Soltanto 63 carceri su 193 non risultano sovraffollate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2016 Le situazioni peggiori a Brescia, Como, Vigevano, Bergamo e Chieti. Nonostante gli sforzi del ministro della Giustizia per migliorare lo stato generale degli istituti penitenziari la situazione attuale ancora presenta delle gravi criticità. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, siamo arrivati a 54.912 detenuti rispetto ad una capienza massima di 50.062. La radicale Rita Bernardini aveva già spiegato a Il Dubbio che "la percentuale in realtà è molto più ampia perché sono comprese nella conta dei posti regolamentari non solo gli ambienti non detentivi, ma anche le 4.000 celle dichiarate inagibili da una circolare del Dap". Solo 63 istituti su 193 rispettano la capienza prevista per legge. Delle cinque carceri con la situazione peggiore, quattro si trovano in Lombardia e uno in Abruzzo: in testa l’istituto di Brescia (92 per cento di sovraffollamento), seguito da Como, 71 per cento, Vigevano, 66 per cento, Bergamo, 63 per cento e Chieti con il 63 per cento. Peggio del nostro Paese c’è l’Ungheria al primo posto per sovraffollamento, seguito dalla Macedonia, Albania, Francia e Spagna. Una delle conseguenze del sovraffollamento è il suicidio. Ad oggi, secondo i dati messi a disposizione dalla redazione di Ristretti Orizzonti, siamo arrivati a 31 suicidi nel 2016, per un totale di oltre 86 morti. Dal 2000 ad oggi, sono deceduti 2580 detenuti tra i quali ben 919 sono suicidi. Allarme salute in cella - Altro problema riguarda le malattie all’interno degli istituti penitenziari. Il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno il 40 per cento una patologia psichiatrica. Altro dato preoccupante è la piaga dell’Aids. I nostri penitenziari sono delle vere e proprie bombe epidemiologiche. A rendere possibile un simile scenario - stando ai dati diffusi recentemente dalla Società italiana di medicina penitenziaria - è stato anche il divieto vigente in Italia di far entrare nelle strutture siringhe monouso (per il tatuaggio) e preservativi, che rappresenterebbero la prima barriera contro la diffusione delle infezioni. Solo nel corso del 2015, all’interno degli istituti penitenziari italiani, sono transitati quasi centomila detenuti. Sulla base di numerosi studi nazionali, si stima che cinquemila di essi fossero positivi al virus Hiv, 6500 portatori attivi del virus dell’epatite B e ben venticinquemila coloro che erano già venuti a contatto con l’agente che provoca l’epatite C. Un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano la terapia perché vengono trasferiti in altre carceri, ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Rimane comunque il dato oggettivo - specificato anche dalla relazione del ministero della Salute - che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. L’utilizzo delle celle lisce - Altro problema che incide sul mancato rispetto del dettame costituzionale che prevede il trattamento umano di chi sconta la pena, riguarda l’utilizzo delle cosiddette "celle lisce". Su Il Dubbio, dopo aver messo in luce il pestaggio che sarebbe avvenuto al carcere piemontese di Ivrea, è emerso che in quell’istituto avrebbero fatto ricorso più volte ad una cella per isolare i detenuti e maltrattarli. In realtà non è un caso isolato. Molti penitenziari ne fanno uso. Si chiama "cella liscia" perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso risulta anche deleterio visto che non sono mancati casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Anche il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma si è occupato di questa realtà, tanto da aver raccomandato alle autorità del Dap di emanare "una chiara indicazione normativa secondaria (direttiva, circolare) al fine di chiarire che le celle lisce nel reparti detentivi, quali luoghi dove alloggiare per periodi temporali superiori a pochi minuti, detenuti in crisi di agitazione potenzialmente etero o auto lesivi, sono inaccettabili e devono essere chiuse". Il 41 bis e l’ergastolo ostativo - Nonostante gli sforzi della commissione parlamentare presieduta dal senatore Luigi Manconi, in Parlamento ancora non si è aperto nessun dibattito per migliorare le condizioni del 41 bis. Secondo diversi studi, la frequenza di suicidi tra i detenuti al 41-bis è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa. Ma si può morire facilmente anche a causa del ritardo nel diagnosticare, nonostante i sintomi, grave patologie. Uno degli ultimi casi riguarda Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, morto l’anno scorso per un cancro ai polmoni scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa ed una metastasi al fegato. La moglie e i figli l’avevano visto l’ultima volta venti giorni prima che morisse, ma attraverso un vetro divisore e quindi senza nessuna possibilità di contatto. Il 41 bis è un sistema di carcerazione speciale che prevede un isolamento per 22 ore al giorno, un solo colloquio al mese con i familiari dietro un vetro, divieto assoluto di ricevere libri e quasi nessun rapporto sociale con altri detenuti. Il senatore Luigi Manconi ha più volte spiegato che il 41 bis in realtà non dovrebbe essere un carcere duro. Il suo scopo dovrebbe essere uno solo: quello di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna. "Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono legittime ? ha più volte sintetizzato Manconi - ma non quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena". Stesso problema riguarda l’ergastolo ostativo (ergastolo a vita ai condannati che non hanno collaborato con la giustizia) messo in discussione anche dai lavori dagli stati generali per la riforma dell’esecuzione penale in Italia. In particolare si denuncia la mancata applicazione dei benefici penitenziari per i condannati per delitti di mafia (4-bis). La proposta uscita dai lavori è quella, appunto, di estendere i benefici anche a chi commette tali reati anche in assenza di collaborazione effettiva e sempre che risulti l’assenza di collegamenti attuali del soggetto con la criminalità organizzata o eversiva. Se la proposta fosse accolta, vi sarebbero effetti anche agli ergastolani ostativi, la cui attuale strutturazione, implicando l’impossibilità di accedere a qualunque beneficio rieducativo esterno, si espone a dubbi di costituzionalità e pare contrastare con i principi elaborati dalla giurisprudenza europea. Audizione in Senato del Garante nazionale dei detenuti Palma: criticità in celle e hotspot Il Dubbio, 10 novembre 2016 Dalle visite ai luoghi di privazione della libertà al monitoraggio dei rimpatri forzati sono i temi dell’audizione del Garante nazionale per i diritti dei detenuti davanti alla Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato. Da marzo, quando l’authority è diventata operativo, sono state fatte 5 visite in ambito regionale (14 istituti di pena per adulti, 17 camere di sicurezza delle forze di polizia, 2 istituti di pena per minorenni, 1 comunità di accoglienza per minori in custodia cautelare). Effettuati inoltre il monitoraggio di 4 voli charter di rimpatrio forzato di migranti (2 coordinati da Frontex e 2 dall’Italia) e di un volo commerciale, la visita a 2 hotspot e a 2 Cie, a 14 istituti di pena per adulti e al centro della Croce Rossa per i migranti nel Parco Roja di Ventimiglia. Rispondendo alle domande del senatore Luigi Manconi il presidente dell’autorità garante, Mauro Palma, con Daniela de Robert ed Emilia Rossi membri del Collegio, "ha illustrato - si legge in un comunicato - alcune delle principali criticità finora emerse: dalla gestione della salute, con particolare riferimento alla salute mentale, negli istituti penitenziari, alla mancanza di chiarezza normativa sulla privazione della libertà che di fatto viene esercitata negli hotspot, alla necessità di rafforzare e supportare il controllo da parte della magistratura di sorveglianza, al diritto non sempre pienamente garantito a comprendere dove si è e quali sono i propri diritti sia nei centri per i migranti che negli istituti di detenzione". Nei primi mesi del 2017 il Garante Nazionale, al termine del primo anno del suo mandato, presenterà una relazione al Parlamento relativa alle proprie attività, alle buone pratiche individuate, alle criticità e le possibili soluzioni. Il resoconto sommario dell’audizione (da www.senato.it) Audizione dei componenti del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, professor Mauro Palma, Presidente, avvocato Emilia Rossi e dottoressa Daniela De Robert, componenti. Il presidente Manconi sottolinea l’importanza dell’istituzione del Garante nazionale e ricorda la notevole esperienza professionale dei tre componenti del collegio. Il professor Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ripercorre le tappe dell’istituzione dell’organo di garanzia, che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dagli istituti di pena, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), ai trattamenti sanitari obbligatori. È stato istituito dal decreto-legge n. 146 del 2013, convertito, con modificazione, dalla legge n. 10 del 21 febbraio 2014, mentre il decreto ministeriale n. 36 dell’11 marzo 2015 ha definito il regolamento sulla struttura e la composizione dell’Ufficio. Ha avviato la sua attività tra febbraio e marzo 2016 ed è prevista per il mese di marzo 2017 la prima relazione annuale al Parlamento. È costituito in collegio, con due componenti e un presidente, i quali restano in carica per cinque anni non prorogabili. Essi sono scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari. Alle dipendenze del Garante nazionale, che si avvale delle strutture e delle risorse messe a disposizione dal Ministro della giustizia, è istituito un ufficio composto da personale dello stesso Ministero e in parte del Ministero dell’interno, scelto in funzione delle conoscenze acquisite negli ambiti di competenza del Garante. Sul piano internazionale è organismo di monitoraggio indipendente, come richiesto agli stati aderenti al Protocollo opzionale per la prevenzione della tortura (Opcat). Tale protocollo, infatti, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2002, prevede l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone sono private della libertà, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti ed è stato ratificato dall’Italia nel 2012. Nel 2014 il Garante nazionale è stato designato come organismo NPM (National Preventive Mechanisms). Inoltre il Garante nazionale ha il compito di monitorare le procedure relative ai rimpatri forzati ai sensi dell’articolo 8, comma 6 della Direttiva 2008/115/UE secondo il quale "Gli Stati membri prevedono un sistema di monitoraggio efficace dei rimpatri forzati". Nel 2014 la Commissione aveva avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia perché inadempiente rispetto a questa previsione. Di conseguenza è stato assegnato al Garante il compito di monitorare i rimpatri degli stranieri irregolari. Nell’ambito di questa attività, il monitoraggio del Garante riguarda anche la fase di trasferimento e pre-imbarco, la fase relativa al trattenimento del cittadino presso le strutture di detenzione amministrativa, le iniziative intraprese per preparare il ritorno del cittadino nel paese di provenienza, le procedure di selezione e di addestramento delle scorte. L’attività si connette ad altre aree di intervento nel settore dei migranti privati della libertà, come il monitoraggio di Cie e hotspot, o le sale attesa e transiti dei principali aeroporti italiani. I voli con cui vengono effettuati i rimpatri possono essere commerciali o charter e questi ultimi gestiti dall’Italia direttamente o dall’agenzia europea Frontex. L’intervento del garante è mirato a controllare l’eventuale presenza tra le persone da rimpatriare di minori, di donne vittime di tratta o di richiedenti asilo, alla formazione del personale di scorta delle forze dell’ordine o al monitoraggio del volo e della consegna delle persone alle autorità competenti del paese di destinazione. Per quanto riguarda il carcere, il Garante ha il compito di coordinare i diversi garanti regionali e di redigere delle linee guida per chi opera a livello locale. Vengono inoltre effettuate delle visite di monitoraggio, al termine delle quali il Garante nazionale trasmette un rapporto alle autorità competenti nel quale comunica le sue raccomandazioni e osservazioni. Le autorità sono invitate a rispondere. Il rapporto rimane confidenziale per 30 giorni. Passati i 30 giorni, il rapporto viene pubblicato sul sito Internet del Garante nazionale insieme alla eventuale risposta dell’autorità. Obiettivo delle raccomandazione è quello di verificare il rispetto degli obblighi e degli standard internazionali, offrire consigli pratici e suggerimenti su come ridurre la probabilità o il rischio che si verifichino episodi di tortura o maltrattamenti, riportare i fatti accertati e le circostanze riscontrate durante la visita. Le visite del Garante nazionale possono essere dedicate a un territorio specifico, per cui nel giro di alcuni giorni si procede a visitare a campione carceri, residenze per anziani o disabili, comunità o camere di sicurezza che insistono sulla stessa area geografica, come quella svolta nelle regioni Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia dal 28 giugno al 5 luglio 2016. Oppure sono visite a specifici istituti o strutture, in relazione a una singola situazione su cui si vuole far luce. Si è scelto di avviare l’attività da quelle regioni dove manca ancora il Garante o dove non è stata ancora approvata la legge istitutiva di tale figura. Il senatore Mazzoni (AL-A) chiede di sapere quali sono le principali criticità riscontrate finora nel corso delle visite, se queste ultime siano programmate e annunciate, e se anche Cie e hotspot rientrino nelle competenze del Garante. Il senatore Di Biagio (Ncd-Udc) chiede se siano emerse maggiori complessità in relazione agli istituti visitati tra nord e sud dell’Italia. Il presidente Manconi chiede di sapere di quale e quanto personale dispone il Garante, se è prevista un’indennità per i componenti del collegio, quali siano i rapporti coi tribunali di sorveglianza, in cosa consista la formazione alle forze dell’ordine e quali prospettive vi siano per l’attuazione delle misure elaborate dagli Stati generali sull’esecuzione penale. La senatrice Simeoni (Misto) chiede maggiori dettagli sui numeri dei rimpatri. L’avvocato Emilia Rossi, componente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, tra le criticità riscontrate nel sistema penitenziario segnala gli aspetti sanitari, quelli del lavoro e le attività di socializzazione. Le visite del Garante si svolgono senza preavviso. Quanto agli spunti emersi dagli Stati generali, il disegno di legge attualmente in discussione al Senato sulla giustizia contiene almeno in parte alcune delle proposte più qualificanti emerse in quella sede, a partire dal superamento dell’ostatività nell’accesso alle pene non detentive e alle misure cautelari e all’effettività della funzione risocializzante della pena. La dottoressa Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, aggiunge che anche la gestione dei malati psichiatrici nelle carceri rappresenta una forte criticità poiché, ad esempio, i protocolli con le ASL non sempre vengono applicati. Il Garante ha visitato alcuni Cie e hotspot rilevando nei rapporti alcuni elementi critici, come la privazione di libertà dei migranti in attesa del fotosegnalamento o l’impossibilità di uscire liberamente dagli hotspot. Quanto ai rimpatri, il numero di voli effettuati dall’Italia è considerato molto basso. Il professor Mauro Palma specifica che attualmente sono impiegate sedici persone di cui quindici dipendenti del Ministero della giustizia e uno del Ministero dell’interno. I tre componenti del collegio ricevono un’indennità. Un’altra criticità da segnalare riguarda i trasferimenti dei detenuti poiché spesso non viene meno la continuità dei percorsi e dell’osservazione della persona detenuta. Il presidente Manconi ringrazia le personalità presenti in audizione e i senatori e dichiara conclusa la procedura informativa. Il seguito dell’indagine conoscitiva è pertanto rinviato. Papa Francesco ai carcerati: la misericordia nutre la speranza di Simone Baroncia korazym.org, 10 novembre 2016 "Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore: il suo amore arriva dappertutto. Prego perché ciascuno apra il cuore a questo amore": questo tweet di papa Francesco può essere lo slogan finale del Giubileo dei detenuti, celebrato a Roma alla presenza di circa 1.000 detenuti di tutto il mondo, al volgere della fine dell’Anno Santo della Misericordia. Nell’Angelus papa Francesco ha rivolto tre appelli alle autorità civili per un atto di clemenza; un favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri ed una giustizia penale che non si esclusivamente punitiva: "in occasione dell’odierno Giubileo dei carcerati, vorrei rivolgere un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti. Inoltre, desidero ribadire l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società. In modo speciale, sottopongo alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Nell’omelia, commentando le letture proprie, papa Francesco aveva sottolineato che tutti devono cercare la speranza di una vita nuova: "La speranza di rinascere a una vita nuova, quindi, è quanto siamo chiamati a fare nostro per essere fedeli all’insegnamento di Gesù. La speranza è dono di Dio. Dobbiamo chiederla. Essa è posta nel più profondo del cuore di ogni persona perché possa rischiarare con la sua luce il presente, spesso turbato e offuscato da tante situazioni che portano tristezza e dolore. Abbiamo bisogno di rendere sempre più salde le radici della nostra speranza, perché possano portare frutto. In primo luogo, la certezza della presenza e della compassione di Dio, nonostante il male che abbiamo compiuto. Non esiste luogo nel nostro cuore che non possa essere raggiunto dall’amore di Dio". Il papa si è rivolto ai detenuti affermando che il suo compito non è sovvertire un giudizio, ma annunciare un vita nuova: "Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione. Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere… Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni". Ed ha concluso ribadendo che la fede può spostare le montagne: "Quante volte la forza della fede ha permesso di pronunciare la parola perdono in condizioni umanamente impossibili! Persone che hanno patito violenze o soprusi su loro stesse o sui propri cari o i propri beni… Solo la forza di Dio, la misericordia, può guarire certe ferite. E dove alla violenza si risponde con il perdono, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. E così, tra le vittime e tra i colpevoli, Dio suscita autentici testimoni e operatori di misericordia". Al termine del Giubileo, a sorpresa, papa Francesco ha telefonato a don Marco Pozza, cappellano del carcere Due Palazzi di Padova, per incontrare alcuni carcerati. Lo stesso don Pozza ha raccontato a Radio Vaticana: "Il Papa ha voluto sapere della situazione e delle condizioni nel nostro carcere. Ha voluto anche che gli raccontassimo delle belle iniziative della nostra realtà di Padova. Abbiamo visto il volto del Papa molto serio quando quattro ergastolani gli hanno chiesto aiuto. Mi ha colpito che alla fine dopo la benedizione ha ringraziato i poveri perché gli avevano rallegrato la giornata. Il guadagno più bello è stato vedere il sorriso sui volti di queste persone. Come dice Papa Francesco quando s’incontra Cristo è difficile tenere la gioia per sé, deve essere per forza raccontata agli altri. Tutto è nato sotto il nome del Dio delle sorprese. E noi ieri siamo stati protagonisti di questa sorpresa". Ed un "uomo ombra", l’ergastolano Carmelo Musumeci, a cui più volte non è stato concesso di incontrare papa Francesco, ha scritto una preghiera per richiamare l’attenzione sull’ergastolo: "Dio, siamo i cattivi, i maledetti e i colpevoli per sempre: siamo gli ergastolani, quelli che devono vivere nel nulla e marcire in una cella per tutta la vita. Dio, nelle carceri italiane ci sono uomini che sono solo ombre, che vedono scorrere il tempo senza di loro e che vivono aspettando di morire. Dio, molti ergastolani, dopo tanti anni di carcere, camminano, respirano e sembrano vivi, ma in realtà sono già morti. Dio, l’ergastolano non vive, pensa di sopravvivere e, in realtà, non fa neppure quello, perché l’ergastolo lo tiene solo in vita, ma non è vita. Dio, dillo tu agli "umani" che la pena dovrebbe essere buona e non cattiva, che dovrebbe risarcire e non vendicare. Dio, dillo tu agli ‘umani’ che una pena che ruba il futuro per sempre, leva anche il rimorso per qualsiasi male uno abbia commesso. Dio, dillo tu agli ‘umani’ che solo il perdono suscita nei cattivi il senso di colpa, mentre le punizioni crudeli e senza futuro fanno sentire innocenti anche i peggiori criminali. Dio, dillo tu agli "umani" che dopo tanti anni di carcere non si punisce più la persona che ha commesso il crimine, ma si punisce un’altra persona che con quel crimine non c’entra più nulla. Dio, dillo tu agli "umani" che la miglior difesa contro l’odio è l’amore e la miglior vendetta è il perdono. Dio, non so pregare, ma ti prego lo stesso: se proprio non puoi aiutarci, o se gli umani non ti danno retta, facci almeno morire presto". Ministero Giustizia sigla protocollo per la formazione di 100 detenuti nel settore ICT Agenpress, 10 novembre 2016 Giovedì 10 novembre 2016 alle ore 11:00, presso la Sala Livatino in Via Arenula, alla presenza del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, i capi dipartimento, rispettivamente, dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e della Giustizia minorile e di comunità, Francesco Cascini, sigleranno un protocollo d’intesa con le società Cisco, Vodafone, Fondazione Vodafone, la Cooperativa Universo e la Confprofessioni, per la formazione di 100 detenuti. Oggetto dell’accordo è offrire loro presso gli istituti penitenziari selezionati dal ministero, le competenze base di ICT (information and communication technology) per divenire poi specialisti del settore. Il protocollo in questione si inserisce, assieme agli altri già siglati, in quel processo di recupero e reinserimento sociale delle persone detenute, che si intende avviare attraverso gli strumenti della formazione e del lavoro all’interno degli istituti penitenziari, ottenendo così anche la riduzione dei tassi di recidiva. Il rimpianto dell’Anm: la prescrizione resta com’è di Errico Novi Il Dubbio, 10 novembre 2016 Davigo contro il rinvio del ddl penale anche perché così sopravvive l’odiata "ex Cirielli". È l’ora dei rimpianti. Piercamillo Davigo si rammarica in tv per il rinvio del ddl penale oltre le colonne d’Ercole del referendum. Il testo avrebbe dovuto accogliere le correzioni chieste dall’Anm su due punti: età pensionabile dei giudici, da reinnalzare a quota 72, e riduzione a 3 anni del vincolo di permanenza in sede per le toghe di prima nomina. Non se ne parla. Almeno fino al 7 dicembre, data politicamente lontanissima in cui Palazzo Madama ha calendarizzato la riforma. E resta imprigionata nell’attendismo del Senato anche la nuova prescrizione, insufficiente per l’Anm ma assai più "lunga" dell’ex Cirielli, tuttora in vigore. Durante il faccia a faccia con il ministro Andrea Orlando a "Di martedì", Davigo ha detto appunto che il vero difetto del provvedimento sul processo penale è la sua scomparsa dai radar. "Dovevano esservi introdotte alcune modifiche che avevamo richiesto", ha confermato il leader dell’Anm a Giovanni Floris. Paradossale. Proprio il sindacato dei giudici si lamenta ora per l’ennesimo congelamento del ddl. Il premier Matteo Renzi aveva spiegato l’inopportunità di porvi la fiducia proprio con "il giudizio negativo che ne danno i nostri amici magistrati". Sono questi ultimi ora a reclamare l’approvazione del testo. Ma è troppo tardi forse. Fissato oltre la soglia fatale del 4 dicembre, la riforma di Orlando rischia di rimanere in un’orbita lontana dal pianeta Terra. Non a caso il guardasigilli, sempre su La 7, si è detto "d’accordo con il presidente Davigo: credo sia un errore mandarlo a quella data, spero lo si riconsideri". Ma a Palazzo Chigi c’è grande preoccupazione per gli effetti che il sì a prescrizione e intercettazioni provocherebbe in piena campagna referendaria. Tuonerebbero di nuovo gli anatemi dei Cinque Stelle contro il "regalo a mafiosi e corrotti". Come se la corsa per il Sì al referendum non fosse già abbastanza in salita. Renzi non vuol mettere un altro sassolino nell’ingranaggio già claudicante della sua campagna. Ma ora che con la vittoria di Trump si avvicina un’onda lunga antisistema anche sul voto italiano, le leggi lasciate in sospeso rischiano di restare tali. Rammarico per Orlando, situazione da mordersi le mani anche per Davigo. Che può mettere in ordine almeno tre motivi di rimpianto. Primo: il rischio di non incassare mai le due misure su pensioni e vincolo di permanenza. Miracolosamente via Arenula aveva accettato di inserirle nel maxiemendamento al ddl penale. Ora forse si potrà forzare la mano e infilarle in finanziaria. "È l’unica alternativa", spiega un esponente del direttivo Anm, "per essere efficaci le due norme devono entrare in vigore entro la fine dell’anno". E infatti la giunta dell’associazione chiede in una nota di "usare uno strumento normativo diverso". Seconda questione: la riscrittura della regola sulle avocazioni, contestatissima dai pm. Diventerebbe facoltativo anziché obbligatorio l’over rule della Procura generale nei casi in cui il pubblico ministero non decide entro 90 giorni sul rinvio a giudizio. Vuol dire che svanirebbe anche l’automatismo sul procedimento disciplinare per i pm "lenti". Certo, finché l’intero ddl non viene approvato resta congelata anche la norma temuta dalle Procure. Ma per Davigo sarebbe meglio risolvere la questione subito ed evitare che il testo esca dal letargo tra mesi in quadro politico stravolto. Ultima questione, forse la più paradossale di tutte: se la riforma viene lasciata in freezer, resta in vigore la legge ex Cirielli. I magistrati sarebbero costretti a tenersi la prescrizione così come è oggi. Non a caso Davigo a "In martedì" ha detto: "Noi riteniamo che il decorso della prescrizione debba interrompersi almeno dopo la condanna in primo grado, ma può darsi che il ministro abbia difficoltà a raggiungere questo risultato, e non possiamo fare la guerra se il mondo non va come vorremmo". Se l’Anm avesse compiuto un simile atto di realismo con qualche mese di anticipo, la nuova prescrizione, comunque allungata rispetto alla ex Cirielli, sarebbe diventata legge. Ora c’è spazio solo per i rimpianti. "No a custodia cautelare in carcere per i colletti bianchi" il ddl ricompatta il Centrodestra di Liana Milella La Repubblica, 10 novembre 2016 Primo firmatario, il verdiniano Ciro Falanga di Ala. Il testo, presentato al Senato, sottoscritto anche dalle altre anime in cui si è diviso lo schieramento: Forza Italia, Conservatori e Riformisti di Fitto, Ap-Ncd del ministro dell’Interno Alfano. Se approvato, escluderebbe la detenzione per gli accusati di reati come finanziamento illecito dei partiti, autoriciclaggio, truffe aggravate, corruzione. A meno che non si usino armi e violenza o si evadano gli arresti domiciliari L’intero centrodestra, anche la parte confluita nella maggioranza, si ricompatta su un ddl che, andando a modificare l’articolo 274 del codice di procedura penale in tema di custodia cautelare, la escluderebbe per "colletti bianchi" e corrotti. Il ddl, presentato oggi al Senato dal verdiniano Ciro Falanga e firmato da altri 27 senatori di Forza Italia, Conservatori e Riformisti, Area Popolare-Nuovo Centrodestra e, appunto, Alleanza Liberalpopolare-Autonomie, riscrive l’ultima parte della norma sulla custodia cautelare escludendola, ad esempio, per il finanziamento illecito dei partiti e per quei reati anche gravi per i quali non vi sia stato uso di armi o violenza. Si eviterebbe così la detenzione agli accusati di reati come autoriciclaggio, truffe aggravate, corruzione e reati economici. Qualora il ddl Falanga dovesse diventare legge, i cosiddetti "colletti bianchi" finirebbero al massimo agli arresti domiciliari. La custodia cautelare in carcere per loro potrebbe scattare solo in un caso: se fossero trasgredite "le prescrizioni imposte", ad esempio evadendo dagli arresti domiciliari. Ma non si rischierebbe più la detenzione solo per il fatto di essere accusati di un reato per il quale è prevista una pena superiore ai 5 anni, così come vuole la legge attuale. Il rappresentante del gruppo di Verdini in commissione Giustizia, Ciro Falanga, difende il suo provvedimento spiegando che la disciplina della custodia cautelare, pur essendo "uno dei temi più controversi e sdrucciolevoli" per il legislatore, va riformata. A suo avviso, andrebbero "demolite le mitologie dell’insicurezza diffusa" e andrebbe recuperato "il discorso sulla custodia cautelare e della sua regolamentazione al più pacato e stabile terreno dei valori fondativi della nostra Repubblica". Pertanto, secondo il senatore di Ala, non si dovrebbe più guardare tanto "all’entità della pena del reato" per prevedere o meno la custodia cautelare in carcere, quanto al fatto se si sia usata o meno violenza ricorrendo anche all’uso di armi o se si tratti o meno di delitti di criminalità organizzata. Per tutti gli altri reati gravi, come ad esempio quelli contro la pubblica amministrazione, la custodia cautelare in carcere non esisterebbe più. Nel ddl firmato anche dai senatori del partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano, chiunque venga accusato di fattispecie come la truffa aggravata, l’autoriciclaggio o la corruzione, rischierebbe al massimo gli arresti domiciliari. Sul significato politico di un gesto così dirompente da parte di tutto il centrodestra unito, le interpretazioni divergono. C’è chi ci legge un tentativo di ricompattamento in vista del dopo referendum e chi invece lancia l’ipotesi di una "manovra" che poi, alla fine, non risulterebbe tanto sgradita a "buona parte del Pd". Ma c’è anche chi pensa che quello di Falanga sia solo un modo di "rendere la pariglia" al Pd che prima "aveva promesso" un sostegno al suo ddl sull’abusivismo edilizio e poi "si è rimangiato la parola". Bisogna però ricordare come il senatore Falanga sia attivo da tempo sul tema della custodia cautelare. L’8 aprile 2015, prima dell’approvazione definitiva da parte del Senato del disegno di legge che riforma la disciplina delle misure cautelari, proprio Falanga era intervenuto in Aula per parlare di "occasione mancata" rispetto alla correzione della "anomalia tutta italiana" dell’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio nella popolazione carceraria. Anche allora Falanga aveva affermato la giustezza del subordinare il ricorso alla custodia cautelare in carcere "esclusivamente al pericolo della commissione di delitti con uso di violenza o contro la persona" perché solo "la necessità di proteggere il supremo bene della vita e dell’incolumità delle persone può giustificare la massima compressione del bene della libertà personale di un presunto innocente". E dicendo questo aveva ricordato il suicidio del manager Gabriele Cagliari durante Tangentopoli. Lo stesso senatore Falanga, di fronte alle analisi "politiche" sulle reali motivazioni della sua iniziativa, tiene oggi a precisare: "Il ddl - scrive in una nota - nasce esclusivamente dalla mia sensibilità giuridica da un lato e da quella umana dall’altra. Dietro questa mia iniziativa legislativa non vi è alcuna linea di partito. Attribuire a questa proposta un’interpretazione diversa è tanto grave quanto becero. Ricordo che ben il 50% dei detenuti in attesa di giudizio viene poi riconosciuto innocente. Su questa problematica e su quella del sovraffollamento carcerario in generale - ricorda ancora Falanga - è intervenuto addirittura l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, attraverso l’unico messaggio alle Camere che ha inviato durante i nove anni trascorsi al Quirinale". Ecoreati senza vincoli rigidi di Paola Ficco Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 46170 (2016). La Corte di cassazione fissa i punti fermi nell’interpretazione del reato di inquinamento ambientale. Lo fa con la sentenza 46170/2016, la prima che affronta gli "ecodelitti" introdotti dalla legge 68/2015 nel Codice penale (articolo 452-bis). La pronuncia, depositata il 3 novembre, fissa i primi importanti princìpi interpretativi sul nuovo delitto. Ma veniamo ai fatti. La Corte ha annullato con rinvio al Tribunale di La Spezia una vicenda sul dragaggio delle acque del golfo spezzino. Con il rinvio la Cassazione, sottolineando la novità, si sofferma opportunamente sugli elementi costituitivi del nuovo delitto, dando corpo ai suoi tratti salienti. Primo tra tutti il concetto di abusività della condotta. Ripercorsa la propria giurisprudenza sull’attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, la Corte ricorda che la condotta non è abusiva solo in assenza dell’autorizzazione (attività clandestina), ma anche quando questa sia scaduta o palesemente illegittima e comunque non commisurata al tipo di rifiuti ricevuti, di diversa natura rispetto a quelli autorizzati. Per i giudici, "tali princìpi sono senz’altro utilizzabili" anche in relazione al delitto di inquinamento ambientale, dove la condotta abusiva comprende "non soltanto quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali" anche se non strettamente pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni amministrative. Tale circostanza era stata riconosciuta anche dai giudici del riesame. La diversità di lettura, da cui è derivato l’annullamento da parte della Cassazione, si è appuntata sui parametri della significatività e della misurabilità della compromissione o del deterioramento derivanti dall’azione dell’agente, richiesti dalla norma ai fini del concretarsi della condotta delittuosa: la "o" disgiuntiva apposta dalla legge tra le parole "compromissione" e "deterioramento", secondo la Corte, "svolge una funzione di collegamento tra i due termini (autonomamente considerati dal legislatore, in alternativa fra loro) che indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti". Infatti, entrambi si manifestano in un’alterazione. Cioè una "modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema". Ma, in caso di compromissione, la modifica è caratterizzata da una condizione di rischio o di pericolo, quasi uno "squilibrio funzionale": incide su normali processi naturali "correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema". Nel caso del deterioramento, invece, lo squilibrio è strutturale, in quanto si caratterizza in ragione di un "decadimento di stato o di qualità" delle indicate matrici o dell’ecosistema. Ai fini del concretarsi del reato di inquinamento ambientale, è irrilevante che il fenomeno sia reversibile. Ciò rileva solo ai fini della distinzione con il delitto di disastro ambientale (articolo 452-quater del Codice penale), colpito più severamente. La Corte analizza anche il significato dei termini "significativo" e "misurabile", affrontando uno dei piani che più aveva impensierito i primi interpreti. Sul primo, afferma che "denota senz’altro incisività e rilevanza"; sul secondo che "può dirsi di ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile" a prescindere dall’esistenza di limiti. Questo perché vi sono casi in cui, pur in assenza di limiti imposti da norme, la situazione di danno o pericolo per l’ambiente "è di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile". Opportunamente la Corte precisa che compromissione e deterioramento significativi non possono farsi "automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti". In un intorbidamento delle acque con moria di molluschi, il Tribunale non aveva ravvisato né compromissione né deterioramento, che riteneva si concretassero in una "tendenziale irrimediabilità". Ma la Cassazione sottolinea che la norma non la prevede. Furti di modico valore nei supermercati, licenziamento del dipendente se c’è recidiva di Massimiliano Biolchini e Serena Fantinelli Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 22322/2016. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 22322/16, depositata il 3 novembre scorso, ritorna sul tema del furto di modico valore nei supermercati, con una sentenza innovativa in punto di diritto, ritenendo legittimo il licenziamento irrogato da un supermercato ad una dipendente, per avere occultato dei calzini del valore di 21 euro con il chiaro obiettivo di appropriarsi della merce senza passare alle casse. La stessa Cassazione si era già espressa numerose volte sullo stesso tema, per lo più in senso contrario, ritenendo il licenziamento sproporzionato e illegittimo a fronte della tenuità del fatto e in assenza di precedenti disciplinari specifici (si vedano, nel senso dell’illegittimità del licenziamento, la Cassazione 17739/11 e 24530/15). Nel caso in esame, la premessa in fatto è importante: un’addetta alle vendite aveva riconosciuto nella lavoratrice poi licenziata la stessa persona che, questa volta in veste di cliente, era stata sorpresa alcuni giorni prima - sempre nello stesso punto vendita - ad appropriarsi di altra merce, e aveva quindi sollecitato un controllo dal quale era effettivamente emerso che la collega durante l’orario di lavoro aveva occultato alcuni calzini di sotto di una confezione di bottiglie. La lavoratrice veniva a quel punto licenziata per giusta causa, e impugnava il licenziamento. In prima battuta il giudice di primo grado ne accoglieva le difese, volte a sostenere sia che non vi fosse alcuna prova della volontarietà dell’azione, potendo l’occultamento essere compatibile anche un fatto accidentale, sia che non potesse comunque tenersi alcun conto, ai fini disciplinari, di fatti precedenti i quali, seppure accaduti, non erano stati oggetto di debita contestazione disciplinare. Il supermercato a quel punto impugnava la decisione, e la Corte d’appello ne accoglieva in pieno le ragioni affermando come dovesse ritenersi "acquisita la dimostrazione della coscienza e volontà dell’azione", avuto riguardo "al numero dei calzini e alla posizione in cui erano stati rinvenuti", tali da escludere che la lavoratrice non si fosse potuta accorgere della loro presenza. Investita della questione, la Corte di cassazione confermava integralmente l’impianto motivazionale dei giudici del gravame, e in particolare riteneva scevra da ogni censura la motivazione della sentenza laddove si era affermato che il comportamento tenuto dalla lavoratrice in data precedente all’evento, seppure non disciplinarmente contestato, costituisse riscontro della sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta addebitata. Secondo i giudici di legittimità la sentenza impugnata è esente da censure "avendo fatto applicazione del consolidato e risalente principio di diritto, secondo cui i fatti non tempestivamente contestati possono essere considerati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti (tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio … secondo un giudizio che deve essere riferito al concreto rapporto di lavoro e al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni". Ecco allora che, sotto il profilo psicologico, può tenersi conto non solo di episodi non contestati disciplinarmente, ma "anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento", non ostando a tale valutazione il divieto di cui all’ultimo comma dell’articolo 7 Statuto dei lavoratori (Legge 300/70), il quale espressamente prevede che non possa tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. Mancata esibizione delle scritture contabili: bancarotta fraudolenta documentale Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2016 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale - Società di capitali - Amministratore unico - Mancata produzione e distruzione delle scritture contabili - Chiamata per testimoni - Inammissibilità - Fattispecie. Risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale l’amministratore unico della società a responsabilità limitata che, anziché produrre le scritture contabili, chiama a testimoniare terzi estranei alla società in merito alla distruzione delle stesse. (Nella fattispecie, l’imputato, condannato a 2 anni di reclusione per bancarotta fraudolenta documentale, aveva citato a testimoniare l’incaricato di un trasloco, che aveva gettato nei cassonetti dell’immondizia alcuni scatoloni contenenti carte ritenute prive di importanza, ma che verosimilmente corrispondevano alle scritture contabili mai rinvenute). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 2 novembre 2016 n. 45998. Bancarotta fraudolenta - Bancarotta documentale - Elemento soggettivo - Dolo generico - Irregolare tenuta delle scritture contabili - Impossibilità della ricostruzione del patrimonio - Consapevolezza della probabilità - Sufficienza. Il delitto di irregolare tenuta delle scritture contabili richiede il dolo generico, consistente nella consapevolezza da parte del soggetto attivo che la disordinata tenuta della contabilità può rendere impossibile la ricostruzione dei movimenti patrimoniali dell’attività economica. Per aversi bancarotta fraudolenta documentale il dolo generico richiesto è costituito dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 ottobre 2016 n. 44100. Bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale - Qualifica di amministratore di fatto - Distrazione di beni in favore di terzi - Responsabilità dell’amministratore - Fattispecie. Qualora l’amministratore di fatto abbia distratto risorse della società fallita in favore di terzi e non di se stesso, commette in ogni caso il reato di bancarotta patrimoniale. Tutte le volte che le somme incassate siano state impiegate per scopi estranei a quelli sociali, l’amministratore ne è responsabile anche se è stato strumento di altri. Sebbene i pagamenti tra imprese siano di regola tracciabili, la circostanza non è sintomatica dell’assenza di intento distrattivo. (Nel caso di specie, i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale erano contestati all’amministratore di fatto di una s.r.l., che gestiva attività di stoccaggio e riciclaggio di rifiuti non pericolosi, per avere incassato gli assegni consegnatigli da vari clienti della società a pagamento di conferimenti effettuati o da effettuare nell’impianto gestito dalla fallita, omettendo di consegnare i libri contabili al commercialista della società). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 12 ottobre 2016 n. 42983. Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Insindacabilità della sentenza dichiarativa di fallimento - Presupposti oggettivi e soggettivi - Insussistenza della violazione dell’art. 7 Cedu - Riforma delle procedure concorsuali (D.lgs. 5/2006) - Principio di retroattività della norma più favorevole al reo - Fattispecie. Accertato che il giudice penale, investito del giudizio relativo a reati di bancarotta, non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa ed ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, i ricorsi e le procedure fallimentari pendenti al momento della entrata in vigore della riforma delle procedure concorsuali (D.lgs. 5/2006) continuano ad essere definiti secondo la legge anteriore operando il principio di retroattività della norma più favorevole. (Nel caso di specie, i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale relativa alla distrazione di un escavatore, un autocarro e, successivamente, di un altro automezzo erano commessi dall’amministratore di diritto e di fatto di una s.r.l., il quale veniva peraltro assolto dal reato di bancarotta documentale senza che gli fosse riconosciuta l’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 12 ottobre 2016 n. 42982. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Concorrente "extraneus" nel reato proprio dell’amministratore - Requisiti - Fattispecie. È configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento soltanto qualora la condotta realizzata in concorso col fallito sia stata efficiente per la produzione dell’evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontà di aiutare l’imprenditore in dissesto a frustrare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori dell’impresa. Per configurare il delitto non è richiesto che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa dato che il dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice per il perfezionamento del reato consiste esclusivamente nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte. (Nella specie, il trottatore e amministratore di una s.r.l., poi dichiarata fallita, aveva distratto alcuni cavalli appartenenti alla società, impegnati nelle competizioni di trotto, simulando gli acquisti dei cavalli, cedendo gli stessi, omettendo di versare nelle casse societarie l’ammontare dei premi vinti). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42758. Reati fallimentari - Bancarotta documentale - Ostruzionismo - Mancata produzione in giudizio delle scritture contabili - Fattispecie. È punibile per bancarotta documentale il socio amministratore anche quando il co-amministratore abbia ostacolato il ritiro delle scritture che non siano state per questo motivo prodotte in giudizio. (Nella fattispecie, il commercialista, che aveva rimesso il mandato, non era riuscito a ritirare le scritture contabili della società a causa dall’ostruzionismo opposto dal co-amministratore, peraltro risultato assolto dal tribunale). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 5 settembre 2016 n. 36823. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Bancarotta documentale - Coesistenza - Lesione patrimoniale modesta - Attenuante della particolare tenuità del fatto - Ammissibilità. La contemporanea sussistenza delle ipotesi di bancarotta per distrazione e documentale non rende inapplicabile la concessione dell’attenuante della particolare tenuità del fatto, se la lesione al patrimonio è comunque modesta. In presenza di più comportamenti di rilievo penale, ciascuno dei quali produttivo di una modesta lesione al bene tutelato, il giudice può ritenere le due circostanze equivalenti oppure considerare prevalente quella favorevole al reo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 5 settembre 2016 n. 36816. Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Distrazione dei pagamenti effettuati in favore della società - Pagamenti in contanti - Risultanze delle scritture contabili - Violazione delle norme contro il riciclaggio D.L. 43/1991 - Irrilevanza - Fattispecie. I pagamenti effettuati in favore della società fallita, pur in violazione della normativa sulla circolazione del denaro contante, devono ritenersi pienamente efficaci sul piano dell’adempimento dell’obbligazione assunta dai debitori della società, per cui le somme di denaro che ne costituiscono l’oggetto vanno considerate a pieno titolo una delle componenti del patrimonio sociale, la cui distrazione integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, a nulla rilevando che i pagamenti siano stati effettuati in contanti e siano stati iscritti a bilancio come ancora esigibili trattandosi di un mero artificio contabile, che non incide minimamente sull’avvenuta consumazione del delitto. In tema di reati fallimentari, il reato di bancarotta fraudolenta non è escluso dal fatto che i beni distratti o dissipati appartenenti alla società, poi dichiarata fallita, derivino da un’attività "contra legem", in quanto, a tal fine, deve aversi riguardo alla consistenza obiettiva del patrimonio, prescindendo dai modi della sua formazione, con la conseguenza che detti beni, una volta entrati nel patrimonio della società, diventano cespiti sui quali i creditori possono soddisfare le loro ragioni. (Nel caso di specie, l’amministratore e liquidatore di una s.r.l., dichiarata fallita, distraeva la somma di oltre 200 mila euro relativa a pagamenti a mezzo di denaro contante, in violazione della normativa antiriciclaggio allora vigente, D.L. 43/1991, effettuati dai clienti della società a fronte di forniture di legname). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 agosto 2016 n. 35000. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Società di persone - Stato di insolvenza dell’impresa - Condotta distrattiva - Cessione dei diritti reali sugli immobili della società - Reato di pericolo - Fattispecie. Realizzano i delitti di bancarotta fraudolenta per distrazione e di bancarotta semplice documentale la cessione dei diritti reali sugli immobili della società, in grave situazione di dissesto, ceduti in assenza di corrispettivo, poiché comporta l’alterazione della "par condicio creditorum" e la diminuzione della garanzia dei creditori, e la irregolare tenuta delle scritture contabili. (Nel caso di specie, il socio-amministratore di fatto di una s.a.s. distraeva la nuda proprietà della quota di beni immobili di proprietà della società, ceduti ai propri figli in assenza di corrispettivo, asseritamente ad estinzione di parte di un debito che la cedente aveva contratto nei confronti dei figli e dell’amico e socio, omettendo la tenuta del libro giornale, del libro degli inventari e la redazione dell’inventario annuale). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 agosto 2016 n. 34991. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Società di persone - Condotta distrattiva - Reato di pericolo - Dolo generico - Consapevolezza di compiere atti potenzialmente in danno ai creditori. Il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo a dolo generico, per la cui sussistenza non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori. Occorre piuttosto che la condotta distrattiva, idonea a determinare uno squilibrio tra attività e passività - ossia un pericolo per le ragioni creditorie - risulti assistita dalla consapevolezza di dare al patrimonio sociale, o ad alcune attività una destinazione diversa rispetto alla finalità dell’impresa e di compiere atti che possano cagionare danno ai creditori: occorre che l’agente, pur non perseguendo direttamente tale danno, sia quantomeno in condizione di prefigurarsi una situazione di pericolo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 agosto 2016 n. 34991. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale - Durata fissa e inderogabile della pena accessoria. La pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa prevista per il delitto di bancarotta fraudolenta ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni, diversamente dalle pene accessorie previste per il reato di bancarotta semplice, che devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla regola di cui all’articolo 37 c.p. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 agosto 2016 n. 34991. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale - Società di persone - Condotta distrattiva - Responsabilità dell’amministratore di diritto - Compatibilità e conciliabilità degli istituti della recidiva e della continuazione. L’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, anche laddove sia investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetta "testa di legno"), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture. Gli istituti della recidiva e della continuazione sono tra loro compatibili e conciliabili. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 agosto 2016 n. 34991. Reati fallimentari - Bancarotta patrimoniale e documentale - Bancarotta impropria - Amministratore di fatto - Circostanze aggravanti - Pluralità di atti di bancarotta - Dichiarazioni di fallimento plurime e autonome - Continuazione tra reati. La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità è applicabile anche all’ipotesi di bancarotta impropria, cosicché agli amministratori di società dichiarate fallite possono infliggersi pene determinate calcolando non solo minimi e massimi edittali ma anche attenuanti e aggravanti speciali. L’amministratore di fatto, poi, risponde negli stessi termini dell’amministratore di diritto, atteso che le norme fallimentari si riferiscono non tanto alla persona investita formalmente della carica, quanto a colui che gestisce realmente il patrimonio sociale compiendo attività proprie degli amministratori. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 17 febbraio 2016 n. 645. Statistiche contradditorie, al collasso le carceri italiane di Alessandro de Rossi* opinione.it, 10 novembre 2016 Leggo con preoccupazione sul numero di ottobre dalla rivista della Polizia penitenziaria, che "secondo i dati ufficiali del Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) aggiornati al 30 settembre scorso, nelle carceri italiane ci sono 54.465 persone detenute ospitate nei 49.796 posti detentivi disponibili (ma da altre fonti ministeriali pubbliche, risultano più di 4.000 posti non disponibili). Quindi, a conti fatti, in Italia sono ristrette 4.669 persone in più rispetto ai posti dichiarati disponibili, che determinano una percentuale di affollamento delle carceri del 109%. La percentuale del 109, si badi bene, è quella che viene tirata in ballo ad ogni dichiarazione ufficiale dal Ministro e dal Capo del Dap quando vogliono dimostrare che la situazione del sovraffollamento ormai è sotto controllo. Il semplice calcolo aritmetico avrebbe senso se in Italia avessimo un unico ed enorme carcere da 50mila posti in cui cercassimo di far entrare 55mila detenuti. Invece, di carceri in Italia ne abbiamo 193: alcune piccole, alcune grandi, alcune molto sovraffollate, altre mezze vuote". Il record negativo, secondo le rilevazioni di settembre, lo detiene il carcere di Como con un indice di affollamento intollerabile pari al il 176%. La regione più stipata è la Puglia con 3.211 detenuti per 2.347 posti che raggiunge in media un indice del 137% di affollamento. Naturalmente ci sono anche situazioni cosiddette più normali, con indici di presenze meno preoccupanti qual è per esempio la Sardegna. Ma ciò che conta nell’analisi di questi dati è che le statistiche a seconda del modo come vengono esposte, aggregando i dati o disaggregandoli a seconda delle convenienze della comunicazione, offrono quadri assolutamente diversi delle diverse realtà che si intendono descrivere. Per quanto si apprende dal mensile della Polizia Penitenziaria "i dati del Dap andrebbero presi con le pinze e quel dato medio del 109% di affollamento delle carceri italiane, non significa nulla, almeno per coloro che vogliono davvero capire qualcosa del sistema penitenziario italiano". Quando un carcere è sovraffollato, tutti (e non solo i detenuti…), subiscono una condizione di ulteriore penalizzazione: meno servizi, meno ore a disposizione per i colloqui con educatori, psicologi, meno tempo per l’utilizzo di attrezzature, per i corsi di formazione, drastica riduzione di spazi fisici insieme a pesanti disagi e super lavoro per coloro che lavorano nel carcere (personale civile e Polizia penitenziaria). In una parola minore sicurezza. Dati alla mano leggiamo che l’affollamento reale oggi in Toscana è del 115% e che oltre il 76% delle persone detenute nella regione vivono in una penosa condizione di sovraffollamento. Se gli stessi calcoli li riportiamo sul dato nazionale succede che la situazione peggiora ulteriormente. In Italia ben 131 carceri su 193, sono sovraffollate: in pratica il 68% di quelle in funzione. "Sommando il numero dei detenuti in più rispetto alle capienze di queste 131 carceri, arriviamo alla cifra di 8.844 detenuti in eccesso che corrispondono a quasi il 18% dei posti detentivi ufficiali. A conti fatti, continua l’articolo, si deve affermare che in Italia, al 30 settembre 2016, c’era una situazione di affollamento delle carceri del 118% e non del 109% come ottimisticamente affermato dai vertici del Dap e del Ministero della Giustizia". In conclusione, quelli appena presentati sono calcoli e numeri che si discostano di molto dalle statistiche presentate dal Dap ed utilizzate dal Ministero della Giustizia. Dati oggettivi attraverso i quali invece si dovrebbe iniziare a ragionare per migliorare il sistema penitenziario italiano. Sono anni che si attende da parte del ministero della Giustizia non l’ennesima promessa di un Piano carceri, ma l’autorevole avvio di un programma ove siano previsti, insieme ad una più aggiornata filosofia della esecuzione penale, nuovi istituti, dismissioni di quelli vecchi e inadatti e seri programmi di riabilitazione comportamentale. Sono anni che scrivo, sollecitando con articoli, dibattiti ed anche attraverso i miei libri ("L’universo della detenzione" del 2011 e "Non solo carcere" del 2016), la creazione di un Centro di pianificazione efficiente, composto da professionalità multidisciplinari, che abbia effettiva capacità di coordinare gli interventi da fare. Sappiamo bene quanto sia difficile la situazione economica del nostro Paese in questo momento. Abbiamo cognizione di quante opere chiedano di essere compiute insieme alla manutenzione del territorio, del soccorso alle popolazioni terremotate, delle infrastrutture di trasporto e altro ancora. Ma sappiamo anche che la detenzione in Italia deve essere affrontata almeno attraverso una prima bozza di un serio piano strategico, tale da essere presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo quando inevitabilmente richiamerà il nostro Paese, per censurarlo nuovamente per il modo come tuttora detiene uomini e donne nelle sue carceri. E in quel caso, a difesa dell’Italia, le statistiche contraddittorie serviranno a poco. *Presidente Commissione Diritti della Persona privata della Libertà - Lidu Onlus L’amnistia non è una sconfitta di Donato Salzano* Cronache dal Salernitano, 10 novembre 2016 Caro Direttore, chiedo a te ospitalità sulle colonne del giornale che da sempre da spazio agli attori della nonviolenza, per dare voce a quei "Mille marciatori" che in occasione del "Giubileo dei detenuti" voluto da Papa Bergoglio, quale giornata dedicata agli ultimi nelle carceri, si quella IV "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà" dedicata appunto a Papa Francesco, ma soprattutto a Marco Pannella, che come Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito abbiamo tenuto a Roma dell’AIGA. Ancora partecipazioni che vanno dai rifugiati Kurdi ai secessionisti del Biafra, ad Adriano Sofri e Don Ciotti, passando per il filosofo Aldo Masullo al Magistrato Carlo Nordio. Come sai, l’Amnistia che Marco invocava e sosteneva dando corpo con i suoi Satyagraha, 5 la passata domenica 6 novembre, da Regina Coeli a Piazza San Pietro. L’adesione, la partecipazione con i propri Gonfaloni delle Amministrazioni locali, ha visto l’adesione dell’intera ANCI, in particolare il Comune di Bologna e di Napoli, la Regione Basilicata, Piemonte e Calabria. Importantissima l’adesione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), delle ACLI, della CIGL funzione pubblica, dei Garanti dei Detenuti di Piemonte, Lazio e Sicilia. Il personale amministrativo e sanitario, gli agenti di polizia penitenziaria, Antigone e Libera, delle tante associazioni che vivono e lavorano all’interno Comunità Penitenziaria, i Familiari dei detenuti, tantissimi cappellani delle carceri e come sempre presente l’Unione delle Camere Penali Italiane e i giovani avvocati. Le marce nonviolente e gandhiane, i suoi digiuni che quel sant’uomo di Don Andrea Gallo definiva precetto cristiano, quella stessa Amnistia voluta con forza da Bergoglio, ma prima di lui chiesta invano in ginocchio davanti al Parlamento da San Giovanni Paolo II. Sì, quell’Amnistia che non è per i detenuti, ma è "Amnistia per la Repubblica", unico strumento di rientro nella legalità costituzionale ed internazionale, per operare quella transizione necessaria da un Regime di "democrazia reale" (così quelli di socialismo reale rispetto al socialismo) allo "Stato di Diritto". Così come più volte chiesto di ottemperare nel corso di un cinquantennio dal Consiglio d’Europa attraverso le continue condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione degli standard minimi di durata dei processi e le torture praticate nelle carceri, fino al punto fermo posto dalla giurisprudenza pilota della sentenza "Torreggiani". Senza mai dimenticare sul piano interno il successivo "è fatto obbligo", disperato e disperante, contenuto nell’ignorato messaggio costituzionale al Parlamento del Presidente emerito Giorgio Napolitano, trattato come si tratta un Radicale qualunque, allora però era il Presidente della Repubblica. Vedi molti pensano che un provvedimento di clemenza sia una sconfitta per lo Stato, ma in realtà al contrario l’Amnistia è l’unico strumento di per sé strutturale, capace di far fronte efficacemente e secondo Diritto alla montagna enorme degli oltre dieci milioni di carichi pendenti d’arretrato dei processi, stabilendo quali reati amnistiare e quali permettere ai magistrati di perseguire in tempi certi, senza correre il rischio di portare ogni anno alla prescrizione più di duecentomila processi e consentire come spesso accade anche i reati più gravi ed efferati la stessa sorte. Come certamente saprai il nostro distretto di Corte d’Appello etra quelli più lumaca d’Italia, evidenziato ogni anno dalla puntualissima classifica del Sole24ore, e il Tribunale di Sorveglianza non ha mai brillato per i tempi delle ordinanze, perfino per i giorni di premialità a favore dei detenuti modello. A questo vanno ad aggiungersi i tempi biblici e gli spazi angusti del Processo Civile, che impediscono i flussi di capitali per investimenti in entrata in città e spinge sempre più quelli in uscita alla dismissione verso aree d’investimento dove i procedimenti hanno dei tempi congrui e certi. Sai mi è capitato di recente con un nostro amico comune di utilizzare la stupenda e crudele metafora di Albert Camus, per descrivere la condizione di estremo disagio sociale che stiamo vivendo di questi tempi. Sì, quella "Peste" più volte evocata da Marco Pannello, quale metastasi di un Regime, che produce soltanto topi morti, che ogni mattina rotolano davanti a noi, come il protagonista di Camus spesso non riusciamo a vederli o peggio facciamo finta di non vederli. Una banalità del male che ci assale, fatta di quotidianità e di lasciarsi andare a un’efficace e consolante propaganda di una ragion di Stato che divora sempre di più ogni giorno lo Stato di Diritto. Vedi le ragioni di chi vuole essere ancora cocciutamente speranza per dare speranza, quel paolino "Spes contra spem" della lettera ai romani, avverso alla cultura dei "professionisti dell’antimafia" denunciata a suo tempo da Leonardo Sciascia, anche e soprattutto per il "caso Tortora", oggi per i tanti Enzo Tortora che ancora sono ristretti in condizioni contrarie al senso di umanità, in attesa di un giudizio senza un processo giusto. Per tutto questo domenica siamo stati ancora una volta in marcia, come la gandhiana "marcia del sale" o "la Perugia-Assisi" di Emesto Rossi e Aldo Capitini. Siamo stati in marcia con la Comunità Penitenziaria di Fuomi e i suoi ottantasette detenuti in sciopero della fame, con gli oltre diciassettemila dete nuti in digiuno da tutti i penitenziari. Siamo stati in marcia con i Vescovi italiani e i lavoratori cattolici, i comuni d’Italia e i compagni della CGIL, i penalisti italiani e i giovani avvocati. Anch’io e Michele Lombardi da nonviolenti abbiamo dato corpo alla lotta con il digiuno unendoci ai detenuti, ai compagni Radicali: Rita Bernardini, Maurizio Bolognetti, Irene Testa e Paola Di Folco, che da più di trenta giorni stanno conducendo un digiuno di dialogo con il Ministro Orlando per la Riforma della Giustizia e l’ordinamento penitenziario. Come sai speravamo fino all’ultimo minuto utile, che il Sindaco di Salerno potesse con-vincersi, purtroppo per lui, per la sua Storia di Socialista, non è stato così, oramai questi sono irrimediabilmente contro, intolleranti e insofferenti allo Stato di Diritto e al Diritto Universale alla Conoscenza. Assenti, perché non pervenuti come le previsioni del tempo, o scaduti come il latte a lunga conservazione. Il Comune di Salerno e il suo Gonfalone, la Regione Campania e la garante dei detenuti, troppo impegnati e distratti da quella che Ernesto Rossi definiva la "roba", dalle loro "luci d’artista", per poter trovare tempo e attenzione a favore degli ultimi. La speranza invece è nelle gambe e nei cuori di quei "Mille", nel voler essere speranza e non averne, il Partito dell’essere anziché dell’avere. Il dare speranza ad altri marciando da Regina Coeli fino a Piazza S. Pietro, verso quell’altare di Papa Francesco per celebrare il Giubileo dei detenuti, il Giubileo degli ultimi. Ascoltare quelle parole di misericordia, quella parola proibita che sapeva e osava dire soltanto Marco Pannella e che oggi pronuncia con fermezza il Papa: Amnistia! Se non volete ascoltare i Radicali, ascoltate perlomeno l’uomo venuto dalla fine del mondo. *Segretario Radicali Salerno, Associazione "Maurizio Provenza" In relazione all’articolo dell’Avvocato Michele Passione pubblicato su Fuoriluogo di Franco Scarpa* Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2016 Ho fatto i complimenti all’Avvocato Michele Passione per la sua costanza e determinazione nell’affermare, e fra valere, il diritto di un internato della Rems di Volterra a vedere applicata la norma della Legge 81/2014 che prevede la cessazione della misura di sicurezza qualora essa raggiunga i termini della pena edittale prevista per il medesimo reato. Solo un Avvocato, o un esperto di diritto, può districarsi nella giungla di norme e di codicilli, che conducono ad una definizione del reato, della condanna e della pena applicata. Mi ha invece molto meravigliato, ed ho dovuto farglielo notare, come nel Suo accorato articolo egli abbia espresso giudizi e rilievi sulla supposta omissione di cui i medici sarebbero stati responsabili poiché non avrebbero nel tempo segnalato il limite massimo che la misura di sicurezza avrebbe raggiunto. É singolare che questa dimenticanza, che si è risolta solo dopo due appelli e ricorsi, sia attribuita, seppure in parte, alla componente medica delle Rems e degli Opg dove la persona é transitata. Da questo episodio scaturiscono inoltre considerazioni sul timore che le Rems, ma in realtà la critica é verso l’intero sistema nato dalla chiusura degli Opg, ereditino aspetti deteriori del passato e, per quanto riguarda i Medici, sia adottato uno stile di carattere difensivo. L’attuale fase di transizione, e non definitiva attuazione, della Legge 81 non é tanto dovuta alla prevalenza di prognosi negative riguardo la pericolosità sociale (mi fa rabbrividire l’uso di termini medici per sostenere giudizi di carattere squisitamente giuridico come la pericolosità sociale) ma alla difficoltà di adottare soluzioni diverse dalle misure di sicurezza detentive (come la stessa Legge 81 prevede) per cui il meccanismo portato ad evitare l’invio nelle Rems non funziona ancora come il Legislatore, ed i suoi tecnici di riferimento, avrebbero pensato potesse accadere. Come Passione afferma, un medico resta un medico, ma in barba a questo principio stiamo assistendo invece al tentativo di scaricare sulla Medicina, e la Salute Mentale in particolare, la responsabilità di tutto quello che non ha finora funzionato e continua a non funzionare. Al Medico non può essere attribuito il compito di calcolare la durata delle sanzioni penali, non può essere affidato il compito di notificare atti alle persone nelle Rems e raccogliere atti da essi presentati (come un Ufficiale Giudiziario), non può essere affidato il compito del controllo penitenziario, come il Regolamento vorrebbe, non può essere dato il compito di raccogliere le impronte digitali all’ingresso nella Rems, non può essere ancor più evidentemente dato un compito di giustificare la pericolosità sociale (compito affidato al perito o Consulente). La lista sarebbe lunga e rispecchia quanto di peggio ha dato la interpretazione deteriore e direi quasi vendicativa che è scaturita dalla chiusura degli Opg. Il Medico resta un Medico se riscuote la fiducia e la collaborazione terapeutica del paziente. È per questo che all’Avvocato Passione dico che la Riforma reale del sistema delle misure di sicurezza si fa con chi cura, e non dando a chi cura funzioni che non sono proprie, e dialogando con essi. *Psichiatra Usl Centro Toscana Puglia: rinnovato Progetto "Sport in carcere", resta il problema degli spazi per le attività di Fabrizio Ciannamea borderline24.com, 10 novembre 2016 Rinnovata per il secondo anno consecutivo, grazie ad un protocollo d’intesa tra Coni e Ministero della Giustizia, l’iniziativa "Sport in carcere" mira a migliorare le condizioni dei detenuti, permettendo un migliore reinserimento sociale. Quest’anno è estesa anche agli istituti penitenziari di Foggia, Lecce, Trani e Turi, oltre a quelli di Bari e Taranto. Restano, però, ancora due problemi irrisolti: evitare i conflitti tra clan e individuare gli spazi per fare sport. L’attività sportiva come strumento per migliorare le condizioni del detenuto e reinserirlo agevolmente in società. Sono gli obiettivi dell’iniziativa "Sport in carcere", rinnovata oggi, per il secondo anno consecutivo, grazie alla firma di un protocollo d’intesa tra Coni e Ministero della Giustizia. Da quest’anno il progetto sarà esteso anche agli istituti penitenziari di Foggia, Lecce, Trani e Turi, oltre a quelli di Bari e Taranto, già interessati dalla scorsa edizione. Nunziante: "In un’epoca dove si alzano i muri noi promuoviamo il recupero di chi sbaglia" - "Quella che la Regione Puglia porta avanti, anche con questa iniziativa, è una sfida culturale che mira a reinserire in società chi ha sbagliato - ha commentato Antonio Nunziante, vice presidente della Regione Puglia, intervenuto in conferenza stampa - in un periodo particolare dove si alzano muri per respingere il diverso, noi promuoviamo l’umanizzazione della politica". E, secondo i rappresentanti dell’amministrazione regionale, il progetto nel lungo periodo porterà anche ad un risparmio sulla spesa nella sanità, "oltre a migliorare il trattamento detentivo, inquadrare chi ha sbagliato all’interno di regole, insegnandogli il rispetto del dell’altro", come spiegato dall’assessore allo Sport della Regione Puglia, Raffaele Piemontese. I problemi irrisolti: le frizioni tra clan e gli spazi per lo sport - Il progetto interesserà circa cinquanta detenuti a carcere. L’unica eccezione a Trani, dove saranno duecento i detenuti coinvolti. "Il Coni, come già accaduto, invierà i propri istruttori negli istituti penitenziari. I detenuti faranno circa due ore di sport settimanale, tra cui ginnastica, calcio e tennis tavolo", ha chiarito Elio Sannicandro, presidente regionale del Coni. "Insegnare sport in carcere non è semplice - ha continuato Sannicandro - spesso bisogna distinguere detenuti in gruppi, evitando di creare frizioni tra clan rivali". Resta, ancora, problematica l’individuazione delle strutture per fare sport negli istituti, come in quello di Brindisi dove, secondo Sannicandro, non è presente nessuno spazio per le attività. Monza: detenuto di 42 anni si impicca in cella monzatoday.it, 10 novembre 2016 Detenuto si toglie la vita in carcere a Monza, suicidio mercoledì pomeriggio. A perdere la vita intorno alle 15 è stato un uomo di 42 anni. Il drammatico gesto si è consumato tra le pareti della casa circondariale di via Sanquirico dove intorno alle 15 l’uomo, italiano, in carcere per reati di droga, si è impiccato all’interno della propria cella. Nonostante il tempestivo intervento degli agenti della polizia penitenziaria per il 42enne non c’è stato nulla da fare. In carcere a sirene spiegate sono arrivate un’automedica e un’ambulanza del 118 in codice rosso. Né la Polizia penitenziaria né il personale medico ha potuto fare nulla perché il 42enne era già deceduto. Padova: il compagno di cella gli spacca la testa con la moka, ergastolano in fin di vita di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 10 novembre 2016 Massacrato da un compagno di cella che l’ha colpito ripetutamente con una moka da caffè in testa. Heric Faruk, 51 anni, bosniaco, ergastolano, ormai da due giorni è ricoverato in terapia intensiva in fin di vita. È successo martedì pomeriggio al carcere Due Palazzi. Il cinquantunenne, detenuto dal 1992 per omicidio, violenza sessuale, rapina e favoreggiamento della prostituzione ha litigato per qualche motivo con un compagno di cella. È nata una colluttazione. L’altro ha avuto la prontezza di prendere in mano una moka e con un movimento fulmineo l’ha colpito una volta in testa, poi ancora e ancora. L’ha ridotto in fin di vita. Quando sono intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria l’hanno trovato esanime a terra, ridotto a una maschera di sangue. Subito è stato chiamato il 118. Il detenuto è stato caricato in ambulanza e trasferito d’urgenza in pronto soccorso. Lì i medici si sono resi conto subito della gravità delle ferite e quindi hanno trasferito l’uomo in Rianimazione. La polizia penitenziaria sta cercando di indagare sull’accaduto per capire i motivi che hanno portato i due a litigare. Chiaramente l’aggressore sarà perseguito. Napoli: detenuto dell’Ipm di Nisida dà fuoco a una cella, due ustionati Ansa, 10 novembre 2016 Nessuno dei due è in pericolo di vita. Due giovani detenuti del carcere minorile di Nisida, a Napoli, sono rimasti ustionati mercoledì sera a causa di un incendio appiccato da uno dei due ragazzi nella cella dove erano in isolamento. I due ragazzi sono ora ricoverati nel centro grandi ustionati dell’ospedale Cardarelli: uno con ferite lievi, l’altro con ustioni più gravi. Entrambi non sono in pericolo di vita. A spegnere l’incendio sono stati gli agenti della polizia penitenziaria prontamente intervenuti: uno di loro è stato colto da malore ed è svenuto. Le sue condizioni, comunque, non destano preoccupazioni. Salerno: 9 detenuti in una cella di 20 metri quadri, ministero condannato al risarcimento ottopagine.it, 10 novembre 2016 Detenuti trattati come bestie: condannato il ministero. Chi ha sbagliato deve pagare ma non si può ledere la loro dignità. Il Tribunale di Salerno con un’ordinanza di trenta pagine, ha accolto il ricorso di risarcimento danni di un giovane ex detenuto del carcere di Fuorni per trattamento inumano, rigettando le eccezioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato e condannando il Ministero della Giustizia. L’ordinanza è del 4 novembre scorso. La vicenda riguarda 9 detenuti tenuti in una cella di circa venti metri quadrati, con evidenti carenze di ogni tipo. Non si sarebbe dunque rispettata la dignità di questi individui a dirlo nell’ordinanza la dottoressa Cammarota del tribunale salernitano, che ha spiegato: "Chi ha commesso un reato, non per questo cessa di essere titolare dei diritti fondamentali, perché di fronte ai diritti inviolabili della persona tutti gli uomini sono uguali. E continuano ad esserlo anche da detenuti". Il provvedimento costituisce la prima pronuncia di accoglimento in materia da parte del Tribunale di Salerno e si pone in linea con le massime di tutti i Tribunali d’Italia. Como: nasce uno Sportello per informare e orientare i detenuti Il Giorno, 10 novembre 2016 Accordo tra Camera Penale, Ordine degli Avvocati e Università dell’Insubria per l’assistenza ai carcerati. Lo "Sportello Carcere" della Casa Circondariale di Como, è ufficialmente attivo da ieri. Il protocollo è stato siglato al termine di un lungo lavoro, a cui hanno partecipato, oltre alla direzione del carcere, Camera Penale di Como-Lecco, l’Ordine degli avvocati di Como, l’Università Insubria di Como. Si tratta di un progetto il cui compito sarà fornire ai detenuti definitivi che lo richiederanno, informazioni e orientamento al percorso legale sulle materie del diritto connesse alle tipologie delle pratiche, che sono state minuziosamente indicate nell’accordo. Nel documento sono inoltre indicate le modalità operative di funzionamento del servizio, prima esperienza in assoluto nel nostro territorio. Napoli: nell’Ipm di Nisida, laboratori per i detenuti autofinanziati di Maria Baldares liberopensiero.eu, 10 novembre 2016 All’interno del carcere minorile di Nisida, nel tempo, si è andato a costituire tra le varie attività, il laboratorio di ceramica. Il laboratorio, come anche gli altri progetti, sono nati grazie a sostegni economici indipendenti senza aver mai ricevuto aiuti da parte dell’amministrazione pubblica. Tutto questo e molto altro è stato spiegato da Gianluca Guida, direttore del carcere minorile di Nisida, durante la presentazione della mostra in Consiglio Regionale della Campania delle ceramiche realizzate dai detenuti. Durante la presentazione Guida ha spiegato: "I ragazzi di Nisida sono protagonisti del clima di tensione sociale che si vive nelle nostre strade e nei quartieri, ma noi lavoriamo per una ricomposizione della frattura che aumenta tra società civile e devianza. Non possiamo permettere che adolescenti vengano abbandonati a un destino criminale, non possiamo permetterci che continuano ad essere protagonisti neri della nostra società". Dalle parole di Guida si evince come i laboratori possano aiutare questi ragazzi e queste ragazze ad entrare in una nuova prospettiva. Si tratta di giovani che hanno commesso degli errori e una volta usciti l’obiettivo è quello di non ricadere negli stessi schemi. L’auspicio è quello di riuscire ad re-inserirsi nella società con una nuova consapevolezza. Per garantire la permanenza dei laboratori, sono stati scelti dei metodi alternativi per poter racimolare il giusto capitale. Oltre al contributo indipendente, un altro espediente è il 5xmille che consiste nel destinare appunto il 5×1000 dalle proprie imposte alla Fondazione senza riportare alcun aggravio alle proprie tasche. Hanno collaborato, inoltre, anche alcune istituzioni come "Il meglio di te Onlus" che gestisce e finanzia i laboratori formativi all’interno del carcere e stipula protocolli con le imprese affinché sostengono borse lavoro per l’inserimento lavorativo degli ex detenuti. Inoltre hanno collaborato a donare il comando Regionale Campania della Guardia di Finanzia e il Ministero dell’Economia che ha contributo al finanziamento dei macchinari per il laboratorio di ceramica. Infine chiunque può dare il proprio contributo acquistando i manufatti in ceramica realizzati dai ragazzi di Nisida. Pisa: "Il carcere in Italia. Diritti detenuti", incontro promosso da Istituto Dirpolisi gonews.it, 10 novembre 2016 "Il carcere in Italia. Diritti detenuti" è il titolo dell’incontro in programma sabato 12 novembre alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (inizio ore 15.00 in aula magna), su iniziativa di Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna, RotarACT Gruppo Maestrale, Associazione L’Altro Diritto. I promotori condividono attenzione e sensibilità verso i temi oggetto dell’incontro, legati al mondo carcerario italiano. L’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna è da sempre impegnato, con interesse scientifico, sulle tematiche della tutela dei diritti dei detenuti in carcere, dell’emarginazione carceraria e del sovraffollamento; il RotarACT Gruppo Maestrale, nell’ambito di un service nazionale dedicato alla questione carceraria, con questo evento dà inizio al suo impegno nella sensibilizzazione per garantire trattamenti umani e non degradanti all’interno degli istituti penitenziari; l’Associazione L’AltroDiritto anche attraverso un’apposita convenzione con l’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, da anni è impegnata nell’affermare una consapevolezza civica e culturale del problema carcerario. I promotori sottolineano come questo incontro arrivi pochi giorni dopo la denuncia del Partito Radicale Italiano sulle disumane condizioni di degrado in cui versa la Casa circondariale "Don Bosco" di Pisa, in cui l’associazione L’Altro Diritto svolge volontariato e assistenza extralegale, coordinatosi con l’attività del "Garante dei detenuti per il Comune di Pisa", Alberto di Martino, ordinario di Diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna. Alla tavola rotonda di sabato 12 novembre sono stati invitati a partecipare, raccontando ognuno con la sua esperienza, ciascuno dalla sua prospettiva professionale, il sottosegretario del Ministero della giustizia Cosimo Ferri; l’avvocato Laura Antonelli, presidente della Camera penale di Pisa; l’avvocato Mario De Giorgio, già presidente della Camera penale di Pisa; Fabio Prestopino, direttore della Casa circondariale "Don Bosco" di Pisa; Leonardo Degl’Innocenti e Rinaldo Merani, magistrati di sorveglianza; Giuseppe Caputo, dell’Associazione L’Altro Diritto; Luisa Prodi, presidente e fondatrice dell’Associazione "Controluce", anch’essa impegnata, a Pisa, nell’attività di volontariato presso la casa circondariale di Pisa. Roma: "Racconti dal carcere": da Regina Coeli liberi in libreria di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 10 novembre 2016 È giunto alla VI edizione il premio letterario "Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere", a cui hanno partecipato 500 detenuti da tutta Italia che si sono cimentati sul tema del perdono. A Regina Coeli la cerimonia finale, in cui sono stati annunciati i vincitori. Numerose le personalità, in veste di tutor d’eccezione. Celle che pullulano di emozioni e urlano al mondo la loro esistenza. "Il pubblico di Regina Coeli", a cui Dacia Maraini, la madrina del premio, ha mandato i saluti con una missiva, si accinge a lasciare il carcere. Tre ore sono trascorse in fretta, con Serena Dandini, affiancata dall’organizzatrice, Antonella Bolelli Ferrera e numerosi protagonisti sul palchetto della Rotonda di Regina Coeli. Un ambiente angusto, di forma conica, a pochi metri dalla porta d’ingresso del penitenziario. Gli agenti schierati lungo il perimetro, la sala gremita e tutt’attorno, i detenuti dietro le sbarre e le vetrate, un po’ in silenzio, ma anche con qualche schiamazzo angosciante, tutti ad assistere alla premiazione dei loro compagni. In memoria di Goliarda Sapienza. Il premio letterario è intitolato all’attrice e scrittrice Goliarda Sapienza, deceduta vent’anni fa, che con il romanzo di una vita, "L’arte della gioia", ha lasciato in eredità un esempio di come la scrittura possa essere un potente antidoto alla disperazione. Ed oggi, dal vuoto a cui la reclusione costringe, emergono voci che popolano le pagine del libro "Così vicino alla felicità. Racconti dal carcere" (Rai Eri), che raccoglie i 25 racconti finalisti (16 per la sezione adulti e 9 per la sezione minori) con le rispettive introduzioni dei tutor e la prefazione di monsignor Dario Edoardo Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano e prefetto della Segreteria per la comunicazione. Ciò che rende questo premio unico nel panorama europeo è proprio la partecipazione di scrittori, artisti e giornalisti che, nel corso dei mesi, hanno aiutato i partecipanti nel lavoro di editing e alla fine, li hanno potuti incontrare. Il premio e i vincitori. Da un’idea della giornalista Antonella Bolelli Ferrera, nasce nel 2010 il premio "Goliarda Sapienza", promosso da inVerso Onlus, dal Dipartimento per la Giustizia Minorile, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla SIAE. Quest’anno la giuria, presieduta da Elio Pecora, ha assegnato il primo premio per la sezione adulti a Michele Maggio, affiancato da Sandro Ruotolo nella stesura di Cemento Urlante e, per la sezione minori e giovani adulti, ad Antonio con l’elaborato Il biglietto di Rosa Parks, redatto con l’aiuto di Erri De Luca. Inoltre, la collaborazione con Rai Fiction consentirà di produrre un corto e una web serie, La scuola della notte, che verrà trasmessa su RaiPlay e Rai4. Perdonare e perdonarsi. Parole di speranza e voci mosse da sentimenti forti, da dolori antichi. Madri e padri di figli oggi non più bambini fanno la loro comparsa in queste pagine e si deduce leggendole che quasi mai dietro i crimini si intravvedono persone dall’infanzia serena. Violenze e abbandoni sono lo sfondo della maggior parte delle narrazioni, talvolta autobiografiche. E poi la vita da reclusi, i sensi di colpa, la rabbia, i rancori e la speranza verso il perdono. Un ponte di parole. "Avrei dovuto cominciare da lì, perdonare mio padre per perdonare me stesso", scrive Adelmo, mentre immagina di giocare la sua partita. "Ho affidato il mio dolore alla penna e alla carta", fa sapere Olga. E dal "cielo a quadretti", contrastando quella che Erri De Luca definisce "la mutilazione dell’affettività carceraria", si sprigionano i versi che Hikmet dedicò alla sua amata: "ricca come il cuore / cara come la libertà / è adesso questa prigione". "Come un miracolo", dichiara Mogol, anch’egli uno dei tutor, "un fiore nasce spontaneo in un deserto desolante". Pisa: Stefano Benni per "Gabbie", l’antologia realizzata con i detenuti del Don Bosco La Nazione, 10 novembre 2016 La presentazione del volume si terrà l’11 novembre al Pisa Bookfestival (sala Fermi) a Palazzo dei Congressi. Spezzare le catene. Non solo quelle fisiche della detenzione, ma anche i processi che la carcerazione si porta dietro. Pregiudizi, tabù, esclusione dalla società. Perché le gabbie sono tante e chi è entrato una volta in carcere spesso non lo lascia più. Reiterando i reati e appiccicandosi addosso lo status di detenuto a vita anche se non lo è più. Così nasce "Gabbie", il secondo volume Mds, che raccoglie racconti e poesie di detenuti e non, frutto di un laboratorio di scrittura condotto (da Michele Bulzomì, Antonia Casini e Giovanni Vannozzi che sono anche i curatori del libro) nella casa circondariale di Pisa da ormai quasi due anni. Un’antologia inedita, che sarà presentata al "Pisabook festival" venerdì 11 novembre nella sala Enrico Fermi del Palazzo dei Congressi alle 14.00 con gli interventi del sottosegretario al Ministero di Giustizia, Cosimo Ferri, del direttore del carcere Don Bosco, dottor Fabio Prestopino, del Sindaco di Pisa Marco Filippeschi, e del garante dei detenuti per la città di Pisa, professor Alberto Di Martino. Le letture dei brani curate da Daniela Bertini e Gianni La Rocca, dell’associazione "Il Gabbiano", completeranno la presentazione moderata da Tommaso Strambi, responsabile della redazione de La Nazione di Pisa. I diritti d’autore di "Gabbie" (che ha l’introduzione del direttore Prestopino, uno scritto della dottoressa Simona Elmi che è stata per undici anni psichiatra nella casa circondariale, il sostegno dell’area educativa del don bosco e il patrocinio di camere penali, comune e ordine degli avvocati) saranno devoluti a progetti per i carcerati, come già per la prima edizione di "Favolare". "Abbiamo stabilito con loro un rapporto umano e profondo per cui gioiamo per i loro risultati nei concorsi di scrittura (ora ne fanno tanti con ottimi risultati), soffriamo per le loro malattie o i loro dolori: il carcere ne racchiude molti", raccontano Michele, Antonia e Giovanni. "Con il massimo rispetto per le vittime dei loro reati e anche per la pena che stanno scontando. Perché si spezzi finalmente la catena". In questi due anni, Antonia, Giovanni e Michele, l’illustratore ( ma più che altro l’interprete) che ha regalato con i suoi disegni eleganza e unità all’insieme di scritti, sono stati accompagnati, nel loro corso, anche dalla presidente della Casa editrice Sara Ferraioli e da Fabio della Tommasina (Mds). E da alcuni scrittori esterni: giornalisti, filosofi, professori universitari. Un progetto sposato, tra gli altri, dal grande Stefano Benni che ha voluto regalare a "Gabbie" un suo scritto edito; da Ermanno Bencivenga che al don bosco ha tenuto anche una lezione, Athos Bigongiali, Renzo Castelli, Davide Guadagni e Alfonso Maurizio Iacono. Diritti civili. Il caporalato dei corrieri espresso di Barbara D’Amico Corriere della Sera, 10 novembre 2016 I fattorini che smistano e consegnano i prodotti appena ordinati online sono i nuovi schiavi del caporalato logistico. Lo dicono le proteste che da mesi agitano i centri italiani di smistamento dei prodotti e le inchieste che, soprattutto a partire dalla morte dell’addetto Gls a Piacenza - investito da un mezzo della società lo scorso 15 settembre - fanno luce su un comparto dove le condizioni di lavoro sono diventate disumane. Nonostante la morte dell’operaio, la cui ricostruzione è al centro di uno scontro tra lavoratori, azienda e magistrati, le trattative per rinnovare il contratto collettivo nazionale del comparto e introdurre conseguenze più severe per chi sfrutta gli addetti sono ancora in stallo. Per questo alcune sigle sindacali rappresentative del settore, in particolare Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti stanno pensando a uno sciopero nazionale. I dati di settore - La logistica impegna direttamente circa 250 mila addetti in Italia (dati desunti dagli studi dell’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano). Ma il numero è fuorviante perché logistica non vuol dire solo smistamento e stoccaggio delle merci, bensì anche consegna e trasporti. Se si considerano quindi tutti i settori nel loro complesso, compresi i trasporti via mare, gli addetti salgono a 1,4 milioni. Tra questi ci sono gli uomini e le donne in divisa a cui apriamo la porta quando finalmente ci arriva a casa il pacco ordinato tre giorni prima su un qualunque sito di e-commerce, e gli uomini e le donne che lavorano nei capannoni dove vengono stoccati e smistati gli ordini, e i camionisti e guidatori che materialmente trasportano le merci dai grandi magazzini di periferia in tutta Italia. Questi snodi sono cruciali per le vendite online e sono i luoghi da cui soprattutto i big dell’e-commerce pretendono un’efficienza quasi militare. Il caporalato non avviene solo nei campi - Secondo studi di settore l’aumento delle vendite online richiede un aumento, almeno in Italia, della manodopera necessaria a garantire l’efficienza delle consegne. Specie se il consumatore si abitua a ordinare qualcosa su Internet e vederselo recapitare entro un’ora ovunque si trovi. L’efficienza per ora non può essere garantita dalla sola tecnologia, ma l’impiego di manodopera umana inizia ad avere un costo sociale troppo pesante: gli operai ricevono spesso paghe da fame, sono sottoposti a turni massacranti, e non vedono rispettate tutele fondamentali (malattia e ferie). Si può parlare di caporalato nel settore della logistica? "Assolutamente sì - risponde Emanuele Barosselli, sindacalista della sigla Filt Cgil per la Lombardia - Ma con alcuni distinguo: dove c’è una presenza sindacale si tenta di superare queste condizioni, ma questo è un settore talmente vasto che tutte le organizzazioni sindacali e para sindacali messe insieme coprono forse il 20% di tutto il comparto". Difficile far emergere il lavoro nero - Tenere traccia del numero di lavoratori realmente impiegati e delle loro condizioni è impossibile a causa della scatola delle esternalizzazioni: un grande negozio online si affida a una società logistica per le consegne la quale, a sua volta, subappalta ad altre aziende lo smistamento o la consegna. Queste aziende a loro volta subappaltano a cooperative di lavoratori, in un ginepraio di deleghe che annacqua il compenso finale e rende complicatissimo risalire al vero datore di lavoro: colui che in teoria deve essere costretto ad applicare le norme di un contratto collettivo nazionale. All’indomani della morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, l’operaio della Gls, Maurizio Diamante (Fit Cisl) dichiarava che "l’episodio di oggi non deve trarre in inganno, ha messo di fronte due categorie di lavoratori, facchini e camionisti, che inseriti nella stessa catena lavorativa, per ragioni diverse sono vittime dell’erosione dei diritti e delle tutele del lavoro da infinite catene di appalti e sub appalti i primi, dalla concorrenza sleale dei vettori dell’est Europa i secondi". Ma a distanza di due mesi non si è mosso nulla. "Preoccupa il fatto che la morte dell’operaio egiziano della Gls non abbia smosso di un millimetro le posizioni da parte datoriale nel settore nel suo complesso", denuncia Barosselli. "Il fatto ha sicuramente unito gli addetti dei diversi settori ma non ho visto reazioni pronte da parte imprenditoriale". Migranti. Corridoi umanitari per i profughi, Salvini dice sì ma la Lega vota no di Alessia Guerrieri Avvenire, 10 novembre 2016 Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. È proprio il caso di dirlo. Perché a parole il leader della Lega, Matteo Salvini, ha aperto pubblicamente alla possibilità di appoggiare una proposta per favorire i corridoi umanitari "se arrivasse in Parlamento", ma quando poi Montecitorio si trova davvero a votare una mozione che impegna il governo a incrementare anche a livello europeo questa esperienza, i leghisti votano no. Andando, in sostanza, contro le parole del loro segretario di partito. La motivazione? A spiegarla durante le dichiarazioni di voto, ieri pomeriggio alla Camera, il deputato Gianluca Pini. L’unico modo per dare una risposta alla crisi umanitaria nel settore di Aleppo est, in Siria e in generale, secondo il parlamentare leghista, "è porre finalmente questa moratoria della vendita delle armi tra tutte le fazioni combattenti". Infatti, "fintanto che non riusciremo a fermare la vendita delle armi a tutte le parti che si stanno combattendo - la sua spiegazione - allora diventa di fatto inutile aprire dei corridoi umani-tari, perché sarebbero comunque corridoi umanitari rischiosi. E potrebbero essere utilizzati anche per fare in qualche modo una sorta di redde rationem interno, anche dentro le stesse fazioni". Ma facciamo un passo indietro. Il 21 settembre scorso intervenendo ai microfoni di Radio Padania Matteo Salvini, incalzato dal direttore di Avvenire Marco Tarquinio sulla possibilità offerta dai corridoi umanitari (sconosciuti all’eurodeputato) per affrontare la grave crisi umanitaria e le migrazioni, aveva risposto di slancio: "Se ci fosse una proposta per favorire dei corridoi umanitari nelle zone di guerra saremmo pronti a votarla". Una posizione ribadita anche durante il confronto televisivo tra i due la settimana scorsa a Matrix. Eppure ieri pomeriggio, al momento di passare dalle parole i fatti, la Lega ha votato contro la mozione 1-01425 con prima firmataria Milena Santerini (Demos-Centro democratico). Un testo che comunque è passato con 289 sì, 126 astenuti e 20 no (tra cui, appunto, i leghisti presenti in Aula). La mozione Santerini, in realtà, dopo aver presentato il progetto dei corridoi umanitari portato avanti dalla Comunità di Sant’Egidio, con la federazione della Chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese e che ora sarà ampliato dalla Conferenza episcopale italiana, impegna il governo proprio a "incrementare e sostenere anche a livello europeo e internazionale, tenuto conto dei positivi risultati già ottenuti, l’esperienza dei corridoi umanitari come forma di viaggio sicuro verso l’Italia e l’Europa, nonché di accoglienza diffusa, per le categorie più vulnerabili tra i profughi siriani provenienti dai campi e dai paesi limitrofi alle aree di guerra". Cioè proprio il provvedimento che si era impegnato a votare Salvini. "Non possiamo andare a votare continuamente, quando parliamo di crisi umanitarie, un libro dei sogni", è stata la conclusione delle dichiarazioni di voto del leghista Pini in Aula. Si deve votare "qualcosa che sia un indirizzo per la nostra diplomazia, per il nostro governo e, per così dire, per tutti quelli che possono incidere sul piano internazionale", sottolinea ancora l’esponente del Carroccio, "qualcosa che sia realizzabile e sia realizzabile nel più breve tempo possibile". Eppure in meno di un anno con i corridoi umanitari sono arrivati in Italia più di 400 profughi che diventeranno mille entro la fine del 2017. In totale sicurezza e senza pericolo alcuno. "Con l’approvazione della nostra mozione sui corridoi umanitari prendiamo atto dell’impegno assunto dal governo", è la soddisfazione espressa dalla deputata centrista Santerini, ricordando le esperienze "già avviate con successo in Italia". Nell’emiciclo di Montecitorio, poco prima, era stato il compagno di partito Mario Marazziti a chiedere "all’Italia - e ringrazio il governo di aver accolto favorevolmente la nostra mozione - di impegnarsi anche a livello europeo, perché questa esperienza possa essere fortemente allargata, possa essere generalizzata e possa chiudere la stagione delle morti in mare". Una "spinta forte" del Parlamento a cui la Lega sembra non aver voluto contribuire. Stati Uniti. La vittoria di Trump campanello d’allarme per i governanti europei di Luciana Castellina Il Manifesto, 10 novembre 2016 Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto. Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che "quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio" sarebbe stato "ahimè - il nostro presidente". Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan - lo stato della mitica Detroit - il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale. L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a "Occupy Wall Street" - l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti - non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione. Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani. L’establishment - democratico ma anche repubblicano - è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perché la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema. È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere). Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’"estremista" Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro. Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da "carrettiere" e che in America chiamano "da spogliatoio". Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto. Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata. Stati Uniti. Perché l’America non è un paese per donne di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 10 novembre 2016 "Non scoraggiatevi", ha detto Hillary alle ragazze e alle bambine americane deluse per la disfatta. Giusto. Mai mollare. La batosta di martedì però, per quanto dovuta anche a mille altri motivi e non solo alla misoginia storica di larghe masse di elettori, conferma una volta di più che l’America profonda, per parafrasare il titolo dei fratelli Coen, "non è un Paese per donne". La slavina che ha sepolto la candidata democratica, peraltro rea agli occhi di tante elettrici d’essersi proposta come condottiera dell’altra metà del cielo tenendosi il cognome del marito, pare avere travolto non solo la sua carriera politica. Nel momento di massima pressione corale sul tema, le donne da ieri al Senato sono più o meno come l’altra volta. Totale: 22. Ci sono fra loro, è vero, figure di spicco come la prima senatrice ispanica (Catherine Cortez Masto), la prima rifugiata sudanese (Ilah Omar), la prima eroina militare mutilata in combattimento (Tammy Duckworth) e la seconda donna di colore (Kamala Harris) mai eletta. Sempre ventidue sono, però. Su cento. Ed è probabile che questi numeri, se confermati dal voto alla Camera dei Rappresentanti, non permetterà all’America di Trump di schiodarsi dalle posizioni occupate nel ranking dell’Inter-Parliamentary Union sulle presenze femminili nei Parlamenti. Un mese fa era al 97° posto: novantasettesimo su 193 Paesi. Dopo l’Arabia, la Grecia e il Kenya. Staccatissima non solo dall’Italia, quarantaduesima, ma anche da Paesi come la Tunisia, la Macedonia, il Burundi... Per non dire del Ruanda, che svetta su tutti con il triplo abbondante di presenze "rosa" americane. Una classifica umiliante. Il fatto è che se Trump è riuscito in una rimonta difficile sul Partito democratico, l’establishment, la grande finanza e tanti "poteri forti", Hillary era chiamata alla rimonta molto più difficoltosa su una storia secolare. Bastino due dati: su 50 stati solo sei hanno una donna come governatore. E su quei cinquanta chiamati al voto martedì, quelli che in due secoli di vita democratica non hanno mai avuto una donna ai vertici sono 23. Quasi la metà. E di questi, tredici (Arkansas, Florida, Georgia, Idaho, Indiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Pennsylvania, South Dakota, Tennessee, West Virginia e Wisconsin) sono stati il perno del trionfo di "The Donald", il maschio tra i maschi. Dovremmo aggiungere, anzi, il Wyoming dove l’unica "governatrice" Nellie Tayloe Ross "ereditò" nel 1925 la carica dal defunto marito e il Texas dove Miriam A. Ferguson fu imposta negli stessi anni dal marito James E. Ferguson, il governatore rimosso tempo prima perché messo sotto accusa. Dopo di lei, una sola parentesi: Ann Richards. Fine. Come una parentesi fu Kay Orr nel Nebraska: quattro anni su 162 di storia. Parevano vicende lontane, a molti, in campagna elettorale. Come immaginare che potessero pesare ancora? Le radici della diffidenza verso le capacità di governo delle donne, invece, si sono rivelate più profonde ancora di quanto temessero i più pessimisti. Del resto non solo la prima "governatrice" eletta senza esser moglie o vedova d’un governatore fu Ella T. Grasso nel Connecticut del 1974 (mezzo secolo dopo la concessione del voto alle donne!) ma l’ostilità misogina affonda in anni ancora più remoti. Dicono tutto, come qualche lettore ricorderà, le date: il XV Emendamento che almeno sulla carta concede il voto agli afroamericani (anche se poi l’esercizio del diritto si rivelerà assai complicato) è del 1870, il XIX che lo riconosce alle donne del 1920: cinquant’anni dopo. Il primo nero, Pinckney B. Stewart Pinchback, è eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1874, la prima donna Jeannette Rankin nel 1916. Il primo senatore nero è Hiram Rhodes Revels nel 1870, la prima senatrice donna Rebecca Latimer Felton, nel 1922. E otto anni fa la stessa Hillary Clinton, più giovane, grintosa e meno ammaccata dalle polemiche, che si era candidata con la speranza di poter puntare già allora, prima donna, alla presidenza degli Stati Uniti, venne spazzata via alle primarie da Barack Obama. Affascinante. Ma afroamericano. Solo una dannata catena di coincidenze storiche senza valore reale, come sbuffa qualcuno, rispetto ai "veri temi" della politica? Difficile da sostenere. È la società americana stessa, come accusava una battuta della rivista economica Fortune ("se guardi gli organigrammi delle grandi aziende hi-tech ti sembra di trovarti in Arabia Saudita"), a ruotare intorno alla figura maschile. "Il 43% delle aziende della Silicon Valley quotate in Borsa non ha una sola donna nel consiglio d’amministrazione", scriveva mesi fa Federico Rampini. E parliamo della frontiera più ricca, tecnologica, aperta, avveniristica, cosmopolita d’America. Immaginatevi quell’altra. Che mugugna sulla crisi davanti a una birra in un pub sul retro di un distributore di periferia. Stati Uniti. Piccoli Trump crescono, gli emuli europei: "nel 2017 cambieremo tutto" di Marco Zatterin La Stampa, 10 novembre 2016 Dalla Francia all’Ungheria, esultano gli anti-sistema: libertà per i nostri popoli. La Brexit ha schiuso la porta, l’elezione di Trump l’ha sfondata. "Una vittoria storica, una rivoluzione!" si concede l’olandese Geert Wilders, leader populista, antislamico e ossigenato del Partito delle Libertà. Non gli par vero che il "vecchio ordine" si sia sgonfiato un altro po’ col voto americano che, rimugina con l’usuale verve, bagna le polveri dell’odiata mondializzazione e riporta i destini delle nazioni al centro del palco globale. "Un’ottima notizia", commenta più sobria Marine Le Pen, che tutti i sondaggi danno sicura al ballottaggio presidenziale francese di maggio. "Il mondo d’una volta sta crollando", aggiunge Florian Philippot, fidato consigliere dell’aspirante novella Marianna. Per il quale, naturalmente, "la costruzione del nostro, di mondo, è cominciata". Hanno un debole per gli slogan evocativi, i piccoli Trump, gli aspiranti leader europei arruolati volontari nell’esercito del magnate che ha vinto la Casa Bianca guidando la riscossa della "maggioranza tradita". Nell’urlo di Donald trovano altro coraggio per continuare a combattere, ora sanno che tutto è possibile. L’americano aveva, come loro, l’establishment classico della politica a dodici stelle contro. Lo osteggiavano Angela Merkel come Francois Hollande, Matteo Renzi e i presidenti delle istituzioni. "Un Donald è più che sufficiente", aveva scherzato il numero uno del Consiglio Ue, il polacco Tusk, Donald pure lui. Con l’aria che tira, se proprio decidesse di occuparsene, la battuta potrebbe rubargliela il leader americano visto che, a gennaio, l’ex premier di Varsavia non è certo di essere al suo posto. L’Europa "potere morbido" potrebbe aver bisogno di un capro espiatorio. Lui sarebbe una scelta facile. "Il vento della libertà soffia ovunque di questi giorni", insiste l’aulico Philippot. In effetti, al secondo cataclisma che ha beffato i sondaggisti, sbaragliato gli opinionisti e ignorato le dichiarazioni di voto dei principali giornali, parlare di sospetto che nei prossimi mesi tutto possa mutare diventa un eufemismo. Sono cambiati i punti di riferimento. Il "Financial Times" si è schierato contro la Brexit e per Hillary Clinton, incassando due sconfitte clamorose, non l’unico a essere onesti. La lunga mano della mondializzazione ha fallito, direbbe con spregio la Le Pen. Metafora inesatta che, però, rende l’idea. Il calendario sembra progettato per dare "l’opportunità storica" che ieri ha sbandierato Frauke Petry, la leader del partito anti-immigranti e anti-euro tedesco, l’Alternativa per la Germania (Afd). Gli esclusi arrabbiati, gli sconfitti, gli impoveriti, gli indeboliti (e i pigri) vogliono il cambiamento a tutti i costi. Il prossimo choc potrebbe venire il 4 dicembre. Si tiene il referendum italiano sulle riforme, trasformato in plebiscito fra il presunto vecchio e il presunto nuovo. E c’è il ballottaggio presidenziale austriaco che potrebbe non replicare l’esito di luglio, dunque designare l’ultranazionalista Hofer al posto del verde moderato Van der Bellen. Un Renzi ferito, come l’affermazione dell’erede di Haider, potrebbe condurre in luoghi apocalittici o paradisiaci. Dipende dai punti di vista. Il 2017 porta le elezioni olandesi, alle quali si arriva con un esecutivo fragile e un’opposizione populista scatenata: sinora, Wilders non ce l’ha mai fatta, ma i rivali sono fiacchi e lo scenario minino è la governabilità difficile. Fra aprile e maggio tocca alla Francia, I sondaggisti danno al candidato Juppè la possibile vittoria. Davvero? O i francesi sfiduciati dalla crisi e impauriti dagli stranieri abbandoneranno l’usato sicuro degli eredi gollisti e sceglieranno il nuovo non collaudato della destra frontista? Marine sposa le tesi dell’imprevedibile Trump, si entusiasma davanti alla probabilità che l’accordo commerciale fra Usa e Ue finisca dimenticato. Non considera che se Washington lo facesse con gli asiatici, l’Europa degli scambi finirebbe contro un muro, ma questa è un’altra storia. "La democrazia è viva" sentenzia Viktor Orban, il durissimo premier ungherese, uno che per Bruxelles ama fare cosacce con i diritti e i fondamentali della vita democratica. Lo direbbe anche se Marine Le Pen diventasse presidente e pure se, in settembre, i cristiano democratici tedeschi e Angela Merkel perdessero la leadership o parte della loro forza. Orban cavalca lo scontento come tutti gli altri aspiranti Trump, la rabbia che ha gonfiato la rivolta. È radicata la convinzione che solo cambiando il conducente la macchina possa miracolosamente rimettersi a correre. Non è così, ma è difficile frenare l’onda. Certo non può riuscirci la debole Europa coi suoi deboli governi e le sue divisioni interne, priva di messaggi abbastanza forti da sconfiggere le schiere dei trumpisti. "Un popolo libero", sorride Nigel Farage, l’architetto della Brexit, mentre saluta l’affermazione di Trump. Anche lui, come gli altri, dimentica qualche dettaglio, ad esempio la dipendenza del Regno Unito dal commercio mondiale. Crede come ogni scettico e nazionalista che la decapitazione dell’élite basti a generare il progresso che si chiede. Ed è pronto a sollevare la scure. Per questo, per rimodellare l’Europa, i rivoltosi si affidano al trionfatore Trump, con fede nella canzone newyorkese per cui "se posso farcela qui, ce la farò ovunque". La ricetta condivisa impone stati forti e autonomi. Gli autoproclamati liberatori chiedono cittadinanza politica a Trumplandia, auspicano una leadership verso un nuovo modello economico e ammiccano alla Russia di Putin che osserva tutto con felicità. Sotto processo finiscono l’Unione europea, consueta vittima designata, e la Nato. Si contestano i patti, si rifiutano i trattati. Ci saranno sangue politico e contagiose fratture. I nipotini europei inseguono nella vittoria dello zio Trump "la fine dei poteri forti e del dominio della finanza", sebbene sia arduo dimostrare che il neopresidente sia un "potere debole". Quello "morbido" delle cancellerie europee ha poche carte vincenti da giocare, pertanto ha senso immaginare una Ue molto diversa nel 2018 rispetto a oggi. Non necessariamente migliore, è questa l’alea delle rivoluzioni. Certo che Vladimir Putin, il leader che più ha bisogno di avere vicini che litigano e non decidono, ha motivi per sorridere. Il che non è per forza un segno favorevole, sebbene ci sia chi - come Grillo e Le Pen - trovi nel buon umore dello zar una fonte di entusiasmo. Affascinante e rincuorante come un salto nel buio. Stati Uniti. Marijuana legale, l’altra vincitrice dell’election day di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 novembre 2016 In più della metà degli States è possibile curarsi con la cannabis, in otto lo spinello è libero quanto l’alcol. A conferma della complessità di un paese come gli Stati uniti, mentre alla Casa bianca sale il più populista degli inquilini possibili, l’election day si chiude anche con una serie di decisioni popolari che, nella maggior parte dei casi, mostrano una società più aperta e progressista di quanto il voto per Donald Trump possa lasciare immaginare. Primo tra tutti, il sì alla legalizzazione della marijuana in otto Stati sui nove chiamati al referendum, quattro dei quali hanno esteso l’approvazione anche all’uso ricreativo della cannabis: una decisione che imprime una svolta storica alla politica proibizionista e chiude l’era della "war on drugs" aperta da Nixon nel 1971. E poi sì al suicidio assistito di malati terminali in Colorado, sì all’aumento o all’adeguamento del salario minimo in molti dei 23 stati che ponevano un quesito sul minimun wage, sì di Washington Dc e California ad alcune restrizioni sulla vendita delle armi, sì alla costruzione di alloggi popolari per i senza tetto di Los Angeles. Certo, ci sono anche dei "no" che riportano indietro le lancette della democrazia e del diritto: in un paio di Stati ritorna possibile la pena di morte, e la paura di vedere migrare altrove le industrie del porno ha convinto gli elettori della California a votare contro l’obbligo dell’uso dei condom durante le riprese hard, misura che avrebbe potuto limitare la rinnovata diffusione dell’Hiv tra i lavoratori del settore. In tutto, sono più di una ventina le questioni chiave su cui gli elettori di alcuni Stati hanno dovuto esprimersi. In California i quesiti erano 17, in Texas oltre 50. Forse non è un caso se in Nebraska, uno di quegli stati dove Trump ha trionfato, è stata respinta la decisione, presa dal governo lo scorso anno, di sospendere la pena di morte, malgrado non vi siano più esecuzioni dal 1997. Però anche l’Oklahoma ha votato a favore di "protezioni costituzionali" alla pena capitale, che era sospesa dal 2014 e che ora non potrà più essere considerata dai tribunali statali una punizione "crudele e inusuale". E soprattutto l’abolizione delle esecuzioni è stata bocciata perfino nella liberale California, che vanta nel braccio della morte di San Quintino ben 725 detenuti in attesa del boia di stato. Forse però non è neppure un caso se il Colorado, che è valso nove voti elettorali per Hillary Clinton, è diventato il sesto Stato in cui vige una "legge sul diritto a morire", dopo California, Montana, Oregon (dove è in vigore da una ventina d’anni), Vermont e Washington, mancando una legge federale sulla materia. La Prop 106 approvata permette ai medici di assistere nel suicidio i cittadini residenti maggiorenni che lo richiedano e che siano malati in fase terminale, con un’aspettativa di vita di sei mesi o meno. Finora, in Colorado aiutare un aspirante suicida era considerato un crimine. Ma i movimenti liberali americani - che non sono solo di area democratica - esultano soprattutto per la vittoria della Proposition 64 in California, con il 55,75% dei voti, e di quelle similari in Maine (51%), Massachusetts (53,36%) e Nevada (54,21%), tutte volte alla legalizzazione della marijuana anche a scopo ricreativo. Solo in Arizona la proposta è stata respinta, fermandosi al 47,82% dei sì. Mentre in Florida, Arkansas, Nevada e North Dakota è passata la legalizzazione della cannabis terapeutica. Ben 82 milioni di americani si sono espressi sulla questione droghe leggere. E se a livello federale resta un reato detenere cannabis anche per uso personale, Massachusetts e Maine sono i primi stati a est delle Montagne Rocciose a depenalizzare la modica quantità. Otto Stati che, con normative diverse, vanno ad aggiungersi a quelli - Alaska, Colorado, Oregon e Washington Dc - che già nel 2014 resero legale la coltivazione e la compravendita di marijuana e hashish. La Prop 64 californiana, per esempio, mette sullo stesso piano l’alcol e le sostanze stupefacenti leggere, tassate con un’accisa del 15% e controllate dallo Stato, in modo da sottrarle al mercato criminale. Tutti i cittadini di età superiore ai 21 anni potranno coltivare in casa un massimo di sei piante di marijuana e detenere fino a 28 grammi di cannabis per uso personale. A questo punto, come fanno notare i Radicali italiani e le tante associazioni (Cild, Forum Droghe, Luca Coscioni, Antigone, A Buon Diritto, Possibile, ecc.) promotrici in Italia della campagna "Legalizziamo!", sono diventati otto gli Stati ad avere un mercato legale della marijuana, mentre 28 - più della metà del totale - ora prevedono la possibilità di curarsi con la cannabis. Per un quarto della popolazione Usa il proibizionismo non è più di casa. "Venerdì - annuncia Marco Perduca, coordinatore della campagna - consegneremo alla Camera le firme a sostegno della nostra proposta di legge sulla cannabis per rilanciare la legalizzazione anche in Italia". È ora anche per il nostro Paese di seguire un trend ormai inarrestabile. Stati Uniti. West Coast nuovo regno dello spinello libero di Gabriele Martini Il Manifesto, 10 novembre 2016 Luce verde anche da Nevada, Massachusetts e Maine. Solo i cittadini dell’Arizona respingono il referendum. Florida, North Dakota e Arkansas introducono la a cannabis a scopo terapeutico. Ecco come cambia la geografia anti-proibizionista. Da Seattle a San Diego. Passando per San Francisco, Los Angeles, Las Vegas. Nel giro di una notte la West Coast americana diventa l’Eldorado dello spinello libero. California e Nevada legalizzano la marijuana. Stesso responso anche in Massachusetts e Maine. Solo in Arizona il referendum viene respinto. Mentre Florida, North Dakota e Arkansas si aggiungono alla lista di Stati che consentono l’assunzione di cannabis per scopi terapeutici. La canna libera era già realtà in Alaska, Colorado, Oregon, Stato di Washington e Washington D.C.. Ma la tornata elettorale statunitense stravolge la geografia anti-proibizionista. Soprattutto il voto californiano è destinato a fornire nuovo slancio ai movimenti per la legalizzazione dell’erba. Sei anni fa un analogo referendum fu respinto con il 54% di no. Ma oggi il panorama è cambiato. In California, grazie al via libera alla "proposition 64", i maggiori di 21 anni potranno fumare spinelli in casa o nei locali preposti, possedere fino a 28 grammi di marijuana per uso personale e coltivare fino a sei pianti di cannabis (purché non siano visibili al pubblico). La nuova legge californiana prevede che sia lo Stato che le città possano tassare la coltivazione e la vendita di erba. I tecnici stimano nuove entrate per almeno un miliardo di dollari all’anno. Secondo uno studio dell’University of the Pacific di Stockton, solo in California, si creeranno ventimila nuovi posti di lavoro. "Questo è il risultato più importante nella storia del movimento anti-proibizionista della marijuana", afferma Rob Kampia, direttore esecutivo del Marijuana Policy Project, che ha sostenuto il referendum californiano. Secondo un sondaggio Gallup, sei cittadini su dieci sono favorevoli alla legalizzazione della marijuana. Oggi quasi 68 milioni di americani, circa il 21% della popolazione degli Stati Uniti, vivono in Stati dove è consentito fumare cannabis. Ecco perché ora anche il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà prendere atto che il divieto di cannabis a livello federale è sempre più incomprensibile. Turchia. Bruxelles ad Erdogan: "Repressione incompatibile con i valori europei" di Carlo Lania Il Manifesto, 10 novembre 2016 Dopo settimane di avvertimenti da una parte e di minacce dall’altra alla fine lo scontro tra Unione europea e Turchia è venuto alla luce in tutta la sua durezza. Bruxelles ha imposto ieri una brusca frenata alle ambizioni europee di Recep Tayyip Erdogan giudicando la Turchia "incompatibile a diventare un membro Ue" a causa della feroce repressione attuata nel paese dopo il fallito golpe di luglio. Parole che allontanano la prospettiva di una liberalizzazione dei visti che permetterebbe ai turchi di circolare all’interno dell’area Schengen - altro punto su cui Erdogan batte da sempre - scatenando l’immediata reazione di Ankara che è tornata a minacciare di far saltare l’accordo sui migranti siglato a marzo e di "aprire le porte" ai tre milioni di profughi siriani che oggi si trovano nel paese. Per ora siamo solo alle minacce verbali, schermaglie nelle quali Bruxelles non chiude definitivamente la porta ad Ankara chiedendogli di "scegliere da che parte stare". Ma Erdogan ha già detto nei giorni scorsi di non voler aspettare la fine dell’anno per passare dalle parole ai fatti lasciando liberi i siriani di partire e ieri si è preso anche il lusso di ironizzare sull’altolà di Bruxelles: "È il loro timore, ecco perché non possono andare fino in fondo", ha detto riferendosi a una ripresa degli sbarchi. La bocciatura di Ankara è arrivata con la presentazione del rapporto che ogni anno la Commissione Juncker prepara a proposito degli stati che chiedono di aderire alla Ue. Nel presentarlo all’Europarlamento il commissario per l’allargamento Johannes Hahn ha ricordato le migliaia di arresti di militari, giornalisti, accademici, funzionari pubblici e parlamentari avvenuti in Turchia da luglio, una repressione che ha di fatto messo a tacere ogni forma di opposizione. Per Hahn tutto questo rappresenta il proseguimento di un processo di "arretramento dei diritti fondamentali" cominciato molto prima del tentato golpe. "È importante sottolineare che non c’è un arretramento solo da quest’anno o da questa estate. È un processo iniziato già da un paio d’anni". Inevitabili le conclusioni: anche se Bruxelles è pronta ad assistere Ankara nel soddisfare tutti i criteri necessari ad arrivare alla liberalizzazione dei visti, è necessario che prima Erdogan metta fine alla repressione e cambi la legge anti-terrorismo, "per essere sicuri che non sia utilizzata contro l’opposizione". Fino ad allora la Turchia - dove perdipiù non è escluso che venga addirittura reintrodotta la pena di morte - resta un paese "incompatibile" con i valori dell’Europa. Resta da vedere adesso cosa accadrà. Certo è che le prime reazioni non lasciano sperare nulla di buono. Quelle di Bruxelles "sono critiche tutt’altro che costruttive", ha commentato il ministro turco per gli Affari europei Omar Celik, mentre il portavoce del presidente è tornato a minacciare l’Europa avvertendo che lo stop ai negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue "non resterà senza conseguenze". La possibilità che non si tratti solo di minacce è più che reale e prima ancora di Bruxelles a pagare le conseguenze di un eventuale ritorsione sarebbero i siriani che si trovano nei campi profughi in Turchia. Senza contare che nel suo scontro con l’Europa Erdogan può farsi forte se non del consenso, almeno della neutralità del nuovo presidente degli Stati uniti, con cui vanta un buon rapporto. Trump ha infatti già chiarito di non voler interferire in nessun modo nel giro di vite attuato dal presidente turco dal giorno del fallito golpe. "Se sarò eletto presidente non farò pressioni sulla Turchia o su altri alleati autoritari che conducono purghe sui loro avversari politici o riducono le libertà civili", aveva promesso a luglio al New York Times. Anche per questo ieri Erdogan ha salutato con entusiasmo l’elezione del tycoon americano. Israele. Dagli studenti 500mila lettere all’Onu in solidarietà dei minori palestinesi detenuti infopal.it, 10 novembre 2016 Studenti palestinesi hanno inviato mezzo milione di lettere al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon a sostegno dei minori prigionieri nelle carceri israeliane. L’iniziativa è stata organizzata dalla Società per i Prigionieri Palestinesi in cooperazione con il ministero dell’Educazione, come parte di una campagna lanciata in solidarietà al 14enne Ahmed Manasra e ad altri minorenni nelle carceri israeliane. Gli organizzatori dell’evento hanno affermato, durante un sit-in tenuto al di fuori dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ramallah, che queste lettere sono state scritte per ricordare all’Onu e alle sue istituzioni il loro ruolo verso i bambini palestinesi, sottoposti a diverse violazioni e crimini commessi da Israele. Circa 350 minori palestinesi, comprese 12 ragazzine, sono tenuti prigionieri nelle carceri di Megiddo, Ofer e Hasharon.