per il momento l’Italia non è stata trovata in violazione a causa di questo regime speciale. Per quanto riguarda l’ergastolo ostativo la Corte non si è ancora pronunciata; ci sono dei ricorsi ma che non sono stati ancora esaminati. Sono passati oltre 3 anni dalla sentenza Torreggiani. Il ministro Andrea Orlando sostiene che negli ultimi due anni la situazione carceraria sia migliorata. La sentenza Torreggiani è una sentenza pilota, non ha risolto solo il singolo caso ma è servita per moltissimi altri. Nel momento in cui la Torreggiani è stata emessa erano circa 3000 i casi pendenti contro il nostro Paese riguardanti il sovraffollamento carcerario: al momento questa si deve considerare una storia di successo perché le misure adottate dal Governo e dal Parlamento italiano sono state ritenute adeguate dalla Corte, che ha infatti rimandato questi 3000 ricorsi in Italia, che si è dotata di strumenti propri, preventivi e indennitari, per far fronte al problema. Se questi rimedi non dovessero funzionare adeguatamente, se ne ritornerà a parlare a Strasburgo. Il Partito radicale, in concomitanza con il Giubileo dei carcerati, ha organizzato la marcia per l’amnistia a Roma. Concedere o meno l’amnistia è un giudizio che spetta prettamente alla politica. Certamente da cittadino italiano vorrei vedere una maggiore attenzione sul pianeta carcere per non correre il rischio di negare la dignità ai detenuti, che sono comunque persone che soffrono, nonostante il male che possono aver provocato. Il nostro Paese ha ancora molte sentenze della Cedu non eseguite. Secondo lei questo non denota un atteggiamento da Stato indifferente alle pronunce delle Corti internazionali? Il contenzioso italiano è purtroppo molto consistente, i numeri sono diversi rispetto a quelli di altri Paesi con i quali noi amiamo paragonarci, Germania, Gran Bretagna, Francia. Tuttavia questi numeri molto alti riflettono in gran parte un problema molto particolare che è quello del difettoso funzionamento della nostra macchina giudiziaria: l’eccessiva lentezza del processo. L’Italia si è anche munita di un meccanismo suo, la famosa legge Pinto, ma molto spesso le giurisdizioni decidono, concedono una indennità al ricorrente e poi questa indennità non viene pagata. Questo perché c’è una obiettiva difficoltà per le casse dello Stato di far fronte a questo. Il problema esiste e si ripercuote a Strasburgo. Il numero dei ricorsi non scende, giusto? La Corte è in grande difficoltà: attualmente abbiamo 76mila ricorsi pendenti, molti di meno di quelli che avevamo 4 anni fa, che erano circa 160mila. Siamo riusciti a migliorare notevolmente la situazione. Ma il contenzioso rimane di proporzioni difficilmente gestibili e quindi non è raro il caso in cui le nostre sentenze arrivano con un ritardo che io non esito a definire inaccettabile. A un cittadino fa paura entrare nella macchina giudiziaria, non sapendo come e quando potrà uscirne. Questa è una consapevolezza anche del Governo italiano che mi pare di capire prenda oggi sul serio questo problema, che non è solo di coesione sociale perché rende difficile l’accesso alla giustizia, ma scoraggia anche gli investimenti. Spero che vi si metta mano in modo efficace. Le carceri costano un’enormità: spendiamo 3 miliardi per sfornare recidivi di Maurizio Tortorella La Verità, 12 novembre 2016 Dopo esserci passato, il 70% dei detenuti torna a infrangere la legge (la media europea è del 20%). Sono troppo pochi (29,7%) quelli che dietro le sbarre imparano un mestiere. E, una volta fuori, trova lavoro solo il 3%. È un periodo nel quale si dibatte molto sui 54.131 detenuti nelle 193 carceri italiane e sullo sfacelo della stragrande maggioranza dei nostri penitenziari. Da anni, una battente campagna dei radicali cerca di diffondere l’idea che il trattamento degradante cui sono sottoposti i reclusi giustifichi un’amnistia. Lo scorso 6 novembre anche il Papa si è detto favorevole, ma questo non pare convincere né governo né Parlamento. Ora, lasciamo da parte il tema, opinabile, dell’amnistia: si può essere d’accordo o meno. Quel che gli italiani sicuramente ignorano, però, è quanto costa allo Stato "l’esecuzione penale", cioè quello che nel lessico giudiziario definisce l’insieme di tutte le misure che mettono in pratica le sentenze definitive (i condannati di questo tipo sono 35.205, quasi il 64% dei reclusi) o le ordinanze di custodia cautelare (i reclusi in attesa di primo giudizio sono 9.826, quasi il 18%). Insomma, è la cifra che costano le nostre prigioni, con tutte le spese annesse e connesse: dalla gestione dei 781 detenuti in semilibertà e di quelli "messi alla prova" al costo d’affitto dei circa 2.000 "braccialetti elettronici" (che da solo si aggira su 11 milioni l’anno), fino alle attività di reinserimento dei carcerati. Bene, l’"esecuzione penale" in Italia costa all’incirca 3 miliardi di euro l’anno. Il problema è che tanta ricchezza pubblica viene letteralmente buttata dalla finestra, in questo caso una finestra chiusa a grate. Soltanto per ognuno dei 54.131 detenuti presenti in cella al 31 ottobre scorso (18.578 dei quali stranieri), c’è chi ha calcolato che il costo per vitto e manutenzione ordinaria va da 115 a 130 euro al giorno. Ed è una cifra altissima, visto che in cella nessuno mangia il rancio cucinato in prigione: soltanto i veri disperati. Gli altri si arrangiano da sé, di tasca loro, con il mitico "spesino". Ma la domanda vera è un’altra: i 3 miliardi annuali servono almeno a proteggere la società dal crimine? La risposta è brutale: no. Perché parrà paradossale, se non surreale, ma se si analizzano i "tassi di recidiva", cioè la propensione a delinquere di chi è stato almeno una volta dietro le sbarre, si scopre che in Italia torna a compiere reati il 68-70% dei detenuti, mentre nel resto d’Europa si va dal 15 al 20%. È un dato incredibile, ma confermato da tutte statistiche: se vai in prigione, quando esci in più di due casi su tre torni al crimine. Insomma, il carcere in Italia è davvero l’eccellente scuola di delinquenza di cui si è sempre parlato. Va riconosciuto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, un impegno a favore delle pene alternative e per la riforma dell’esecuzione penale. È una scelta giusta, ma soprattutto oculata. Un suo predecessore, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, aveva già calcolato nel 2012 che "la recidiva di chi sconta la condanna attraverso misure alternative (quindi non passando per il carcere, se non in certi casi e comunque per periodi il più possibile brevi, ndr) scende drasticamente al 19%". Paola Severino aveva valutato correttamente anche un altro aspetto fondamentale della questione: il lavoro dei condannati, che purtroppo in Italia è ancora un’araba Fenice. "La percentuale di recidivi che non hanno mai lavorato in carcere" calcolava cinque anni fa l’ex Guardasigilli "è superiore di tre volte rispetto a coloro che hanno svolto mansioni lavorative all’esterno o all’interno dei penitenziari". Il problema è che in Italia l’8o-85% delle condanne viene scontato in carcere, in pochi metri quadri di cella e quasi sempre senza che sia prevista alcuna attività lavorativa: e l’ozio, se possibile, abbrutisce i detenuti ancor più della fatiscenza di una cella. Al 31 dicembre 2015 le statistiche ministeriali garantivano che i "detenuti lavoranti" erano 15.524, appena il 29,7% del totale; sì, sempre secondo i dati ministeriali c’era stato un lieve miglioramento rispetto all’anno precedente, quando erano 14.550, il 27,1%. Ma sono statistiche estremamente generose, perché un vero percorso d’istruzione e di avviamento al lavoro oggi esiste solo per un fortunato 3% di reclusi. Sono, soprattutto, statistiche da mondo sottosviluppato. Perché in Francia e in Gran Bretagna avviene quasi l’esatto contrario: oltre due terzi dei condannati sono quotidianamente impegnati in lavori di pubblica utilità, per di più condotti quasi sempre all’esterno delle prigioni. Non vale quasi la pena di confrontarsi con realtà come la Danimarca, dove le regole sono così lontane dalle nostre da essere quasi inconcepibili alla luce della nostra esperienza. È soltanto la chance di un’occupazione che tiene lontani i condannati dalla ricaduta. È vero che anche in Italia ci sono alcuni (pochi) casi esemplari: come il carcere di Bollate, vicino a Milano, dove invece il lavoro è la regola, e la recidiva è inferiore al 20%. Ma sono per l’appunto casi, e in quanto tali isolati. Purtroppo. I lavori creativi dei detenuti, dal carcere alle nostre case modaeimmagine.it, 12 novembre 2016 Esistono molti progetti che vedono il recupero dei detenuti, molte carceri infatti aderiscono all’iniziativa che vede i carcerati svolgere lavori utili, realizzando prodotti a mano che verranno poi messi sul mercato. Fondamentale per la risocializzazione dell’individuo, lo sottrae dagli effetti negativi dell’ozio ma anche fonte di guadagno che può essere destinato ai familiari. Anche queste attività contribuiscono al rinnovo del modello di detenzione e garantiscono delle percentuali di recidiva tra i soggetti che partecipano, decisamente ridotti rispetto a chi non è integrato nei progetti lavorativi. I prodotti realizzati nelle carceri sono principalmente articoli artigiani, creazioni, prodotti agricoli, ma anche elementi d’arredo, abbigliamento e articoli natalizi. Questo Natale potrebbe essere l’occasione giusta per fare un doppio regalo, acquistando uno di questi prodotti infatti, non solo farete felice la persona che lo riceverà ma contribuirete a proseguire con un progetto che possiede solo aspetti positivi. Seguendo il link www.giustizia.it entrerete nella sezione del sito del Ministero della Giustizia dedicato alla vendita di questi articoli, le ricerche sono molto dettagliate, si può infatti scegliere la tipologia di prodotto o se preferite il punto vendita più vicino a casa, ma soprattutto la struttura carceraria. Spesso le aziende decidono di seguire alcuni detenuti ed offrire loro un percorso formativo che potranno sfruttare una volta in libertà, una di queste strutture è la Officine Creative, che grazie al progetto Made in Carcere, offre la possibilità a 20 detenute la possibilità di guadagnarsi un biglietto per il reinserimento nella società lavorativa e civile. Il loro sito per lo shopping online è www.storemadeincarcere.it dove troverete anche gli indirizzi di tutti i negozi dove potete trovare i loro prodotti. Le Regioni salvano la giustizia. Firmati protocolli col ministro. Ma c’è chi non gradisce di Carlo Valentini Italia Oggi, 12 novembre 2016 Sos giustizia? Ci pensano le Regioni. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sostiene di avere le mani legate dal budget di bilancio sempre più ristretto. Al suo cahier de doléances rispondono alcuni presidenti di Regione: ci pensiamo noi. La giustizia amministrata a metà, proprio mentre il referendum rimette allo Stato alcuni poteri che erano stati decentrati. Per le Regioni diventa un fiore all’occhiello questo sopperire alle deficienze dello Stato. D’altra parte tra le ragioni nella crisi della giustizia (e un paese con la giustizia che non funziona non può avere un’economia florida) vi è la carenza degli organici (oltre alla scarsa produttività di molti uffici). Così alcune Regioni hanno deciso di scommettere sulla giustizia, convinte che ne risulteranno benefici per i loro territori. In Emilia-Romagna, per esempio, è venuto il ministro Orlando a ringraziare il presidente della Regione. Di fronte alle richieste di coprire l’organico da parte dei vertici del tribunale il ministro non era andato al di là di generiche promesse. Così la Regione ha saltato il fosso: 50 dipendenti saranno trasferiti temporaneamente all’apparato giudiziario nel tentativo di tamponare le falle e consentire, a chi ne ha bisogno, di ottenere giustizia in tempi ragionevoli. Tra qualche tempo sarà possibile verificare se l’obiettivo è stato raggiunto. Dice il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini: "Con il prestito temporaneo di personale la Regione intende fornire il proprio contributo per migliorare l’attività degli uffici giudiziari, collaborando ad una significativa definizione dei procedimenti pendenti e alla creazione di un circuito virtuoso per l’economia del territorio nel suo complesso, stimolando e incentivando investimenti e nuovi posti di lavoro. Il personale assegnato agli uffici giudiziari, 50 persone, individuato con avviso interno, sarà destinato alla realizzazione di progetti, redatti dagli uffici interessati e coordinati dalla Corte d’Appello o dalla Procura, per la riduzione dei tempi di trattazione dei procedimenti". Aggiunge l’assessore regionale al Personale, Emma Petitti: "L’attività prestata dai dipendenti regionali negli uffici giudiziari, a partire dalla formazione e dall’aggiornamento, rappresenta per loro un’occasione di arricchimento professionale che sapranno valorizzare una volta rientrati in Regione per concretizzare ancora di più le politiche per la prevenzione della corruzione, per la trasparenza e per favorire il diffondersi della cultura della legalità in ogni settore della pubblica amministrazione". Il soccorso alla giustizia boccheggiante è bipartisan. Oltre alla piddina Emilia-Romagna anche il Veneto leghista marcia nella stessa direzione. Spiega il presidente della Regione, Luca Zaia: "Vi è una situazione di criticità della giustizia nel Veneto, regione cresciuta economicamente ma con un assetto giurisdizionale vecchio, una situazione che riveste una valenza di carattere fortemente strategico. Metteremo a disposizione rapidamente i nostri dipendenti accelerando al massimo i bandi interni per le candidature. Il nostro obiettivo è una giustizia rapida ed efficiente quale elemento fondamentale di competitività. La seconda regione italiana per prodotto interno lordo, le 600 mila partite Iva che animano una delle economie più forti d’Europa, ma soprattutto le imprese e i gruppi stranieri che valutano con favore la possibilità di investire in Veneto, chiedono soprattutto garanzie precise sul servizio giustizia". Il ministro Orlando ringrazia: nonostante il diverso colore politico e l’aspra campagna referendarie in trincee opposte, il leghista Zaia non s’è tirato indietro. "Le riforme normative e organizzative avviate fi no ad oggi sul fronte degli organici della magistratura e del personale amministrativo, compreso il concorso appena varato per il reclutamento di 1.000 unità - dice Orlando - hanno bisogno di un certo tempo anche se non troppo lungo per realizzarsi. L’intervento delle Regioni ci consente di avere un valido sostegno in termini di personale che andrà a lavorare negli uffici giudiziari. Una preziosa collaborazione che ci porterà ad accelerare i procedimenti". Un’altra Regione che si è unita al fronte pro-giustizia e che firmerà il protocollo col ministro Orlando è l’Umbria. Dice il presidente della Regione, Catiuscia Marini, Pd: "Offriamo il nostro contributo affinché la giustizia possa funzionare nelle migliori condizioni, riducendo il più possibile i tempi del giudizio nell’interesse dei cittadini e delle imprese. Oltre che per garantire il massimo risultato in tema di ordine pubblico e sicurezza. A questo fi ne destineremo temporaneamente del personale, a seguito di un avviso interno, agli uffici giudiziari". Concorda il presidente della Corte d’appello umbra, Mario Vincenzo D’Aprile: "È stato raccolto il mio appello e il nostro grido di dolore per la gravissima carenza di personale che sta rendendo molto difficile, soprattutto per la sezione penale, il regolare svolgimento dell’attività giudiziaria nel distretto". La corresponsabilizzazione delle Regioni contribuirà veramente a rendere più efficace l’amministrazione della giustizia e a dare risposte in tempi più rapidi a chi si rivolge fiducioso ai tribunali? È la prima volta che si registra questa intesa tra Regioni (ma alcune hanno risposto picche) e ministero. Una collaborazione destinata verosimilmente a durare nel tempo, considerando i fondi limitati a disposizione del ministro. Comunque, ora ci si prova, con la speranza di fare uscire l’Italia dal gruppo degli ultimi nella classifica mondiale dell’amministrazione giudiziaria. L’Italia si colloca terzultima nel settore civile (incluse le cause commerciali) con oltre 500 giorni per ottenere un giudizio di primo grado (solo Malta e Cipro fanno peggio) e quartultima nel settore amministrativo, con addirittura 1.000 giorni per avere una sentenza di prima istanza.. Ma c’è chi avanza dubbi sull’utilità effettiva dell’intervento delle Regioni perché sono giù approdati all’apparato giudiziario dipendenti di altri enti e secondo il Comitato lavoratori giustizia con risultati deludenti: "Non si tiene conto delle competenze specifiche che si richiedono agli ausiliari della magistratura. Negli uffici giudiziari sono arrivate con mobilità obbligatoria 359 unità provenienti da enti in esubero come le Province e la Croce Rossa Italiana: si tratta, nello specifico, di personale già inquadrato nella Croce Rossa con mansioni di autista e barelliere, per la maggior parte in possesso del titolo di studio di licenza media e inspiegabilmente inquadrato nei ruoli dell’amministrazione giudiziaria che prevedono collaborazione qualificata al magistrato, ruoli che vanno dall’assistente giudiziario, al cancelliere, al funzionario giudiziario". Scettico appare anche il presidente dell’Associazione magistrati, Piercamillo Davigo: "Per far funzionare meglio la giustizia - dice - serve una massiccia depenalizzazione, ma bisogna disincentivare chi fa girare a vuoto la macchina della giustizia. Se dimezzassimo il numero dei processi, si dimezzerebbe anche l’onorario degli avvocati: la politica non è riuscita ad avere ragione della lobby dei tassisti, figuriamoci con gli avvocati. Un terzo degli avvocati dell’Ue sono italiani e oggi il 92% dei laureati in giurisprudenza, visto che la pubblica amministrazione non assume da venti anni e ci sono sempre meno sbocchi per i giuristi, diventano avvocati". Quello della giustizia è un tema tanto caldo che perfino il presidente del consiglio dopo qualche proclama ha poi lasciato perdere. A gestire la giustizia-lumaca è rimasto, solitario, il ministro Orlando. Alcune Regioni hanno deciso di dargli una mano. Servirà per portare fuori i processi dal buco nero in cui spesso affondano? Il significato della condanna e la riabilitazione per il detenuto tossicodipendente di Marco Cafiero* progettouomo.net, 12 novembre 2016 Il cittadino comune sembra avvertire, ogni giorno di più, un senso di resa nei confronti della lotta alla tossicodipendenza, ma non si tratta di un dato reale, solo di un senso di smarrimento degli operatori nel fronteggiare un fenomeno che si diversifica sempre di più, per cui i collaudati strumenti di intervento appaiono obsoleti. La sfida riposa nell’inventare con estrema rapidità contesti terapeutico/educativi adeguati alle nuove dipendenze. Il carcere, però, resta un territorio prolifico di disagio e sofferenza che induce gli operatori pubblici e privati a fornire risposte salvifiche che rispondano ad esigenze di sicurezza sociale e costituiscano alternative alla pena con lo slogan "il carcere non recupera". Ed è profondamente vero anche se ormai appare un luogo comune, e l’unica risposta appare essere la creazione di contesti specializzati nel trattamento del detenuto tossicodipendente per separarlo dal contesto carcerario e giungere, contestualmente, alla sua riabilitazione psico-fisica. Elemento fondante resta il lavoro di rete con i Servizi in cui pubblico e privato mantengano la rispettiva identità e propongano la propria cultura dell’intervento per esercitare una funzione di stimolo reciproco. Obiettivo comune è l’affermare ed il rafforzare, in linea con l’evoluzione normativa recente, il ricorso alle misure alternative alla detenzione per le condanne inflitte a persone con problemi di droga e alcool per reati comuni ma connessi alla dipendenza da sostanze, favorendo in tal modo il processo di inclusione sociale voluto dalla legge. Tutti i servizi instaurano un rapporto di grande collaborazione con l’Autorità Giudiziaria offrendo risorse per rispondere al sistema sanzionatorio che, negli ultimi trent’anni, si è modificato sensibilmente. Tra questi il progetto "La cura vale la pena" che rappresenta una risposta innovativa ma anche preventiva al pregiudizio che la carcerazione potrebbe arrecare al dipendente riabilitando. La collaborazione con l’Autorità Giudiziaria parte dal concetto di "accoglienza" per rispondere al bisogno dell’individuo di modificare il proprio stile di vita evitando un percorso carcerario distruttivo caratterizzato dal meccanismo della "porta girevole". Ma, nel contempo, risponde anche al bisogno della collettività di vivere in una società sana. La misura degli arresti domiciliari, infatti, ha sempre rappresentato un momento custodiale forte che rischia di inficiare il percorso educativo attribuendo agli operatori della struttura un’onerosa funzione di controllo che mal si concilia con il tipo di intervento: tuttavia la collaborazione dell’Autorità Giudiziaria, che ha attribuito all’operatore un’ampia valutazione dei movimenti dell’utente, è risultata maggiormente adeguata alla funzione educativa, pur investendo gli operatori stessi di una forte responsabilità. La struttura ospitante, nella persona del suo responsabile, deve garantire una veloce comunicazione delle violazioni dell’ ospite che possono portare alla revoca della misura ed il ripristino della custodia in carcere, ancor più se tali violazioni costituiscono reati. La mancata comunicazione può comportare una segnalazione all’ente presso cui la comunità è accreditata che ha come conseguenza la revoca della convenzione. Ed è per questo motivo che occorre uniformare questo tipo di collaborazione, magari sancendola con una norma, che favorisca l’applicazione della custodia cautelare a persone seriamente intenzionate ad intraprendere un percorso di recupero, tenuto presente il dato incontrovertibile per il quale una persona in una struttura residenziale rappresenta un costo sociale di gran lunga inferiore di quella ristretta in carcere, anche in virtù dell’aspetto recidivante di cui abbiamo già trattato. Ma anche sul versante dell’esecuzione penale bisogna dire che l’intervento della Corte Costituzionale e la messa a punto di alcune modifiche legislative hanno ampliato il ricorso alle misure alternative offrendo la possibilità alla persona dipendente da sostanze di intraprendere percorsi di recupero volti a prevenire sia la ricaduta nell’uso che la commissione di nuovi illeciti. È un dato incontrovertibile che la misura alternativa riduca il comportamento delittuoso recidivante, ma ancor più lo è qualora la misura sia caratterizzata da un intervento riabilitativo che agisca sulla persona e non solo sul contesto sociale in cui tende a reinserirsi. Un investimento che induce a non abbassare mai la guardia nei confronti delle insidie che quotidianamente si incontrano con l’insorgere dei nuovi stili di consumo e a non stancarsi mai di auspicare nuovi interventi normativi volti a favorire il recupero della persona per tenerla fuori da contesti criminali che si strutturano intorno a tali stili. Questo è il modo per fugare ogni pregiudizio sulla presunta resa.. L’illecito penale è un momento che porta la persona a contatto con un sistema caratterizzato da regole precise che non possono essere sottovalutate né disconosciute. La risalita avviene solo se questa consapevolezza si radica nell’individuo, al quale sono offerti strumenti e non escamotage per trasformare i propri errori in risorse per un nuovo stile di vita. Questo strumento certamente non può essere il carcere con il suo mondo di regole non scritte che favoriscono l’irrigidimento e la cultura dell’illegalità. Al contrario, si tratta di individuare strumenti in grado di sviluppare la consapevolezza dell’individuo nel cercare attraverso modalità legali la convivenza con gli altri. Il carcere produce la cultura dell’omertà e sviluppa codici comportamentali che sono difficili da eliminare e che l’individuo si porta dentro per sempre incidendo in modo negativo sul contesto sociale in cui tenta di "sopravvivere". La "messa alla prova" invece sviluppa competenze e relazioni sociali e porta la persona sperimentarsi nella legalità. Il momento sanzionatorio, attraverso strumenti alternativi, può quindi diventare un passaggio educativo importante perché si avvale di risorse sociali con forti competenze che incidono sul comportamento dell’individuo, non solo portandolo ad affrancarsi dalla dipendenza, ma anche ad allontanarsi da circuiti criminali in cui è stato coinvolto o in cui rischia di cadere. La messa alla prova ha sicuramente una funzione preventiva perché diretta precipuamente a soggetti alle prime esperienze illegali, nello stesso tempo il ricorso a misure cautelari, sia pure custodiali ma meno esclusive, consentono una sperimentazione nel proprio recupero. L’istituto di cui all’art. 168-bis del codice penale è un’innovazione fondamentale per il sistema giudiziario, ma costituisce anche una grande sfida per tutti gli attori che ne fanno parte perché sono chiamati a coinvolgere realtà parzialmente estranee al processo penale con cui non sono abituati ad interagire. La "messa alla prova" deve essere letta come un momento di grande evoluzione del sistema sanzionatorio e non come un semplice escamotage per decongestionare il sistema carcerario, come più volte insinuato. In due anni di applicazione, però, si riscontrano difficoltà a strutturare la rete di supporto coinvolgendo il sistema sociale e sanitario, difficoltà dovute anche alla lunghezza dei tempi per costruire un percorso adeguato al fatto reato che consenta al Giudice di sospendere il procedimento ed attendere di valutare l’efficacia del progetto per poter estinguere il reato stesso. Infatti, siamo abituati a leggere la conclusione di un progetto sociale come forma alternativa ad una sanzione e non come possibilità di non addivenire ad una sentenza di condanna e di cancellare un fatto reato, probabilmente accaduto, senza lasciarne traccia. È doveroso sentire l’esigenza di definire il ruolo del sistema socio-sanitario, in particolare quello delle tossicodipendenze, in una rete che individua nell’intervento non solo la cura ma anche un modo di evitare una condanna, con le strumentalizzazioni che ne potrebbero derivare, ma anche con l’incremento delle opportunità per il soggetto dipendente di modificare il proprio stile di vita. Per questo motivo occorre affrontare l’argomento evidenziando alcuni contenuti che stanno alla base del nuovo istituto: si tratta di un modo per introdurre a pieno titolo la giustizia riparativa attraverso il mero risarcimento del danno alla parte offesa del reato, laddove le condizioni economiche del reo lo consentano, i lavori socialmente utili come ristorazione alla collettività lesa dal fatto reato e la mediazione penale che ristabilisca l’equilibrio venuto meno con la commissione dell’illecito. Il sistema socio-sanitario è chiamato ad anticipare un intervento in rete con quello giudiziario fin dalla fase delle indagini, senza attendere la condanna, la determinazione della pena e l’esecuzione della stessa. Protagonista, ancora, il sistema del privato sociale, da sempre al fianco del settore pubblico: per costoro, infatti, si tratta di allargare l’orizzonte riabilitativo ai lavori socialmente utili. In fondo è un’opportunità per i tossicodipendenti in trattamento di includersi socialmente attraverso i contatti con le realtà sociali presenti sul territorio. Ma è anche vero che l’istituto della messa alla prova prevede che il progetto non debba interferire con esigenze di studio e lavoro, ma ancor più con un intervento riabilitativo: per cui è necessario valutare con attenzione quanto sia opportuno prescrivere il lavoro di pubblica utilità ad un soggetto che abbia da poco intrapreso un percorso residenziale in cui è elemento fondante la separazione dal contesto sociale in cui si è sviluppata la dipendenza. Per questo motivo ritengo auspicabile una riforma dell’istituto che deroghi, nel caso di soggetto inserito in un percorso terapeutico residenziale, all’imprescindibilità del lavoro di pubblica utilità senza pregiudicare per lo stesso la possibilità di aderire ad un progetto di messa alla prova. Un intervento normativo di tale natura potrebbe derivare proprio dalla modifica del DPR 309/90, che da anni necessita di una rivisitazione complessiva, e si porrebbe in linea con l’istituto dell’affidamento in prova di cui all’art. 94 del testo unico che, in fondo, fornisce al dipendente che intende riabilitarsi un percorso privilegiato di natura social preventiva Ancora poco applicata, all’interno di questa opportunità è la "mediazione" con la parte offesa del reato. Anche i soggetti che si sottopongono ad un percorso di recupero necessitano di consapevolizzare i danni che hanno arrecato con il proprio comportamento, spesso sottovalutati dal lavoro che fanno su loro stessi. Non dobbiamo avere paura di intervenire sulla frattura sociale generata, e la mediazione rappresenta un buon momento per restituire alla società una persona recuperata. Una riflessione su questi temi ci porta ad attribuire un significato alla condanna trasformandola in un’opportunità per la riabilitazione del detenuto tossicodipendente *Avvocato, membro del Consiglio direttivo Fict Cosenza: suicidio "sospetto" nel penitenziario di Paola, il detenuto morto stava per uscire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2016 Linea d’ombra sul decesso di un detenuto straniero nel carcere calabrese di Paola. Il ristretto si chiamava Youssef Mouchine, aveva 30 anni e gli restavano pochissimi giorni per essere scarcerato e tornare in libertà. Si sarebbe suicidato nella notte tra il 23 ed 24 ottobre. La famiglia che vive in Marocco è stata avvisata della sua morte dopo diversi giorni. Youssef era stato già sepolto presso il cimitero del comune di Paola, col nulla osta del pm Anna Chiara Fasano. Il pm, oltre ad aver disposto l’autopsia e l’acquisizione di atti e filmati delle telecamere di sorveglianza, ha chiesto alla direzione del carcere di sapere se il detenuto aveva familiari e parenti o altre persone con le quali era in contatto, eventualmente anche per informarli della possibilità di nominare un proprio consulente di parte per partecipare alle operazioni autoptiche e per la restituzione della salma. Invece, e non si capisce il perché, pare che il carcere abbia risposto negativamente chiedendo contestualmente all’autorità giudiziaria il nulla osta per il seppellimento a spese dell’amministrazione. L’esponente dei Radicali Italiani Emilio Quintieri che ha denunciato questa oscura vicenda spiega che "la salma, come prevede l’Ordinamento penitenziario, avrebbe dovuto essere messa immediatamente a disposizione dei congiunti e solo qualora alla sepoltura non volessero provvedere i predetti, l’amministrazione doveva farsene integralmente carico". Per tale motivo, Larbi Mouchine, padre di Youssef, sempre su consiglio del radicale Quintieri, ha nominato l’avvocato Manuela Gasparri del Foro di Paola, conferendole espressamente mandato di rivolgersi alla procura della Repubblica di Paola, perché sia fatta piena luce sulla morte del figlio, non riuscendo a credere che si tratti di suicidio atteso che il fine pena era imminente e lui voleva tornare in Marocco per sposarsi ed anche perché durante le pochissime telefonate intercorse questi aveva lamentato di essere ripetutamente maltrattato, di essere messo in isolamento in cella liscia e costretto a dormire sul pavimento a causa delle sue rimostranze poiché non gli veniva consentito di corrispondere telefonicamente con la famiglia. Nella mattinata di giovedì scorso, la cugina di Youssef, Zaineb Belaaouej, accompagnata dagli avvocati Manuela Gasparri e Carmine Curatolo, si è recata presso la procura della Repubblica di Paola per parlare con il pm Fasano, raccontandole i fatti di sua conoscenza. Nei prossimi giorni, invieranno una dettagliata memoria scritta alla Procura, con la quale sporgeranno denuncia contro l’Amministrazione penitenziaria e la citeranno in giudizio per non aver tutelato la incolumità del loro congiunto, avendone l’obbligo. Tra l’altro - denuncia il radicale Emilio Quintieri - la direzione della Casa circondariale di Paola, non ha risposto al Consolato generale del Regno del Marocco di Palermo, competente anche per la Regione Calabria, il quale il 31 ottobre ha chiesto notizie sulla morte del proprio connazionale. I familiari chiederanno aiuto al Re Mohammed VI, al ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione del Regno del Marocco. Ahmed Berraou, il responsabile del Dipartimento Politiche dell’Immigrazione della Cgil di Cosenza e capo della locale comunità marocchina, dopo aver appreso della misteriosa morte del suo conterraneo, commenta: "Esprimo a nome mio personale tutto il mio sdegno per la morte del giovane Youssef Mouchine avvenuta, nelle scorse settimane, nella casa circondariale di Paola. È assolutamente necessario che si faccia chiarezza anche perché non è la prima volta che accadono fatti del genere". Berraou prosegue con una denuncia: "La direzione del carcere, nei mesi scorsi, ha proceduto a revocare l’autorizzazione accordata alla mediatrice culturale Shyama Bokkory asserendo, falsamente, che non vi erano più detenuti extracomunitari nell’Istituto". Il capo locale della comunità marocchina infine conclude con una serie di domande: "Per quale motivo non è stata avvisata tempestivamente la famiglia di Mouchine del suo decesso? Per quale motivo, nonostante la richiesta della famiglia di voler restituito il cadavere per il funerale secondo il tradizionale rito islamico, hanno proceduto alla sepoltura in un cimitero cristiano? Per quale motivo non hanno riscontrato la richiesta pervenuta dal Consolato generale del Marocco di Palermo che chiedeva informazioni sulla morte di Mouchine? Non è possibile che in uno Stato civile come l’Italia possano esserci delle Carceri gestite in questo modo". Non è nuovo un caso del genere nel carcere di Paola. Sempre quest’anno, un detenuto che si chiamava Maurilio Pio Morabito, in carcere per spaccio di stupefacenti, si sarebbe suicidato nell’aprile scorso nella sua cella, dopo aver trascorso un periodo di isolamento in una cella liscia. Il suo fine pena era imminente. Maurilio sarebbe uscito dal carcere il 30 giugno. Aveva anche scritto una lettera indirizzata ai familiari e al suo avvocato con queste inquietanti e profetiche parole: "Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa". Anche in questo caso ci sono delle nubi a cui l’autorità giudiziaria dovrà dare una risposta chiara. Imperia: detenuto marocchino di 27 anni muore asfissiato dal gas, si presume il suicidio sanremonews.it, 12 novembre 2016 Se fosse confermata l’ipotesi si tratterebbe del secondo morto in Liguria dall’inizio dell’anno. Il primo è stato a Genova. Un detenuto marocchino di 27 anni è stato trovato morto, verso le 21.15, nella propria cella, in carcere a Imperia. Stando alle prime informazioni si tratterebbe di un suicidio, ma la notizia non è ancora confermata e non si esclude, dunque, il decesso per cause naturali. L’allarme è scattato, alle 21.15, quando un agente della polizia penitenziaria ha avvertito un forte odore di gas. Ha così iniziato un giro tra le varie celle, trovando poco dopo il corpo del detenuto riverso sul pavimento. Malgrado il tempestivo intervento del medico di guardia, per il giovane detenuto ormai non c’era più nulla da fare. Se fosse confermata l’ipotesi del suicidio, si tratterebbe del secondo morto in Liguria dall’inizio dell’anno. Il primo è stato a Genova. Ivrea (To): il Garante: "senza dialogo in carcere continueremo ad ammalarci e picchiarci" di Vincenzo Iorio La Sentinella del Canavese, 12 novembre 2016 Dopo gli episodi di violenza, Armando Michelizza chiede strumenti di mediazione. Sugli agenti di polizia: "Nessuno va a lavorare con la voglia di menare le mani". Cosa succede nel carcere di Ivrea? Da qualche tempo l’istituto di pena di corso Vercelli è al disonore delle cronache locali e non solo. Alcuni detenuti denunciano pestaggi da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Lo chiediamo ad Armando Michelizza, garante del Comune per i diritti delle persone private della libertà personale. "Ci sono proteste che qualcuno definisce rivolte, e interventi per sedarle che producono contusi e feriti: soprattutto fra le persone detenute. Danni materiali e ai corpi, danni alle relazioni. Tensioni crescenti". Si è parlato di proteste perché in cella non c’è il televisore. È vero? "Davvero qualcuno può credere che ciò dipenda da questo o da materassi che, in verità, fanno ribrezzo all’idea di dormirci sopra o da un vitto non sempre percepito come quello che dovrebbe essere somministrato? Siamo seri: non sono solo queste le questioni che rendono sopportabile la condizione, in ogni caso dura, della privazione della libertà". Cosa c’è allora alla base di queste proteste? "La cosa che può essere davvero insopportabile è il non avere risposte, la sensazione di non essere considerati pienamente persone, il denunciare ed essere "consigliati" a ritirare la denuncia, la sensazione di non avere pienamente i diritti che pur si proclamano solennemente. Quando la tensione sale troppo si ha l’esplosione". Sedate le rivolte, cosa succede? "Qualcuno paga, e si riparte, da capo. Le persone detenute pagano fisicamente, con trasferimenti, punizioni e magari condanne, in ogni caso carcere aggiuntivo o peggiore". E gli agenti di polizia penitenziaria? "Non voglio entrare in competizione con le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria sul chi paga di più questa situazione. Ho troppe conoscenze, e anche amicizie, fra persone detenute, ex detenute e polizia penitenziaria per iscrivermi a una delle due tifoserie. Per essere chiaro: non credo vi siano persone che si alzano al mattino con la voglia matta di menare le mani e per questo vanno in carcere al lavoro. Sono invece convinto che vi siano troppe persone che, al pensiero di andare a lavorare in quell’ambiente, si sentano in sofferenza. Per questo, fin dall’inizio del mio incarico di garante, ho cercato una collaborazione con le organizzazioni sindacali. Per la convinzione che ho, anche suffragata da ragionamenti condivisi con agenti, che, o si rende quell’ambiente vivibile per tutti, o ci si ammala insieme. Per ora continuiamo ad ammalarci e a picchiarci". Cosa la preoccupa di più? "È questa mancanza di fantasia rispetto alla soluzione dei conflitti che mi spaventa. Mi chiedo se non converrebbe puntare sulle capacità di collaborazione, senza confusione di ruoli, per costruire un ambiente meno teso. Se ci sono momenti di tensione, come quelli dei giorni scorsi, che non si è stati capaci di evitare prima, mi chiedo se resta solo l’uso della forza". Quali sono gli strumenti di mediazione e dialogo? "I volontari, per esempio, il garante, perché no? L’assenza di alternative mi fa temere altri conflitti, altrettanto dannosi e perdenti. Per tutti". Alcuni detenuti denunciano di essere stati picchiati. A lei risultano episodi di violenza? "Non sono, ovviamente, per nascondere o dimenticare, se ci sono state, responsabilità e colpe. Avevo scritto nelle mie due relazioni annuali al consiglio comunale che avevo raccolto segnalazioni di violenze e che mi ero anche rivolto alla Procura della Repubblica per manifestare le mie pesanti preoccupazioni". Queste le criticità. Cosa propone? "Bisogna intensificare il rapporto fra la comunità esterna e le persone detenute, ovvero rendere normale l’incontro di gruppi di persone detenute con l’amministrazione comunale della città e del territorio. Si possono coinvolgere le comunità esterne ospitanti attività lavorative nel processo educativo, ovvero nella crescita della persona. Penso alla promozione di incontri della comunità islamica di Ivrea con le persone detenute di quella religione; questo anche in funzione di contrasto al rischio di radicalizzazione. Si potrebbe realizzare un ambiente per colloqui particolarmente attento alle problematiche dei minori che visitano i congiunti detenuti e per cui esiste una disponibilità economica di una associazione locale". Sotto il profilo dell’organizzazione interna del carcere, si può fare qualcosa? "Si può partire risolvendo la difficile situazione della sezione lavoranti all’esterno (semiliberi ed in permesso ex art. 21). C’è poi la questione dell’adeguamento dei servizi sanitari alle nuove disposizioni della Regione Piemonte. Bisogna, inoltre, prevedere a una migliore modalità di raccolta delle proteste individuali o collettive che trovino ambiti di mediazione". Come viene percepito il suo ruolo dai detenuti? "Confesso un mio disagio: quello di percepire, da parte di molte persone detenute, un mio ruolo contrapposto a quello della direzione e dell’apparato educativo e della polizia penitenziaria. Ora questo può succedere, ma non sempre, non necessariamente, non per missione o mandato. Dovremmo essere tutti impegnati per promuovere i diritti delle persone detenute e, in particolare, il diritto a una proposta che renda meno "obbligata" la recidiva. Nell’interesse di tutti". Vi sono risorse dentro e fuori il carcere che credono in questi percorsi e sono disponibili a percorrerli? "Credo che sarà necessario chiedere, ancora una volta, alla comunità esterna al carcere, di aiutarci. Di aiutare questo quartiere della città a riprendere la strada della crescita e della costruzione di un clima vivibile per chi vi è costretto e per chi ci lavora". Pisa: il carcere "Don Bosco" è al collasso, lo dice il Garante dei diritti dei detenuti di Carlo Venturini Il Tirreno, 12 novembre 2016 Oltre al sovraffollamento emergono gravissime criticità per donne, detenuti stranieri e infrastrutture. Il Garante dei diritti dei detenuti, Alberto Di Martino, ci spalanca le porte del carcere Don Bosco che è già in sovraffollamento essendo stato realizzato per 226 detenuti rispetto ai 277 che sono attualmente lì incarcerati. Oltre al sovraffollamento, ci sono fortissime criticità per la situazione delle donne, per gli stranieri e per le infrastrutture. La situazione carceraria femminile. Di Martino nel suo report passando al setaccio la condizione detentiva delle donne, usa la parola "infelice". Le celle si trovano al piano superiore lungo un ballatoio che si affaccia sul corridoio del piano terra. Come misura adottata per evitare i problemi da sovraffollamento, le detenute possono stare fuori dalla cella per un certo numero di ore al giorno, ma - ad oggi - non possono sostare sul ballatoio; possono solo riunirsi a gruppi nelle celle (idonee, d’altronde, al massimo per due persone) oppure recarsi al piano inferiore in una sala comune. Il ballatoio dispone di una cucina professionale piuttosto moderna, tuttavia non accessibile all’uso ordinario quotidiano, nonostante sollecitazioni in tal senso anche del garante regionale; resterebbe accessibile per corsi professionalizzanti o comunque attività di carattere occasionale. La direzione della casa circondariale sottolinea la non gestibilità dei profili di responsabilità innanzi tutto civile che potrebbero essere connessi all’uso ordinario dell’impianto. La questione si fa seria, anzi illegale, come dichiara Di Martino, quando si affronta il tema sanitario-igienico e di rispetto della dignità della persona. L’area dei sanitari è situata all’interno delle celle separata dal resto dell’ambiente da un semplice "mezzo muro", cioè un muretto basso che non impedisce né la vista, né ovviamente ogni altra percezione di quanto connesso alle necessità fisiologiche e alle pratiche di igiene personale. Di fatto non c’è nessun bidet con erogazione di acqua calda, che è disponibile soltanto nelle docce. Le finestre di alcune celle, nelle quali è stato sistemato un letto a castello, non consentono l’apertura completa degli stipiti. "Con soddisfazione - dichiara Di Martino, già docente della Scuola Sant’Anna e avvocato - si apprende che un pronunciamento recente della magistratura di sorveglianza, anche sollecitata dai ricorsi promossi dalle detenute con l’assistenza dei volontari de L’Altro Diritto, ha intimato all’amministrazione di risolvere strutturalmente, entro sessanta giorni, il problema della separazione del vano sanitari dal resto della stanza". Problemi infrastrutturali. L’elenco stilato da Di Martino è lunghissimo, anche perché il Don Bosco è una struttura risalente agli anni ‘30. Si va dalla insufficiente altezza di barriere e parapetti in relazione alle norme vigenti, all’inadeguatezza, vetustà, deperimento delle linee telefoniche, del sistema di videosorveglianza alla porta principale al deperimento del manto del campo da calcetto. L’area dei detenuti in semilibertà necessita di un totale rifacimento, e preferibilmente la dislocazione all’esterno della casa circondariale. È poi da segnalare che le celle sono ancora munite di bagno alla turca, per giunta non separato dal vano camera, come invece richiederebbe la normativa. "Anche in questo caso si tratta di una situazione illecita - commenta Di Martino. La struttura va rifatta da cima a fondo, pena il tradursi in un carcere a regime pre-democratico". Proprio la carenza di spazi e la vetustà di quelli esistenti comprimono e mettono in forte disagio i volontari de L’Altro Diritto. Last but not least, secondo il Garante, "è necessaria e urgente la realizzazione di una pensilina per l’attesa esterna da parte dei familiari ammessi ai colloqui. Ad oggi, assurdamente, le persone devono attendere in piedi, esposte a freddo e intemperie d’inverno, al solleone d’estate". La situazione degli stranieri. I detenuti stranieri - prevalentemente di nazionalità tunisina, marocchina, albanese, rumena - sono in questo momento in maggioranza piuttosto significativa (164, a fronte di 113 italiani/e). I problemi sono in primis linguistici e non essendoci traduttori, Di Martino e i volontari si sono adoperati per reperire dei traduttori "ma è stato possibile fino ad oggi gestire solo le situazioni critiche", dice Di Martino. Altro problema è il permesso di soggiorno. "Problema ricorrente sono le procedure per la richiesta di permesso di soggiorno in caso di permesso scaduto in costanza di detenzione - spiega di Martino -. Con la questura è stato possibile chiarire in parte la procedura per il caso di soggetti liberandi; ma accade che il permesso sia necessario per l’esercizio di diritti in costanza di detenzione per l’apertura di conto per accredito pensioni di invalidità; per patente, utile in caso di permessi". Pisa: Uil-Pa "al carcere Don Bosco in condizioni precarie anche il riscaldamento" La Nazione, 12 novembre 2016 Delegazione dell’Uil-pa con il segretario Urso evidenzia le carenze della struttura. "Le precarie condizioni strutturali del carcere Don Bosco di Pisa, di igiene e salubrità degli ambienti e le carenze d’organico riscontrate l’anno scorso sono rimaste pressoché invariate". Lo denuncia il segretario generale della Uil-pa polizia penitenziaria, Angelo Urso, che ieri insieme a una delegazione del sindacato ha visitato l’istituto. "Eccetto qualche piccolo insignificante intervento - aggiunge Urso - nulla o quasi è stato fatto. Postazioni di servizio inadeguate, ambienti detentivi (che per la polizia penitenziaria sono luoghi di lavoro) insalubri e carenti dal punto di vista igienico-sanitario, muro di cinta vecchio e a tratti pericolante con garitte invivibili, impianti di automazione e di videosorveglianza inadeguati, infiltrazioni d’acqua ovunque". Il reparto che sta peggio, secondo Urso, "è quello giudiziario, ma tutto l’istituto presenta impianti elettrici, idraulici e di riscaldamenti carenti e in evidente stato di decadimento, al punto che funzionano a giorni alterni e le richieste di manutenzione sono quotidiane". "Ammesso e non concesso - conclude Urso - che il provveditore regionale abbia inserito Pisa nelle prioritarie previsioni di spesa triennale per interventi di manutenzione: sono convinto che interventi tampone non risolverebbero nulla e anzi determinerebbero un inutile sperpero di denaro pubblico. In verità il carcere di Pisa, se veramente si vuole fare qualcosa di serio e utile, dovrebbe essere chiuso temporaneamente per effettuare un completo e totale intervento di ristrutturazione". Salerno: carcere di Fuorni, vivere in nove in una stanza di 20 metri quadri di Andrea Passaro La Città di Salerno, 12 novembre 2016 Il racconto del cittadino rumeno che ha fatto condannare il Ministero: "Dovevo farmi bastare due metri quadrati di spazio per 23 ore al giorno". "Durante il periodo di detenzione sono stato vittima di un trattamento disumano, costretto a stare in spazi stretti ed angusti, dove non vi era alcuna privacy". Inizia così il racconto di C.C., 33enne di nazionalità rumena, ex detenuto del carcere di Fuorni per il quale, nei giorni scorsi, la dottoressa Lucia Cammarota del Tribunale di Salerno, con un’ordinanza di trenta pagine, ha accolto il ricorso di risarcimento danni presentato dal suo avvocato, Antonio Mondelli, condannando il Ministero della Giustizia, per trattamento inumano. "Sono stato detenuto - evidenzia l’ex recluso che ha scontato la sua pena per una serie di reati - nella cella numero 7 del secondo piano del carcere di Fuorni, dal febbraio 2012 all’agosto 2013, quindi nella cella numero 18 da agosto 2013 al settembre 2014. Due anni che non dimenticherò mai per le disavventure che sono stato costretto a patire. Al di là del periodo di isolamento - sottolinea - le altre due celle in cui ho vissuto misuravano in totale 16 metri quadrati escluso il bagno. Uno spazio questo che condividevo con altre 8 persone. Escludendo i mobili, lo spazio fruibile da ognuno di noi era di 2 mq". Davvero uno spazio ristrettissimo dove il giovane trascorreva intere giornate respirando sul collo dei compagni di cella. Le condizioni igieniche erano inadeguate: "I servizi igienici non erano collocati in un vano separato ma erano ravvicinati ai letti di noi detenuti; tra i sanitari, fatiscenti, soggetti a ingorghi e maleodoranti era presente solo un lavabo; non c’era una doccia o un bidet per provvedere, all’occorrenza, alla propria igiene personale". "Potevamo infatti - precisa - lavarci solo tre volte a settimane nelle docce comuni, quando queste funzionavano". Ma anche qui il trattamento "non era migliore perché nelle aree adibite ai servizi igienici non scorreva acqua calda e quindi era impossibile qualsiasi adeguata e quotidiana igiene personale". Nella cella, affollattissima, anche l’aria era un lusso: "C’erano solo due finestre - prosegue il suo racconto il 33enne - dotate di sbarre. Freddo di inverno e caldo asfissiante in estate. "Il riscaldamento era scarso così come l’aerazione quindi di fatto c’era un freddo pungente in inverno e un caldo intenso d’estate, con un’umidità permanente che ti entrava nelle ossa e provocava il continuo distacco di intonaco dalle pareti". "Molto spesso - ha posto in risalto - eravamo noi detenuti a provvedere alla pulizia degli spazi, ma molte volte non c’erano prodotti in quantità sufficiente per poterlo fare". Altra parentesi è quella relativa al vitto: "Per mangiare venivamo stipati in luoghi stretti ed inidonei con una insufficiente areazione". Ma la cosa che l’ex detenuto tiene a puntualizzare è che gli spazi stretti e angusti erano la sua casa quotidiana per quasi tutta la giornata. "Dovevo farmi bastare - racconta ancora - quei 2 metri quadrati di spazio per oltre 22 ore e mezzo al giorno visto che potevo uscire per una passeggiata e respirare un po’ di vita fuori dal carcere solo per un’ora e un quarto al giorno". E ancora: "Non potevo lavare le coperte che mi portavano i miei familiari, che si preoccupavano per me visto il freddo che pativamo nella stagione invernale, potevamo lavare solo i copri-letti forniti dal carcere, ma una volta ogni tre settimane. Come dovevamo farci bastare spazzolino, dentifricio e persino la carta igienica, che ci venivano riforniti ogni tre settimane e non ogni settimana, come da regolamento". Infine "nessun rapporto o contatto con educatori, indispensabile per ogni detenuto". L’odissea vissuta dal giovane rumeno ha portato l’avvocato Mondelli a sottoporre al giudice la "disumanità delle condizioni di detenzione" vissute, appellandosi, tra le altre, alla sentenza Torreggiani che ha visto la Corte Europea condannare l’Italia per trattamento "inumano e degradante per aver tenuto i quattro ricorrenti in una cella di circa 9 mq con altre due persone". Il legale ha posto attenzione inoltre all’articolo 27 comma 3 della Costituzione nel quale viene stabilito che la pena detentiva "non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Il giudice, la dottoressa Cammarota, ha accolto quasi in toto i rilievi mossi, ad esclusione di quelli relativi all’areazione ed al riscaldamento, condannando il Ministero della Giustizia al pagamento di 8 euro al giorno a favore del giovane rumeno per i circa 600 giorni di detenzione trascorsi nel carcere salernitano. Bologna: all’Ipm del Pratello allarme sovraffollamento, mancano anche gli educatori Dire, 12 novembre 2016 Anche a causa della chiusura del carcere minorile di Firenze per lavori di ristrutturazione. Nuovo allarme sul sovraffollamento nel carcere minorile del Pratello. Un problema che, segnala la Garante per i detenuti Elisabetta Laganà "sta diventando una situazione permanente". Le presenze sono 25 "a fronte di una capienza consentita di 22", fa sapere in una nota. Si tratta dunque di una "tendenza ormai nazionale di progressivo aumento della detenzione" nelle carceri minorili, nonostante le normative europee "insistano sul fatto che le sanzioni limitative della libertà personale debbano fondarsi sul principio di proporzionalità e di individualizzazione". Il criterio da seguire per la durata della detenzione ricorda Laganà, "dovrebbe essere quello dell’intervento minimale, che prevede di contenere la durata della misura carceraria per il periodo strettamente necessario". Le cause del sovraffollamento al Pratello o da attribuire "prevalentemente nella chiusura del carcere minorile di Firenze per lavori di ristrutturazione, situazioni che dirottano quindi gli ingressi a Bologna", a cui si aggiunge "l’inizio dei lavori, necessari e da tempo procrastinati, di ristrutturazione della struttura del Pratello nella parte interna e soprattutto esterna dell’area verde e cortilizia, che provocheranno inevitabili disagi alla vita quotidiana ed organizzativa dell’Istituto e ai suoi abitanti, personale compreso". Carenza educatori. Un problema "ormai endemico negli istituti per adulti, e di ancora maggior gravità per un carcere minorile, i cui minori e giovani adulti necessitano di alta intensità trattamentale. Quindi per Laganà, servono "interventi immediati per evitare situazioni ulteriormente problematiche", e per questo la Garante, che ha già "inviato segnalazione formali alle autorità preposte", chiede "una rapida soluzione di questa problematica situazione, nell’interesse dei giovani". Trento: arriva il Garante dei detenuti, dipenderà dall’Ufficio del Difensore civico di Chiara Bert Il Trentino, 12 novembre 2016 "Si istituiscono, presso l’ufficio del difensore civico, il garante dei diritti dei detenuti e il garante dei diritti dei minori". Due righe nel comunicato della giunta provinciale che ieri ha presentato "la Finanziaria 2017 in 10 punti", ma destinate sicuramente a scatenare la battaglia politica. La previsione - chiarisce il governatore Ugo Rossi - riguarda l’istituzione di due nuove figure distinte, una dedicata ai detenuti e una ai minori, incardinate per economia funzionale all’interno dell’ufficio del Difensore civico. Sulla figura del Garante dei detenuti il braccio di ferro va avanti da anni. Lo scorso aprile, dopo settimane di lacerazioni interne, la maggioranza di centrosinistra autonomista aveva approvato un documento in cui dava il via libera alla legge che istituisce il garante dei detenuti (primo firmatario il consigliere Pd Mattia Civico) "per dare continuità al grande investimento in umanità fatto con la costruzione del nuovo carcere", veniva spiegato. Già stoppata qualche anno fa dal fuoco amico di Bruno Firmani (Idv), la legge per istituire il garante dei detenuti è rimasta ferma di fronte alla minaccia di ostruzionismo prontamente reiterata da una parte delle minoranze, in testa Civica Trentina con Rodolfo Borga. Ora la giunta tenta la mossa di inserire queste due figure dentro la legge finanziaria. Facile prevedere che anche questa volta c’è chi scatenerà fuoco e fiamme. E il garante dei detenuti diventerà uno dei bersagli della battaglia d’aula che si aprirà il 19 dicembre. Lecce: Polizia penitenziaria "organico carente, no all’apertura della sezione psichiatrica" di Sandra Signorella ilpaesenuovo.it, 12 novembre 2016 "No" all’apertura della sezione psichiatrica nella Casa Circondariale di Lecce, perlomeno non nelle attuali condizioni. È il grido d’allarme che si leva dai rappresentanti di sette sigle sindacali - Sappe, Osapp, Uil, Sinappe, Uspp, Cgil, Cisl - che stamattina hanno tenuto un sit-in di protesta e una conferenza stampa all’esterno della struttura carceraria di Borgo San Nicola per portare all’attenzione dell’opinione pubblica la condizione in cui versa la Polizia Penitenziaria, "con un organico carente di 166 unità e una presenza di 300 detenuti oltre la capienza regolamentare". In questo quadro, l’apertura della sezione, prospettata dall’amministrazione penitenziaria "assorbirebbe - affermano gli esponenti delle sigle sindacali - almeno 50 unità, mentre per l’apertura del nuovo padiglione in costruzione, destinato a ospitare 200 detenuti, ci vorranno oltre 100 agenti". C’è da aggiungere, poi, il progetto di riconversione dell’Ipm di Monteroni in struttura per adulti. L’appello rivolto ai rappresentanti della politica è stato raccolto solo da Noi con Salvini, presente con i segretari provinciale, Leonardo Calò, e cittadino, Mario Spagnolo. L’assenza di altri esponenti è stata stigmatizzata come "disinteresse" dai rappresentanti sindacali. Che parlano fornendo numeri. "Solo il 6% del personale - sottolineano - ha meno di 17 anni di servizio, mentre il 50% del personale ha tra i 17 e i 26 anni di servizio, il restante 44% del personale va dai 27 ai 35 anni di servizio, con un’età media altissima", per un lavoro, oltretutto, in cui la pressione psicologica è altissima e richiede fermezza e autocontrollo: nell’istituto leccese sono ospitati, tra l’altro, criminali provenienti da organizzazioni di stampo mafioso, rapinatori, spacciatori, persone accusate di reati di tipo sessuale. La sicurezza non può essere un optional. E la professionalità richiesta è notevole. L’evasione dell’ergastolano Fabio Perrone detto "Triglietta", nel novembre 2015, fu la testimonianza diretta dell’esistenza di un problema serio, come testimoniato, allora, dallo stesso segretario nazionale del Sappe Federico Pilagatti. Il rientro del fuggitivo all’istituto di Borgo San Nicola fu accolto dalle sirene dei mezzi e dagli applausi degli agenti. E applausi ci sono stati anche oggi all’uscita di un mezzo dai cancelli, a sottolineare l’impegno e la dedizione, mai venuti meno, pur in mezzo alle difficoltà. Peraltro, se gli agenti di polizia penitenziaria lamentano dure condizioni di lavoro e di vita, pure la popolazione carceraria soffre il sovraffollamento. Tuttavia, le attività di natura professionale e ricreativa previste - svolte anche grazie allo spirito di abnegazione dell’organico - contribuiscono in maniera sensibile a ridurre il senso di alienazione, offrendo ai detenuti motivazioni, speranza e dignità: il senso della penta detentiva, del resto, è proprio quello della rieducazione. Tempio Pausania: i Sindacati denunciano "nel carcere acqua malsana e caldaia fuori uso" di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 12 novembre 2016 Denuncia dell’Uspp: "È fredda e sporca, la causa è nei guai strutturali dell’impianto". Dall’Uspp (Unione sindacale polizia penitenziaria della Sardegna), da tempo critica sulle carenze strutturali ed organiche della Casa di reclusione "Paolo Pittalis" di Nuchis, arriva la notizia secondo cui la struttura, inaugurata il 27 novembre del 2012 e che ospita attualmente circa 200 detenuti, potrebbe essere, entro brevissimo tempo, notevolmente ridimensionata. Le motivazioni che porterebbero a questa decisione sarebbe da ricercare nei difetti strutturali della costruzione e nella carenza di organici "sempre più ridotti e con il personale costretto a turni massacranti". L’ultima carenza, stando alla segnalazione dell’Unione sindacale polizia penitenziaria, sarebbe costituita dalla mancanza di erogazione dell’acqua calda. "Da una ventina di giorni - dice un rappresentante sindacale regionale - nella struttura nuchese ci si deve lavare con acqua fredda. La cosa, ovviamente, soprattutto nelle attuali condizioni climatiche, non è sopportabile e potrebbe indurre l’Amministrazione penitenziaria a procedere ad un trasferimento massiccio di detenuti in altre strutture. La cosa diventa ancor più verosimile - prosegue il sindacalista dell’Uspp - se si considera che la mancanza di acqua calda non è dovuta all’impianto di riscaldamento ma all’impossibilità di farla passare nei tubi arrugginiti ed otturati, che sarebbero da sostituire nella loro interezza. A distanza di soli quattro anni dall’inaugurazione della struttura, l’"inconveniente", se così fosse, non sarebbe di poco conto". Da parte dell’Uspp giungono però altre segnalazioni e lamentele. "Da molto tempo ormai - dice il sindacato - l’acqua che esce dai rubinetti nella Casa di reclusione di Nuchis e nell’adiacente caserma dove sono gli alloggi degli agenti della Polizia penitenziaria, ha assunto un colore giallastro e un odore nauseabondo che la rendono inservibile. La puzza aumenta ancor più in quei locali dove l’uso dell’acqua avviene più saltuariamente. Si tratta di un problema gravissimo non soltanto dal punto di vista pratico, perché vieta di fare, per esempio, una doccia in camerata, dopo essere smontato o prima di rientrare a casa, ma anche dal punto di vista sanitario. Non sono rari, infatti, le allergie alla pelle, con rossori, bolle, pruriti e i bruciori agli occhi". L’Unione sindacale polizia penitenziaria Sardegna si lamenta anche per una "Amministrazione Penitenziaria sempre più lontana dalla periferia, sorda alle sollecitazioni dei lavoratori, sotto dimensionati, oberati di lavoro oltre il consentito (anche 12 ore continuate), a rischio della salute e della sicurezza interna ed esterna alla struttura carceraria. La situazione - dice l’Uspp - non è episodica o temporanea ma è diventata una "normalità", con mille manchevolezze che caratterizzano ormai la nostra attività lavorativa". Roma: bionde e rosse solidali, le birre che danno lavoro ai detenuti La Repubblica, 12 novembre 2016 Un vero e proprio impianto per la produzione della birra con una sala cottura da 300 litri e due fermentatori da 600, donato dal ministero dell’Istruzione e dell’Università. I locali per la didattica, dove si insegna un mestiere, messi a disposizione dall’istituto agrario Emilio Sereni. I fondi per avviare la startup e mandare avanti il progetto donati dalla Cassa delle Ammende del ministero di Giustizia. E il gruppo di ex detenuti riunito nella cooperativa Semi(di)libertà a produrre bionde e rosse e a spillarle in giro per Roma a bordo di cargobyke ambulanti già vincitori del premio solidale Coltiva l’Idea Giusta. Il birrificio Vale la pena è la scommessa vinta da una filiera virtuosa di enti pubblici - ministeri e scuole - per dare un futuro ai detenuti del carcere di Rebibbia ammessi al lavoro esterno. Etichettatura e packaging sono realizzati in team con la onlus di ragazzi autistici L’emozione non ha voce. E, quanto ai nomi delle birre, non manca l’ironia. "Le più apprezzate? Per esempio, un’American Pale Ale Single hop di solo luppolo Bravo che abbiamo chiamato "Fa er bravo". Milano: Giubileo dei detenuti, le celle come "porte sante" di Luisa Bove chiesadimilano.it, 12 novembre 2016 Intervista a Ileana Montagnini, responsabile dell’Area carcere di Caritas ambrosiana. La celebrazione nei sette istituti di pena della Diocesi con i Vicari episcopali. Ileana Montagnini: "L’Anno santo ha ribaltato la prospettiva, indicando il carcere come luogo di speranza e non di disperazione". Domenica 13 novembre si celebra il Giubileo dei detenuti nei sette istituti di pena sparsi sul territorio ambrosiano. "È questa la giornata scelta dalla Diocesi - spiega Ileana Montagnini, responsabile dell’Area carcere di Caritas ambrosiana. Riflettendo con i cappellani e con l’Arcivescovo si è deciso di non sovrapporre le date per permettere a una delegazione di poter partecipare al Giubileo di Roma la settimana scorsa. Il desiderio era di dare comunque un segno concreto e visibile a tutti quei detenuti che non avrebbero potuto partecipare alla celebrazione con papa Francesco". In ogni carcere quindi sarà presente un Vicario in rappresentanza del cardinale Angelo Scola: a San Vittore, monsignor Mario Delpini; a Bollate, monsignor De Erminio Scalzi; a Opera, monsignor Bruno Marinoni e monsignor Luca Bressan; a Monza, monsignor Pierantonio Tremolada; a Lecco, monsignor Luigi Stucchi; a Varese, monsignor Franco Agnesi (per motivi organizzativi del carcere la celebrazione è nella serata di sabato 12); a Busto Arsizio, monsignor Paolo Martinelli. Qual è il significato di questa modalità? L’idea, simbolicamente, è che l’Arcivescovo raggiunge le carceri della sua Diocesi, attraverso i Vescovi ausiliari. Partono, idealmente, dalla Curia e vanno nei vari istituti a celebrare la Messa della domenica e poi propongono una celebrazione penitenziale e giubilare nei reparti o con altre modalità. Lo scopo è quello di raggiungere il maggior numero di persone e di consegnare loro il messaggio di augurio e di benedizione dell’Arcivescovo: un cartoncino su cui è riportata una preghiera di intercessione alla "Madonna che scioglie i nodi". Come viene organizzato il momento penitenziale? Nei diversi luoghi del carcere ci sarà una preghiera comune. In alcuni istituti, dove i numeri lo consentono, ci saranno anche momenti più conviviali, almeno là dove è stato possibile organizzarli, anche se al centro resta la Messa e la preghiera penitenziale e di intercessione cui non partecipano solo i detenuti di fede cristiana. In alcuni percorsi di preparazione al Giubileo infatti i cappellani hanno visto la partecipazione anche dei musulmani perché riconoscono nella preghiera di intercessione e penitenziale un momento di spiritualità. Il Giubileo straordinario si conclude con i detenuti... Bisogna dire che già dalla Bolla di indizione questo Giubileo aveva una particolare attenzione rivolta alle persone che scontavano la pena, anche nel carcere. L’intuizione felicissima è stata quella di considerare la porta non come luogo di separazione, ma di "passaggio santo", se la persona è disposta spiritualmente. Aver indicato la porta della cella come "porta santa" ha già ribaltato molto la prospettiva in quest’anno giubilare. In tal modo si indica il carcere come luogo di speranza e non di disperazione. È in questa linea che i detenuti sono stati accompagnati dai cappellani? Sì. Ogni istituto infatti ha proposto un cammino di preparazione al Giubileo, secondo le proprie esigenze e gruppi dai cappellani e dai loro collaboratori. C’è chi ha fatto un vero e proprio pellegrinaggio spirituale, con tanto di adesione, incontri e momenti di riflessione. In quanti hanno partecipato alla celebrazione a Roma? Erano circa 150 i detenuti partiti dagli istituti del territorio ambrosiano e dalla Lombardia 3.500. Quello che ha colpito tutti è stato il coinvolgimento delle famiglie. Il fatto che fossero presenti insieme nella celebrazione e lo stesso ritrovarsi è stato vissuto con grande commozione. È quell’umanità del carcere e dei detenuti che la società tende a dimenticare. Il carcerato non è una monade nell’universo, ma intorno a lui c’è un contesto che è ugualmente vittima: mogli, mariti, figli... Tutti si sono ritrovati figli di un unico Padre. Sono state importanti anche le parole del Papa all’Angelus... Certo. La richiesta di perdono era mondiale. Questa apertura al mondo è ciò che caratterizza il Pontificato di Francesco. Non escludo che ci siano Paesi che nelle prossime settimane possano risolversi, anche politicamente, con un gesto di clemenza, di indulgenza. Noi ci abituiamo a guardare nel piccolo, soprattutto nella realtà carceraria, invece siamo di fronte a un respiro mondiale. Dobbiamo imparare ad alzare lo sguardo. Sanremo (Im): detenuti di alta sicurezza in scena all’Ariston con "Il Figliol Prodigo" riviera24.it, 12 novembre 2016 Lo spettacolo è un invito a superare diffidenze e chiusure e a credere che si può cambiare, aiutando gli altri a cambiare. In occasione del Giubileo del carcerato, il 25 novembre andrà in scena al Teatro Ariston il musical "Il Figliol Prodigo". Lo spettacolo è un invito a superare diffidenze e chiusure e a credere che si può cambiare, aiutando gli altri a cambiare. Protagonisti infatti i detenuti del distretto di alta sicurezza della casa di detenzione Opera di Milano, che pur consapevoli che non usciranno mai di prigione (i "fine pena mai"), hanno scelto di compiere un radicale cambiamento, impegnandosi nella trasmissione di valori alle nuove generazioni attraverso forme artistiche e performative. "Il Figliol Prodigo" nasce su iniziativa del Laboratorio del Musical, un progetto di volontariato ideato e realizzato da Isabella Biffi, cantautrice e regista che, da quasi dieci anni, grazie alla condivisione istituzionale del Direttore di Opera, Dottor Giacinto Siciliano, e alla collaborazione dell’associazione Culturale Eventi di Valore, utilizza l’Arte e la Cultura, quali mezzi di rieducazione e rivoluzione umana. Isabella Biffi non è nuova a sfide di questo genere, ha già portato in teatro grandi successi come "Dieci Mondi", "La Luna sulla Capitale", "L’Amore Vincerà" e "Siddhartha". Lo scopo sempre lo stesso: invitare a sperare nell’amore che solo può trasformare l’odio in perdono e riabilitazione. A praticare dunque la misericordia mediante un atteggiamento di apertura all’altro considerato, per la ricchezza della sua umanità, capace di migliorarsi e correggersi; seguendo le parole di Papa Francesco: "Tutti noi facciamo sbagli nella vita, perché siamo peccatori. E tutti noi chiediamo perdono di questi sbagli e facciamo un cammino di reinserimento". Le prenotazioni e le info per partecipare agli spettacoli si trovano sul sito: www.eventidivalore.it. Saviano: "i bambini killer di Napoli e gli operai di Trump sono il frutto delle nuove caste" di Massimo Vincenzi La Stampa, 12 novembre 2016 C’è un palcoscenico immaginario dove si muovono assieme, fianco a fianco, l’operaio del Mid West che ha sfogato la sua rabbia e frustrazione votando Trump e i soldati bambino che incendiano le strade di Napoli nella nuova guerriglia di camorra. Sembrerebbe impossibile, ma l’occhio della letteratura ha il dono di fare il suo giro e trovare dentro sguardi obliqui l’approdo disvelatore della verità. La chiave di lettura è di Roberto Saviano, lo scrittore che non accetta il recinto della finzione, come un minatore intento a scavare il mondo che ci circonda. In libreria c’è il suo nuovo lavoro, "La paranza dei bambini", ma il romanzo non resta sugli scaffali, si muove tra noi e ci aiuta a capire un po’ meglio quello che i saggisti e i politologi spiegheranno tra qualche anno. Il libro parla di Napoli e le nuove leve della malavita, ma, anche se l’apparenza c’entra poco, vorrei partire da Trump. Lei vive negli Stati Uniti a lungo e da tempo, che impressione ha avuto di queste elezioni? "Tutti ripetono che nessuno aveva capito niente di quel che stava per accadere: ma c’è un motivo se è andata così, se siamo rimasti tutti sorpresi. La realtà in questo momento è talmente complessa che non bastano i giornalisti o gli analisti per decriptarla: servirebbe l’occhio degli intellettuali, che in America invece hanno rinunciato completamente alla loro funzione. Tranne Gay Talese, non trovate un intervento, un articolo di un grande scrittore su Trump, se non generici appelli pro o contro. Sarebbe stato utile uno come John Steinbeck o Truman Capote ad anticiparci il successo di Trump. C’è una middle class sempre più impoverita e impaurita che ama il suo linguaggio diretto e violento: magari non ne condivide il contenuto, ma la forma prevale sul contenuto. Invece no, zitti, stanno tutti zitti. Tanto che a me, i colleghi americani chiedono sempre: ma perché scrivi di un’inchiesta o di politica, cosa ha a che fare con il tuo lavoro, ma non ti stufi?". Glielo chiedo anch’io. In tutti questi anni non si è mai stancato di stare dentro il cuore vivo della polemica, sotto attacco e sempre messo in discussione. Chi glielo fa fare? "Certo, ho avuto momenti di sconforto ma a darmi coraggio c’è un sentimento poco nobile: quello della vendetta, non voglio darla vinta a chi mi ha sempre attaccato usando le solite armi: o "quello lì copia" o, all’apparenza il meno grave ma altrettanto pericoloso, "questo lo si sa da anni". Formula perfetta per abbassare il volume sulle cose che uno vuole raccontare e che invece farebbe più comodo a tutti tacere. Ecco io non mi fermo, non spengo la mia voce". Ma la letteratura ha ancora una funzione sociale? "Io ci credo, ne sono convinto: è il vero motivo per cui scrivo. Oggi il libro allarga i suoi confini: diventa teatro, cinema, televisione e in questo orizzonte può e deve incidere sulle nostre vite, dare il proprio contributo a costruire un futuro più giusto, un mondo migliore. E non è vero che ai boss quello che scriviamo non interessa o non dà fastidio: pensa che incrocio incredibile tra fiction e realtà quando il mio libro sulla cocaina, 000, è stato trovato nel covo di El Chapo". Chi sono i bambini di Paranza? "Sono veri e propri soldati bambini con armi da guerra, spietati che giocano in prima persona e sono diventati i protagonisti assoluti del territorio. I grandi boss hanno fornito i mezzi per gestire le piazze e i giovani se le sono prese con ferocia e voracità. Anche se alla fine si illudono: i veri capi. quelli che tirano le fila, sono sempre i vecchi delle famiglie". Nel libro appaiono ossessionati dai soldi e dal lusso. È così? "Hanno gli stessi ideali, purtroppo, di tutti i ragazzi del mondo in quest’epoca: vogliono essere ricchi, e lo vogliono subito senza faticare, senza perdere tempo. Adorano i rich kids, quelli che postano le loro foto da straricchi sui siti, e vogliono essere come loro". Un dettaglio mi ha colpito dei protagonisti: sono figli della piccola e media borghesia, non sono, come si potrebbe immaginare, sottoproletari urbani. Perché? "È un altro degli elementi di contatto con gli Stati Uniti: c’è un’intera classe sociale strozzata dalla crisi che scivola sempre più in basso e le famiglie incapaci di reggere l’urto implodono. Questi ragazzi di Napoli vedono i loro genitori strozzati dal mutuo per la casa, dal prestito per l’auto e decidono di prendere la scorciatoia, per se stessi ma anche per la mamma e il papà, per tirarli fuori da quella miseria". Il filo dunque che lega l’elettore arrabbiato di Trump alla realtà che lei racconta qual è? "Ovvio che ci sono differenze enormi, specificità che sarebbe sbagliato assimilare ma il dato comune sono i dimenticati, quelli messi ai margini. Intere parti sociali vengono fatte a brandelli, lasciate fuori da tutto, dal lavoro, dall’istruzione, dalla vita insomma, nel nome di un progresso sempre più veloce. La verità è che sono tornate le caste. I nostri genitori lottavano duramente, lavoravano sapendo che avrebbero avuto l’occasione di salire un gradino della scala: si sarebbero potuti comprare un appartamento, mandare a scuola i figli. Adesso non è più così. Sai già in partenza che non ce la puoi fare, che sei e sarai sempre un escluso. Non parlo solo dei proletari ma anche dei borghesi che vedono ormai impossibile un futuro migliore per sé e per i propri figli. Negli ultimi tempi mi ha colpito un dato: guardate il censo degli scrittori americani più famosi, sono tutti ricchi o molto ricchi. Questo è un segnale, significa che a interi strati della popolazione sono chiuse le porte dei lavori intellettuali". E da qui alla rabbia il passo è automatico. "Esattamente. Quelli che restano fuori cercano il colpevole, quello che li ha messi in disparte e poi nutrono invidia. Forse oggi il sentimento più popolare, generato e alimentato da Internet: una volta nessuno sapeva come vivevano i ricchi, ora li hai sotto gli occhi e questo ti fa impazzire, ti senti un fallito, un signor nessuno. I ragazzi di Napoli vedono questi video di lusso sfrenato e si dicono: quanti straordinari dovrei fare per arrivare lì? E la risposta li porta sulla strada". All’inizio parlava del linguaggio di Trump, cosa l’ha colpita? "È un altro dato globale. Lui usa frasi sgradevoli, insultanti, razziste e sessiste ma chi le ascolta le percepisce per vere, genuine. La maleducazione è il nuovo grande lasciapassare. La donna del Texas che sente aggredire un’altra donna magari non lo condivide ma in un angolo della mente pensa: però è sincero. Oggi il paradosso è che la buona educazione viene vissuta come falsa, come un trucco usato dal potere per ingannare i più poveri". Dopo due anni, oggi torna a Napoli a presentare nel Rione Sanità il suo libro, cosa prova? "Una grande emozione e gioia. Il Nuovo Teatro Sanità è un luogo a me caro, che aiuto da anni insieme ai preti di strada e agli altri volontari. È un posto magico con ragazzi animati da un’enorme passione e molti di loro sono anche bravissimi: accadono cose eccezionali su quel palco. Anche se non diventeranno attori professionisti imparano che esiste un mondo migliore da costruire e dove vivere. E poi il ritorno mi procura una gran fame". Scusi? "Sì, fame, golosità allo stato puro: in quelle strade c’è un posto che a detta dei critici anglosassoni fa la miglior pizza al mondo, di solito non ci azzeccano ma questa volta hanno ragione in pieno. E poi c’è un dolce inventato da un pasticcere geniale: si chiama fiocco di neve. Non vedo l’ora". Migranti. Io non sono razzista però… di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 12 novembre 2016 Per capire che cosa è passato nella testa e nell’animo degli abitanti di Gorino, bisogna cominciare dalla carta geografica. Chi è vissuto nella Bassa Padana o conosce quel territorio, sa che cosa significa essere immersi tutto l’anno in un orizzonte piatto e acquoso, dove sia d’inverno che d’estate l’umidità è regina. Sarà per il clima, sarà per tradizione culturale, nelle terre che costeggiano il Po da Piacenza al delta i contrasti e i disaccordi non sono esternati nell’immediato, restano sotto traccia, covano, fermentano, crescono anche per anni. A volte restano lì e lavorano sottotraccia trasformando l’esistenza in un’avversione verso tutto e tutti, altre volte esplodono e in questo caso il botto può essere iper-plateale e fuori misura perché compresso troppo a lungo. In ogni caso producono veleno. Essendo nata e vissuta da quelle parti per molti anni, conosco bene quel fuoco che cova sotto la cenere e quel brodo di coltura dove, se seminati, attecchiscono molto bene tre gramigne: paura del forestiero, chiusura, risentimento strisciante. Se si guarda la carta geografica, ci si rende subito conto che Gorino è una frazione isolata, la periferia della periferia, una manciata di case e di strade circondate dall’acqua. In posti così, inverno significa umido nelle ossa e orizzonti cancellati dalle nebbie, mentre l’estate porta zanzare, afa e spossatezza da caldo. Quando fa freddo e arriva la sera, fuori si sentono solo il suono del fiume e i versi degli animali, e allora le tapparelle si abbassano, le porte si chiudono, le luci e la televisione si accendono trasformando la casa in un bozzolo caldo e protetto. Tuttavia, la Bassa Padana non è tutta uguale, e Gorino è più Bassa di altre. Lì non si passa per caso, ci si deve andare apposta e, come in ogni paesino sperduto nella natura, quelli che non sono del luogo sono osservati speciali. Per distinguerli da se stessi, gli autoctoni li chiamano in un modo preciso: I forestieri. I forestieri sono stati una costante della mia infanzia, una categoria che di tanto in tanto sentivo evocare. Sono cresciuta in un’osteria di campagna, nel parmense, a pochi chilometri dal Po. Oltre a offrire salame, coppa, culatello, parmigiano, Lambrusco, Fortana e il telefono pubblico, l’osteria aveva accanto un negozio di alimentari, sali, tabacchi e tutto quello che si può vendere in un emporio. Lì, prima o poi, si fermavano tutti gli abitanti del posto e dei paesi limitrofi, dall’alba a sera inoltrata, per cui ogni giorno assistevo a un teatro di facce, racconti e caratteri. Quando cominciò il boom economico e lì vicino aprirono il casello dell’autostrada, iniziò una certa animazione e iniziarono ad arrivare figure mai viste prima che venivano da un altrove (Milano, Bologna, Torino, Genova) di cui molti di noi avevano solo sentito parlare. Che fossero anche loro italiani poco importava perché erano comunque diversi: parlavano, si comportavano, si vestivano, si muovevano in un altro modo. Avevano anche altre abitudini, altri orari, altre esigenze. Non guardavano i prezzi, volevano divertirsi e alcuni dei loro figli, non avendo mai visto da vicino una pianta da frutto, confondevano l’uva acerba con le olive. Capitava, a volte, che un forestiero si fermasse all’ora di pranzo chiedendo di mangiare qualcosa, gesto del tutto logico se si passa davanti a un posto che in vetrina espone ciccioli o rognoni appena macellati. I miei nonni erano così poco abituati all’idea che qualcuno potesse pranzare fuori di casa, che quando sentivano entrare qualcuno a quell’ora biascicavano, tirando su la minestra: "Al sarà un furestèr a quell’ora qui". Come dire: uno del posto è civile e non verrebbe mai a disturbare mentre mangiamo. In effetti, nessun contadino del luogo avrebbe pranzato fuori casa, mentre quelli che lavoravano in fabbrica o in un cantiere e non potevano tornare alla tavola familiare, si portavano la gavetta a due strati, uno per il primo e l’altro per il secondo. Entrando con la sua richiesta di mangiare qualcosa fra le l’una e le due, Al furestér rompeva un rito, disturbava le abitudini, metteva scompiglio. Ben presto, per una parte degli abitanti della frazione il forestiero divenne un’apparizione da studiare, l’umano bizzarro che spingeva a fantasticare, a immaginare che fuori e lontano da lì un altro mondo era possibile. Quelli che la pensavano così erano gli abitanti più malinconici, i solitari, i meditabondi, oppure i golosi di vita. Per un’altra parte dei locali, invece, l’estraneo restava un essere da osservare con diffidenza, disapprovazione e il segreto desiderio che se ne andasse prima possibile perché era un portatore di virus incontrollabili. Se quel virus si fosse propagato, nella frazione nulla sarebbe stato più come prima. Certezze, abitudini, consuetudini, relazioni, ogni cosa e ogni persona avrebbero potuto cambiare, e non si sapeva come. Questo stato d’animo non era esplicitato con dichiarazioni roboanti, non ce n’era bisogno. Bastava stringere le labbra, aggrottare un poco lo sguardo, incassare la testa fra le spalle, smettere di parlare appena il forestiero arrivava. Il gelo e il silenzio improvvisi gli facevano capire più di qualunque parola che era considerato un diverso. In quel preciso istante, nella stanza cominciava a strisciare fra le gambe dei tavoli, come uno spiffero gelido che entra da qualche pertugio, una corrente di diffidenza. Insieme, si poteva quasi sentire un ruminare di pensieri e di ostilità che si capivano dai gesti diventati improvvisamente bruschi nel buttare le carte sul tavolo, nei grugniti che prendevano il posto delle frasi e della conversazione. Quando il forestiero toglieva il disturbo, si sentiva un respiro di sollievo, la gente tornava a parlare e lì comparivano mezze frasi, commenti su "Quelli di città che girano anche di notte", "Chissà dove vanno", "Hai visto che c’aveva una donna con lui? Sarà stata la moglie o una di quelle?", "Eh, c’aveva una faccia che non mi piaceva quello lì. Chissà da dove viene con quell’accento", "Io c’ho visto la targa. È uno di Roma", "Eh, Roma l’è luntàn. Chissà cos’è venuto a fare da queste parti, e a quell’ora qui". Le frasi buttate lì, le domande senza risposta restavano sospese nell’aria, a disposizione di chiunque volesse ricamarci sopra le proprie paure. Quando sentimenti così sono lasciati liberi di circolare, se nessun evento li disturba o interrompe, lievitano e proliferano fino a diventare pensiero comune e condiviso. Per un po’ quel razzismo nazionale resistette, poi fu travolto dagli eventi, dai cambiamenti inarrestabili, dai figli che andavano a vivere nelle grandi città, dai matrimoni misti nord-sud, dal nuovo medico o impiegato di banca che parlavano con un accento diverso e oggi a nessuno verrebbe in mente di definire forestiero un napoletano o un abruzzese. La frontiera si è spostata un poco più in là, nel Mediterraneo. A differenza di allora è fomentata da partiti che siedono in Parlamento e che hanno costruito le loro fortune su insoddisfazioni, paure, ignoranza, rancori, difficoltà oggettive. Sotto traccia, tuttavia, resiste lo stesso analfabetismo del confronto che da piccola vedevo esprimersi all’osteria con caparbia chiusura, e che si esprime con una ricorrente e insopportabile frase: "Io non sono razzista, però…". Droghe. "Cannabis libera": la battaglia dei radicali, raccolte e depositate 57.510 firme Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2016 Per tutta la notte hanno assemblato moduli e allegato certificati elettorali - dopo averne fatto richiesta a migliaia di comuni - aiutati da mille volontari e da supporter di eccezione come Roberto Saviano e Vasco Rossi. Infine, dopo un corteo di militanti e volontari dalla sede radicale a Palazzo Montecitorio, il Comitato promotore della legge di iniziativa popolare "Legalizziamo" - per la cannabis legale e la decriminalizzazione dell’uso personale di tutte le sostanze promossa dai Radicali italiani e dall’Associazione Luca Coscioni - ha depositato stamattina a Montecitorio le 57.510 firme valide raccolte negli ultimi 7 mesi, con il sostegno delle più importanti associazioni antiproibizioniste, Possibile di Pippo Civati, parlamentari dell’intergruppo cannabis legale, consiglieri comunali di Si, M5s e liste civiche. "Entro dieci giorni vedremo la Presidente Boldrini - ha detto il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi, in piazza con Marco Cappato, dirigenti radicali, esponenti delle associazioni e parlamentari - per far arrivare la voce del Paese, che è pronto alla legalizzazione, a un Parlamento che è ancora ostaggio delle resistenze proibizioniste e assicurarci un celere percorso parlamentare della legge. La volontà popolare è in queste scatole: la riforma antiproibizionista a partire da cannabis e derivati è matura. Ma è stata insoddisfacente la risposta del governo alla nostra richiesta di cambiare la legge sulle proposte di iniziativa popolare, ma siamo orgogliosi di aver lavorato per la firma digitale, l’ampliamento della platea degli autenticatori, la follia delle obbligatorie richieste di certificati elettorali a migliaia di comuni. Una vergogna, nell’era digitale". "La risposta della Boschi alla nostra richiesta non è stata soddisfacente. E anche quanto al Pd, nel merito, scontiamo il doppio ruolo di Matteo Renzi come premier e come segretario di partito, perché i dem pur avendo approvato documenti congressuali per la liberalizzazione ora si ritrovano vincolati da questo", ha aggiunto Magi. "Ora il nostro compito è quello di ottenere un vero dibattito parlamentare", ha promesso Marco Cappato, tesoriere della Associazione Luca Coscioni, con un barattolino di cannabis in mano e circondato da diversi malati delle associazioni sostenitrici, che in piazza hanno chiesto non solo l’uso terapeutico per loro stessi, ma la libertà per tutti di assumere e coltivare cannabis". Turchia. 35mila arresti, 100mila licenziamenti. Dall’Europa e dall’Italia colpevole silenzio di Maurizio Boldrini L’Unità, 12 novembre 2016 Erdogan continua, imperterrito, a chiudere giornali e televisioni e a arrestare giornalisti ed editori. Tutti i cittadini turchi non in sintonia con il suo modo autoritario di governare finiscono dietro le sbarre. Le patrie galere sono piene e le redazioni dei liberi giornali sempre più vuote. L’ultimo a finire in manette è stato AkinAtalay, editore di uno dei giornali laici di opposizione. È stato fermato all’aeroporto, mentre tornava dalla Germania. Prima d lui erano già finiti in galera il direttore, Murat Sabuncu e altri quindici reporter della stessa testata. Per tutti l’accusa è di "attività terroristiche". Cumhuriyet è un giornale che tira intorno alle 50mila copie, che vive con poca pubblicità, naturalmente, ma che dal lontano 1924, anno di fondazione, è considerato una bandiera del giornalismo laico e indipendente. I giornali di regime offrono una versione addomesticata dei nuovi arresti. Così vuole il padrone. Il quotidiano filo-govemativo Yeni Safak, asserisce che la procura sta indagando sui presunti legami tra Cumhuriyet e l’imam Fethullah Gulen, accusato da Ankara di essere la mente del tentato golpe. Giorno nefasto que115 luglio di un anno che a lungo mostra il suo carattere bisesto. Giorno dopo giorno, la Turchia si è ritrovata a essere un’infinita prigione: giornalisti, magistrati, docenti, diplomatici, impiegati e lavoratori sono dietro le sbarre per la macchia (presunta) di aver partecipato al colpo di stato. I dati sono impressionanti: 35mila persone sono state arrestate, più di 100mila licenziate. Sconcerta il silenzio che sta trasformandosi in complicità di gran parte dei paesi che fanno parte dell’Europa. Ci si tappagli occhi e si tira avanti. Anche in Italia poche voci si levano contro questa barbarie, se si esclude il lamento insistito della Federazione nazionale della stampa (Fnsi), dei radicali e qualche altra organizzazione non governativa. Ormai il richiamo alla real-politik sta diventando un’altra galera, non solo metaforica. Per le nostre coscienze. Turchia. Arrestato l’editore di Cumhuriyet, 441 i membri dell’Hdp in manette di Chiara Cruciati Il Manifesto, 12 novembre 2016 Erdogan prosegue con la campagna epurativa delle opposizioni grazie al sostegno di una stampa e una magistratura purgate. Chiesto l’ergastolo per i 9 giornalisti del kurdo Ozgur Gundem. Non passa giorno senza che non venga aggiornata la lista degli oppositori del presidente-sultano Erdogan trascinati in prigione. Una triste processione di giornalisti, parlamentari, scrittori, attivisti, una marcia silenziosa quasi a commemorare la democrazia, violentata da un regime fascistoide che non tollera ostacoli. Per quanto possibile, però, gli arresti vanno documentati tutti sperando che non restino impuniti. Ieri, dopo la detenzione di nove dipendenti, tra cui il direttore Sabuncu, è toccato all’editore di Cumhuriyet. Akin Atalay, presidente della Fondazione, è stato arrestato all’aeroporto di Istanbul mentre rientrava dalla Germania. Affoga, così, una delle poche voci critiche rimaste a galla nel mare mediatico asservito al governo: la stampa ancora attiva è quasi esclusivamente filo-governativa, megafono del potere politico e economico. Gli altri media, quasi 200, sono stati tutti chiusi mentre aumenta a dismisura il numero di giornalisti dietro le sbarre, 142 secondo la Pattaforma per il giornalismo indipendente. Atalay è accusato di non meglio precisate "attività terroristiche", ma è probabile che il reato che gli sarà imputato sarà identico a quello dei suoi sottoposti e di molti dei 30mila detenuti dopo il tentato golpe del 15 luglio: azioni tese a favorire il movimento Hizmet di Gulen e il Pkk, entrambi considerati organizzazioni terroristiche e nella narrativa del governo soggetti interscambiabili. Esattamente le stesse ragioni che giovedì hanno portato all’incriminazione di nove dipendenti del giornale kurdo Ozgur Gundem, chiuso ad agosto ma ancora perseguitato dalle autorità: il procuratore ha chiesto l’ergastolo per i nove giornalisti e collaboratori (quattro sono in prigione da tre mesi e cinque a piede libero), tra cui la nota scrittrice turca Asli Erdogan, per appartenenza a organizzazione terroristica, propaganda terroristica e tentativo di rompere l’unità nazionale. Basta fare un balzo e dalla stampa si passa in parlamento. Non si hanno notizie dei 12 deputati del Partito Democratico dei Popoli (Hdp) arrestati una settimana fa. Restano in isolamento in due diversi carceri di massima sicurezza i due co-presidenti Demirtas e Yuksekdag, nonostante le decine di proteste che semplici cittadini e organizzazioni per i diritti umani tengono in tutta Europa (oggi l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia organizza sit-in in molte città italiane). Il silenzio pare già calato su di loro e la repressione prosegue indisturbata: ieri altri 5 funzionari del partito sono stati arrestati a Diyarbakir. Tra loro il consigliere politico della Yuksekdag. I numeri sono spaventosi: secondo quanto riportato dal portavoce del partito, Ayhan Bilgen, 441 membri dell’Hdp sono stati arrestati dal 4 novembre, giorno in cui sono stati portati via i due co-presidenti, e oltre 6mila dal 15 luglio, dopo il tentato golpe militare. "Un modo post-moderno di distruggere un partito politico", lo definisce Bilgen. Facendo piazza pulita, terrorizzando i sostenitori, creando un gap insormontabile tra i vertici e la base. Ad operare è una macchina di estrema precisione, che mette insieme potere politico (non solo il partito di governo Akp, ma anche le opposizioni morbide di Chp e Mhp), giudiziario (grazie alle purghe che hanno fatto sparire giudici e procuratori di diversa visione politica), economico e mediatico. Chi oggi racconta il paese è la stampa filo-Akp, chi ne gestisce gli affari più consistenti le imprese con stretti legami con la famiglia Erdogan e il suo establishment. E mentre deputati democraticamente eletti restano in prigione nel silenzio del paese e dell’Europa, Erdogan prosegue spedito con la riforma presidenziale: ieri il premier Yildirim ha annunciato l’imminente revisione costituzionale dopo aver incassato il sostegno dei nazionalisti dell’Mhp. Il cerchio di consenso politico intorno al governo si stringe, il terrore delle epurazioni compatta il fronte parlamentare intorno all’esecutivo. Che ora guarda al futuro con ancora maggiore arroganza: l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti garantirà un’alleanza ancora più solida e omertosa. Turchia. Chiesto l’ergastolo per la scrittrice Asli Erdogan, accusata di far parte del Pkk di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 novembre 2016 Tra 15 giorni sapremo se la scrittrice turca Asli Erdogan (non è parente del presidente) sarà condannata all’ergastolo insieme alla linguista Necmiye Alpay e ad altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filo curdo Ozgur Gundem, considerato da Ankara la voce della propaganda del partito curdo dei lavoratori (Pkk). In carcere dal 20 agosto Asli è accusata di far parte del Pkk, e di avere utilizzato il quotidiano a fini sovversivi, pubblicando immagini e interviste ai terroristi, ponendo in essere propaganda a favore del terrorismo curdo con l’obiettivo di minare l’integrità e l’ordine economico, giuridico e sociale del Paese. La scrittrice, in passato, ha lavorato come fisica al Cern ed è tornata in Turchia nel 1996 per dedicarsi ai suoi libri e al giornalismo. Dopo l’arresto aveva fatto giungere notizie terribili sulla sua detenzione. "Mi trattano in un modo che lascerà danni permanenti sul mio corpo - si legge nella lettera pubblicata sul Daily Cumhuriyet. Il mio pancreas e il mio sistema digestivo non funzionano come dovrebbero ma non mi viene data la medicina di cui ho bisogno. Sono diabetica e necessito di una nutrizione speciale, eppure qui posso mangiare solo yogurt. Soffro di asma e non mi viene concessa l’ora d’aria". In solidarietà con la scrittrice alla fine di settembre alcune librerie italiane hanno aderito all’iniziativa "Scrittura libera", patrocinata dall’Associazione librai italiani, per leggere brani tratti dal suo solo libro tradotto in italiano due anni fa da Keller: Il mandarino meraviglioso. Il 19 ottobre, al primo giorno della Fiera di Francoforte, il direttore degli Editori e dell’Associazione dei Librai tedeschi, Heinrich Riethmüller, aveva letto una lettera di Asli Erdogan, che gli era stata recapitata. "Dietro pietre, cemento e filo spinato - come da un pozzo - vi chiamo: qui, nel mio paese, si lascia avvilire la coscienza con un’inimmaginabile brutalità. Si cerca di uccidere la verità, la coscienza viene calpestata con una brutalità incredibile" si leggeva nel testo. Secondo l’ultima stima dell’osservatorio indipendente P24, sono 144 i giornalisti al momento in prigione in Turchia. Almeno 168 media sono poi stati chiusi dopo il tentato putsch. Tra questi, il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem.