I detenuti con il Papa: domande che ci toccano di Mario Chiavario Avvenire, 11 novembre 2016 Giustizia, necessità di riabilitazione e scelte di clemenza L’immagine, del tutto insolita, dei mille detenuti riuniti in San Pietro domenica 6 novembre, a celebrare con il Papa il Giubileo della Misericordia, non può essere soltanto uno stimolo a buoni sentimenti della durata di un giorno. Come non possono, non devono esserlo le parole "forti", ancora una volta pronunciate da Francesco: "La speranza non può essere tolta a nessuno" e, soprattutto, "perché loro e non io?". Lo stesso Pontefice non ha infatti mancato di proporne sviluppi di portata molto concreta quando all’Angelus ha espressamente sottoposto "alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Troppo frettolosi, taluni commenti. E anche irriguardosi verso lo scrupolo di rispetto delle competenze (che invece è palese nella costruzione e nel suono della frase del Papa), quelli che l’hanno immediatamente tradotta in un appello affinché in Italia ‘venga subito concessa un’amnistià, con le modalità particolari che quest’istituto assume nel nostro Paese. Orbene, il Papa è, sì, anzitutto Vescovo di Roma, ma in quanto tale è anche capo della Chiesa universale e, specialmente in occasioni come questa, si rivolge opportunamente a tutto il mondo, con una sollecitazione che tocca tutti e ciascuno, ma alla quale spetta poi ad altri valutare se e come dare risposte specifiche. Tutto ciò non toglie concretezza a quella sollecitazione, che riceve poi maggiore sostanza da altre parole e da altri gesti di Francesco: così, dalle testimonianze da lui date, di tangibile presa di coscienza della dura realtà del carcere, non in astratto ma nella realtà di singoli luoghi di detenzione; così, dai ripetuti moniti a non fare della pena detentiva - e tanto meno della prigione perpetua - la pena per eccellenza e dagli altrettanto ripetuti incoraggiamenti all’impegno delle istituzioni civili per il sostegno alle pene alternative che in moltissime situazioni - se accompagnate, dove possibile, dalla doverosa riparazione alle vittime - possono offrire, al colpevole di un reato, occasioni di reinserimento sociale, preziose per lui e per l’intera collettività: tanto per fare un esempio, a cominciare dalla prestazione di lavori di pubblica utilità. Quello del Papa, peraltro, non è un discorso di ottimismo tacciabile di ingenua sottovalutazione degli ostacoli. Lui ci butta, per così dire, in faccia una constatazione che spesso si vorrebbe dimenticare, proprio quando ci si lascia sopraffare dai sentimenti a buon mercato, che rimangono tali. Ci parla di un’"ipocrisia", che fa sì "che non si pensa alla possibilità di cambiare vita" e ci ricorda come ci sia "poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società". Qui, a essere interpellate non sono solo le istituzioni, che del resto passano talora da forme di indulgenza senza contropartita anche a favore di criminali pericolosi ad atteggiamenti di chiusura verso ogni iniziativa che favorisca il recupero di chi - come si diceva un tempo - è caduto. Infatti, se ciò accade, è anche perché si temono le oscillanti reazioni di un corpo sociale che a sua volta, molto spesso, non si limita a manifestare la giusta esigenza di non regalare facili impunità alla delinquenza (grande o piccola, di strada o dei colletti bianchi) per pretendere invece che, nei confronti di "quelli lì" ci sia solo un rigore inflessibile: sino al "dentro, e buttando via la chiave". Quel richiamo interpella anche tutti noi, e se c’era bisogno di ricordarcelo, lo ha fatto il Papa stesso, ritornando sull’argomento nell’udienza di mercoledì 9 novembre, ammonendo a che "nessuno dunque punti il dito contro qualcuno", così che tutti ci si renda invece "strumenti di misericordia, con atteggiamenti di condivisione e di rispetto", spinti sino alla "tenerezza", senza dimenticare che "anche Gesù e gli apostoli hanno fatto esperienza della prigione". Quante volte, invece, noi stessi - mi permetto di mettermi anch’io nel gruppo - che pur siamo o ci riteniamo lontani da certi estremi, ci domandiamo davvero "perché loro e non io", e, più che a cercare giustificazioni o, comunque, risposte di tipo sociologico o psicologico, ci si impegna a trarne spunti per tradurre in pratica il "non giudicare" evangelico? E quante volte, se siamo chiamati a dare un contributo di sostegno, nelle forme più varie, affinché vadano avanti gli sforzi di riabilitazione e di reinserimento di qualcuno, ci giriamo dall’altra parte? Nelle carceri italiane 54mila detenuti. Ma i posti letto ancora non bastano di Michela Scacchioli La Repubblica, 11 novembre 2016 In Italia 193 carceri: 54mila i detenuti a fronte di una capienza pari a 49mila e 700 posti. Reclusi: è straniero un terzo, poche le donne. Allarme sovraffollamento per due terzi delle nostre galere: siamo sesti in Europa con numeri in calo in virtù del ricorso alla detenzione domiciliare. Tuttavia, per piani di edilizia straordinaria è stato speso solo l’11% del budget 2010-2014. Suicidi: uno alla settimana dal 1992 a oggi. Reinserimento sociale: aumenta chi lavora, in calo l’iscrizione a corsi di formazione professionale. Straniero un terzo dei reclusi. L’obiettivo è coniugare "clemenza e legalità". Affinché si concretizzi la possibilità di un "percorso virtuoso" tale da convincere i due terzi del Parlamento a votare l’amnistia. "Non una passeggiata ma un preciso impegno politico" lo definisce l’Unione camere penali. Perché in Italia oggi le prigioni sono 193 e tengono in pancia oltre 54mila detenuti a fronte di una capienza massima di 49mila e 700 posti. Tradotto: 108 ingressi ogni 100 letti disponibili. Numeri in calo rispetto ad alcuni anni fa ma ancora privi di equilibrio. Un terzo della popolazione carceraria è straniera (contro una media europea che si attesta attorno al 20 per cento). Ogni 100 reclusi si contano soltanto 4 donne, una quota che negli ultimi 25 anni non è mai andata oltre il 5,4 per cento. Per gli over 70, invece, balzo dell’83,4% tra il 2005 e il 2015. Negli ultimi dieci anni, dunque, è aumentata l’età media dei detenuti, mentre è diminuita la capacità di raccogliere informazioni complete sul loro livello di istruzione. Quasi un quarto dei condannati sta scontando pene inferiori ai tre anni: si tratta della platea che potrebbe usufruire delle riforme che incentivano la detenzione domiciliare. Sono i dati stilati da Openpolis per Repubblica.it dopo che Papa Francesco - nel giorno in cui ha celebrato il Giubileo dei carcerati - ha invocato un atto di clemenza per chi è dietro le sbarre (qui il video). Ad applaudire, in piazza San Pietro, anche i partecipanti alla marcia organizzata dal Partito radicale per chiedere l’amnistia e il rispetto dei diritti contro una situazione di sovraffollamento delle carceri decisamente difficile da gestire (qui le foto). Ed è la Sicilia la regione che ospita il maggior numero di carceri (23), mentre la Lombardia è prima per numero di detenuti (quasi 8.000). La maggioranza, 30.723 su circa 54mila, è accusata o condannata per reati contro il patrimonio, tra cui furti, rapine, frodi e danneggiamenti. I reati contro la persona, come lesioni e omicidi o anche diffamazioni, sono la seconda fattispecie più frequente. Al terzo posto, le violazioni del Testo unico sugli stupefacenti. Quanto agli stranieri, anche se le statistiche europee non conteggiano gli immigrati di seconda generazione (più numerosi in altri Paesi rispetto al nostro), la percentuale del 33,6% può far riflettere sulle garanzie offerte dall’ordinamento penale italiano che, come sottolineano molti osservatori, spesso si differenzia in base al tipo di difesa che l’imputato può permettersi. Talvolta per gli stranieri è più difficile accedere alle pene alternative perché molti non hanno un domicilio dove scontarle. Ma nonostante questo problema, la quota di stranieri in carcere è diminuita di 4 punti percentuali nell’ultimo decennio, perché i reati in cui sono coinvolti hanno pene in media più lievi rispetto agli illeciti commessi dagli italiani, e hanno dunque maggiori probabilità di ottenere la detenzione domiciliare. Sovraffollamento. Varie associazioni e organizzazioni, anche internazionali, hanno a più riprese denunciato le condizioni di vita nelle carceri italiane. Spesso la politica ha preferito rinviare una soluzione organica, alleviando di tanto in tanto la situazione con indulti e amnistie, anche a costo di apparire impopolare. La risposta agli appelli di clemenza lanciati nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II, ad esempio, arrivò - parzialmente - nel 2003, con il cosiddetto ‘indultinò, un provvedimento che escludeva dai benefici diverse tipologie di reato e veniva applicato senza automatismi. Tre anni dopo, quando il Papa polacco già non c’era più, fu varato l’indulto che, a differenza dell’amnistia, estingue la pena ma non il reato: era il 2006. Una strategia di rapida esecuzione ma purtroppo poco risolutiva. Dal 1992 una legge costituzionale impone che i provvedimenti di clemenza necessitino di una maggioranza dei due terzi in Parlamento per essere approvati. Prima di allora ne veniva varato quasi uno ogni due anni. L’ultima amnistia vera e propria, in Italia, risale al 1990 e diverse se ne contano anche in precedenza: come quella del 1963 concessa dallo Stato italiano in occasione del Concilio Vaticano II. Duplice strategia. Dopo la riforma, dunque, è stato politicamente sempre più difficile ridurre il sovraffollamento con questo metodo. Così la popolazione carceraria italiana ha iniziato a crescere e anche l’effetto dell’indulto del 2006 è durato appena un paio d’anni. A seguire, i governi successivi hanno perseguito una duplice strategia: ampliare la dimensione e il numero degli istituti attraverso piani di edilizia straordinaria e allargare la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere, con la detenzione domiciliare. Il primo obiettivo è in larga parte non raggiunto. Il secondo ha prodotto alcuni effetti di rilievo: il sovraffollamento è diminuito, così come i suicidi e il ricorso alla carcerazione preventiva. Questi dati hanno permesso all’Italia di evitare gli effetti della sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per trattamento inumano verso i detenuti. Ma restano molti punti critici. Per tasso di affollamento restiamo sesti in Europa, e due terzi delle galere italiane ospitano più persone di quante potrebbero. I suicidi continuano a essere un problema sia tra i detenuti (in media uno alla settimana dal 1992 a oggi) sia tra gli agenti di custodia. Invece, sono molto migliorati i dati sulle carcerazioni preventive. Ma la sensazione - sottolinea Openpolis - è che i cambiamenti, nell’ottica emergenziale che contraddistingue il legislatore italiano su questi temi, siano stati dettati dalla necessità di fare il minimo indispensabile per non essere sanzionati. Fallimento piano carceri. Va detto che insieme agli interventi normativi per ridurre il numero di detenuti, a partire dal quarto governo Berlusconi sono stati varati piani per ristrutturare e allargare le carceri esistenti e costruirne di nuove. Una relazione della Corte dei Conti del settembre 2015 ha certificato il fallimento di quei progetti: è stato speso appena l’11% del budget 2010-2014, e i posti letto sono aumentati solo di 4.415 unità a fronte dei quasi 12mila previsti. Con un tasso del 108% l’Italia è sesta per sovraffollamento in Europa. Per il nostro Paese si tratta comunque di un miglioramento: ancora nel 2012 registravamo un tasso superiore al 140%, tale da guadagnarci il primo posto della classifica continentale. Un primato attualmente detenuto dal Belgio, con il 131%. Le prigioni meno affollate si trovano in Germania, Lettonia e Paesi Bassi. Il dato nazionale è comunque una media, e non tiene conto del fatto che un carcere con posti vuoti non ne compensa uno sovraffollato. Con un occhio sulle singole strutture, si nota che in alcuni istituti il sovraffollamento si avvicina al 200%, vale a dire che i detenuti sono quasi il doppio dei posti disponibili. È il caso di Brescia, Como, Lodi, Taranto, Grosseto e Catania. Suicidi. Pochi dati mettono in luce il disagio delle carceri come quello dei suicidi, un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Oltre al ministero, anche l’associazione per i diritti dei detenuti Ristretti Orizzonti tiene traccia di questa statistica. Tale dato, superiore a quello ufficiale, non vuole sostituirsi a esso o smentirlo, ma raccoglie maggiori informazioni sul profilo di chi si suicida in carcere e comprende le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Entrambe le fonti segnano una riduzione successiva al contenimento del sovraffollamento. In attesa di giudizio e custodia cautelare. Una delle caratteristiche del sistema penitenziario italiano è la presenza consistente di detenuti privi di una condanna definitiva. All’inizio della rilevazione, nei primi anni 90, questi costituivano oltre la metà della popolazione carceraria. Dopo una discesa fino al 35% degli anni 2004-2005, l’indulto del 2006, estinguendo le pene di molti condannati, ha nuovamente innalzato la percentuale di imputati (58% nel 2007). Negli ultimi anni le leggi che hanno posto limiti alla carcerazione preventiva hanno riportato la quota al 34 per cento. E si tratta di tre tipi di detenuti: le persone in attesa di primo giudizio, i condannati in primo grado che stanno ricorrendo in appello (appellanti) e i condannati in secondo grado che attendono la pronuncia della Cassazione (ricorrenti). La quota di coloro che sono in attesa di primo giudizio è scesa dal 21,4% del 2010 al 17,3% attuale. Percentuali quasi identiche per gli appellanti e i ricorrenti, passati da 21,4% a 17,2 per cento. Il reinserimento. Ma cosa succede una volta scontata la pena? Un buon sistema penitenziario si misura anche dalla probabilità che il detenuto, tornato in libertà, ricominci a delinquere. Come mostrano i dati, chi passa direttamente dal carcere alla vita civile ha molte probabilità di commettere nuovi reati. Se invece il passaggio è più graduale e il detenuto ha modo di scontare parte della pena mentre viene aiutato a reinserirsi e a trovare un lavoro, il tasso di recidiva si riduce considerevolmente. Un vantaggio per tutti, prima di tutto per i cittadini in termini di sicurezza. Eppure la capacità del nostro sistema penitenziario di reinserire resta ancora dubbia. Misure alternative. Negli ultimi anni le riforme hanno incentivato le misure alternative alla detenzione. Ma l’Italia resta l’unico grande Paese europeo dove oltre la metà dei condannati sconta la pena in carcere senza il ricorso alle pene alternative, che impongono di lavorare per ripagare il danno inflitto e così facilitano il reinserimento in società. Il nostro sistema penitenziario non sembra molto sollecito nell’offrire un’occupazione stabile ai detenuti (sono una minoranza quelli che lavorano), e solo 4 su 100 frequentano i corsi di formazione professionale. Del resto, anche le mansioni svolte all’interno degli istituti penitenziari sono spesso dequalificate, rendendo più difficile la possibilità di un reimpiego nella vita civile. Su questo approccio - prosegue Openpolis - influisce una visione vecchio stampo: se il fine del carcere è isolare i detenuti dalla società, non c’è nessun interesse a formarli né ad aiutarli a trovare un lavoro. Eppure la Costituzione vorrebbe il contrario. Questa concezione si riflette anche sull’amministrazione penitenziaria: oltre il 90% dei dipendenti delle carceri italiane sono agenti di custodia, mentre in Spagna e in Inghilterra questa quota si aggira attorno al 70%. In questi due Paesi è più frequente la presenza di personale civile: educatori, medici, mediatori culturali e responsabili della formazione professionale. Siamo dunque di fronte a un altro indizio che conferma il persistente orientamento del sistema penitenziario italiano a isolare i detenuti più che a formarli e reinserirli. Sulle misure alternative al carcere, emerge che, rispetto al 2011, sono aumentati del 29% l’affido in prova al servizio sociale e del 20% la detenzione domiciliare. Sempre meno usato l’istituto della semilibertà, che prevede l’alternanza quotidiana tra attività fuori e dentro il carcere. Aumentano in misura consistente i condannati ai lavori di pubblica utilità. In tutti i grandi Paesi europei, eccetto l’Italia, viene privilegiata la pena fuori dal carcere e la maggior parte dei condannati viene destinata a misure alternative attraverso le cosiddette sanzioni di comunità, come i lavori socialmente utili. Invece in Italia la maggioranza dei condannati finisce in carcere (55%) contro il 28% della Germania, il 30% della Francia, il 36% di Inghilterra e Galles e il 48% della Spagna. Il lavoro in carcere. Per i detenuti la possibilità di costruirsi una nuova vita una volta usciti passa anche dall’aver imparato un lavoro mentre scontavano la pena. La quota di detenuti che lavorano è diminuita tra i primi anni 90 (34,46%) e il 2012 (19,96%). Da allora, è cominciata a risalire fino al 29,76% attuale. Ma i lavoranti, come vengono definiti nel linguaggio penitenziario, restano ancora una minoranza della popolazione carceraria. Secondo i dati del ministero, il settore con più occupati è quello della produzione e riparazione di capi di abbigliamento, seguito da falegnamerie, panifici e call center. Tutti gli altri occupano meno di 100 addetti ciascuno. Complessivamente è occupato solo l’81% dei posti disponibili. La formazione professionale in carcere resta un canale poco valorizzato ai fini del reinserimento dopo la pena. Agli inizi degli anni ‘90 partecipava ai corsi circa l’8% dei detenuti, negli ultimi anni questa quota è scesa ulteriormente e oscilla, a seconda del semestre, tra il 3 e il 5%. Sono comunque molto aumentati i promossi: dal 36,6% del 1992 a oltre l’80% attuale. I costi del sistema penitenziario. Quanto ai costi, quello giornaliero per ogni detenuto risulta compresso di molto tra 2009 e 2011 (sia per i tagli al bilancio sia per l’aumento dei carcerati) dopo essere salito fino a 190 euro nel 2007 a causa dell’indulto. Nel 2013 era attorno ai 124 euro. Di questi, meno di 10 euro servono per mantenere i detenuti, mentre oltre 100 euro servono a coprire le spese per il personale. Stando ai dati del 2014, l’Italia risulta essere il Paese dove il costo giornaliero per detenuto è più alto (141,80 euro). A seguire, figurano il sistema penitenziario inglese (109,72 euro), quello francese (100,47 euro) e quello spagnolo (52,59 euro per carcerato al giorno). Siamo anche la nazione con più dipendenti dell’amministrazione penitenziaria in rapporto ai detenuti. Il personale. Un’altra caratteristica del sistema penitenziario italiano è che i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia (90,1%). In Inghilterra e Spagna il personale ha una formazione più eterogenea, mentre da noi è carente la presenza di insegnanti, formatori professionali, mediatori culturali, psicologi. Forse anche per questo - chiosa Openpolis - il nostro sistema ha dimostrato più resistenze nella capacità di riformarsi. Carceri: lavoro per meno 30% detenuti, budget insufficiente Adnkronos, 11 novembre 2016 Al 31 dicembre 2015 il numero totale di detenuti lavoranti era pari a 15.524 unità, il 29,76% rispetto al totale dei presenti, mentre l’anno precedente erano 14.550, con un’incidenza del 27,13% sulla popolazione carceraria complessiva. Il dato si ricava dall’ultima Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti trasmessa al Parlamento dal ministero della Giustizia. "Il budget largamente insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria - sottolinea il documento - ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell’istituto (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato, ecc.) incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari". In particolare la somma destinata alle retribuzioni stanziata per il 2015 è stata di 60.381.793 euro, in aumento rispetto ai 55.381.793 dell’anno precedente e ai 49.664.207 del 2013, 12 e 11, ma in netto calo in confronto ai 71.400.000 del 2006. I detenuti impegnati nella gestione quotidiana dell’istituto, sempre al 31 dicembre dello scorso anno, erano 10.693 (10.185 alla fine del 2014). "I servizi di istituto -spiega la relazione- assicurano il mantenimento di condizioni di igiene e pulizia all’interno delle zone detentive, comprese le aree destinate alle attività in comune, le cucine detenuti, le infermerie ed il servizio di preparazione e distribuzione dei pasti". "Le Direzioni degli istituti, per mantenere un sufficiente livello occupazionale tra la popolazione detenuta, tendono a ridurre l’orario di lavoro pro capite e ad effettuare la turnazione sulle posizioni lavorative. Garantire opportunità lavorative ai detenuti - spiega ancora il documento ministeriale - è strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni che possono caratterizzare la vita penitenziaria. Queste attività, pur non garantendo l’acquisizione di specifiche professionalità spendibili sul mercato del lavoro, rappresentano una fonte di sostentamento per la maggior parte della popolazione detenuta". Ci sono poi i detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria in attività di tipo industriale: 612 nel 2015 contro 542 dell’anno precedente. In questo caso occorre segnalare che per il capitolo "Industria" (con il quale vengono sostenute le officine gestite dall’amministrazione ed acquistati i macchinari e le materie prime) il budget è passato da 11 milioni di euro del 2010, a 9 milioni, 336 mila, 355 del 2011, a 3 milioni 168 mila 177 del 2012 (con una riduzione pari ad oltre il 71% in due anni), "in un momento nel quale - sottolinea la relazione - le esigenze di arredo e dotazione di biancheria dei nuovi padiglioni realizzati, avrebbero reso necessario un incremento delle produzioni. Per l’esercizio finanziario 2015 è stata stanziata la somma di 13 milioni 540 mila 347 euro, consentendo di soddisfare le esigenze di arredo e casermaggio degli istituti penitenziari". Si tratta di attività che interessano ad esempio falegnamerie, sartorie, calzaturifici, tipografie, attività di fabbro. Per quanto riguarda il lavoro nelle colonie e tenimenti agricoli, gli stanziamenti sono passati 7 milioni 978 mila 302 euro del 2010, a 5 milioni e 400 mila del 2011, a un milione e 200 mila del 2012, "ponendo in crisi soprattutto il settore delle colonie agricole (di fatto mettendo in discussione l’esistenza delle stesse) ed impedendo lo sviluppo di progettualità già in corso nei diversi tenimenti agricoli esistenti presso istituti penitenziari". Per il 2013 le risorse sul capitolo di bilancio sono state ripristinate a 5 milioni e 400mila, per il 2015 sono stati stanziati 4 milioni, 637 mila, 447 euro. Il numero dei detenuti impiegati presso le aziende agricole è passato dai 322 del 31 dicembre 2013 ai 208 della fine del 2015, con una riduzione causata dalla diminuzione delle presenze nelle colonie agricole della Sardegna, mentre il numero degli addetti all’agricoltura negli istituti penitenziari è rimasto pressoché costante. C’è poi il capitolo della legge Smuraglia, che riconosce sgravi alle cooperative sociali e alle imprese che assumono detenuti sia reclusi, che semiliberi o ammessi al lavoro esterno. Dal 2014 la copertura annua è passata da 4,6 milioni a poco più di 10 milioni e dai 644 detenuti assunti nel 2003 si è arrivati agli oltre 1.400 del 2015, considerando non il totale degli assunti ma solo quelli per i quali i datori di lavoro hanno fruito dei benefici della legge. In generale "il lavoro all’interno degli istituti - sottolinea la relazione ministeriale - è ritenuto dall’ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa. Non vi è dubbio che nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno certo consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari". "Ed è proprio in questo particolare momento di difficoltà economica, comune a tutto il territorio nazionale, che l’Amministrazione penitenziaria sta moltiplicando i suoi sforzi per contrastare la carenza di opportunità lavorative per la popolazione detenuta. Oltre a garantire il lavoro per le necessità di sostentamento, proprie e della famiglia lo sforzo maggiore che l’Amministrazione penitenziaria oggi sta compiendo è quello di far in modo che le persone detenute possano acquisire una adeguata professionalità. Solo l’acquisizione di capacità e competenze specifiche consentirà, a coloro che hanno commesso un reato, di introdursi in un mercato del lavoro che necessita sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità". Vodafone per la formazione digitale dei detenuti di Filippo Vendrame Webnews.it, 11 novembre 2016 Fondazione Vodafone Italia sostiene la formazione digitale di 200 detenuti con Cisco, Confprofessioni e Cooperativa Universo. Vodafone ha firmato un protocollo di intesa con il Ministero della Giustizia, Cisco, Confprofessioni e Cooperativa Universo per offrire ad almeno 200 detenuti l’opportunità di acquisire nuove competenze, utili per il loro percorso di reinserimento sociale e professionale. Grazie al programma di donazione di dispositivi aziendali ricondizionati ad enti non profit, Vodafone contribuirà all’allestimento tecnologico delle aule didattiche mettendo a disposizione dieci postazioni video per ogni istituto coinvolto, per un totale di 130 personal computer donati. Dal 2002, anno di inizio del programma di donazione, Vodafone Italia ha destinato a istituti scolastici, pubbliche amministrazioni e terzo settore oltre 2500 dispositivi aziendali ricondizionati tra laptop, tablet. Numero che aumenta se si considerano i quasi mille tablet donati con il programma di alfabetizzazione digitale promosso dalla Fondazione Vodafone Italia "Insieme a scuola di Internet" che ha coinvolto, in due anni, oltre 200 mila over 55 su tutto il territorio nazionale. Anche Fondazione Vodafone partecipa al progetto di formazione nelle carceri, sostenendo la retribuzione dei formatori per alcuni moduli formativi attraverso il programma di Fondazione Vodafone "100% Insieme", che dal 2008, da la possibilità a clienti e dipendenti Vodafone di svolgere un’attività lavorativa retribuita presso enti non profit con il sostegno della Fondazione Vodafone. L’iniziativa, della durata complessiva di due anni, si inserisce nel "Programma Cisco Networking Academy" e avrà due fasi di applicazione. In prima battuta verranno coinvolti gli istituti di Bollate (MI), Opera (MI), La Spezia, Rebibbia (RM), e quelli minorili di Firenze e Nisida (NA). Successivamente, a seconda dei risultati ottenuti il primo anno, i corsi verranno estesi anche agli istituti di pena di Palermo, Bologna, Castrovillari (CS) e Cagliari, e mantenuti nelle carceri dove sono già attivi. Non è la prima volta che Fondazione Vodafone sostiene la formazione professionale all’interno delle carceri con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale e il reinserimento nel mercato del lavoro dei detenuti dopo la pena: dal 2002 ad oggi, infatti, la Fondazione ha collaborato con numerosi istituti, tra cui il carcere minorile di Nisida (NA) per la realizzazione di laboratori di pasticceria, fotografia e scrittura, il carcere di massima sicurezza "Le due torri" a Padova per la realizzazione del laboratorio di pasticceria Giotto, e con il carcere femminile della Giudecca di Venezia con il potenziamento dell’attività di lavanderia e stireria e il rafforzamento delle relative competenze in capo alle detenute. Carceri, i bambini dietro le sbarre e la Nuvola finta di Fuksas di Carlo Stasolla Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2016 Jasmina è una giovane donna di 24 anni; da lunghi mesi trascorre la sua vita in carcere, in custodia cautelare e in cella con lei vivono anche i suoi figli più piccoli: Lolita, di due anni e Diego, di pochi mesi, mentre il figlio più grande vive con la nonna. La piccola famiglia vede le nuvole dalle sbarre delle finestre della cella mentre il quotidiano è scandito da attimi di speranza, gesti di resilienza, lunghe attese, ritagli di intima disperazione. In queste condizioni ogni gesto diventa importante per non smarrire il contatto con le cose reali: il pranzo, le passeggiate lungo i corridoi del carcere, il bagnetto, il gioco tra madre e figli. In ogni momento Jasmina è lacerata dalla scelta di continuare a mantenere i propri figli vicino, in un luogo che lei sa bene non essere adeguato alla loro crescita, e quella di lasciarli liberi, affidandoli a parenti, lontani da lei per un tempo che neanche lei sa quanto potrà durare. Grazie al paziente lavoro della regista Rossella Schillaci, la storia di Jasmina è diventata un film Ninna nanna prigioniera, e oggi verrà presentato presso le sale del Senato. Il racconto, intimo e discreto, accompagna da vicino il quotidiano della piccola famiglia, disegnando il ritratto di una maternità sofferente ma sempre lucida e responsabile nelle scelte e di un’infanzia capace di trovare, nel grigiore carcerario, un’energia vitale e innocente che ridà colore e senso ad ogni gesto. In molte scene si coglie una Jasmina incapace di comprendere il perché di una pena così dura a cui anche i suoi figli sono condannati. Non sa che la Costituzione italiana dovrebbe garantirle il rispetto della dignità umana e il principio della finalità rieducativa e risocializzante della pena detentiva. Non conosce il lungo elenco di Leggi, Decreti, Circolari, Risoluzioni, Convenzioni Onu e Protocolli che dovrebbero assicurarle una esistenza diversa. Ma Jasmina, Diego e Lolita non sono soli; solo quest’anno sono risultati presenti nelle carceri italiane 38 madri con 41 figli. Dal 2011 la legge n. 62 ha disposto che le madri con figli al di sotto dei sei anni debbano scontare la loro pena in strutture alternative, denominate Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam), luoghi colorati, privi di sbarre e progettati a misura di bambino. Dopo cinque anni dall’entrata in vigore della legge, però, solo 4 città (Torino, Milano, Venezia, Cagliari) hanno realizzato tali strutture e l’obiettivo della legge rischia di rimanere incompiuto. Una decina di bambini, solo nella città di Roma, stanno passando la loro esistenza nel carcere di Rebibbia, con i problemi causati dalla vita carceraria: irrequietezza, predisposizione al pianto inconsolabile, difficoltà di sonno, inappetenza, apatia. Nell’Atto di indirizzo per l’anno 2017 del Ministero della Giustizia vengono poste tra le priorità la realizzazione di nuovi Icam sottolineando, nella specifica situazione romana, l’avvio del progetto "La Casa di Leda", un’alternativa al carcere che ha avuto la sua genesi grazie ad un Protocollo di Intesa tra il Ministero della Giustizia, il Comune di Roma e la Fondazione Poste Insieme per l’accoglienza di sei mamme con i loro bambini. Nel maggio 2015 il Comune di Roma ha individuato come struttura l’immobile in via Kenya, in zona EUR, sequestrato alla criminalità organizzata. Insomma, tutto sembra pronto per iniziare. Ma, come affermò l’allora assessora Francesca Danese: "Fa più rumore un bambino che gioca che un mafioso che fa affari". Infatti, dopo l’annuncio della destinazione d’uso della struttura è seguita la protesta urlata degli abitanti del quartiere, dell’Associazione "Ripartiamo dall’EUR" e del Comitato di quartiere "EurInsieme". E così la "Casa di Leda" è pronta ma la sua porta d’ingresso resta ancora sbarrata. Non lo è il portone del palazzo vicino, dove troneggia la milionaria "Nuvola di Fuksas", inaugurata nei giorni scorsi con una liturgia da "mille e una notte". Quelle vere, di nuvole, i bambini di Rebibbia continuano a vederle a strisce, aspettando di uscire, come racconta la presidente dell’Associazione "A Roma Insieme" - che da due decenni si prende cura dei piccoli reclusi di Rebibbia: "Quando i bimbi escono fuori dal carcere guardano le nuvole, e il mondo sotto le nuvole, con uno stupore che non smette di intenerirci". È vero: è importante intenerirci per i bambini che contemplano una nuvola del cielo romano ma anche vergognarci per le nostre esistenze senza cuore, sospese e finte come la nuvola di Fuksas. Magistrati in guerra sul diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 novembre 2016 La base delle toghe, compatta, ha deciso: nessun rafforzamento del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. In particolar modo per quanto attiene alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ogni iniziativa legislativa in tal senso dovrà essere contrastata con ogni mezzo. Ma non solo. Il tema, in questi giorni, è anche oggetto di un "regolamento dei conti" fra le correnti della magistratura associata. A scatenare la rivolta erano state le affermazioni del ministro della Giustizia Andrea Orlando al Congresso nazionale forense tenutosi a Rimini ai primi di ottobre. Davanti al presidente del Cnf Andrea Mascherin, Orlando aveva dichiarato, infatti, di essere intenzionato a presentare un’iniziativa di legge in tema di rafforzamento del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, anche riguardo al diritto di voto quando gli organismi distrettuali si esprimono appunto sulla professionalità dei magistrati. Il guardasigilli si era spinto anche oltre, affermando che tali modifiche si sarebbero potute inserire anche nel decreto relativo alle proroghe disposte per i pensionamenti di alcune cariche apicali della magistratura in discussione in quei giorni. Tanto era bastato perché si aprisse un fuoco di sbarramento da parte delle toghe. L’Associazione nazionale magistrati, pressata dagli innumerevoli appelli contrari che stavano inondando le mailing list dei gruppi, nella riunione del 28 ottobre scorso del Comitato direttivo centrale, aveva approvato un comunicato che, rispondendo indirettamente a Orlando, tagliava in radice ogni velleità legislativa. "L’Anm esprime la netta contrarietà al rafforzamento del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, con particolare riferimento alle valutazioni di professionalità dei magistrati, trattandosi peraltro di profilo che non attiene al perseguimento degli obiettivi di efficienza del sistema giudiziario, tema quest’ultimo che rappresenta una priorità assoluta per la magistratura associata, per tutti gli operatori della giustizia e per lo stesso governo". La questione dunque sembrava finita lì. Anche perché, complice il referendum e lo stop imposto da Matteo Renzi alla riforma del processo penale, nelle prossime settimane il Parlamento sarebbe stato impegnato su altri argomenti ma certo non su provvedimenti in materia di giustizia. Senonché, durante il congresso di Magistratura democratica svoltosi a Rimini lo scorso fine settimana, alcuni esponenti delle toghe "di sinistra" erano tornati in argomento, manifestando su questa materia una non contrarietà preconcetta. È stato sufficiente per riaprire immediatamente le polemiche. In particolar modo da parte di Magistratura indipendente, da sempre fermamente contraria ad rafforzare il ruolo dell’avvocatura nei Consigli giudiziari. "Le opinioni di alcuni esponenti di Md in tema di partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità dei magistrati - scrivono le toghe della corrente "di destra" - sono sensibilmente difformi per contenuto e sostanza da quanto deciso dall’Anm con voto unanime. Restiamo in attesa di formali smentite pubbliche". Il coordinamento di Area, invece di smentire, appronta una risposta al vetriolo: "È paradossale che un richiamo su questo tema provenga da un gruppo che ha, nel suo più autorevole esponente, un sottosegretario di quel governo che voleva introdurre, addirittura con decretazione d’urgenza, il parere dell’Avvocatura nelle valutazioni di professionalità dei magistrati". E poi: "Area ritiene inaccettabile un metodo di confronto da campagna elettorale permanente e rivendica il diritto per qualunque magistrato, sia o meno esso appartenente ad Area, di manifestare liberamente le proprie opinioni, anche in dissenso rispetto alla linea ufficiale e alle scelte del Gruppo, perché Area è un Gruppo che fonda i propri rapporti interni su metodi democratici e di questo va fiera e orgogliosa". A stretto giro la controreplica di "Mi": "Prendiamo atto del comunicato di Area e senza assumere i toni tipici di chi si sente investito di una sorta di superiorità morale ed intellettuale ci limitiamo ad osservare: anziché stigmatizzare i comunicati di altri gruppi sarebbe opportuno smentire con comunicati ufficiali immediati le notizie di stampa che attribuiscono ad esponenti di Area determinate affermazioni, laddove non veritiere. Senso di responsabilità e lealtà nei rapporti associativi sono un patrimonio di tutti i gruppi e non costituiscono monopolio di nessuno". E la contesa a distanza dà l’impressione di poter durare all’infinito. Corruzione, in cantiere un sistema di prevenzione di Claudia Morelli Italia Oggi, 11 novembre 2016 Un sistema di "red flag" che segnalino preventivamente il rischio di fenomeni corruttivi all’interno delle pubbliche amministrazioni. Ci sta lavorando l’Autorità nazionale anticorruzione, come ha riferito il consigliere componente Michele Corradino nel corso della presentazione del suo libro edito da Chiarelettere, È normale, lo fanno tutti, nella sede dell’Ance, con il vicepresidente con delega alle opere pubbliche Edoardo Bianchi. "La corruzione e il malaffare si nutrono di burocrazia", ha detto Corradino. "Raffrontando le indagini ci siamo accorti che negli episodi di corruttela alcune situazioni sono ricorrenti; per esempio il fattore tempo. Il ritardo nella concessione di un permesso vuol dire che il funzionario o è pigro o mira a ottenere qualcosa per sbloccare la pratica. Naturalmente il tempo dipende anche dalle procedure, e non vi è dubbio che occorra una semplificazione per avere tempi certi". Il sistema di indici di anomalia mutuerebbe dall’esperienza acquisita con gli indici di anomalia di operazione sospetta di riciclaggio, sistema che ha coinvolto la "filiera" professionale in un processo di responsabilizzazione. Altri dossier sui quali l’Anac sta lavorando è quello di individuare i comuni e gli enti locali che all’indomani della centralizzazione delle procedure hanno smesso di indire gare; e le linee guida su sotto soglia e responsabile delle procedure, in corso di pubblicazione. Approfondito il confronto sul futuro del nuovo codice appalti, la cui entrata in vigore ha fatto crollare del 30%, ha certificato Corradino, l’indizione di gare. Bianchi ne ha chiesto la revisione in due tranche: la prima immediata, su aspetti della normativa quali i requisiti di partecipazione e dal principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; e una più approfondita. E all’Anac i costruttori chiedono di non "ingolfarsi" impedendo di fatto la prassi virtuosa dei pre contenziosi. Dietro l’incontro, il tentativo di rafforzare la collaborazione istituzionale tra Ance e Anac in un settore dove la corruzione certificata è altissima; tentativo colto da Giuseppe Lumia (Pd), senatore componente della commissione antimafia. "Non sempre mi sono trovato d’accordo con Ance. Oggi registro proposte interessanti che proporrò all’attenzione del parlamento". Expo. Tolta l’inchiesta ai pm: "sbagliano ad archiviare" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 novembre 2016 Appalto sulla Piastra, subentra la Procura generale: fatti gravi da approfondire. Sull’appalto di 272 milioni vinto nel 2012 da "Mantovani spa", con un ribasso del 42%, è stata avviata un’inchiesta per corruzione e turbativa d’asta. Dalla nomina dei commissari nella fase pre-gara sino all’esecuzione del contratto: attraversano tutta la filiera dell’appalto per la Piastra di Expo 2015 (272 milioni di base d’asta) le questioni che, a detta della Procura generale della Repubblica, stonano - perché non approfondite o non considerate dai pm - nella richiesta di archiviazione che la Procura della Repubblica nel febbraio scorso aveva chiesto al gip Andrea Ghinetti per i 5 soli indagati di turbativa d’asta, e cioè Piergiorgio Baita (presidente della società Mantovani, arrestato a Venezia per il Mose), due ex manager Expo già arrestati per altre vicende, Angelo Paris e Antonio Acerbo, e gli imprenditori della società Socostramo (vicina al parlamentare Altero Matteoli) Erasmo e Ottaviano Cinque. Ieri, infatti, alla vigilia dell’udienza nella quale il gip Andrea Ghinetti avrebbe dovuto esprimersi sulla richiesta di archiviazione, la Procura generale guidata da Roberto Alfonso ha disposto l’avocazione del fascicolo, togliendolo alla Procura della Repubblica e sostituendosi stamattina (con il sostituto pg Felice Isnardi) ai tre pm Filippini-Pelicano-Polizzi per chiedere la revoca della loro richiesta di archiviazione. Il primo punto all’attenzione della Procura generale è la retrodatazione che consentì nel maggio 2012 di cambiare in corsa uno dei commissari di gara (sul quale erano emersi profili di possibile incompatibilità) senza rifare tutta la procedura che, secondo i manager di Expo, avrebbe rischiato di far saltare il cronoprogramma. Poi c’è la questione che i pm hanno sì esaminato, ma per il pg non traendone adeguate conclusioni: e cioè il modo con il quale l’azienda Mantovani per 149 milioni si aggiudicò la gara con un improponibile ribasso del 42% rispetto alla base d’asta di 272 milioni, spiazzando il mondo formigoniano che puntava su altri candidati su una piazza milanese nella quale secondo Baita (protagonista anche del libro appena pubblicato per Einaudi dalla giornalista Serena Uccello, "Corruzione - Un testimone racconta il sistema del malaffare") c’era appunto "un sistema spartitorio degli appalti". Altri capitoli rimasti in chiaroscuro sono quello delle ragioni per non svolgere la verifica di congruità sul maxi-ribasso del 42% della Mantovani ("Sala mi rispose che non avevamo tempo per verificare se l’offerta fosse anomala o meno", ha sostenuto ai pm nel giugno 2014 l’ex manager di Ilspa, Antonio Rognoni, arrestato per altre vicende); quello della possibile collusione tra la Mantovani e un concorrente battuto, per una pax conveniente a entrambi da trovare su altri tavoli; e quello delle varianti di progetto che la Mantovani (usando come arma di ricatto a Expo la minaccia di non completare i lavori entro il fatidico primo maggio 2015) si fece riconoscere da Expo per recuperare profitti altrimenti impossibili sulla base del ribasso praticato. Notevoli perplessità la Procura generale esprime poi su un’altra questione presa in considerazione ma poi abbandonata dai pm, e cioè l’improprio affidamento diretto alla Mantovani della fornitura di 6.000 alberi per un importo di 4,3 milioni di euro a fronte di un costo per l’impresa di 1,6 milioni. Venerdì la parola passa al gip. Che però è presumibile, dopo il colpo di scena dell’avocazione, possa essere solo interlocutoria e consistere nel dare al pg nuovi termini per un supplemento di indagini. Intervista al senatore Ciro Falanga (Ala): "non si fanno le indagini con le manette" di Errico Novi Il Dubbio, 11 novembre 2016 Il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo spiega in tv il giorno prima che la magistratura non può dichiarare guerra al mondo se la nuova prescrizione non è come i pm la vorrebbero: mentre si scorge un nuovo clima sulla giustizia, il senatore Ciro Falanga improvvisamente propone di eliminare la custodia cautelare per i reati contro la pubblica amministrazione. Pare la classica incursione del guastafeste. "No guardi, il punto di partenza è completamente sbagliato. La magistratura non deve esprimere un nulla osta sulle leggi. Sarebbe incostituzionale". Falanga si autodefinisce un indisciplinato. Persino rispetto al suo gruppo di appartenenza a Palazza Madama, quello di Ala, che fa capo a Denis Verdini. La sua proposta di legge introdurrebbe forti limitazioni alla custodia cautelare in carcere, soprattutto per i reati "economici": Falanga ha finito per mettere in allarme lo stesso Verdini, preoccupato per gli effetti dell’iniziativa in piena campagna referendaria. I grillini riprendono fiato e il senatore Mario Giarrusso ricomincia ad accusare la maggioranza di legiferare solo a favore dei corrotti. Insomma senatore: il problema non è la critica dell’Anm alle leggi in materia di giustizia ma i Cinque Stelle che la strumentalizzano, non crede? Sì, ma a me non interessa che le mie proposte suonino impopolari. Do per scontato che anche il testo sulla custodia cautelare sia sgradito a parte dell’opinione pubblica. Ma non per questo posso rinunciare ai miei valori e sentimenti liberali e garantisti. Cosa l’ha spinta a presentare un ddl che limita in modo così forte la carcerazione preventiva? La custodia cautelare molto spesso è strumentalizzata nell’attività d’indagine. Si arresta una persona per farle vivere uno stato di costrizione e riuscire così a raccogliere elementi di prova. Ritiene si possa parlare di ricatto psicologico? Certo, così è stato in molti casi. Vogliamo negare che le misure cautelari in carcere siano state utilizzate per porre l’indagato in una condizione psicologica di particolare disagio e raccogliere così dati per l’indagine? Mi pare innegabile, basti pensare a quanto avvenne durante Tangentopoli. Ma davvero i pm usano le misure cautelari in modo distorto? Mi riferisco a una parte ultra-minoritaria della magistratura inquirente. Che però in certi casi richiede la carcerazione preventiva con superficialità. Se si arresta una persona, che dobbiamo presumere sia innocente, si comprime il suo diritto alla libertà, diritto costituzionale che dovrebbe essere negato solo quando c’è l’esigenza di tutelare un bene giuridico di pari rango. La sicurezza, per esempio? Se si tratta di un rapinatore che picchia le sue vittime, certo che l’arresto è necessario. E infatti, la mia proposta di legge non solo lascia immutate le prime due lettere dell’articolo 274, in cui si indica il ricorso alla misura cautelare per rischio di inquinamento delle prove e per pericolo di fuga, ma non modifica neppure la prima parte della lettera c, che prevede la custodia se c’è possibilità di nuovi gravi delitti commessi con violenza o uso di armi. Lei propone di eliminare la custodia in carcere solo per il rischio di reiterazione di reati che, pur sanzionati con pene superiori ai 4 anni, non si accompagnano a condotte violente. Mi chiedo una cosa: secondo la modifica da me proposta, un indagato per truffa destinatario di misura cautelare dovrebbe scontarla ai domiciliari anziché in galera, giusto? Mi spiega in che modo potrebbe reiterare il reato da casa sua? E mi spiega che senso ha metterlo in galera, se sarebbe, già così, impossibilitato a commettere lo stesso reato? Alla logica, aggiungerei un dato di contesto. Quale? Le condizioni di vita disumane di molte carceri italiane. Che non a caso hanno indotto l’Europa a sanzionarci, che ci hanno costretto al rimedio degli 8 euro e che in precedenza erano state oggetto dell’unico messaggio rivolto alle Camere dal presidente Giorgio Napolitano. Non è finita qui. Continui. Due dati statistici: il 50 per cento dei detenuti, in Italia, lo è in virtù di una misura cautelare. E tra costoro, circa la metà viene dichiarata innocente. Allora, ci rendiamo conto che una persona accusata di reati non connotati da violenza o da finalità mafiosa, se finisce in galera, anche una volta dichiarata innocente e tornata libera, si porta addosso lo stigma della detenzione per sempre? Verdini le ha contestato l’inopportunità di questa proposta? Non l’ho neppure sentito. Denis sa bene che su questi temi non consento interferenze ad alcuno, neppure a lui. Esprimo il mio modo di vedere le cose in maniera libera: ho un passato da radicale, a 20 anni mi sono battuto in difesa di Tortora, perché dovrei rinnegare me stesso? È d’accordo con lo stralcio della delega sul carcere dal ddl che riforma il diritto penale? Assolutamente sì. Tenga presente che io sono relatore del testo unificato per l’adozione dell’amnistia: è pronto ma non viene mai calendarizzato. Riforma penale: resta dell’idea di non votarla? Certo: io voterei contro il provvedimento nel suo insieme, perché non ha senso accogliere, com’è avvenuto, il mio emendamento per dare precedenza ai processi per reati contro la pubblica amministrazione e nello stesso tempo mantenere l’allungamento dei termini di estinzione per quegli stessi reati. Senza il suo voto e quello degli altri senatori di Ala, quel ddl non passerà mai in Senato. Ah, magari glielo voteranno i grillini. Io no di certo, e se sulla giustizia sono molto ascoltato dai senatori del mio gruppo, cosa posso farci? Violenza sessuale anche per il "succhiotto" sul collo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 novembre 2016 n. 47265. La Cassazione, sentenza 10 novembre 2016 n. 47265, ha confermato la condanna di un uomo a 6 anni e due mesi per violenza sessuale ai danni della sua ex amante includendo, al termine di una attenta disamina, fra gli atti di natura sessuale anche il cosiddetto "succhiotto" sul collo imposto con la precisa intenzione di apporre "un "marchio" visibile a chiunque fosse interessato ad una relazione con lei". Il condannato, accusato anche di aver palpeggiato la donna sul seno e sulla zona pubica e di aver avuto con lei un rapporto sessuale, ha contestato, con riguardo al succhiotto, l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza e la natura sessuale dell’atto, oltre all’assenza di ogni consapevolezza circa tale natura dal momento che "esso non attinge zone erogene". Per la Suprema corte "la natura "sessuale" dell’atto (che preesiste alle intenzioni dell’agente ma anche alla sensibilità della vittima) deve essere valutata secondo il significato "sociale" della condotta, avuto riguardo all’oggetto dei toccamenti, ma anche - quando ciò non sia sufficiente - al contesto in cui l’azione si svolge, ai rapporti intercorrenti tra le persone coinvolte e ad ogni altro elemento eventualmente sintomatico di una indebita compromissione della libera determinazione della sessualità del soggetto passivo". In questo senso, la Corte di appello non aveva riconosciuto la minore gravità dei fatti proprio perché consumati sul luogo di lavoro o comunque all’esito di "appostamenti e agguati improvvisi". Il cosiddetto "succhiotto", prosegue la sentenza richiamando un precedente (n. 44063/2014), "si definisce comunemente come "morso d’amore" (per la carica di passionalità e ardore che lo caratterizza) e consiste in un livido causato dalla suzione con le labbra di una parte dell’epidermide o da un bacio molto aggressivo che inizialmente lascia tracce di colore rossastro dovute alla rottura dei capillari e che si trasforma in colore viola o nero man mano che la lesione guarisce acquisendo la natura di una ecchimosi". Mentre i dizionari della lingua italiana lo descrivono come "una specie di bacio che si dà succhiando prolungatamente la pelle, e che lascia un segno livido" (Garzanti) o come "il livido lasciato da un bacio dato succhiando la pelle" (Treccani). "Appare evidente, dunque - prosegue la Corte, la natura sessuale dell’atto che non comporta un mero toccamento delle labbra con una parte del corpo ma esige un’attività prolungata sul corpo stesso che, proprio per la sua durata ed intensità, esprime esattamente quella carica erotica che il concedersi con piacere alla bocca altrui comporta". "Una carica - conclude la sentenza - pienamente colta dall’imputato che ne fa strumento di una riaffermata (e malintesa) signoria sulla donna con un simbolo (il livido lasciato sul collo) che vuoi significare un’intimità sessuale esattamente percepibile e percepita come tale dai consociati senza necessità di ulteriori specificazioni". Atto di nascita falso, pena più bassa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2016 Corte costituzionale, sentenza 10 novembre 2016, n. 236. È irragionevole la pena della reclusione da 5 a 15 anni per chi altera lo stato civile di un neonato con false certificazioni o attestazioni. Secondo la Corte costituzionale (sentenza 236 di ieri) c’è un’evidente sproporzione tra la sanzione e l’offesa, per questo la pena va abbassata e compresa tra un minimo di 3 anni e un massimo di 10 di reclusione. Il giudice delle leggi per "punire" la condotta prevista dall’articolo 567 secondo comma del Codice penale, "sceglie" la stessa pena indicata dal primo comma dell’articolo 567, che riguarda sempre il reato di alterazione dello stato civile di un neonato, commesso, in questo caso, con la "sostituzione" del bambino. Una fattispecie forse più grave - che coinvolge due neonati e non soltanto uno - per la quale è prevista una pena più lieve. Le due norme, utilizzate come termine di paragone, non sono identiche ma non possono essere considerate disomogenee, perché indirizzate a proteggere lo stesso bene giuridico. I giudici delle leggi intervengono direttamente sulla pena applicabile, senza invadere il campo d’azione del legislatore perché, come chiariscono, la loro valutazione si fonda su punti di riferimento già esistenti nel sistema legislativo. Anche nel giudizio di "ragionevolezza intrinseca" di un trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità è, infatti, essenziale individuare soluzioni già esistenti per eliminare la manifesta irragionevolezza, perché solo in questo modo la Consulta non sovrappone la sua discrezionalità a quella del Parlamento. La Consulta si è pronunciata su una questione sollevata dal tribunale di Varese, chiamato a decidere sulla "sorte" di due imputati, accusati in concorso tra loro, di avere alterato lo stato civile di una neonata "attestando falsamente", nella formazione dell’atto di nascita, che la bimba era nata dalla loro unione naturale. Il giudice remittente, pur dando atto del diritto a conoscere le proprie origini e la propria discendenza, trovava anacronistica la pena. Per il Tribunale di Varese, infatti, quando la norma è stata emanata non esisteva ad esempio la prova del Dna e l’atto di nascita era la sola strada per sapere il nome del padre e della madre. La norma sarebbe superata anche dalla riforma del diritto di famiglia che, nella filiazione, ha molto ridimensionato l’importanza dell’atto di nascita ai fini della prova. Argomenti non pertinenti per la Consulta che valorizza, invece, il solo tema della sproporzione della pena, che resta alta anche nel minimo edittale, precludendo comunque la possibilità di usufruire della sospensione condizionale, anche quando il reato è commesso nell’interesse del neonato. La Corte costituzionale sottolinea che la mano troppo pesante del legislatore sulla pena compromette dall’inizio la funzione rieducativa di quest’ultima. Il reo tenderà a non prestare la sua adesione al processo rieducativo, solo perché ha percepito la condanna che le è stata inflitta come profondamente ingiusta e del tutto svincolata dalla gravità della sua condotta e dal disvalore che questa esprime. "In questo contesto la particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina - si legge nella sentenza - la violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione, essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena". Reato la mancata consegna dei libri al socio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2016 Corte di cassazione, sentenza 10 novembre 2016, n, 47307. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice per l’amministratore della Srl che ignora il provvedimento con il quale gli viene ordinato di far consultare al socio non amministratore i documenti. La Cassazione (sentenza 47307) respinge il ricorso dell’amministratore di una Srl al quale era stata contestata la violazione dell’articolo 2625, comma secondo, per aver ostacolato il socio non amministratore nella sua attività di controllo sull’amministrazione, provocandogli un danno. Atteggiamento dal quale il ricorrente non aveva desistito neppure quando il giudice gli aveva ingiunto di farlo con un provvedimento d’urgenza (articolo 700 del Codice di procedura civile), facendo così scattare anche il reato previsto dall’articolo 388 del codice penale sulla mancata esecuzione dolosa dell’ordine del giudice. Il ricorrente dal canto suo si era difeso affermando che, essendo la società dotata di un collegio sindacale, il "socio ostile" avrebbe potuto superare la sua inerzia rivolgendosi a quest’ultimo per ottenere i libri contabili. I giudici della sesta sezione penale, precisano innanzitutto che non si trattava di semplice inerzia o rifiuto a mostrare quanto richiesto. L’imputato impediva al socio "con ostacoli e raggiri" di esercitare i suoi poteri ispettivi (articolo 2476 comma secondo del codice civile). Il tutto allo scopo di nascondere una serie di operazioni tese ad assicurare un finanziamento indiretto ad una società terza che faceva capo a lui in danno della Srl e dei suoi soci. La Cassazione precisa che il socio non amministratore è titolare di un vero e proprio diritto potestativo ad avere pieno accesso ai documenti relativi alla gestione e all’amministrazione della società, che prescinde completamente dalla circostanza che questa sia dotata di un collegio sindacale. Anzi la Suprema corte precisa che nel nuovo impianto normativo per le Srl non è richiesta l’esistenza dei sindaci proprio perché "a ciascun socio è affidato il diritto di esercitare un controllo penetrante". I giudici ricordano anche che il diritto di querela per il reato di impedito controllo spetta a tutti i soci che abbiano subìto un danno patrimoniale, indipendentemente dal fatto che questo sia stato immediatamente determinato dal comportamento degli amministratori o "indirettamente causato dal pregiudizio recato al patrimonio sociale". Mentre il reato previsto dall’articolo 388 comma secondo era scattato per la violazione del provvedimento giudiziario. Paola (Cs): detenuto marocchino muore a 15 giorni dal fine pena, si sarebbe suicidato quicosenza.it, 11 novembre 2016 Una volta libero intendeva tornare a casa per sposarsi, ma ufficialmente si sarebbe suicidato inalando una bomboletta di gas. "Chiederò subito al Ministero della Giustizia di disporre un’ispezione ministeriale presso la Casa Circondariale di Paola in ordine all’incredibile vicenda verificatasi col decesso del giovane detenuto marocchino". Lo dichiara Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani, stigmatizzando pesantemente l’operato della locale Amministrazione Penitenziaria, annunciando anche che farà presentare un’interrogazione Parlamentare ai Ministri della Giustizia Andrea Orlando e degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Paolo Gentiloni. Nei giorni scorsi, l’esponente radicale è stato rintracciato dai familiari del giovane marocchino morto nel carcere di Paola. Youssef Mouchine, detenuto nel penitenziario paolano aveva 30 anni ed era stato arrestato lo scorso mese di marzo dai Carabinieri a Lamezia Terme per espiare una pena di 11 mesi per reati comuni (furti ed altro). Da alcuni anni era residente nel Comune di Marostica in Provincia di Vicenza ove era agli arresti domiciliari e dove abitano anche i suoi parenti mentre i genitori vivono ad Ain Sebaa Casablanca in Marocco. Gli mancavano quindici giorni da scontare prima di essere scarcerato e tornare in libertà. ma è deceduto nella notte tra il 23 ed 24 ottobre. La famiglia che vive in Marocco è stata informata del decesso del congiunto solo dopo diversi giorni dalla sua morte, violando l’Ordinamento Penitenziario e il Regolamento di Esecuzione che stabiliscono che in caso di decesso di un detenuto debba essere data immediata notizia ai familiari. Al papà gli è stato detto da una interprete araba, chiamata dalla Casa Circondariale, che il figlio era morto perché aveva inalato del gas da una bomboletta avvolgendosi la testa con un sacchetto di plastica. L’interprete, inoltre, chiedeva al Mouchine, se voleva che del funerale se ne occupasse l’Amministrazione Penitenziaria. Questi in risposta gli riferiva, espressamente, che la famiglia desiderava occuparsi del funerale per cui chiedeva di conoscere la procedura per la restituzione della salma. I familiari, oltre a cercare di contattare subito l’Autorità Consolare, inviavano subito un amico, italiano, presso il Carcere di Paola al fin di appurare se, realmente, il loro figlio fosse deceduto perché pensavano che fosse uno scherzo. A questi veniva riferito che il Mouchine era deceduto il 26 ottobre cioè il giorno prima della telefonata, cosa non vera. Una serie di bugie, una dietro l’altra. Infatti, già al momento della telefonata da parte dell’interprete, il Mouchine era stato già sepolto presso il Cimitero del Comune di Paola, col nulla osta della Procura della Repubblica di Paola in persona del pm Fasano, dopo gli accertamenti necroscopici eseguiti da un Medico legale che fra 60 giorni dovrebbe depositare la relazione peritale. C’è da dire che il Pubblico Ministero, oltre ad aver disposto l’autopsia e l’acquisizione di atti e filmati delle telecamere di sorveglianza, ha chiesto alla Direzione del Carcere di conoscere se il detenuto aveva familiari e parenti o altre persone con le quali era in contatto, eventualmente anche per informarli della possibilità di nominare un proprio consulente di parte per partecipare alle operazioni autoptiche e per la restituzione della salma. Invece, e non si capisce il perché, pare che il Carcere abbia risposto negativamente chiedendo contestualmente all’Autorità Giudiziaria il nulla osta per il seppellimento a spese dell’Amministrazione. Diversamente, la salma, come prevede l’Ordinamento Penitenziario, avrebbe dovuto essere messa immediatamente a disposizione dei congiunti e solo qualora alla sepoltura non volessero provvedere i predetti, l’Amministrazione doveva farsene integralmente carico. Per tale motivo, Larbi Mouchine, padre di Youssef, su consiglio del radicale Quintieri, ha nominato l’avvocato Manuela Gasparri del Foro di Paola, conferendole espressamente mandato di rivolgersi alla Procura della Repubblica di Paola, perché sia fatta piena luce sulla morte del figlio, non riuscendo a credere che si tratti di suicidio atteso che il fine pena era imminente e lui voleva tornare in Marocco per sposarsi ed anche perché durante le pochissime telefonate intercorse questi aveva lamentato di essere ripetutamente maltrattato, di essere messo in isolamento in cella liscia e costretto a dormire sul pavimento a causa delle sue rimostranze poiché non gli veniva consentito di corrispondere telefonicamente con la famiglia. Nella mattinata odierna, la cugina di Youssef, Zaineb Belaaouej, accompagnata dagli Avvocati Manuela Gasparri e Carmine Curatolo del Foro di Paola, si è recata presso la Procura della Repubblica di Paola ove ha avuto un colloquio con il Pubblico Ministero Fasano, raccontandole tutti i fatti di sua conoscenza. Nei prossimi giorni, si procederà ad inviare una dettagliata memoria scritta all’Ufficio di Procura nonché a sporgere denuncia contro l’Amministrazione Penitenziaria ed a citarla in giudizio per non aver tutelato la incolumità del loro congiunto. Tra l’altro, la Direzione della Casa Circondariale di Paola, non ha nemmeno risposto al Consolato Generale del Regno del Marocco di Palermo, competente anche per la Regione Calabria, il quale il 31 ottobre ha chiesto notizie sulla morte del proprio connazionale. I familiari chiederanno aiuto al Re Mohammed VI ed al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione del Regno del Marocco Salaheddine Mezouar. Paola (Cs): Comunità Marocchina "la famiglia del detenuto avvisata solo dopo sepoltura" quicosenza.it, 11 novembre 2016 Ahemed Berraou, Capo della locale Comunità Marocchina di Cosenza, dopo aver appreso della misteriosa morte del suo conterraneo chiede chiarezza immediata e si unisce alla protesta dei Radicali Italiani e dall’Associazione Alone Cosenza Onlus. "Esprimo a nome mio personale, del Dipartimento Politiche Immigrazione della Cgil di Cosenza e della Comunità Marocchina, tutto il mio sdegno per la morte del giovane Youssef Mouchine avvenuta, nelle scorse settimane, nella Casa Circondariale di Paola. È assolutamente necessario che si faccia chiarezza anche perché non è la prima volta che accadono fatti del genere". Queste le parole di Ahmed Berraou, Responsabile del Dipartimento Politiche dell’Immigrazione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro di Cosenza e Capo della locale Comunità Marocchina, dopo aver appreso della misteriosa morte del suo conterraneo. "Sappiamo che da tempo il Carcere di Paola, - dichiara Berraou - ove ci sono tantissimi detenuti stranieri, molti dei quali arabi, è privo di Mediatori Culturali e che tale situazione è stata, più volte, denunciata dai Radicali Italiani e dall’Associazione Alone Cosenza Onlus alle Autorità Penitenziarie competenti ma non è stato preso alcun provvedimento. Inoltre, la Direzione del Carcere, nei mesi scorsi, ha proceduto a revocare l’autorizzazione accordata alla Mediatrice Culturale Shyama Bokkory asserendo, falsamente, che non vi erano più detenuti extracomunitari nell’Istituto. Per quale motivo non è stata avvisata tempestivamente la famiglia di Mouchine del suo decesso? Per quale motivo, nonostante la richiesta della famiglia di voler restituito il cadavere per il funerale secondo il tradizionale rito islamico, hanno proceduto alla sepoltura in un cimitero cristiano? Per quale motivo non hanno riscontrato la richiesta pervenuta dal Consolato Generale del Marocco di Palermo che chiedeva informazioni sulla morte di Mouchine? Non è possibile che in uno Stato civile come l’Italia possano esserci delle Carceri gestite in questo modo. Chiediamo, dunque, che si faccia chiarezza e che i responsabili di tali fatti siano subito puniti e rimossi. Se non ci saranno immediati sviluppi su questa gravissima vicenda, come Comunità Marocchina, conclude Ahmed Berraou, insieme ai Radicali ed all’Associazione Alone Cosenza Onlus, organizzeremo un presidio nonviolento dinanzi al Carcere di Paola." Cagliari: detenuto muore dopo il ricovero, la procura apre un’inchiesta di Andrea Manunza L’Unione Sarda, 11 novembre 2016 Malato da tempo e in cura da anni, costretto a imbottirsi di farmaci per tenere sotto controllo pressione e patologie anche particolarmente gravi, il 41enne Bruno Boi è morto mercoledì all’ospedale Santa Barbara di Iglesias dove era stato trasportato qualche giorno prima in fretta e furia dal Policlinico universitario di Monserrato. L’uomo, di Sinnai, era stato ricoverato ad agosto per un crollo della sua situazione clinica. Era ospite del carcere di Uta, doveva scontare un residuo di pena relativo a una vecchia condanna per detenzione e traffico di droga e a un più recente arresto per motivi sostanzialmente identici. Sulla vicenda ora la Procura di Cagliari ha aperto un’inchiesta, per il momento priva di ipotesi di reato e indagati: il pubblico ministero Daniele Caria questa mattina darà incarico al medico legale Nicola Lenigno di svolgere l’autopsia che chiarisca cosa sia accaduto. Napoli: è in fin di vita in ospedale, ma i giudici dicono deve tornare in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2016 La Corte di Appello di Napoli ha stabilito che Ciro Lepre è "compatibile con il regime carcerario". Un detenuto versa in condizioni cliniche gravi. È ricoverato in ospedale ma per il tribunale deve ritornare in carcere. Si chiama Ciro Lepre, ristretto da cinque anni con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione. Da tempo soffre di cirrosi epatica, patologia che si è aggravata negli anni. Quando la malattia era stata diagnosticata, dal carcere di Pavia era stato traferito nell’istituto penitenziario di Nuoro, poi in quello di Cuneo e infine nella casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, nel padiglione dove è attrezzato il centro clinico, un luogo, quest’ultimo, dove vengono trasferiti molti detenuti da tutta Italia in condizioni di salute che non possono essere trattate all’interno delle carceri. Le condizioni di Ciro Lepre hanno avuto un peggioramento. Infatti subito i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria di "Lorusso e Cutugno" si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare adeguate cure al detenuto, le cui condizioni diventavano ingestibili. Così, la direzione sanitaria del carcere torinese ha deciso il trasferimento all’ospedale "Molinette" di Torino specializzato proprio per la cura di malattie acute e croniche del fegato. Il tribunale di Napoli, però, dopo la visita di un perito medico di ufficio, ha deciso di ripristinare la detenzione in carcere. I parenti di Ciro Lepre hanno appreso la notizia con amarezza e incredulità. Stando a quanto hanno riferito i medici che lo osservano 24 su 24, il detenuto versa in una situazione molto grave, tanto che hanno chiesto ai parenti chi contattare in caso di decesso. I familiari, raggiunti da Il Dubbio, spiegano che non chiedono neppure che sia portato a casa per essere curato. Vogliono semplicemente che il loro congiunto sia assistito in un ospedale - rimane comunque in un reparto di Medicina Protetta per i detenuti - per ricevere un adeguato sostegno sanitario e per avere data la possibilità di andare a trovarlo. La sua condizione di detenuto, non consente, infatti, ai familiari di fargli visita negli ordinari orari di visita ai degenti. I familiari di Ciro Lepre si sono rivolti anche ai Radicali, lanciando il loro grido d’allarme in particolar modo a Rita Bernardini. Il Dubbio ha potuto visionare la perizia effettuata dal medico del tribunale. Il perito ha comunque effettuato delle conclusioni importanti. Raccomanda che la direzione sanitaria della struttura carceraria di Torino si faccia parte attiva nello stimolare la direzione del reparto dove è degente il detenuto a formulare la diagnosi del complesso delle malattie che egli presenta. Elenca poi il quadro clinico: insufficienza epatica, cirrosi da epatite c in attiva fase di replicazione, vasculite alle mani e ai piedi, tumore del sistema linfatico a basso grado di malignità e altre patologie. Per il problema cardiopatico, il medico raccomanda un ricovero presso un reparto ospedaliero altamente specializzato. Dopo un breve periodo di ricovero, il perito del tribunale spiega che il paziente potrà ritornare nel reparto clinico del carcere. Conclude, comunque, consigliando che la struttura dove il detenuto proseguirà il soggiorno, non faccia da ostacolo alla naturale e comprensibile esigenza di sollievo psicologico offerto dai familiari e dalle persone affettivamente care. Resta il fatto che la quinta sezione penale della Corte di Appello di Napoli, dopo la perizia del medico, ha stabilito che il detenuto Ciro Lepre è compatibile con il regime carcerario. Il dramma è che nella mattinata di martedì, i medici che hanno in cura il detenuto, hanno chiesto ai parenti il numero telefonico da contattare in caso di decesso. Brescia: pericolo radicalizzazione in cella, si lavora per l’integrazione di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 11 novembre 2016 Presentato un piano al ministero della Giustizia. Musulmani qualificati negli istituti. L’arresto del cittadino kosovaro accusato di proselitismo fondamentalista riporta l’accento sul tema del rischio radicalizzazione nel bresciano, rischio da cui non è naturalmente escluso il carcere, che anzi viene da più parti individuato come contesto di accentuazione del rischio. Pare quindi interessante dare conto di una recente proposta operativa bresciana che ha visto la convergenza di tre realtà del territorio, la Garante dei Detenuti del Comune di Brescia, il Corso di Criminologia penitenziaria della Università degli Studi di Brescia e l’Associazione Carcere e Territorio, ciascuno per e con le proprie competenze e disponibilità. Il primo impegno del gruppo di ricerca è consistito nella ricognizione di cosa si faccia in Europa sotto questo profilo, scoprendo l’esistenza di diversi progetti operativi che hanno già sperimentato alcune linee di intervento (si va dalla Finlandia all’Ungheria, passando per Germania, Francia, Regno Unito e Belgio che, com’è ormai noto pare essere uno dei Paesi a maggior densità di rischio) e di recenti linee guida emesse dal Consiglio d’Europa. Dalle raccomandazioni del CoE rivolte ai 47 Stati membri e finalizzate a prevenire la radicalizzazione dei detenuti e delle persone in esecuzione penale esterna, e alla riabilitazione di detenuti eventualmente già radicalizzati, si evince che il sovraffollamento, le condizioni detentive inadeguate le manifestazioni di discriminazione razzista o islamofobiche, i provvedimenti disciplinari sproporzionati sono fattori che aumentano il rischio di radicalizzazione tra i detenuti. Le linee guida promuovono il concetto di sicurezza dinamica, vale a dire che il personale penitenziario dovrebbe porsi in relazione educativa con i detenuti, saperne riconoscere i segni indicatori di radicalizzazione, valutare i rischi e affrontare il problema, naturalmente previa idonea e specifica formazione. Il carcere necessita anche di essere attrezzato dal punto di vista della mediazione interculturale e sociale. Le amministrazioni penitenziarie devono tener conto delle tradizioni culturali e religiose dei detenuti in tema di alimentazione, abbigliamento, opportunità di culto e festività religiose. Tramite specifici accordi con le confessioni religiose deve essere garantita anche un’adeguata presenza di rappresentanti religiosi di ogni fede. Al fine di favorire il loro reinserimento sociale ai detenuti a rischio dovrebbero essere offerte attività di formazione adeguata e programmi di trattamento individualizzati. Stabilito quindi che l’Europa sul punto si è abbondantemente pronunciata, abbiamo deciso di presentare un progetto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sviluppato su tre livelli: 1) un approccio conoscitivo verso la comunità islamica; 2) un successivo percorso di ricerca sui detenuti per cogliere eventuali indicatori di rischio e sulla comunità islamica per sondare il livello di percezione del problema e la disponibilità a collaborare; 3) l’individuazione di guide spirituali che possano entrare in carcere cui rivolgere un percorso formativo ad hoc. Il progetto è partito, e i primi risultati della ricerca finalizzata sono stati presentati al recente congresso nazionale della Società Italiana di Criminologia, tenutosi a Firenze nei giorni scorsi. Sono stati raccolti e validati poco meno di 70 questionari. Le nazionalità coinvolte per la maggior parte riguardano Paesi nord africani e il Pakistan mentre la lingua maggiormente utilizzata dagli intervistati è l’arabo (55%). La scolarità è piuttosto elevata (per quasi un 20% a livello di Laurea) e il tempo di permanenza in Italia al momento dell’intervista è piuttosto prolungato (oltre il 55% delle risposte riferiscono tempi da 11 a 20 anni) a testimonianza di una situazione decisamente sedimentata. Il 36% di coloro che hanno risposto ha una famiglia residente in Italia e ben il 92% risponde di praticare la fede islamica, a fronte di un 80% circa che dichiara di provenire da una famiglia di religione mussulmana. Il 66% degli intervistati dichiara di avere o aver avuto un lavoro stabile, e anche questo è un dato che testimonia una situazione piuttosto lontana dall’idea di precarietà che spesso accompagna le valutazioni nei confronti degli stranieri presenti nel nostro territorio. Sono poi stati rilevati numerosi dati riguardanti la riferita auto-percezione delle persone intervistate rispetto a problematiche di integrazione o discriminazione vissute nel contesto ove le stesse hanno trovato dimora. La parte finale del questionario concerneva gli elementi più direttamente connessi con il problema carcere e rischi radicalizzazione; si evince da essa come il 40% degli intervistati dichiari di conoscere effettivamente qualcuno che è o è stato in carcere e ben il 75% delle risposte converge sull’idea che queste persone in carcere necessitino di idoneo supporto religioso. L’ultima domanda ha inteso indagare la disponibilità a porsi personalmente in campo per aiutare queste conoscenze ristrette in carcere e il dichiarato valore del supporto affermato come necessario, in modo molto interessante e certamente legato al modo di intendere il castigo nella cultura islamica, si scinde in due sotto-valori, 45% che risponde incondizionatamente si e il restante 30% che risponde con un prudente "dipende", al quale la relazione instauratosi grazie alla intervista somministrata consente di attribuire un valore di distinguo non solo relativo alle concrete possibilità di aiuto, ma anche al tipo di reato commesso; alcuni reati, infatti sono letti come di particolare offesa non solo alla norma ma anche alla professione di fede e come tali, faticano a superare la barriera della disponibilità a farsi carico dei percorsi di reinserimento. Per quanto riguarda invece primi risultati della sinergia con la comunità islamica locale, si inquadra in questa cornice una iniziativa culturale riguardante la trattazione, gestita congiuntamente, del rapporto fra Pena e Giustizia, realizzata a Brescia nelle scorse settimane. Anche i nominativi delle guide spirituali sono stati individuati ed è ora in corso la fase di confronto e formazione, finalizzata alla creazione di persone che portino in carcere un supporto religioso idoneo e costruttivo e possano erigere argini culturali ai tentativi di orientare gli insegnamenti religiosi verso l’estremismo radicale, intransigente e violento. In fase di svolgimento è invece la ricerca sullo studio di alcune caratteristiche personologiche e relazionali dei detenuti islamici, avviata in collaborazione con la Università degli Studi di Milano e finalizzata alla prospettiva di cogliere eventuali indicatori di rischio radicalizzazione. Vale infine la pena specificare che non abbiamo atteso alcun finanziamento per attivarci, poiché la comprensione della posta in gioco e la voglia di fare qualcosa per il bene della nostra comunità supera di gran lunga qualsiasi ostacolo. Naturalmente quando si ha chiaro il concetto di bene per la comunità. Cremona: detenuti cucinano prodotti bio coltivati da migranti e disabili psichici di Anna Spena Vita, 11 novembre 2016 A Cremona nasce un nuovo progetto di filiera solidale a Chilometro Zero che sarà presentato nel salone "il BonTà" dall’11 a 14 novembre. A realizzarlo la Cooperativa Nazareth e la Casa Circondariale di Cremona. Questo è un progetto di filiera sociale a Chilometro Zero. Immaginate di mettere insieme tutte quelle persone che agli occhi dei più potrebbero sembrare "gli scarti della società". Loro che, invece scarti non sono, insieme producono capolavori di bontà. L’azienda agricola è quella della Cooperativa Nazareth a Persico Dosimo, siamo alle porte di Cremona. I migranti insieme a disabili psichici coltivano ortaggi biologici che poi vengono trasformati in salse e conserve dai detenuti-chef della casa circondariale cittadina di Cà del Ferro. Questo format "dalla terra alla tavola" sarà presentato domenica 13 novembre alle 14.30 a Cremona Fiere nell’ambito della 13esima edizione de il BonTà, Salone delle eccellenze enogastronomiche artigianali e delle attrezzature professionali. I prodotti biologici, però, sono solo il risultato di un percorso molto più ampio fatto di accompagnamento all’autonomia di minori stranieri e persone con fragilità che camminano di pari passo insieme all’attività di formazione e riabilitazione sociale e lavorativa "I Buoni di Cà del Ferro" che si svolge all’interno del laboratorio di trasformazione agroalimentare ricavato di recente nella casa circondariale di Cremona. "L’obiettivo è non solo offrire un nuovo approccio al lavoro e alla socializzazione, ma anche creare concrete opportunità lavorative", racconta Giusy Brignoli, tra i responsabili della Cooperativa Nazareth. "I prodotti, sia freschi sia trasformati, sono biologici certificati; inoltre, le persone che lavorano, anche se toccate da uno "svantaggio" di tipo sociale o fisico, vengono valorizzate nel loro saper fare liberando creatività ed energie". "Come operatori penitenziari", aggiunge la direttrice di Cà del Ferro Maria Gabriella Lusi, "siamo convinti che il nostro lavoro possa essere efficace se riusciamo a guardare "dentro" la persona detenuta e, ad un tempo, a tutto ciò che la circonda. La società è nei nostri primari interessi perché attraverso processi rieducativi miriamo a restituire alla libertà persone non più portate a delinquere... magari perché hanno acquisito una competenza professionale in carcere da spendere dopo la pena, come nel nostro caso; magari perché, con la partecipazione del detenuto, il carcere ha saputo creare con il territorio il ponte di un efficace reinserimento". Sala Consilina (Sa): riapertura del carcere, il Sottosegretario Migliore frena ed è polemica La Città di Salerno, 11 novembre 2016 La riapertura del carcere di Sala Consilina, malgrado la sentenza del Tar che, un mese fa, ha annullato il provvedimento di chiusura del Ministero della Giustizia, è sempre più un miraggio. A spegnere gli entusiasmi ci ha pensato, a Teggiano, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore durante un convegno sullo stato di salute delle carceri e dei detenuti in Italia. Migliore ha fatto capire chiaramente che il Dicastero di via Arenula ricorrerà al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar; e ha aggiunto anche che questo potrebbe non accadere se il Comune di Sala Consilina dovesse decidere di rinunciare alle sue pretese. Parole che sono state interpretate come una chiusura a qualsiasi possibilità di poter far tornare a Sala la casa circondariale, azzerando le possibilità di poter avere i fondi per costruire il nuovo carcere da 200 posti. Non la pensa così invece il presidente del tribunale di Lagonegro, Matteo Claudio Zarrella, che ha criticato la scelta di chiudere la casa circondariale di Sala. "Si viola il principio della territorialità - ha sottolineato il magistrato - e si violano i diritti dei detenuti. Sono esseri umani e hanno dei diritti che vanno rispettati ed è impensabile che in tutto il circondario del tribunale di Lagonegro non ci sia un carcere". Le parole di Migliore hanno scatenato l’ira del sindaco di Sala, Francesco Cavallone, che ha definito "vergognoso" il modo in cui è stata trattata la questione. "Nel mio partito, il Pd - ha tuonato Cavallone - di democratico c’è solo il nome. A questo punto voterò No al referendum". Verona: i detenuti sfornano pane, pizze e dolci per settanta scuole L’Arena di Verona, 11 novembre 2016 Detenuti con le mani in pasta, alle prese con pizzette, panettoni e panini, ma anche con un nuovo stile di vita, improntato al lavoro, alla fatica e al sacrificio. In quest’ottica, ieri, è stata rinnovata per il secondo anno la collaborazione tra Agec, il carcere di Montorio e la cooperativa Vita, che ogni giorno porta nelle mense delle scuole veronesi circa due quintali di pane, prodotto dai detenuti inseriti nel progetto "Oltre il forno". "Inizialmente avevamo iniziato questa attività, coinvolgendo i detenuti nella preparazione di prodotti da forno per lo spaccio del carcere, oltre che per la realizzazione di colombe e panettoni durante le festività natalizie e pasquali", raccontano Giorgio Roveggia, presidente della cooperativa Vita, e la coordinatrice del progetto Dannia Pavan. "Dall’anno scorso abbiamo iniziato a fornire anche il pane a una settantina di scuole veronesi, grazie alla collaborazione con Agec, e ora questo progetto è stato rinnovato". Una scelta che, secondo il direttore di Agec Maria Cristina Motta, ha portato vantaggi a livello economico e anche qualitativo. "Una volta accertata la qualità di un prodotto, credo che gli enti pubblici debbano cercare di favorire le iniziative a sostegno di persone disagiate", sostiene la Motta. "L’Agec, inoltre, ha avuto riscontri positivi anche sotto il profilo del risparmio economico e della qualità, perché i prodotti sono ottimi". Ma a trarne beneficio sono anche gli stessi detenuti coinvolti nel progetto, attualmente cinque. "L’iniziativa garantisce loro competenze, perché per lavorare in panificio vengono ovviamente formati", spiega Margherita Forestan, la garante dei diritti dei detenuti, affiancata dalla direttrice del carcere di Montorio Maria Grazia Bregoli e dall’assessore alle Politiche sociali Anna Leso. "Inoltre, si vuole proporre a queste persone un modello di vita normale, fatto di lavoro, orari, fatica e responsabilità, in modo da poterle gradualmente reinserire nella società". Benevento: "Streghe in luce", detenuti costruiranno i pannelli luminosi ottopagine.it, 11 novembre 2016 Anche i detenuti della Casa circondariale di Benevento parteciperanno all’iniziativa "Streghe in luce" attraverso la costruzione di alcuni pannelli di illuminazione che riprodurranno i disegni realizzati nei giorni scorsi dai bambini delle scuole cittadine. La direttrice del carcere, Maria Luisa Palma, ha infatti accolto favorevolmente l’invito a coinvolgere i detenuti nella realizzazione dell’iniziativa natalizia formulatogli stamani dal sindaco, Clemente Mastella, nel corso di un incontro che si è tenuto presso l’istituto penitenziario di contrada Capodimonte e a cui ha partecipato anche il direttore artistico della manifestazione, Filippo Cannata. "Si tratta di un ulteriore passo in avanti nel rapporto di collaborazione che si è instaurato nelle scorse settimane tra il Comune e la Casa circondariale di Benevento attraverso la firma del protocollo d’intesa che consentirà l’utilizzo di cinque detenuti nella manutenzione del verde e nella catalogazione degli atti dell’archivio - ha dichiarato il sindaco Mastella -. L’intesa odierna va nella direzione di un sempre maggiore coinvolgimento nella vita cittadina delle varie realtà esistenti sul territorio e ci consente di contribuire in qualche misura all’attuazione della funzione rieducativa della pena, che resta uno dei capisaldi del nostro ordinamento". Molto soddisfatta per il coinvolgimento anche la direttrice della casa circondariale, Maria Luisa Palma: "Siamo ben lieti di partecipare all’iniziativa, soprattutto per la valenza complessiva del progetto che, attraverso il coinvolgimento dei bambini, contribuirà senz’altro a rendere più allegro e vivace il Natale a Benevento. In questo modo, i detenuti coinvolti nella realizzazione dei pannelli non si sentiranno esclusi dalla città che li ospita e potranno anche utilizzare la competenze e le abilità acquisite durante la detenzione". Particolarmente entusiasta della collaborazione con l’istituto carcerario anche il direttore artistico di "Streghe in luce", Filippo Cannata, che attraverso il suo staff fornirà il tutoraggio ai detenuti impegnati nell’allestimento dei pannelli: "Dopo i bambini, coinvolgeremo anche i detenuti. Una scelta che mi rende particolarmente felice perché il Natale è coinvolgimento sociale. E in questa direzione va anche la scelta di far partecipare i figli degli immigrati nella realizzazione del presepe che allestiremo sotto all’Arco di Traiano". Novara: i detenuti ripuliscono l’area verde dell’asilo nido "Girotondo" novaratoday.it, 11 novembre 2016 Nuovo intervento nell’ambito delle Giornate del patrimonio ambientale. Ripulito anche l’attiguo parco pubblico di via delle Rosette. Ripulita e sistemata anche l’area verde dell’asilo nido comunale "Girotondo" di via Redi. L’intervento è stato svolto, nella giornata di mercoledì, dal personale Assa con i detenuti usciti in permesso premio dalla Casa circondariale di via Sforzesca per prestare la loro attività volontaria nell’ambito delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale. I detenuti erano accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria, che hanno garantito lo svolgimento dell’iniziativa in completa sicurezza. I detenuti hanno pulito dai rifiuti e raccolto le foglie nel giardino dell’asilo "Girotondo" e anche nell’attiguo parco pubblico di via delle Rosette, angolo via Redi; hanno inoltre provveduto ai necessari interventi di manutenzione alle attrezzature ludiche e alla recinzione. Nello specifico sono stati trattati e impregnati gli arredi, le parti in legno dei giochi e la recinzione perimetrale ripristinata laddove mancante, sono stati ricementati i cordoli, è stata fatta la manutenzione della vegetazione, in particolare mondatura e potatura delle siepe, sono stati sistemati buche e avvallamenti presenti in particolare nel parco pubblico ed è stato ripristinato il lastricato che è di accesso sia al nido "Girotondo" sia alla scuola primaria "Thouar". L’intervento rientrava nel protocollo triennale sottoscritto da Comune di Novara, Casa circondariale, Magistratura di sorveglianza, Uepe Ufficio esecuzioni penali esterne, Atc e Assa. Treviso: "Il nostro digiuno per i poveri", il Giubileo dei detenuti trevigiani lavitadelpopolo.it, 11 novembre 2016 I detenuti della Casa circondariale di Treviso, non potendo partecipare al giubileo a Roma con papa Francesco, hanno destinato i propri pasti alla mensa della Caritas. La lettera inviata al nostro giornale. Un gesto di solidarietà che li ha uniti idealmente al Giubileo che in tanti stavano vivendo in quelle ore a Roma, con papa Francesco. E così i detenuti della Casa circondariale di Treviso, non potendo partecipare direttamente all’incontro in San Pietro, hanno scelto di digiunare nelle due giornate del 5 e 6 novembre, destinando i propri pasti alla mensa della Caritas tarvisina. Un gesto bello e profondo, nello spirito del Giubileo della Misericordia, che hanno voluto spiegare con una lettera esclusiva al nostro settimanale. Eccola: "In occasione del Giubileo dei detenuti del 5 e 6 novembre, nel quale il Papa ha celebrato una funzione religiosa in San Pietro a favore dei detenuti ristretti negli Istituti di pena italiani, noi detenuti della Casa circondariale Santa Bona di Treviso abbiamo aderito all’evento digiunando in queste giornate. Tutto il cibo che normalmente era distribuito è stato donato alla Caritas diocesana di Treviso affinché provveda alla distribuzione alle persone bisognose. Domenica 6 novembre, inoltre, è stata celebrata una messa presso la cappella del carcere assieme ad un gruppo numeroso di persone di alcune parrocchie del circondario di Treviso, per estendere questa giornata anche a persone che non sono vicine quotidianamente alla nostra situazione, ma che hanno dimostrato sensibilità verso questa realtà poco conosciuta e circondata di pregiudizi che, se non vengono abbattuti, non ci aiutano a tornare persone normali agli occhi del mondo intero. È stata fatta, inoltre, una petizione tra la popolazione detenuta per sensibilizzare gli organi istituzionali competenti in merito al problema della condizione di vita carceraria, inviandola al ministro di Grazia e Giustizia Orlando e a sua Santità, papa Francesco. Ci auguriamo che questa nostra iniziativa sia resa pubblica al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica, in quest’anno del Giubileo della Misericordia, verso le persone che normalmente non sono in primo piano quando la loro vita è oscurata dai muri che circondano questi istituti di pena e che ledono la dignità umana". Pesaro: il silenzio assordante del carcere di Villa Fastiggi di Pierpaolo Belluci ilfoglio.it, 11 novembre 2016 Lo scorso 6 novembre Papa Francesco ha celebrato il Giubileo dei Detenuti. Basilica di San Pietro piena, ministro Orlando presente, pullman e pulmini da tutta Italia, con delegazione australiana e, ovviamente, 17 persone anche da Pesaro. Bella esperienza, belle parole del Santo Padre. Articoli, foto, tanti like sui profili Facebook, ma se ci pensiamo bene, quando si parla di carcere a Pesaro? Quando scoppia qualche lite tra compagni di cella, oppure, di recente, perché le guardie hanno protestato per il vitto di scarsa qualità. E basta. Per la verità, talvolta si annuncia, con articoli minuscoli, uno spettacolo teatrale realizzato da qualche associazione di volontariato. A Natale l’atrio del Comune ospita il presepe fatto dai detenuti. L’arcivescovo celebra la santa messa a Natale e Pasqua, delegando cappellano, catechisti e Caritas per l’attività ordinaria. Il sindaco delega l’assessore ai Servizi sociali per imbastire qualche progetto di reinserimento lavorativo. Ma è poca cosa rispetto alla vastità del tema penitenziario, che spazia dalle condizioni delle celle alle attività pedagogiche di reinserimento, per finire col dibattito legato alla riforma del sistema della giustizia. Rimanendo concentrati sul caso Pesaro, poniamo un esempio: perché solo di rado - e solo nelle parrocchie - si fanno raccolte di vestiario e generi di prima necessità per i detenuti? Perché non è mai stata fatta una campagna di raccolta fondi per i carcerati privi di rete familiare? Perché non ci si interroga sul legame che la città di Pesaro potrebbe avere con il carcere di Villa Fastiggi? Del resto molti ospiti della "Villa" sono nostri concittadini, alcuni per nascita, molti altri per adozione. Regolarmente residenti a Pesaro, in strada di Fontesecco 88. Sarebbe bello creare una rete di volontariato, supportato da qualche euro di matrice istituzionale, capace di occuparsi del reinserimento sociale degli ex detenuti, che una volta riassaporata la libertà, assistono molto spesso a decine di porte sbattute in faccia. Per la verità c’è chi fa tanto, ma purtroppo nell’ombra, non per timidezza o ritrosia, ma probabilmente per assenza di interesse mediatico. Un esempio? La Curia attraverso il servizio di cappellania (affidata ai francescani conventuali) che spesso va ben oltre il servizio religioso. La Caritas, ponte tra "dentro" e "fuori". L’associazione Isaia, oppure Bracciaperte, ma anche confessioni extra-cattoliche come i Testimoni di Geova. Senza dimenticare la Cooperativa T41, che in questi anni ha dato lavoro a centinaia di detenuti. Ma serve ben altro per rendere il carcere di Pesaro - che certamente è uno dei migliori delle Marche - un luogo di eccellenza, sull’esempio di Bollate, Opera, Perugia e pochi altri. Allora lanciamo un appello: cari circoli culturali e filantropici pesaresi (non facciamo nomi), perché il prossimo progetto benefico non lo tratteggiamo "a quadretti" o "a quattro sbarre"? Milano: al Pirellone il messaggio di speranza del film sul carcere di Opera di Raffaele Cattaneo varesenews.it, 11 novembre 2016 Martedì 20 dicembre alle 21 all’auditorium Gaber di Palazzo Pirelli sarà proiettato il film "Spes contra spem. Liberi dentro" del regista Ambrogio Crespi. Il Pirellone è vicino alla condizione dei detenuti: anche in Consiglio regionale, come avverrà il prossimo 14 novembre alla Camera dei Deputati, verrà proiettato il docu-film realizzato da Ambrogio Crespi "Spes contra Spem. Liberi dentro" girato all’interno della casa circondariale milanese di Opera. Lo comunica il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Raffaele Cattaneo che ieri sera ha partecipato a Roma all’auditorium di via della Conciliazione allo spettacolo "Figliol Prodigo. Musical per il Giubileo del carcerato" interpretato dai detenuti di alta sicurezza della casa di reclusione di Opera. "Raccogliendo le parole del Papa che proprio pochi giorni fa in occasione del Giubileo dei carcerati ha invitato tutti, e in particolare le istituzioni, ad una maggiore sensibilizzazione sulla situazione degli uomini e delle donne che vivono la condizione della detenzione, vogliamo dare la possibilità di vedere attraverso l’intensità delle immagini e dei racconti di questo toccante film, quante e quali storie si celano dietro le sbarre - ha detto Cattaneo - Il nostro Consiglio regionale ha istituito la Commissione speciale carceri che dall’inizio di questa legislatura ha effettuato già più di 30 sopralluoghi. Ora, con la proiezione di questo film, vuole testimoniare che il modello Opera funziona perché si può e si deve lavorare per il recupero dei detenuti e per ridare al carcere il ruolo di salvaguardia della dignità dei detenuti". "Le istituzioni non girino la testa dall’altra parte - è l’invito di Cattaneo - in carcere si può iniziare un percorso alla fine del quale si aprono le porte per il reinserimento nella società". La serata, aperta alla partecipazione di tutti i cittadini interessati, si svolgerà martedì 20 dicembre alle ore 21 presso l’auditorium Gaber di Palazzo Pirelli. Durante l’iniziativa - che vedrà la partecipazione del regista Ambrogio Crespi, del direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano e dei consiglieri regionali - sarà proiettato il docu-film della durata di 70 minuti. Il film, incentrato sul tema del "fine pena mai", è stato girato in collaborazione con la Polizia penitenziaria ed è prodotto dall’associazione "Nessuno tocchi Caino" e da Index Way- I protagonisti sono uomini condannati all’ergastolo ostativo, non attori, ma persone che raccontano la loro vita, e si arricchisce di numerose testimonianze di giudici e di addetti ai lavori. La serata è aperta a tutti. Pisa: "Gabbie", un’antologia realizzata da scrittori e carcerati di Sara Ficocelli La Repubblica, 11 novembre 2016 C’è anche Stefano Benni tra gli autori di "Gabbie", l’antologia realizzata da scrittori e carcerati del Don Bosco. Presentazione in anteprima l’11 novembre alle 14 al Pisa Book Festival. Chi non è mai entrato in carcere non può comprendere l’intensità della sofferenza dei detenuti: sono sensazioni dolorose e vivissime, difficili da descrivere a parole, a meno di non usarle attraverso la scrittura. Per dare forma al senso di alienazione che caratterizza la vita in prigione e al tempo stesso restituire voce e dignità ai suoi protagonisti, la casa editrice pisana MdS da due anni porta avanti all’interno della casa circondariale Don Bosco un progetto importante, organizzando corsi di scrittura con detenuti e personalità del mondo accademico, del giornalismo e della politica. "Dimenticare chi rimane dentro è impossibile". I frutti di questo percorso di collaborazione l’anno scorso hanno dato vita al libro "Favolare" e quest’anno a un altro testo toccante dal titolo emblematico - "Gabbie" - alla cui realizzazione ha collaborato anche lo scrittore Stefano Benni. "La visita in carcere - spiega Sara Ferraioli, presidente di MdS - per noi che parliamo di libri (e non dimentichiamo che questa parola ha la stessa radice di "libertà") è scandita da quelle chiavi enormi che aprono e chiudono sempre le stesse porte, dal tempo che si misura per la sua qualità ed intensità, non avendo nessuno, lì dentro, pronto ad ascoltare o accudire. In carcere, ad esempio, manca il telefono, strumento col quale tutti noi oggi siamo connessi col mondo. Da quel luogo si può uscire, ma dimenticare chi rimane dentro è impossibile. Ringrazio in particolare Stefano Benni, che ci ha donato un racconto scritto con la maestria che gli conosciamo e caratterizzato dal suo sguardo ironico e buono sul mondo". Se la gabbia è dentro di noi. Il progetto finale chiede al lettore di riflettere sul concetto di "Gabbia", intesa non solo come momento coercitivo della libertà personale ma come paura e falsa coscienza di sé e del mondo. "La gabbia più insidiosa del nostro tempo - spiega in una nota il professor Pierantonio Pardi - sta dentro di noi: è la smodata voglia di apparire, di esserci, di mostrarsi nei social media, come rimedio a un destino di solitudine prodotto dalla percezione della propria irrilevanza". La deontologia, l’etica e la forza delle immagini. "Con i detenuti - continua la giornalista Antonia Casini, una delle anime del progetto - siamo partiti dalla lettura del quotidiano, parlando poi della differenza con i nuovi media e dell’interazione tra carta stampata e internet. Essendo i detenuti spesso protagonisti di articoli di giornale, abbiamo parlato di deontologia ed etica, e della forza delle immagini, discutendo, ad esempio, del caso del bimbo turco Aylan e sullo scatto choc del suo corpo senza vita pubblicato da molti giornali in prima pagina. Ci siamo anche soffermati molto sul linguaggio da usare, e su come essere sintetici, precisi, semplici ma non banali. Una parte molto significativa del lavoro sono state le esercitazioni, durante le quali detenuti e autori si sono intervistati a vicenda e hanno provato a scrivere articoli e racconti partendo da spunti reali o da una semplice immagine". La poesia dei racconti illustrati. I disegni di Michele Bulzomì, realizzati a china o con la semplice penna a sfera, non solo illustrano i racconti ma interpretano con rara sensibilità il senso di straniamento e angoscia che emerge da quest’opera corale. "Ho lasciato parlare sentimenti ed emozioni che sono scaturiti dalla lettura dei racconti e dalle frequenti visite in carcere, e alla fine di questo percorso sono riuscito a illustrare, mio malgrado, le anime dolenti di chi soffre: se è certo che queste persone stanno male per una ragione, è altrettanto vero che questa sofferenza non è meno autentica di quella delle loro vittime". Presentazione al Pisa Book Festival. Il libro verrà presentato in anteprima l’11 novembre alle 14 nella sala Enrico Fermi del Pisa Book Festival e i proventi saranno interamente devoluti al carcere Don Bosco. All’appuntamento - vista l’importanza del progetto - interverranno anche il sottosegretario al Ministero di Giustizia Cosimo Ferri, il direttore del carcere Don Bosco Fabio Prestopino, il Sindaco di Pisa Marco Filippeschi, e il garante dei detenuti per la città di Pisa, Alberto Di Martino. Durante la presentazione, stralci di racconti verranno letti dagli attori Daniela Bertini e Gianni La Rocca dell’associazione "Il Gabbiano". Con l’augurio che la parola - come il più noto Jonathan Livingston - voli sempre più in alto, in cerca di libertà. Ferrara: la Bondi Basket fa visita ai detenuti di Marco Pusinanti estense.com, 11 novembre 2016 Dopo la Spal, un altro vanto dello sport ferrarese ha fatto visita ai detenuti della casa circondariale di Ferrara "Costantino Satta": si tratta della Bondi Basket che, al gran completo, ha fatto visita alla popolazione detenuta. Ennesima iniziativa fortemente voluta dalla comandante Gadaleta e dal direttore Malato, in prima linea nel promuovere iniziative che favoriscano il contatto tra la popolazione esterna e quella dei detenuti, come dimostrano le parole proprio della comandante: "La cosa bella di questa iniziativa è che il carcere si sta aprendo molto. Via Arginone è una via della città e i detenuti sono quindi cittadini. Sono contenta dell’attenzione per il carcere perché tutti noi, detenuti e personale, viviamo qui. C’è un bellissimo contatto tra mondo esterno e mondo interno". All’evento erano presenti - oltre che a tutto lo staff della Bondi Basket, compreso il coach Trullo e il presidente Bulgarelli - anche il delegato provinciale del Coni Luciana Pareschi e l’assessore allo sport Simone Merli. Proprio quest’ultimo è stato ringraziato dal direttore Paolo Malato: "ringrazio Simone Merli perché grazie alla collaborazione delle istituzioni possiamo restituire persone a pieno titolo al mondo esterno" a cui l’assessore ha a sua volta risposto manifestando il suo pieno appoggio: "Ringrazio io voi che ci avete aiutato a portare qui dentro queste iniziative e ringrazio il mondo sportivo perché ha capito che il carcere non è un mondo al di fuori della città. L’obiettivo per chi sta qui è quello di essere persone migliori fuori ma se non si fa nulla qui è tutto inutile". Dopo i dovuti ringraziamenti a prendere la scena è la Bondi Basket, salita sul palco accompagnata dalle parole del presidente Bulgarelli: "per noi è un’opportunità essere qua perché fa bene ai detenuti ma fa bene anche a noi. Siamo felici di questa possibilità e spero questa giornata lasci un piacevole ricordo di svago". A prendere parola è poi il capitano del team, nonché ferrarese doc, Mattia Soloperto: "Vi ringrazio per averci coinvolto, è giusto dare una seconda possibilità a queste persone" a cui hanno fatto eco le parole dell’allenatore Trullo: "Sono contento del mio gruppo e lavoriamo insieme per raggiungere gli obiettivi, è la prima volta che entro in carcere ma sono pronto a tornare a fine stagione per sfidare una squadra di detenuti, magari giocherò anche io". Dopo queste parole, accolte con gli applausi dei detenuti presenti, sono state proiettate immagini e video degli high-lights delle partite disputate in questa stagione. Al termine della presentazione la parola è passata poi ai detenuti, i quali hanno rivolto alcune domande ai giocatori, domande non scontate, dalle quali è trasparita la consapevolezza dei propri errori ma anche la voglia di correggersi e migliorare, come sottolineato anche dal presidente Bulgarelli rispondendo ai detenuti: "Colgo il pentimento dalle vostre parole, sinceramente il carcere da ospiti non è un luogo così pauroso come viene descritto". Alla fine di questo scambio di battute, vero obiettivo sociale dell’evento, i giocatori hanno donato alla popolazione detenuta alcuni pantaloncini e canotte ufficiali della squadra e, come ricordo della visita e simbolo di vicinanza, i gagliardetti di rappresentanza alla casa circondariale. Ma le donazioni non si fermano qui, infatti, con la collaborazione dei propri sponsor, la squadra ha offerto un sostanzioso rinfresco a cui hanno partecipato tutti gli ospiti dell’evento. Per tornare invece al campionato, il derby contro la Fortitudo Bologna verrà anticipato a venerdì 25 novembre alle ore 20.30 con diretta nazionale sui canali di Sky Sport. "Encerrados", di Valerio Bispuri. Dietro le sbarre del Sud America in bianco e nero di Marco Martellini sanfrancescopatronoditalia.it, 11 novembre 2016 "Encerrados" di Valerio Bispuri è un ritratto forte, angosciante, drammaticamente realistico sulle condizioni di "vita" nelle carceri del Sud America. Un progetto fotografico durato 10 anni che ha portato l’autore nella realtà di 74 prigioni, da Buenos Aires a Caracas e poi in Cile, Perù, Colombia, Ecuador, Bolivia, Uruguay e Brasile. Ù Encerrados è un percorso nato dal desiderio di raccontare un continente attraverso il mondo dei detenuti; le foto di Valerio Bispuri, fotoreporter professionista che ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali, sono il riflesso della società, lo specchio di quello che succede nel Sud America: dai piccoli drammi alle piccole grandi crisi sociali ed economiche. Sfogliando il libro, un’immagine dopo l’altra, si ha una nuova concezione della prigione; assume i contorni di una comunità, un ambiente con ritmi e spazi precisi, un non-luogo ai limiti delle condizioni umane. Tutto questo si può osservare attraverso le sbarre di metallo, dietro le recinzioni, all’interno delle celle, nei corridoi oscuri e stretti. Osserviamo, in bianco e nero, i volti dei detenuti, i loro sguardi impersonano perfettamente la denuncia sociale messa in atto dal fotografo. Quella di Bispuri è stata un’avventura coraggiosa "nei reparti dove nemmeno le guardie entrano più". Ne è un esempio quanto entra nel padiglione numero 5 del carcere di Mendoza in Argentina, "Contrariamente al volere del direttore decisi di entrare, - racconta il fotografo - assumendomi tutte le responsabilità e non senza una buona dose di paura". Entra senza nessuno che lo accompagni. All’interno del Padiglione numero 5 ci sono novanta detenuti, tra i più pericolosi, nonostante ciò nessuno gli fa del male, anzi gli mostrano cosa fotografare e chiedono di raccontare cosa ha visto, le disumane condizioni in cui sono costretti a scontare la loro pena. Questa ed altre esperienze simili hanno permesso a Valerio di capire molte cose sulle regole di questo ambiente chiuso, le leggi che lo abitano; ha avuto la possibilità di vivere sulla propria pelle l’esperienza del carcere attraverso il contatto con migliaia di detenuti e di guardie, spinto sempre dal desiderio di raccontare. "Non dimentico l’urlo di un ragazzo di Como, dentro per spaccio di cocaina, - racconta Bispuri - che mi ha salvato la vita avvisandomi di uscire immediatamente perché era pronta per me una siringa di sangue infetto". "Encerrados non è un libro sulle prigioni; è un libro sulla libertà perduta, su una libertà mai avuta" scrive Roberto Saviano. "L’obiettivo di Bispuri era puntato sulla mancanza di libertà che spesso precede e segue la vita di chi finisce in prigione. La mancanza di libertà, e quindi di scelte, è ciò che ha condannato le migliaia di detenuti che Bispuri ha raccolto con il suo obiettivo". Encerrados è un reportage che si eleva a racconto universale. Fornisce una nuova visione sul mondo. "Ci obbliga - come scrive Luca Tortolini di Redattore Sociale - a guardare gli altri diversamente, nuovamente, come se stessimo guardando noi stessi per la prima volta". "Encerrados". Edizione Contrasto, pp. 143 costo 35,00 €. Droghe. In Portogallo 15 anni di depenalizzazione: meno morti, detenuti e malati di Hiv di Alessandro Oppes La Repubblica, 11 novembre 2016 Quando entrò in vigore, 15 anni fa, fu accolto con diffidenza e paura, ma il bilancio è positivo. In calo i consumatori di eroina e, ovviamente, i detenuti per reati legati alla tossicodipendenza. Il "modello portoghese" funziona. Quindici anni fa, la decisione del Parlamento di Lisbona (governavano i socialisti con maggioranza assoluta, premier Antonio Guterres, oggi segretario generale dell’Onu) di depenalizzare l’uso delle droghe provocò sconcerto nel mondo. Il consumo andrà alle stelle, profetizzavano gli scettici, la tossicodipendenza diventerà un fenomeno fuori controllo. E invece, niente di tutto questo. "A batalha foi ganha", la battaglia è stata vinta, esulta ora il quotidiano Público, facendo il bilancio di un’esperienza che in molti altri Paesi viene studiata con attenzione. Non solo non c’è stato un incremento dei consumatori, non solo è stato fugato il timore che Lisbona potesse trasformarsi nella capitale mondiale dei tossicodipendenti provenienti dai cinque continenti, ma i benefici sono stati nettamente superiori al temuto effetto negativo della nuova legge. Ad esempio il numero di morti per overdose: 22 nel 2013 (un migliaio in Germania, duemila nel Regno Unito), contro i 94 del 2008, mentre per il periodo precedente non esistono statistiche certe, ma la cifra era sicuramente superiore. E poi i dati sulle infezioni da Hiv associate alla tossicodipendenza: dalle 18.500 del 1983 alle 40 del 2014. Se inoltre, in linea con quanto avviene nel resto d’Europa, è aumentato il numero di consumatori di ecstasy e di altre droghe sintetiche, si è invece ridotta notevolmente - di circa il 70 per cento - la cifra dei dipendenti da eroina, che all’epoca dell’entrata in vigore della nuova norma era il peggiore flagello che colpisse il Portogallo. È il successo della politica di "riduzione dei danni e di reinserimento sociale", come la definisce João Goulão, direttore del Sicad, l’istituzione pubblica che lotta contro le tossicodipendenze. Al di là dei numeri, comunque confortanti, quello che conta è che i consumatori passano a essere considerati, da potenziali delinquenti, a persone che necessitano di essere trattate come malati. Il fatto che la legge depenalizzi l’uso e il possesso di dosi per consumo personale fino a un massimo di dieci giorni (15 grammi nel caso di cocaina o eroina, 20 grammi di cannabis), ha indotto molti tossicodipendenti - soprattutto gli eroinomani - a richiedere l’assistenza dei centri di riabilitazione. Per loro, una maggiore serenità nel presentarsi alle istituzioni specializzate senza il timore di subire misure repressive della polizia, per la società un passo avanti verso migliori condizioni per garantire la salute pubblica. Ovviamente, è caduta in picchiata anche la percentuale di popolazione carceraria condannata per reati legati alle droghe: dal 41 per cento del 2001 al 19 per cento del 2014. La maggior parte degli attuali detenuti deve rispondere di accuse di narcotraffico. Iraq. I soldati iracheni uccidono e torturano come l’Isis di Victor Castaldi Il Dubbio, 11 novembre 2016 La denuncia di Amnesty e Hrw: "Ripetuti abusi nell’offensiva su Mosul". Come l’Isis, o almeno molto vicini ai metodi feroci delle milizie di Abu Bakr al Baghdadi. Le forze irachene impegnate nella campagna di Mosul avrebbero ucciso e torturato civili a sud della città roccaforte dello Stato Islamico nel corso dell’offensiva militare per liberare la città dai jihadisti. L’accusa arriva dagli attivisti di Amnesty International, secondo i quali i cadaveri di "almeno sei" persone sospettate di legami con i jihadisti sono stati trovati a ottobre nei distretti di Shura e Qayyara. "Uomini con le divise della polizia federale - ha detto Lynn Maalouf, della sede di Amnesty a Beirut - hanno eseguito diverse uccisioni illegali, catturando e poi uccidendo deliberatamente a sangue freddo residenti di villaggi a sud di Mosul". L’ong riferisce inoltre di diversi episodi avvenuti intorno al 21 ottobre e spiega che diversi gruppi di uomini sono stati picchiati con cavi e con il calcio dei fucili prima di essere uccisi. In un caso, la vittima è stata decapitata. Per Amnesty, gli abusi potrebbero ripetersi in altre città e villaggi interessati dalla campagna di Mosul. Accuse analoghe sono arrivate dall’ong Human Rights Watch (Hrw), secondo la quale almeno 37 uomini sospettati di legami con l’Is sono stati catturati dalle forze irachene e curde presso checkpoint, villaggi, campi per sfollati e altri luoghi intorno a Mosul. I parenti delle persone catturate hanno denunciato di non conoscere il luogo in cui sono state portate e di non aver avuto la possibilità di contattarle. Per Hrw questi episodi "aumentano significativamente il rischio di altre violazioni nei confronti di prigionieri o semplici civili", tra cui la tortura. Iraq. Raqqa come Aleppo: gli Usa non sanno chi appoggiare di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 novembre 2016 Le recriminazioni anti-kurde di un gruppo arabo affiliato all’Esercito Libero apre a contraddizioni note e interessi particolari. In Iraq Amnesty accusa la polizia di abusi sui civili sunniti. L’operazione Ira dell’Eufrate su Raqqa registra le prime contraddizioni. Come a Mosul, anche nel nord della Siria settarismi e interessi particolari dettano l’avanzata. Ieri Liwa Thuwar Raqqa (piccolo gruppo arabo affiliato all’Esercito Libero Siriano, ma accusato di alleanza con al-Nusra nel 2013), oggi vicino alle Forze Democratiche Siriane (Sdf), avrebbe lasciato la controffensiva guidata dalle Ypg kurde. A monte, dice il leader dell’ufficio politico Hadi, il mancato accordo sull’ingresso nella città una volta liberata dall’Isis. Nessun commento dalle Sdf, ma attivisti parlano di una spaccatura interna alla milizia araba, tra pro e anti-Ypg, tra chi le sfrutta per portare avanti la lotta al presidente Assad e chi per entrare più facilmente a Raqqa. Liwa Thuwar Raqqa, dal curriculum non certo limpido, imputa agli Stati Uniti il cambio di strategia militare. Eppure sono stati proprio gli Usa, pochi giorni fa, a confortare la Turchia con cui il gruppo mantiene legami: saranno arabi sunniti (quindi le opposizioni) i primi ad entrare a Raqqa, la cui gestione sarebbe poi finita in mano a Washington e Ankara. Riemerge così il solito problema, che ad Aleppo ha la sua massima espressione: la legittimità e la natura dei gruppi presenti sul campo di battaglia, portatori di interessi che poco hanno a che fare con la lotta all’estremismo islamico. Così a Raqqa emergono anche le tensioni tra potenze globali e regionali: la Turchia insiste per escludere i kurdi, gli Usa li vogliono sfruttare al massimo, Mosca e Damasco fingono disinteresse ma non nascondono il fastidio per i punti segnati delle Ypg. Probabile che il cambio di presidente alla Casa Bianca rafforzerà contemporaneamente sia le istanze turche che russe, a scapito di Rojava: Trump, sebbene non sia chiara ancora la strategia che vorrà applicare in Medio Oriente, non nasconde l’apprezzamento per Erdogan e Putin, un possibile asse strapieno di contraddizioni, dal ruolo dell’Iran a quello dei "ribelli", dal futuro di Assad alle distanze tra Mosca e Ankara sulla Siria. Ma le tensioni esplodono anche nel vicino Iraq, ancora ostaggio degli spettri del passato. Stavolta nel mirino delle organizzazioni internazionali c’è la polizia, quando tutti avevano gli occhi puntati sulle milizie sciite perché non commettessero i crimini di Tikrit e Ramadi. A denunciare i casi di violenze sono stati Amnesty International e Human Rights Watch, secondo cui funzionari della polizia federale avrebbero ucciso almeno sei persone nelle aree di al-Shura e al-Qayyarah perché sospettate di legami con l’Isis. "Uomini che indossavano le uniformi della polizia federale hanno compiuto uccisioni illegali, arrestando e uccidendo a sangue freddo residenti dei villaggi a sud di Mosul", dice Lynn Maalouf, vice direttrice dell’Ufficio regionale di Amnesty a Beirut. Nel mirino ci sono anche i peshmerga di Erbil, accusati di almeno 37 arresti arbitrati nelle zone sunnite dove operano. La polizia rigetta le accuse, ma i dubbi restano. Il governo centrale non ha il controllo totale degli uomini sul campo, molti dei quali sciiti desiderosi di vendetta verso comunità che associano in automatico allo Stato Islamico. Se è vero che in alcuni casi residenti sunniti hanno ben accolto l’Isis (come ampie porzioni dell’ex partito Baath di Saddam) vedendolo come liberatore dall’egemonia sciita, gli anni di occupazione hanno ampliato a macchia d’olio il dissenso verso il "califfo". Francia. Nasce un movimento che chiede cabine elettorali nelle carceri di Beatrice Credi west-info.eu, 11 novembre 2016 Fino a oggi infatti su un totale di 68.500 detenuti, 50.000 hanno diritto di voto, ma in media solo il 3% lo esercita. Una scarsissima partecipazione alle urne che, secondo l’associazione Robin des Lois, è dovuta al farraginoso voto per corrispondenza imposto agli elettori che si trovano dietro le sbarre. Ecco perché, in vista delle presidenziale 2017, si chiede la creazione in ogni istituto penitenziario di un seggio vero e proprio con tanto di scrutatori. "Permettere ai carcerati di depositare una scheda dentro a un’urna è un modo per fare entrare lo Stato dentro le prigioni, avvicinarlo a chi le abita e rieducare alla cittadinanza", dicono gli animatori della proposta. Che, dopo aver fatto conoscere l’idea a livello istituzionale, hanno anche lanciato una petizione online per sensibilizzare l’opinione pubblica.