La politica non deve diventare imprenditoria del malessere di Mauro Magatti Corriere della Sera, 9 marzo 2016 Dopo Francia, Spagna e Italia anche negli Usa avanza lo spirito contrario ai partiti che chiede di superare i vecchi modelli. Ma attenzione ai professionisti del malcontento diffuso. Se si guardano gli indici di fiducia, la crisi di legittimazione dei sistemi politici non accenna a diminuire. Negli Stati Uniti, il gradimento nei confronti del governo federale è tornato al di sotto del 20%. Soglia che rimane lontana anche per gran parte degli esecutivi europei (per non dire delle istituzioni comunitarie). Non si tratta di uno scollamento di breve periodo. A pesare è la progressiva perdita di efficacia della decisione da parte delle istituzioni democratiche. Che la gente paga sulla propria pelle. Fin tanto che la globalizzazione è stata nella sua fase espansiva, la gravità di un tale fenomeno ha potuto essere mascherata. In fondo, l’aumento del benessere, o almeno la speranza di un suo raggiungimento, rendeva tutto più facile. Ma con il 2008, il quadro è mutato. Se ammettiamo che con il collasso finanziario si sia determinato un cambiamento di stato nelle economie avanzate, forse possiamo capire meglio le convulsioni che attraversano le democrazie avanzate. La scomposizione degli schieramenti politici che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni trova conferme sempre più numerose. E dopo Francia, Spagna, Italia, oggi è il turno persino degli Stati Uniti. Anche in quel grande Paese, con la sua straordinaria tradizione democratica, volano gli stracci per l’inatteso successo di Donald Trump. E più il Partito repubblicano se la prende con il candidato in pectore, tanto più cresce il consenso del magnate americano. Quasi che, per molti elettori, l’allure anti partitico e anti-establishment costituisca ormai, in America come in Europa, un titolo di merito a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Cosa sta succedendo? Anche se in maniera confusa, l’elettorato chiede alle élite di prendere atto che i modelli degli ultimi anni non reggono più. Né dal punto di vista economico, perché una larga fetta della popolazione si ritrova in una condizione di cronica incertezza; né da quello sociale: ci sono infatti interi strati della popolazione che si sentono abbandonati di fronte a fenomeni complessi sistematicamente sottovalutati dalle élite (a partire dalla pressione migratoria). Il problema è che, come spesso accade nei periodi di transizione, i partiti più istituzionali sembrano incapaci di imprimere quella svolta di cui si sente il bisogno. Vuoi perché sono fragilissimi e in molti casi quasi svuotati al loro interno; vuoi perché sono preoccupati di non causare ulteriore instabilità (oltre che di perdere il loro potere). Ma in questo modo si espongono alle scorrerie dei nuovi imprenditori politici che sfruttano il malessere diffuso. Finché il gioco rimane questo, i rischi saranno elevati. Tanto più che l’uscita della crisi, ripetutamente annunciata e poi sempre rimandata, viene ormai vista come un miraggio destinato a non realizzarsi. Cosa che fa lievitare il malcontento. La soluzione - facile a dirsi e difficilissima da attuarsi - sta nell’abbandonare la posizione di difesa. Dall’angolo in cui si trova stretto, il sistema politico può uscire solo aprendo una decisa stagione di innovazione istituzionale attorno a tre dimensioni principali. La prima riguarda il modello di sviluppo. Le condizioni nelle quali ci ritroviamo sono tali da costringerci ad abbandonare i fasti della crescita illimitata. Le aspettative per il futuro sono già state ridimensionate. Ma una minor crescita va compensata con una decisa lotta agli sprechi, ai privilegi, alla corruzione. Nella prospettiva di una crescita economica ispirata dai principi della sostenibilità integrale: in ambito ambientale, sociale, culturale, la sostenibilità (che é il vero punto di incontro tra austerity e flessibilità) è un driver potente che aspetta solo di essere messo pienamente in moto. La seconda ha a che fare con la sovranità - cioè la ridefinizione di uno spazio reale per l’esercizio della decisione politica. Lo si vede con chiarezza tanto sul tema dei migranti quanto su quello degli interventi internazionali. E, soprattutto, sul nodo della regolazione finanziaria. Nell’epoca della globalizzazione post 2008, non c’è più spazio per istituzioni fragili. Negli Stati Uniti, come in Europa, ciò di cui si sente il bisogno è un sistema politico capace di decidere e di esercitare l’autorità. La terza dimensione è quella che una volta sarebbe andata sotto il nome di partecipazione. Ma che oggi sarebbe meglio chiamare "contribuzione": il cittadino (singolo e organizzato) non va più visto come un soggetto passivo e inerte, ma come il vero autore della crescita e della innovazione, capace e creativo. E il suo contributo alla produzione di valore va riconosciuto e premiato, anche grazie alle nuove possibilità che la Rete mette a disposizione. Come dire: la politica oggi é più che mai in campo. Speriamo non tardi a tornare a giocare. Consiglio d’Europa: le carceri italiane restano tra le più affollate, ma in miglioramento Ansa, 9 marzo 2016 L’Italia resta uno dei paesi con le carceri più sovraffollate d’Europa, ma la situazione è in netto miglioramento. È quanto emerge dall’ultimo rapporto Space del Consiglio d’Europa, secondo cui l’Italia è l’undicesimo Paese "maglia nera" tra i membri dell’istituzione paneuropea di Strasburgo per numero di carcerati rispetto alla capacità delle prigioni, con 110 detenuti per 100 posti disponibili nel 2014 contro una media europea di 94. La tendenza però è in chiaro miglioramento: si è passati dai 148 carcerati nel 2013 ai 110 del 2014, con una riduzione di 38 persone in un solo anno. L’Italia è però uno dei Paesi con una bassa proporzione di detenuti rispetto alla popolazione totale, classificandosi 18esima con 89,3 carcerati su 100mila cittadini. La popolazione carceraria italiana è tra quelle con più stranieri (32%), con un’età media superiore a quella europea (39 anni contro 34), e tra la prime (in quarta posizione con 34,7%) per detenuti per droga, e ancora non condannati con una sentenza finale (in decima posizione con 31,7%). "La decisione del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di chiudere il monitoraggio sull’esecuzione della sentenza Torreggiani è un risultato molto importante per l’Italia", ha dichiarato all’Ansa l’ambasciatore Manuel Jacoangeli, sottolineando che si tratta del "frutto del riconoscimento delle azioni portate avanti dal governo e del ministro della giustizia Orlando, che ha dedicato a questa importante questione tre visite a Strasburgo". L’ambasciatore ha posto l’accento sul fatto che l’Italia è riuscita a dimostrare di essere intervenuta per risolvere la questione del sovraffollamento in tempi molto brevi, dato che "la decisione del comitato dei ministri arriva a soli tre anni dalla sentenza Torreggiani". Inoltre, ha fatto ancora notare Jacoangeli, "bisogna considerare che il sovraffollamento carcerario è una questione su cui per i governi è difficile investire politicamente e finanziariamente". Di conseguenza, ha concluso l’ambasciatore, "con questa decisione il Consiglio d’Europa ha voluto dare un segnale a un Paese che, davanti a una sentenza complessa, ha reagito in maniera estremamente rapida in un settore difficile". Marantelli (Pd): premiate nostre politiche riformiste "Il giudizio positivo sull’Italia che giunge dal Consiglio d’Europa, autorevole organismo internazionale, è il giusto riconoscimento per le politiche riformiste del Governo anche in questo campo e, in particolare, per il Ministro della Giustizia, Orlando. La questione del sovraffollamento nelle carceri italiane è dunque chiusa. Si tratta di un eccezionale passo in avanti nella tutela dei diritti della persona nel nostro Paese. Dopo le due condanne della Corte dei diritti umani, nel 2009 e nel 2013, abbiamo ora voltato pagina". Così il deputato Dem Daniele Marantelli, membro dell’Ufficio di Presidenza del Gruppo Pd, commenta la promozione dell’Italia da parte del Coniglio d’Europa. Cirielli (Fdi): no a nuovi svuota-carceri inutili "Ci auguriamo che l’ultimo rapporto Space del Consiglio d’Europa sulla situazione delle carceri, secondo cui l’Italia è l’undicesimo paese "maglia nera" tra i membri dell’istituzione paneuropea di Strasburgo per numero di carcerati rispetto alla capacità delle prigioni, non spinga Renzi e il suo governo a ripetere gli errori già compiuti nel recente passato dal suo esecutivo e dai suoi predecessori. No a nuovi svuota-carceri inutili, che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini". È quanto dichiara Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, responsabile nazionale del Dipartimento Giustizia del partito. "È necessario, invece, costruire nuove carceri in linea con la media europea - aggiunge. Il vero problema è questo. Ci sono pochi posti e non si può immaginare di continuare a far fronte al problema con provvedimenti dannosi che scardinano il sistema punitivo. I cittadini chiedono sicurezza, anche se Renzi non se ne rende conto. Proseguire su questa strada sarebbe un errore gravissimo. Renzi si assumerebbe una responsabilità pesantissima, mettere a rischio l’incolumità degli italiani". Sovraffollamento delle carceri: la Cedu chiude il caso, ma il caso non è per niente chiuso di Susanna Marietti (Coordinatrice nazionale di Antigone) Il Manifesto, 9 marzo 2016 Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, soddisfatto del percorso compiuto dall’Italia, archivia la sentenza Torreggiani. "L’Italia da maglia nera per sovraffollamento carceri diventa modello per altri Paesi. Oggi #Cedu chiude il caso e apprezza nostre riforme", ha twittato ieri il ministro di Giustizia Andrea Orlando. A cosa si riferisce la frase? Ripercorriamo brevemente i fatti: nel maggio 2013 diventa definitiva la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale condanna l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea (trattamenti inumani e degradanti) in relazione al sovraffollamento carcerario. Contestualmente, col meccanismo della sentenza pilota, lascia alle autorità italiane un anno di tempo per risolvere il problema - che definisce "sistemico" e non occasionale - e per trovare un meccanismo interno capace di porre fine alle violazioni e di risarcire chi le ha subite. Un anno dopo, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo incaricato di valutare gli adempimenti delle sentenze Cedu da parte degli Stati membri, promuove l’Italia con riserva: le misure prese vanno nella giusta direzione, ma ancora c’è da stare a vedere cosa accade nei mesi seguenti. Il Governo italiano continua ad aggiornare periodicamente Strasburgo sullo stato dell’arte. Alla fine dello scorso anno, manda un documento nel quale racconta i nuovi numeri della popolazione carceraria a seguito delle riforme intraprese. Nessun detenuto, scrive il Governo, vive più sotto i 3 metri quadri di spazio a disposizione (parametro al di sotto del quale la Corte configura automaticamente la violazione dell’art. 3), ma poco meno di 9.000 persone nelle carceri italiane hanno tra i 3 e i 4 metri quadri, comunque al di sotto dello standard di accettabilità del Consiglio d’Europa. Oggi il Comitato dei Ministri si dice comunque soddisfatto del percorso compiuto e archivia definitivamente la sentenza Torreggiani. L’Italia ce l’ha fatta. E noi ce ne rallegriamo. Ma non rallegriamocene troppo. Non c’è dubbio che gli ultimi tre anni abbiano costituito la più grande stagione riformatrice sul tema carcerario quanto meno dalla legge Gozzini in poi. Si è messo mano alla custodia cautelare; si sono allargate le maglie delle misure alternative; si è cercato di ripensare la vita quotidiana in carcere all’insegna della responsabilizzazione e della normalità; si è nominato Mauro Palma Garante nazionale delle persone private della libertà; si è chiesto a tante figure culturali diverse, attraverso quella consultazione che va sotto il nome di Stati Generali sull’esecuzione penale, come immaginassero un nuovo carcere in vista di riforme ancor più radicali. Detto ciò, bene fa il Guardasigilli Orlando a sottolineare che c’è ancora tanto da fare per rendere la pena qualcosa di sensato come chiedevano i costituenti. Chi visita il carcere quotidianamente come noi vede tante cose che non vanno: salute negata, lavoro che non c’è, progetti educativi insufficienti, percezione di violenza. Diminuito lo sguardo pressante dell’Europa, si rivede quella forma di inedia che chi frequenta le galere conosce bene, tanto nelle singole direzioni di carcere quanto in Senato, dove il ddl delega sulla riscrittura dell’ordinamento penitenziario è da troppo tempo fermo. Così come ferma è da quasi un anno la discussione a Palazzo Madama per l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale. Su questo tema è invece aperto un fronte di giustizia europea. In Italia solo lo 0,6% dei detenuti è condannato per reati finanziari, in Germania l’11% di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2016 Nella Penisola si finisce dietro le sbarre per lo più per fatti legati alla droga. Solo 228 sui 54.252 carcerati hanno invece sentenze definitive per riciclaggio, insider trading, falso in bilancio, aggiotaggio e fondi neri. I risultati dell’indagine commissionata dal Consiglio d’Europa all’Istituto di criminologia e diritto penale dell’Università di Losanna. L’Italia è tra i Paesi in cui si tengono meno persone dietro le sbarre per reati finanziari. Solo 228 detenuti, lo 0,6% della popolazione carceraria, sono stati condannati con sentenza definitiva per reati che vanno dal riciclaggio all’insider trading al falso in bilancio, per citarne alcuni. In Germania il dato è dell’11%, in Spagna del 3,1, in Gran Bretagna dell’1,9 per cento. Sono alcuni dei dati, registrati all’1 settembre del 2014 sulla popolazione carceraria, finiti nell’indagine Space commissionata dal Consiglio d’Europa all’Istituto di criminologia e diritto penale dell’Università di Losanna. L’indagine, condotta dal professor Marcelo Aebi e da altri due docenti, è un sondaggio che contiene informazioni provenienti da 50 su 52 amministrazioni carcerarie nei 47 Stati facenti parte del Consiglio d’Europa. Anche dell’Italia, dunque, che si posiziona all’undicesimo posto per sovraffollamento delle carceri dopo Ungheria, Belgio, Grecia, Albania, amministrazione statale della Spagna, Francia, Slovenia, Portogallo e Serbia. In media, in tutta Europa, stando ai dati dell’indagine dell’Università di Losanna ci sono 124 detenuti ogni 100mila abitanti. Un numero che è diminuito del 7% rispetto al 2013, quando si stimavano 133,4 detenuti ogni 100 mila abitanti. La media dell’età è 34 anni, cifra rimasta invariata rispetto al 2013 ma anche al 2012. In Italia ci sono 54.252 detenuti, di cui il 95,7% sono uomini, il restante 4,3% donne (2.308 in tutta la penisola). In cella ci sono 119,5 detenuti ogni 100 posti. Ossia 9 metri quadri per persona. Per lo più, nella Penisola, si finisce in carcere per reati legati alla droga: si tratta del 34,7% dei casi, la quarta percentuale più alta tra i 47 Paesi considerati. L’indagine Space conta 6.513 sentenze definite per omicidio, 1.945 per stupro, 5.542 per rapina. Le condanne definite per droga ammontano a 1.245, 56 quelle legate a fatti di terrorismo, 362 per organizzazioni criminali. Poche volte però si finisce in carcere per reati finanziari, che nelle tabelle dell’indagine dell’università di Losanna vengono identificati nella categoria "economic and financial offencies": insider trading, falso in bilancio, aggiotaggio o fondi neri. Al primo settembre 2014, i detenuti con sentenza definitiva in carcere per reati di questo tipo rappresentano appunto solo lo 0,6% del totale della popolazione carceraria: 228 persone. Una cifra molto inferiore alla Spagna, con 1.789, alla Turchia, con 3.526, e al Regno Unito con 1.352 detenuti per questo tipo di violazioni. Altro dato sul quale si è concentrata la ricerca dei professori dell’Università Losanna riguarda la percentuale dei suicidi in carcere. In Italia, nel 2013, ci sono stati 153 decessi. Di questi, 42 sono suicidi: il 27,5 %. Il numero è inferiore alla Francia, dove i suicidi rappresentano il 62% dei decessi in carcere, alla Germania (41%) e alla Russia (dove nel 2013 si contano 461 suicidi su 4200 decessi nelle celle russe). In generale, nelle carceri europee la media dei suicidi ammonta al 7,6 %. Una cifra ridotta rispetto al 2013, (11,2 %) e al 2012 (7,7%). Contro il "rischio Isis" le carceri vanno aperte a educatori di fede musulmana di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Nella relazione 2015 della Dnaa (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) presentata la scorsa settimana dal capo della Procura Franco Roberti, ci sono molti capitoli dedicati al terrorismo e al radicalismo di fede islamica. Uno di questi tratta della necessità di un adeguato monitoraggio della numerosa popolazione carceraria di fede islamica, per individuare possibili forme di proselitismo volte a realizzare forme di radicalizzazione religiosa. Il rischio, infatti, è che si formino cellule terroriste e sebbene i soggetti detenuti per reati collegati al terrorismo internazionale sono ristretti nelle sezioni di alta sicurezza, la maggioranza dei detenuti, ristretti per reati comuni, per la Dnaa sono esposti al rischio di possibili attività di proselitismo. Ed ecco allora, argomenta la Direzione antimafia e antiterrorismo, "bisogna attenuare il bisogno di appartenenza ad un gruppo dei detenuti comuni di fede islamica" che, se abbandonati a se stessi, vivono la detenzione come un fallimento rispetto alle loro aspettative nel momento in cui sono giunti in Italia e possono pertanto essere attratti da un gruppo terroristico che li faccia sentire più importanti. Per evitare il rischio del "radicalismo" nelle carceri, possibile fonte di formazione di cellule terroristiche, la Dnaa dice una cosa scontata (investire innanzitutto nella formazione interculturale del personale di polizia penitenziaria) e una che, invece, si sta diffondendo rapidamente: l’apertura delle carceri a rieducatori di fede musulmana, adeguatamente preparati e moderati. "Non c’è dubbio - si legge a pagina 444 della relazione - che il principale strumento di prevenzione da attuare sia quello di consentire ai detenuti di fede islamica di vivere la propria religiosità in condizioni di dignità". Da questo punto di vista va dunque ricordato che gli Imam sono già stati autorizzati a entrare in otto carceri italiane: Torino, due a Milano, Brescia, Verona, Modena, Cremona e Firenze. Lo si deve al protocollo di intesa stipulato il 5 novembre 2015 tra Santi Consolo, capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e Izzedin Elzir, presidente dell’Ucoii (l’Unione delle comunità islamiche in Italia) per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto in via sperimentale per sei mesi. Il Protocollo intende promuovere azioni mirate all’integrazione culturale avvalendosi dei mediatori indicati dall’Ucoii, anche attraverso la stipula di convenzioni con Università ed enti che cureranno la formazione dei volontari cui è data la possibilità di accedere con continuità negli istituti penitenziari (rimando al link a fondo pagina). La Dnaa, per ritornare alla relazione appena presentata, suggerisce un’altra cosa logica: il costante monitoraggio dei detenuti che appaiono essere fortemente radicalizzati anche al termine della detenzione, attraverso specifiche attività di prevenzione da parte delle forze di polizia, fino ad arrivare al provvedimento di espulsione ove necessario. 8 Marzo. Mattarella: "la violenza sulle donne è ancora una piaga" di Dino Martirano Corriere della Sera, 9 marzo 2016 Durante le celebrazioni al Quirinale, il presidente della Repubblica ha ricordato la lunga lotta delle donne per conquistare il diritto di voto. Per Mattarella l’astensione femminile è "un pericolo da non sottovalutare, una ferita da non trascurare". Il Quirinale ingentilito da un trionfo di mimose gialle, il cambio della guardia tutto al femminile con le componenti del battaglione Lancieri di Montebello in alta uniforme, un’intera mattinata nel Salone dei Corazzieri dedicata al 70° anniversario dell’introduzione del voto in Italia nella neonata Repubblica Italiana. Con un programma molto articolato organizzato al Palazzo del Quirinale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto ricordare l’8 marzo insieme a cinque ministre del governo (Boschi, Pinotti, Giannini, Madia, Lorenzin), ai presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, al presidente emerito Giorgio Napolitano e a cinque madri della Repubblica che rappresentano diverse anime politiche di questi primi settant’anni della Costituzione: Marisa Cinciari Rodano, Maria Romana De Gasperi, Elena Marinucci, Lidia Menapace, Beatrice Rangoni Machiavelli. Un diritto da non sprecare - L’Italia, nel concedere il voto alle donne è arrivata tra gli ultimi se si considerano i Paesi occidentali (solo la Svizzera è stata più lenta). Ma quella data, il 1946, rappresenta un passaggio epocale: "Il pieno riconoscimento dei diritti politici alle donne - ha detto nel suo discorso il capo dello Stato - costituisce elemento fondati o della nostra Repubblica". Nella nostra Costituzione, poi, all’articolo 3 viene richiamato "l’impegno a rimuovere gli ostacoli che limitano ‘di fattò libertà, l’uguaglianza dei cittadini, e quindi il pieno sviluppo della persona umana". Quel ‘di fattò inserito nella Carta, ha aggiunto Mattarella, "lo dobbiamo alla più giovane deputata della Costituente, Teresa Mattei, che con quelle due parole alzò l’asticella del diritto e rafforzarono la radice solidaristica e personalista della Repubblica". Astensione al femminile - Tuttavia, ha continuato Mattarella ricordando l’afflusso massiccio del donne alle urne alle amministrative del 1946 e al referendum del 2 giugno, settanta anni dopo sono soprattutto le donne ad essersi allontanate dal voto. Per cui, oggi, vale la pena ricordare quella conquista dell’Italia Repubblicana perché allora, con la loro mobilitazione, "le donne seppero smentire i timori che affioravano nei gruppi dirigenti dei partiti di massa e conferendo alla democrazia una forza che è stata poi decisiva per superare momenti difficili e minacce oscure". "Questo comportamento - ha aggiunto il presidente della Repubblica - va letto, oggi, come un messaggio alle giovani e ai giovani: dopo tanta fatica per conquistarlo, non bisogna dissipare o accantonare il diritto al voto". Il vuoto lasciato dai partiti - "L’astensionismo è un ferita che nessuno può permettersi di trascurare -ha proseguito Sergio Mattarella - la partecipazione politica dei cittadini oggi si è ridotta e purtroppo questo avviene di più tra le donne". "È compito della politica - ha concluso il capo dello Stato - riguadagnare la fiducia dei cittadini, con coerenza e serietà, con attenzione al bene comune e ai principi di legalità. Il potere non si legittima da se stesso ma dal servizio che rende alla comunità". "La disaffezione e la distanza, che i cittadini avvertono, va ridotta con una ripresa di vitalità delle istituzioni e dei partiti, che restano strumento essenziale della vita democratica". Università rosa - Sul terreno dell’istruzione, il presidente della Repubblica ha voluto ricordare l’incredibile impennata delle iscrizioni femminili nelle università italiane: "Nel 1950 meno di 60 mila giovani donne erano iscritte all’università, nel 2012 si è quasi sforato il milione. Diciassette volte di più in 62 anni, mentre la presenza a maschile si è moltiplicata per quattro". La piaga della violenza sulle donne - In settant’anni, tuttavia, le conquiste nel mondo del lavoro sono solo parziali ha detto Mattarella: "Non è vera libertà se, a parità di mansioni, il salario della lavoratrice è inferiore a quello di un lavoratore, come diceva, già all’Assemblea costituente, Maria Federici". "Non c’è libertà oggi - ha proseguito il presidente della Repubblica - quando la donna al lavoro è vittima di molestie fisiche o morali o viene costretta in spazi di sofferenza. La violenza sulle donne è ancora una piaga nella nostra società, che si ritiene moderna, e va contrastata con tutte le energie di cui disponiamo e con la severità di cui siamo capaci, senza mai cedere all’egoismo e all’indifferenza". I selfie della ministra Boschi - La ministra per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, - richiestissima da molte invitate all’iniziativa del Quirinale per i selfie del dopo cerimonia - ha ricordato "la diffidenza e i timori che nel ‘46 accompagnarono l’introduzione del voto per le donne". Oggi, ha aggiunto, "la strada per la piena parità è ancora lunga. Ma siamo in marcia...". Le sindache, Stefania Sandrelli e l’ex ministro Severino - Mattarella ha voluto rendere omaggio anche alle tantissime donne che in Italia fanno il difficile mestiere di prima cittadina. Sono state ascoltate le testimonianze di Maria Rita Crisci, sindaca di Montelepre (Pa); di Felicetta Lorenzo, sindaca di Rapone (Pz); di Maria Concetta Di Pietro, sindaca di Augusta (Sr); di Anna Maria Cardamone, di Decollatura (Cz); Barbara Pelagotti di Rivodutri (Ri). Nel Salone dei Corazzieri c’erano anche una sempre sorridente Stefania Sandrelli e l’ex ministro della Giustizia, l’avvocato Paola Severino, che per l’occasione ha scelto di indossare una giacca ricamata in Siria e una sciarpa tessuta in Afghanistan: "Questi indumenti - ha spiegato l’ex Guardasigilli - li hanno fatti le donne che ho incontrato in zone poi devastate dalla guerra. Donne con le quali sono stata in contatto per molti anni via e mail ma che ora risultano irrintracciabili". 8 Marzo. Quando il compagno è in carcere: "il coraggio di andare avanti con il sorriso" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 9 marzo 2016 Non hanno condiviso scelte sbagliate, ma hanno scelto di restare e aspettare: sono le donne che condividono i propri affetti col carcere. La storia di Giulia: "A chi è nella mia stessa situazione auguro la serenità di accettare le cose che non possono cambiare". Non compaiono nelle statistiche, non hanno peso specifico come categoria, non alzano la voce ma da sole reggono una famiglia intera e il peso enorme della solitudine. Sono le donne condannate a dividere i propri affetti col carcere. Quelle che i compagni li hanno scelti per amore, nonostante tutto. E che nonostante tutto non li abbandoneranno mai. Giulia (nome di fantasia) è una bella ragazza con gli occhi scuri. Diresti una studentessa, se non fosse per la fede al dito e i due maschietti scatenati, di 2 e 6 anni, che si porta sempre appresso. Luca, suo marito, ha qualche anno meno di lei e un fine pena al 2020. Una discussione con altri ragazzi che degenerata in rissa, il ferimento di un coetaneo e la vita cambia in un attimo. È il 2006, Luca ha solo 18 anni e una situazione complessa che lo aspetta a casa tutti i giorni. Nonostante questo, affronta con coraggio e grande senso di responsabilità le conseguenze del "fatto": arresto immediato di due mesi e 10 anni di attesa per la sentenza definitiva. "10 anni di condanna anche se ero libero - racconta - perché sai che prima o poi ti verranno a prendere. In questi anni però mi sono costruito una famiglia, ho due bellissimi bambini, ho sempre lavorato per loro e per mia moglie. Non uso droga, non ho commesso altri reati. Ho sbagliato e ho chiesto perdono più volte. Adesso sono un’altra persona. È giusto che paghi, ma vorrei farlo con la possibilità di uscire di giorno per lavorare, per la mia famiglia che è la cosa più importante. Loro sono venuti dopo, con la mia "storia" non c’entrano niente. Ma stanno pagando lo stesso". Dopo 9 anni la giustizia presenta il conto a Luca. Ricordo bene quel lunedì mattina - racconta Giulia. Il suono del campanello della porta. Avevo in braccio mio figlio di 17 mesi, apro e mi trovo di fronte 3 carabinieri. La reazione istintiva è stata un pianto disperato. Ricordo la valigia preparata tra le lacrime e il cuore che batteva all’impazzata, con la consapevolezza che sarebbe iniziato un periodo davvero difficile. È stato come se fosse passato un terremoto in casa che ci ha stravolti tutti. D’un tratto le stanze sembravano vuote, il letto troppo grande e i rumori della notte troppo forti e spaventosi da sopportare senza di lui. La prima volta in carcere - Il primo colloquio, la perquisizione, tante sbarre, il rumore delle porte che si chiudono mentre se ne aprono altre. Entriamo nella stanza del colloquio io e mia madre, legatissima a mio marito, la guardo per avere conforto nell’attesa che arrivi lui. Mi sembra tutto così irreale. Ci sono tante persone che parlano tranquillamente, ridono, mangiano, mentre io tremo nonostante il caldo. Poi alzo gli occhi e vedo il disegno al muro: un aquilone con scritto "Ti amo papà" e non trattengo le lacrime. Poi il suo abbraccio forte, un’emozione mista a paura e coraggio che ci davamo entrambi. A distanza di mesi, lo trovi cambiato? "Luca è segnato da questa situazione, è molto dimagrito, ha voglia di riscattarsi, di ritrovare un po’ di dignità mandando lo stipendio del suo lavoro in carcere a casa per cercare di non farci mancare nulla. Per lui è dura vedere i suoi figli crescere senza stargli vicino, passare il Natale, il giorno del loro compleanno lontani è un gran dolore. È stato sempre un papà molto presente e mai avrebbe voluto passare un solo giorno lontano dai suoi bambini. I nostri sentimenti non credo siano cambiati, credo si siano rafforzati. In tutta questa brutta storia abbiamo imparato ad apprezzarci ancora di più. La nostra forza è data un amore così forte tra noi e per i nostri figli da superare anche quelle sbarre". I bambini come vivono la carcerazione del papà? "Mio figlio più grande per tre mesi non ha visto suo padre perché insieme volevamo proteggerlo da tutto questo dolore e dopo quasi un mese l’ha sentito per telefono. Le chiamate ci sono una volta a settimana per 10 minuti. Ci siamo dovuti abituare anche a questo… Un giorno nella lettera che stavo scrivendo a Luca, il bambino ha deciso di mettere un disegno e perplesso mi ha detto "mamma, sei sicura che la mandi dove lavora papà o la dai a Gesù?". Allora ho chiesto aiuto a una psicologa e con il suo supporto lo abbiamo portato ‘dove lavorano tante guardiè. Ancora non abbiamo mai usato la parola carcere, lui sa che il suo papà ha fatto una cosa che non si poteva fare e ora deve lavorare lì. Non so se il bambino ha mai capito dove si trova ma dopo il primo incontro, dopo 3 lunghi mesi, e dopo un lungo abbraccio con il suo papà è tornato sereno. Luca ci aveva preparato alcuni braccialetti fatti da lui con i chicchi delle olive. Erano felicissimi". Come sono le tue giornate? "Purtroppo non ho un lavoro fisso ma mi arrangio come posso mettendo a frutto le mie competenze per cercare di fare il massimo per i bambini. Poi ho la fortuna di avere due angeli con me: mia madre e mia nonna, uniche, fondamentali e indispensabili per tutti noi. Abbiamo aiuti anche a livello economico da molti amici e amiche". Riesci ad avere spazi per te? "Gli spazi per me stessa sono diminuiti, ma con mio marito abbiamo sempre messo al primo posto i bambini e la loro serenità: tutto questo mi fa dimenticare di non avere tempo per me". Un pensiero per le donne che hanno il compagno in carcere... "Alle donne che vivono la mia stessa situazione auguro di avere la serenità di accettare le cose che non possono cambiare e il coraggio di riuscire ad andare avanti con il sorriso di chi ce la mette tutta per superare i problemi della vita al meglio. Auguro loro di avere la forza di non abbattersi e non mollare, auguro di riavere presto i loro familiari. E tutto questo lo auguro anche a me stessa perché continui a farlo fino a quando il mio amore non sarà di nuovo vicino a me". Beni confiscati alle mafie, è scattata l’ora delle riforme di Antonio Maria Mira Avvenire, 9 marzo 2016 La Chiesa italiana è sempre più protagonista sul fronte dei beni confiscati alle mafie. Sono, infatti, ben 89 le realtà ecclesiali che in 11 regioni gestiscono terreni o edifici tolti ai clan. Si tratta di circa il 20% delle positive 507 esperienze di riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla criminalità organizzata, come previsto dalle legge 109 del 7 marzo 1996, che compie dunque venti anni. Una legge di iniziativa popolare, sostenuta dal milione di firme raccolte dall’associazione Libera e per la quale si mobilitarono allora molti gruppi di volontariato e che migliorava la legge "Rognoni-La Torre" del 1982 che per la prima volta aveva introdotto lo strumento della confisca dei beni mafiosi. Da allora i beni immobili strappati alle cosche sono stati 23.526, di questi 10.056 sono stati destinati dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati per fini istituzionali e sociali. Le aziende confiscate sono state 3.577 ma quelle destinate appena 830. Numeri solo in parte positivi a conferma della necessità di una riforma come sottolinea nell’intervista in pagina il presidente di Libera, don Luigi Ciotti. Ma questo è soprattutto un anniversario per raccontare il positivo, come recita lo slogan scelto da Libera: "Bene Italia". Le buone pratiche di riutilizzo dei beni confiscati sono ben 507. Di queste il 58% sono associazioni, il 27% cooperative, il resto fondazioni, comunità e altre tipologie giuridiche. Per quanto riguarda le attività svolte, le realtà sociali assegnatarie dei beni ex mafiosi si occupano per il 33% di interventi integrati, per il 16% di reinserimento lavorativo, per il 16% di minori, per il 14% di disabili, per l’8% di attività formative, e poi ancora di soggetti con dipendenze, anziani, migranti, donne vittime di violenza. Tra queste belle realtà spicca l’impegno della Chiesa italiana che, come abbiamo detto, gestisce o sostiene 89 iniziative sui beni confiscati. Troviamo 47 associazioni e fondazioni, 9 Caritas, 11 cooperative sociali, 9 basi scout, 13 parrocchie. Da un punto di vista territoriale 22 si trovano sia in Sicilia che in Lombardia, a conferma della pervasività delle mafie anche al di fuori delle aree tradizionali. Ne troviamo poi 17 in Calabria, 9 in Puglia, 7 in Campania, 4 nel Lazio e in Piemonte, 1 in Abruzzo, Basilicata, Liguria e Veneto. Un’attenzione crescente confermata dal percorso "Libera il bene - Dal bene confiscato al bene comune" promosso da Libera in collaborazione con la Cei, attraverso l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, il Servizio nazionale di pastorale giovanile e la Caritas italiana. Un’iniziativa che ha visto coinvolte ben 36 diocesi con incontri di formazione, animazione sociali, educazione alla legalità e alla cittadinanza responsabile, di memoria delle vittime innocenti delle mafie, di riutilizzo sociale dei beni confiscati, di campi di volontariato e scuole di formazione all’imprenditorialità giovanile, in partenariato col progetto Policoro della Cei. La presenza del Policoro non è una novità, visto che il progetto per l’imprenditorialità giovanile al Sud ha contribuito alla nascita e ancora segue ben sei cooperative sociali che coltivano terreni confiscati ai clan in Calabria, Puglia e Sicilia. Cooperative che ieri, in occasione dell’anniversario, hanno aperto le loro porte assieme ad altre belle realtà, circa 150, che hanno ospitato scuole, associazioni, parrocchie, gruppi scout per una giornata di conoscenza e condivisione, per toccare con mano il valore di queste esperienze e per far sentire la vicinanza a chi presidia concretamente il fronte dell’antimafia sociale. Intercettazioni, Sezioni unite più in linea con Strasburgo di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Scampato pericolo per giornalisti ed editori che, negli ultimi cinque anni, hanno pubblicato e consentito la pubblicazione di brani più o meno ampi di atti di indagine non più segreti, ma ugualmente non divulgabili, quanto meno testualmente. La questione si trascina da quando, nel 1989, entrò in vigore il "nuovo" Codice di procedura penale, che introdusse il rito accusatorio e la conseguente drastica riduzione del periodo in cui gli atti delle indagini possono rimanere segreti. Venne introdotto, in particolare, il principio secondo cui il riserbo di un atto viene meno non appena l’indagato ne possa legittimamente conoscere il contenuto, con conseguente possibilità per i giornalisti di divulgarlo un attimo dopo. Quello stesso rito accusatorio, tuttavia, tiene giustamente in gran conto la c.d. virgin mind del giudice del dibattimento, che non deve leggere sul giornale quegli stessi atti, la cui conoscenza gli è inibita dalle regole che governano il processo. Autorizzando la pubblicazione della loro sintesi - del loro "contenuto", recita l’articolo 114, comma 7 Cpc - il legislatore non è intervenuto sull’articolo 684 Cp, una contravvenzione che punisce con la pena alternativa la pubblicazione arbitraria di atti di un processo, una norma penale in bianco, il cui precetto si rinviene nel codice di rito. È oggi vietata dalla norma, dunque, solo la diffusione testuale di brani più o meno ampi di atti non più segreti delle indagini, reato assai raramente giunto nell’aula di un tribunale, siccome oblabile, al momento con una somma assai modesta, visto anche lo scarso pericolo che quella pubblicazione possa davvero orientare la decisione del giudice. L’articolo 684 Cp, dunque, come chiaramente si legge nei lavori preparatori del Codice vigente, è posto a presidio della terzietà del giudice e, quindi, del corretto andamento del processo, di tale che la condotta del giornalista che lo viola è chiaramente monoffensiva, uno solo essendo il bene tutelato. Ciò non ha impedito ad alcuni soggetti - indagati o terzi estranei- citati in quei brani, di far causa civile, per la lesione della loro reputazione e riservatezza, assumendo l’esistenza di conseguenti danni risarcibili, a carico di giornalisti ed editori, in ragione della pretesa plurioffensività di quella stessa norma penale. Tesi questa fatta propria da alcune sentenze delle sezioni semplici della Suprema corte, in dissintonia con altre sentenze, che sostenevano il contrario. Su tale tema, dunque, si sono pronunciate le Sezioni unite civili, anche in ragione dei delicati interessi in gioco: non poteva sfuggire, in particolare, l’impatto che avrebbe avuto, sul numero di azioni civili, una lettura orientata a favore della risarcibilità di danni, per violazione del solo articolo 684 Codice penale. Con la sentenza n. 3727/16, la Corte ha affermato la mono-offesività del reato ed escluso, quindi, la legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria, derivante dalla fedele riproduzione di atti di indagine, non essendo la norma preposta a tutelare anche la reputazione dei soggetti a vario titolo in essi citati, nè la loro riservatezza, tema quest’ultimo affrontato in ragione dei ricorsi esaminati. I ricorrenti avevano, infatti, chiesto il risarcimento dei danni per la violazione dell’articolo 11 della legge sulla privacy, che impone il trattamento dei dati personali in modo lecito, da escludersi, ove esso venga fatto violando la norma penale, cioè mediante la diffusione non consentita di stralci di atti. Ciò aveva indotto la stessa Corte, in precedenza, ad annullare con rinvio una sentenza, che aveva escluso la rilevanza della condotta, in ragione dell’esiguità dei passi pubblicati. Anche qui, la sentenza sgombra il campo da ogni incertezza, riconoscendo al giudice di merito il potere di apprezzare positivamente l’ampiezza della riproduzione, sotto il profilo della reale offensività della condotta, canone interpretativo unanimemente accettato; e di escludere la risarcibilità dell’offesa, quando non superi una soglia minima di tollerabilità. Ciò anche alla luce della particolare tenuità del fatto, nuova causa di non punibilità, introdotta con legge n. 28/2015. In altre parole, il danno non è ipotizzabile quando siano riportati pochi passi di atti non segreti, perciò non idonei ad intaccare la terzietà del giudice, trattandosi, in ogni caso, di condotta penale non sanzionabile, in ragione della sua scarsissima gravita. Le conclusioni cui giunge la Corte, con un ineccepibile ragionamento, pur non autorizzando l’indiscriminata pubblicazione di atti di indagine, non più segreti, costituiscono un ulteriore avvicinamento alle posizioni garantiste della Corte europea dei diritti dell’uomo che, più dei giudici interni, hanno mostrato, in passato, di avere a cuore il diritto di cronaca. Reato coltivare piante di cannabis, anche se acerbe di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Tribunale di Catania - Sentenza 19 febbraio 2016. Sì al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti anche se le piante non sono ancora mature; a condizione, però, che gli arbusti possano rendere, al completamento del loro naturale sviluppo, un prodotto con effetti droganti. Lo afferma il Tribunale di Catania (giudice per le indagini preliminari Giancarlo Cascino) in una sentenza dello scorso 19 febbraio. Nell’agosto 2015 le forze dell’ordine avevano rinvenuto, nel terreno di una villa, 28 piante di cannabis in stato di maturazione. Dopo l’arresto, il proprietario dell’immobile aveva dichiarato di effettuare la coltivazione per ricavare sostanza stupefacente da destinare a uso personale. Nei confronti dell’uomo era stato quindi disposto il giudizio immediato, poi trasformato, su sua richiesta (articolo 458 del Codice di procedura penale), in giudizio abbreviato. Nell’affermare la responsabilità penale dell’imputato per aver "posto in essere attività di coltivazione di sostanze stupefacenti" (articolo 73, comma 1, Dpr 309/1990), il Gip ricorda che sulla questione in esame la giurisprudenza si è divisa. Infatti, un primo orientamento (Cassazione, sentenza 1222/2009) ritiene che il reato di coltivazione non autorizzata si deve escludere se le piante non hanno completato il ciclo di maturazione né "prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo". Contro tale impostazione si è però osservato - prosegue il giudice - che la rilevanza penale del fatto dipenderebbe così "solo dalla circostanza accidentale del momento e del frangente del controllo dell’attività di coltivazione". Secondo le più recenti pronunce, l’offensività della condotta va, invece, affermata anche in caso di "mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali (…), se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti". Questo perché - aggiunge il giudice etneo, citando la sentenza 6753/2014 della Cassazione - "il "coltivare" è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico". Di conseguenza, non è decisiva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza; ciò che importa è "la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente". Peraltro - si legge ancora nella motivazione -, per la rilevanza penale del fatto non è richiesto, a differenza della condotta di detenzione di sostanza stupefacente, che il prodotto ricavabile dalle piantagioni sia certamente destinato al consumo di terzi. Infatti, la coltivazione di arbusti da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante "a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica": ciò dal momento che "l’attività in sé, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga". L’imputato è quindi condannato a un anno e quattro mesi di reclusione e al pagamento di tremila euro di multa. La pena è sospesa, giacché il giudice (valutate "l’assenza di precedenti giudiziari e l’emenda conseguente" alla pronuncia) ritiene che l’uomo si asterrà dal tenere altre condotte illecite. Fatture false, il reato si accerta con prove e non con indizi di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 9448/2016. L’esistenza di fatture false in ambito penale deve essere provata dall’accusa sulla base di prove concrete e non di isolati indizi. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 9448, depositata ieri. Il Tribunale dichiarava la responsabilità penale di due contribuenti, l’uno per aver emesso fatture false (articolo 8 D.Lgs. 74/2000) e l’altro per averle dedotte nella dichiarazione presentata (articolo 2 Dlgs 74/2000).Si trattava di tre documenti emessi a fronte di servizio prestati per gli anni 2005, 2006 e 2007. La Corte d’appello confermava la condanna, sul presupposto che il contratto di prestazione tra le due imprese, concerneva solo l’anno 2005, lasciando così prive di supporto le due fatture emesse negli esercizi successivi. Inoltre, dallo stesso contratto era previsto che fosse effettuata una rendicontazione mensile delle prestazioni, che invece dalle rispettive contabilità non risultava. Infine, gli imputati, invitati a chiarire la loro posizione, non avevano fornito alcun elemento di segno contrario. Entrambi i contribuenti proponevano ricorso in Cassazione, lamentando un vizio di motivazione. La Suprema Corte ha accolto i ricorsi. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che la responsabilità penale deve basarsi su fatti certi e non su meri indizi. Tali indizi, devono essere, infatti, gravi, ossia che esprimano con elevata probabilità l’esistenza del fatto ignoto; precisi, quindi non equivoci, e concordanti, cioè che tutti i predetti elementi valutati nel loro complesso conducano al medesimo risultato, tenendo presente che in mancanza anche di uno solo di essi non possano assurgere al rango di prova. Secondo la sentenza, inoltre, la valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti: il primo, è diretto ad accertare il livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerati; il secondo, consiste nell’esame globale e unitario tendente a verificare la concordanza dell’intero quadro probatorio. Nella specie, la Corte territoriale non aveva adeguatamente valutato la situazione nel suo complesso, limitandosi ad una decisione su aspetti più formali. L’assenza del contratto per gli anni successivi, non escludeva di per sé l’esistenza del rapporto commerciale, poiché lo stesso poteva essersi tacitamente rinnovato, anche alla luce del fatto che i contribuenti, atteso l’identico cognome, erano legati da vincoli parentali. Proprio tali legami, inoltre, avrebbero potuto giustificare l’assenza dei rendiconti periodici. Peraltro, il Collegio di appello non aveva rilevato alcun indice sintomatico della fittizietà delle operazioni, quali l’assenza di una struttura operativa ovvero l’anti-economicità della prestazione richiesta. Mancavano così prove che confermassero la natura "cartolare" e non reale delle prestazioni documentate nelle fatture contestate. Con riguardo, infine, all’assenza di giustificazioni da parte degli imputati, la Corte ha ricordato che l’onere probatorio è a carico della pubblica accusa, che è tenuta a produrre elementi convincenti ed idonei a dimostrare la fittizietà. Market abuse, inammissibile la questione di legittimità sul doppio binario di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Il doppio binario sanzionatorio previsto per gli abusi del mercato e per alcune infrazioni tributarie per ora resta in piedi. E senza conflitti tra Corti, quella costituzionale italiana e quelle europee, in particolare la Corte di Strasburgo, che aveva contestato, nella famosa sentenza Grande Stevens, la violazione del principio del "ne bis in idem". Ieri la Corte costituzionale ha infatti dichiarato "inammissibili" le questioni di incostituzionalità sollevate dalla Cassazione sul market abuse mentre, per quella sollevata dal Tribunale di Bologna sull’omesso pagamento dell’Iva, ha restituito gli atti al giudice "per sopravvenute modifiche legislative". Dunque, non è entrata nel merito né dei rilievi mossi dai giudici rimettenti né delle obiezioni dell’Avvocatura dello Stato e della Consob, rispettivamente, per smontare o confermare il cumulo delle sanzioni, amministrativa e penale, in relazione al principio del "ne bis in idem" come interpretato a Strasburgo. Né ha assecondato il governo nella richiesta di rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue, per avere un’interpretazione definitiva e vincolante delle indicazioni comunitarie e delle pronunce della Corte di Strasburgo. La Consulta ha solo condiviso la prima linea difensiva di Consob e Avvocatura, sull’inammissibilità delle questioni. Il verdetto (ampiamente condiviso, anche se le posizioni di partenza divergevano) è stato diffuso con un comunicato stampa dopo una camera di consiglio relativamente breve, successiva all’udienza pubblica (si veda "Il Sole 24 Ore" di ieri). Assenti i giudici Giuliano Amato e Alessandro Criscuolo. Per saperne di più, bisognerà attendere la motivazione, scritta dai giudici Giorgio Lattanzi e Marta Cartabia, ma presumibilmente si limiterà a spiegare che le questioni sono state mal poste. Nel caso dell’omesso versamento Iva, il Tribunale dovrà verificare se la questione è ancora "rilevante" dopo il decreto n. 158/2015 - attuativo della delega fiscale che ha rivisto al rialzo le soglie del reato - entrato in vigore a ottobre(l’ordinanza del Tribunale era di aprile). La questione del "ne bis in idem" è ora nelle mani della Corte di giustizia Ue, alla quale si sono rivolti alcuni giudici di merito tra cui il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, per verificare la coerenza con la disciplina comunitaria del doppio binario sanzionatorio nel caso di evasione Iva. Questione sollevata anche sulla base di un precedente "pesante", la sentenza Akerberg Fransson C-617/10, in cui la Corte Ue ha detto che "il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di Iva, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima non sia di natura penale, circostanza che dev’essere verificata dal giudice nazionale". E proprio sulla natura delle sanzioni amministrative previste per il market abuse si erano appuntati i dubbi della Cassazione, che, in ossequio al principio del "ne bis in idem" europeo, chiedeva alla Consulta di superare il sistema del cumulo, rendendo le sanzioni alternative e privilegiando quelle penali. In udienza, governo e Consob hanno difeso la disciplina vigente sostenendo, tra l’altro, che affidare alle sole sanzioni penali la tutela dagli abusi del mercato minerebbe l’effettività della sanzione, che, soprattutto nel campo della finanza, deve svolgere un’azione deterrente più celere e mirata, svincolata "dalle lungaggini del processo penale". "Il mercato finanziario - ha spiegato l’Avvocato dello Stato Paolo Gentili - è un ordinamento settoriale, caratterizzato da un’asimmetria di informazioni e poteri tra la cerchia ristretta degli operatori finanziari e la massa degli investitori e dei risparmiatori. Perciò richiede una tutela rafforzata, anche della moralità degli operatori". L’avvocato Salvatore Providenti della Consob ha poi snocciolato i numeri delle sanzioni amministrative applicate dal 2005 al 2015: 176 gli illeciti sanzionati, per altrettanti soggetti, e per un ammontare superiore ai 78 milioni di sanzioni applicate (al netto di riduzioni e annullamenti), di cui 35 milioni in via definitiva. Il dottore commercialista attestatore non è mai pubblico ufficiale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 Corte di cassazione - Quinta sezione penale - Sentenza 8 marzo 2016 n. 9542. Il dottore commercialista che attesta un piano di concordato preventivo non è pubblico ufficiale. E pertanto non può essere colpevole di falso ideologico. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 9542 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso del pubblico ministero con il quale veniva invece chiesta la sanzione a carico di un dottore commercialista incaricato della relazione prevista dall’articolo 161 comma 3 della Legge fallimentare. Per il Pm dovevano essere contestati i reati di falso ideologico e corruzione in atti giudiziari. In questo senso andava valorizzata (come del resto secondo l’accusa emergeva in realtà anche dall’ordinanza del Gip, oggetto dell’impugnazione) l’attribuzione al professionista di poteri certificativi sulla formazione della volontà dell’autorità giudiziaria, la sua posizione di indipendenza e la natura dell’attività, disciplinata da norme di diritto pubblico. La Cassazione però non è stata di questo parere e ha messo in evidenza come il professionista, chiamato dal debitore alla stesura della relazione che attesta la conformità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, non è equiparabile a un ausiliario del giudice. A prescindere dal fatto che la nomina arriva da parte di un terzo, ma soprattutto perché l’attestazione non vincola il controllo di legittimità da parte del giudice sulla fattibilità della proposta di concordato. In ogni caso resta poi affidata ai creditori la valutazione nel merito, con oggetto le probabilità di successo economico del piano, "derivandone una configurazione di dette funzioni riconducibile a quelle del consulente, ed una destinazione delle stesse alla formazione non solo del convincimento del giudice, ma anche di quello dei creditori, e tanto escludendone un’esclusiva strumentalità all’esercizio dell’attività giudiziaria". Inoltre, non esiste un dato normativo che corrobori l’attribuzione della qualifica. Elemento tanto più da sottolineare se si tiene presente che invece per altri soggetti delle procedura concorsuali la qualifica di pubblico ufficiale è esplicitamente riconosciuta. È il caso, per esempi, del curatore, oppure del commissario giudiziale o, ancora, del commissario liquidatore. Non sono determinanti allora le funzioni ausiliarie e la posizione di indipendenza del professionista, delle quali devono peraltro essere messi in evidenza i limiti. Limiti dovuti anche alla subordinazione ai poteri di controllo del giudice e dei creditori. A chiusura del ragionamento poi, la Cassazione ricorda l’esistenza sul piano penale dell’articolo 236 bis della Legge fallimentare: si tratta di una misura che colpisce esplicitamente il professionista attestatore e che, nella lettura della Cassazione, rende evidente come il legislatore ha in questo modo voluto assicurare "tutela penale a interessi la cui offesa non è stata ritenuta riconducibile a altre ipotesi criminose". Alla madre l’affidamento esclusivo dei figli, se il padre salta i suoi turni di visita La Stampa, 9 marzo 2016 Il giudice deve prevedere l’affidamento esclusivo alla madre dei figli, quando il padre risulti essere inadempiente ai suoi doveri familiari e interrompa volontariamente le visite con la prole non rispettando i turni di visita disposti con ordinanza presidenziale. Questo quanto stabilito dal Tribunale di Caltanissetta con la sentenza n. 717 del 30 dicembre scorso. Il caso. Una donna chiedeva al giudice di pronunciare separazione personale dei coniugi e che venisse disposto l’affidamento condiviso dei figli con regolazione del regime delle visite. In attesa della separazione, la donna richiedeva l’affidamento esclusivo della prole, dal momento che il marito non aveva effettuato con regolarità le visite ai figli, come aveva stabilito invece l’ordinanza presidenziale, giungendo anzi ad interromperle. Il tribunale accoglie le sue richieste. La tutela del minore trascurato. Il tribunale, rilevata l’incompatibilità tra i due coniugi, tale da impedire una comunanza di vita fondata sull’affectio coniugalis e sulla reciproca assistenza, pronunciava la separazione. Affrontando poi la questione dell’affidamento della prole, il giudice ricorda il principio consolidato per cui alla "regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti contraria all’interesse del minore". Nel caso di specie il padre non aveva adempiuto ai suoi doveri genitoriali di mantenimento e non aveva nemmeno rispettato il regime delle visite, violando così il primario diritto dei figli minori di mantenere rapporti continuativi con entrambi i genitori. Il Giudice, sulla base di tali argomenti, ha accolto la domanda di affidamento esclusivo alla madre, soggetto maggiormente idoneo all’esercizio della responsabilità genitoriale e ad occuparsi della cura e del mantenimento dei figli. L’apertura di un nuovo carcere: nessuna "festa", ma una sconfitta per la società di Carmelo Musumeci imgpress.it, 9 marzo 2016 "Un Paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle scuole e dalle carceri, quando le carceri saranno più scuole e le scuole meno carceri. La pena deve essere un diritto; se sia condanna deve poter essere condanna a capire e capirsi" (Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia all’Università Federico II, Napoli). In questi giorni leggendo i giornali mi hanno colpito alcune dichiarazioni di politici e uomini di Istituzioni rilasciate per l’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo, vissuta un po’ come una festa: "(…) con soddisfazione, ha esordito con un eloquente "ce l’abbiamo fatta." (…) Ieri a Rovigo è stato il giorno della festa. (…) È stato un grande segnale di civiltà. Ma servono inasprimento e certezza delle pene: questo ci chiedono i cittadini. (Il Gazzettino, 1 Marzo 2016) Io credo che ci sia poco da festeggiare per l’apertura di una nuova prigione, perché nel nostro Paese il carcere produce, nella stragrande maggioranza dei casi, nuova criminalità. Non lo dico solo io che sono un avanzo di galera, ma lo dice lo stesso Ministro della Giustizia: "Siamo un Paese che spende 3 miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena, più di tutti gli altri in Europa e siamo il Paese con il più alto tasso di recidiva di tutta l’Europa.(...) Un carcere che accoglie delinquenti e restituisce delinquenti non garantisce sicurezza." (Il Gazzettino, 1 marzo 2016). Sostanzialmente il Ministro della Giustizia conferma l’alta recidiva che esiste nelle carceri italiane: infatti, il 70% dei detenuti che finiscono la loro pena rientrano presto in carcere e le carceri minorili rappresentano, di fatto, l’anticamera di quelle per gli adulti. Signor Ministro, credo che lei abbia ragione perché il carcere così com’è ti fa disimparare a vivere, ti fa odiare la vita e ti fa sentire innocente anche se non lo sei. E credo anche che se qualcuno volesse cambiare il modo di ragionare è destinato a soffrire di più, se tenta di togliere la maschera da "cattivo" e mostrare la propria vulnerabilità come tutti gli uomini, rischia di rimanere schiacciato da un sistema che in realtà non mira a rieducare l’uomo. Forse per questo molti detenuti preferiscono non cambiare e fingersi sempre dei duri, per difendersi dalla sofferenza della detenzione e sopravvivere. Mi creda, in Italia la prigione è l’anti-vita, perché nella stragrande maggioranza dei casi qui da noi il carcere ti vuole solo sottomettere e distruggere. Non penso certo che quelli che stanno in carcere siano migliori di quelli fuori, forse però in molti casi non sono neppure peggiori, ma con il passare del tempo lo diventeranno se vengono trattati come rifiuti della società. Signor Ministro, fra queste mura si hanno poche possibilità di scelta, perché spesso è "l’Assassino dei Sogni" (il carcere come lo chiamo io) che condiziona come, quando e cosa pensare. Purtroppo, va a finire che spesso si dimentica chi e cosa siamo, col rischio di diventare cosa fra le cose. Signor Ministro, mi permetto di citare un brano della tesi di laurea di una volontaria, Anna Maria Buono: "La mia esperienza di relazione di aiuto si svolge in questa struttura alternativa al carcere situata a Montecolombo, della Comunità Papa Giovanni XXIII. È una casa colonica, in mezzo al verde, abbastanza grande da ospitare una ventina di persone. Ha un grande cortile da cui si accede all’entrata principale, sulla quale spicca un grande cartello in cui è scritto "L’uomo non è il suo errore". (...) C’è un grande salone di soggiorno, una grande cucina, un laboratorio per il lavoro, e le camere con i letti a castello. Completa il tutto un orto, un pollaio, un cortile dove si passeggia, si gioca, si prepara il barbecue, una piccola palestra all’aperto. Qui non vi sono cancelli, sbarre, tutte le porte e finestre sono aperte, non vi sono guardie." Signor Ministro, dalle notizie di stampa il nuovo carcere di Rovigo è costato 30 milioni, ma non sarebbe stato meglio investire quel denaro in strutture alternative al carcere come questa appena citata? Un sorriso fra le sbarre. Il delitto di Roma e l’oscenità che bisogna riconoscere di Maurizio Cecchetti Avvenire, 9 marzo 2016 Esiste una oscenità che non ha a che fare con la perversione sessuale. È qualcosa di molto più profondo e insondabile. Esiste una oscenità che è piacere nel vedere soffrire l’altro, un sadismo che cela conflitti profondi in chi ne è attore e vittima. Ha la sua lontanissima origine nel sacrificio rituale, con la differenza che il capro espiatorio muore per una legge stabilità dalla comunità intera, e anzi la sua morte deve servire a placare la vendetta della divinità. Il caso di Roma dove due studenti uccidono un ragazzo più giovane facendolo prima soffrire, seviziandolo e infine guardandolo mentre agonizza con un coltello piantato nel petto, può far pensare a un caso di follia indotta da eccessi di droga, di sessualità estrema, di noia che spinge alla ricerca di emozioni forti, sempre più forti. In realtà, questo caso mette alla prova (una delle tante ormai nella cronaca quotidiana) le nostre categorie per giudicare l’orrore. Ma rispetto al delitto efferato, anche il più terribile (quello, per esempio, di una madre che uccide i suoi bambini: Medea ne ha espresso tutte le sfaccettature), al delitto dei due ragazzi si aggiunge un elemento morboso: il piacere di guardare la morte di qualcuno. Non è nuovo, in sé. Esiste un genere di film pornografici "amatoriali" chiamati snuff dove uno degli attori soffre e poi muore davanti alla cinepresa, ma non è finzione, è l’orrenda verità. Qui siamo sulla soglia limite che si è manifestata anche giovedì scorso. Uno dei due ragazzi avrebbe dichiarato poi che lui e l’altro compagno nel delitto, imbottiti di droga e alcol, hanno inflitto ogni sorta di violenza e infine la morte, per "vedere che effetto fa". Nessuna generalizzazione può essere fatta, ovviamente, ma è chiaro che si tratta di qualcosa che, nella logica, è simile agli snuff: uccidere per il piacere voyeuristico di qualcuno. È qui che si svela il punto in comune con la normale pornografia: il voyeurismo che riduce l’altro a un’immagine, a un film in diretta che finisce col sacrificio reale della vittima, per il proprio puro godimento. Droga e alcol posso aver rotto ogni inibizione nei due ragazzi, ma è certo che il rilascio dei freni è avvenuto in chi già cercava qualcosa di estremo. Perché in un angolo oscuro della sua mente, lo desiderava. Mentre negli altri, in noi, produce disgusto. È una soglia che implica una "diversità" umana, non anzitutto sessuale. Disgusto e desiderio, i due opposti che ci fanno riconoscere ciò che è osceno. Originariamente, la parola non aveva il significato che siamo soliti attribuirgli oggi: laido, orrendo, contro il pudore. Aveva, piuttosto, il senso di qualcosa che "porta male", forse il sintomo che fa venire alla luce un malessere che riguarda tutti, riguarda il mondo che vogliamo e che stiamo creando. Sarà casuale che nelle società dove i nuovi media hanno maggior sviluppo proliferino pratiche esibizioniste, narcisiste, mitomanie di ogni tipo; che la pornografia sia in crescita e che a tutto questo corrisponda un voyeurismo sempre più diffuso? L’altro diventa lo strumento di un piacere che non si realizza mai, e infatti sposta sempre più in là il limite dell’eccesso. Uccidere un ragazzo "per vedere che effetto fa" significa aver superato questo limite che separa finzione e realtà. Essere investiti da questo teatro della crudeltà, in cui anche la vittima inconsapevolmente si è fatta attirare forse col miraggio dei soldi o forse per banale curiosità, non può non interrogarci. Per non arrivare alla pornografia della morte bisogna credere che il corpo dell’altro non è soltanto materia animata, è sacro perché inseparabile dalla persona che è. Il filosofo Max Scheler scrisse che il sentimento del pudore nasce dalla caduta originaria: il pudore è il velo protettivo sulla nostra nudità. Violare quella soglia è, dice Scheler, una de-animazione dell’individuo. E per poterlo guardare morire, i due ragazzi di Roma hanno prima dovuto privare quel loro più giovane amico del suo velo protettivo. Sono tante le ombre che si addensano in questo quadro. Liguria: Uil-Pa; nelle carceri l’emergenza non è finita, la situazione è drammatica genovapost.com, 9 marzo 2016 Il Segretario Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria apprende da un tweet del Ministro della Giustizia Orlando che la Cedu ha dichiarato finito il sovraffollamento delle carceri italiane e proprio il Ministro tende a ringraziare in primis gli uomini e le donne del Corpo di Polizia Penitenziaria. Problemi - "Bene per il ringraziamento del Ministro - commenta Fabio Pagani - che punta il dito sullo stato delle carceri e sul grave fenomeno delle aggressioni subite dal personale. La propaganda del Governo vuole far passare l’idea di un carcere diverso, moderno e sostenibile ma la verità purtroppo è ben altra. Le nostre galere sono ancora luogo di privazione, di sofferenza e di violenza ed evidenti difficoltà a garantire un puntuale servizio sanitario, alla qualità ed alla salubrità degli ambienti detentivi, alla mancanza di fornitura idrica, alla impossibilità di avviare percorsi di socializzazione e reinserimento. A farla da padrona è la violenza ed in questo quadro desolante emerge in tutta la sua drammaticità anche l’insopportabile carico di lavoro che obera le spalle degli operatori penitenziari - dalla desertificazione degli organici della polizia penitenziaria (mancano 8.000 unità all’organico fissato per legge) alla mancanza di direttori, psicologi ed educatori. Oggi le nostre carceri sono sempre più città fantasma. E non illuda il dato dei 52mila detenuti (che in ogni caso sono più dei 43mila che le strutture potrebbero ospitare). Le celle continuano ad essere sporche, umide ed insalubri. Il servizio delle traduzioni continua ad essere effettuato con mezzi vecchi, obsoleti e pericolosi". Carcerati - "E nel frattempo se a calare sono i detenuti, aumentano come nel 2015 i reati commessi dagli stessi, raddoppiati rispetto al 2013, passando da 983 casi a 1.812, con un balzo anche rispetto al 2014, quando gli eventi registrati furono 1002. Devastazioni e atti vandalici sono passati da 663 nel 2013 a 955 l’anno successivo a 1.379 l’anno scorso. In forte aumento anche i casi di aggressione ai danni degli agenti da parte dei detenuti passati da 344 nel 2013, a 394 nel 2014 a 422 nel 2015. Più che raddoppiate le sanzioni disciplinari comminate ai detenuti: erano 207 nel 2013, sono state 238 l’anno dopo e 537 l’anno scorso. Un’ulteriore spia della situazione nelle carceri la dà la cifra relativa alle risse dietro le sbarre: dalle 38 rilevate nel 2013, sono salite a 44 nel 2014 e a 53 nel 2015. Sul fronte dei suicidi, tra i detenuti ci sono stati 42 casi nel 2013, 43 nel 2014 e 39 nel 2015; a questi dati vanno aggiunti quelli relativi ai tentati suicidi, che sono stati 6.854 nel 2013, 6.889 l’anno dopo e 6.987 lo scorso anno; e quelli sugli atti di autolesionismo, con circa 6.800 episodi ogni anno. Il numero dei suicidi mantiene quindi una sostanziale stabilità, restando molto elevato. Sette gli agenti che si sono tolti la vita nel 2013, salii a 11 nel 2014 e scesi a due nel 2015, numeri che parlano da soli - conclude Pagani - e che sono la cifra di questa vergogna che pare non interessare a nessuno". Veneto: nella Rems di Nogara 16 ex detenuti psichiatrici, la nuova ala pronta a maggio di Riccardo Mirandola L’Arena, 9 marzo 2016 "La Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Nogara sarà una struttura modello". Ad assicurarlo è Franco Corleone, il commissario nominato dal Governo Renzi per realizzare in tempi celeri la struttura che dovrà ospitare una quarantina di ex detenuti psichiatrici veneti che da anni venivano curati negli ospedali psichiatrici giudiziari di Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). "Ho visitato il centro provvisorio", spiega, "e ho riscontrato una nuova concezione di gestione di questi pazienti, che fino a due mesi fa erano in regime di detenzione con guardie penitenziarie. Ora, invece, sono assistiti da personale medico e infermieristico davvero competente". "Ho notato", aggiunge Corleone, "una svolta nell’approccio alle malattie psichiatriche e sono certo che la Rems di Nogara diventerà una struttura all’avanguardia. Tutti gli ospiti saranno reinseriti con il tempo nella società e il personale dello Stellini sta lavorando a questo scopo". Corleone ha visionato l’ex ospedale Stellini assieme all’assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, e al sindaco Luciano Mirandola. Il commissario ha voluto anche esaminare i progetti che riguardano la residenza e si è prefissato dei tempi per la sua realizzazione. La Rems gode infatti di un contributo statale di circa 12 milioni di euro, che serviranno per ristrutturare la palazzina dei primi anni del Novecento che sorge davanti allo "Stellini" e la corte rurale, oltre che per costruire un collegamento tra i due edifici. "Per i primi di maggio", assicura Corleone, "apriremo al piano terra dello Stellini una nuova ala che è in fase avanzata di ristrutturazione. Poi, partiranno subito i lavori per la Rems definitiva, che seguirò personalmente e che dovranno terminare massimo entro 18 mesi. Ho avuto la massima disponibilità a collaborare da parte di Regione, Ulss 21 e Comune". Nei prossimi giorni, il commissario arriverà nuovamente a Nogara per un incontro con la Soprintendenza ai beni ambientali dove si discuterà di alcuni vincoli sugli immobili da ristrutturare. Quindi, incontrerà i 16 pazienti che attualmente sono ospitati al secondo piano dello Stellini. Corleone auspica "una maggiore cura per i pasti degli ex detenuti preparati ora a Legnago". Tra le ipotesi, figura quella di istituire una cucina direttamente a Nogara. Milano: a "Fà la cosa giusta!" l’Apeshakespeare con attori e cuochi ex detenuti Redattore Sociale, 9 marzo 2016 A Fà la cosa giusta! attori e cuochi del carcere di San Vittore propongono laboratori di educazione al cibo e all’arte. Sono 17 le realtà di economia carceraria che portano i loro prodotti alla fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili: dolci, birra, caffè, t-shirt, abiti, borse. A Fà la cosa giusta! arriva un’ape(car) che porta cibo e teatro. L’Apeshakespeare è il frutto di un progetto che coinvolge attori e cuochi ex detenuti del carcere di San Vittore. Con un’apecar girano per piazze, scuole e teatri con un vasto repertorio di ricette e animazioni teatrali. Hanno iniziato il 1 maggio del 2015, in occasione dell’apertura di Expo. Da novembre, dopo che è finita l’esposizione universale, hanno partecipato ad un centinaio di eventi. "A Fà la cosa giusta organizzeremo laboratori per le scuole -sottolinea Donatella Massimilla, attrice e fondatrice del Centro europeo teatro e carcere (Cetec) che oltre all’Apeshakespeare ha dato vita in 20 anni a tanti altri progetti di teatro nella casa circondariale di Milano. Con questa esperienza di strada uniamo educazione al cibo, al teatro e all’arte". Fà la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, si terrà dal 18 al 20 marzo nei padiglioni di Fieramilanocity. Oltre all’Apeshakespeare, i visitatori troveranno altre 16 realtà di "Economia carceraria", vale a dire cooperative e associazioni che nelle carceri italiane curano la formazione professionale e l’inserimento lavorativo dei detenuti. Propongo prodotti di qualità. Dai biscotti "Brutti e buoni" preparati nel carcere di Brissogne in Val d’Aosta (con la cooperative Enaip) alla pasticceria a base di mandorle e pistacchi delle cooperative nate nelle case circondariale di Siracusa e Ragusa ("Sprigioniamo sapori" e "L’Arcolaio"). Si dedicano ai dolci anche la Banda Biscotti di Saluzzo e Verbania e "Dolci libertà" di Busto Arsizio. Si potrà inoltre gustare la Birra Vale la Pena, opera dei detenuti di Rebibbia e Regina Coeli (Roma), oppure il caffè delle Lazzarelle, cooperativa del carcere femminile di Pozzuoli (Napoli) e assaggiare i taralli di "Campo dei miracoli" nell’istituto penale di Gravina di Puglia (Bari). Oltre al cibo, nelle carceri italiane si producono anche abbigliamento, borse e accessori. Dalla casa circondariale di Marassi (Genova) arrivano a Fà la cosa giusta! t-shirt e felpe serigrafate con frasi dei più grandi cantautori italiani. Propongono magliette e felpe anche Extraliberi di Torino e Made in Jail di Rebibbia. Le donne rinchiuse a San Vittore e Bollate (Milano) propongono abiti femminili di alta moda, mentre "Malefatte" da Venezia propone borse e accessori con materiale di riciclo. Ci sono poi cooperative carcerarie che eseguono lavori di falegnameria (EStia), giardinaggio (Opera in fiore), tipografia (Zerografica). Trieste: Sappe; tensione in carcere, agenti aggrediti e telecamere rotte triesteprima.it, 9 marzo 2016 È stato un sabato di follia quello appena trascorso nel carcere di Trieste. Alcuni detenuti hanno infatti messo a rischio la sicurezza della casa circondariale. La denuncia è del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe che sollecita "urgenti determinazioni per il carcere giuliano e la sospensione del regime penitenziario aperto, concausa di situazioni di allarme tra le sbarre". Il resoconto della giornata di follia è affidata a Giovanni Altomare, segretario regionale Sappe per il Friuli Venezia Giulia: "Sabato, verso le 12.40, un giovane detenuto venticinquenne triestino, con problemi di tossicodipendenza e condannato per furti e rapina aggravata, rientrato anzitempo dal colloquio con i familiari, in preda ad un forte stato di agitazione si rifiutava di essere perquisito e incominciava a inveire contro gli operatori di polizia penitenziaria proferendo loro frasi offensive. Subito dopo, dapprima sferrava calci contro la parete, per poi avventarsi contro il personale intervenuto, innescando quindi una colluttazione, con la quale provocava una lieve lesione a un poliziotto intervenuto, giudicata guaribile in tre giorni. Neanche il colloquio con l’educatrice dell’Istituto, avuto subito dopo, lo ha fatto desistere dall’ingiuriare e provocare il personale di polizia, continuando l’irrispettoso show nell’ambulatorio medico ove veniva portato per visita medica. Rientrato nella propria cella, a distanza di circa quattro ore dal primo episodio, lo stesso detenuto si rendeva protagonista di altro evento critico nell’ambulatorio medico ove era stato richiamato per una nuova visita medica da lui insistentemente richiesta. Nella circostanza il detenuto, con fare arrogante pretendeva dal medico un’eccessiva dose di terapia e, al diniego del sanitario, incominciava a scaraventare a terra tutto ciò che si trovava sulla scrivania del medico (registri, porta penne, ecc.) scagliando la brandina medica contro l’agente di servizio, innescando una nuova colluttazione. Solo grazie al pronto intervento del personale di servizio sono stati scongiurati ulteriori danni a cose e persone, nonostante una volta bloccato il soggetto, cercava continuamente di divincolarsi nell’intento di voler aggredire il personale di servizio. Questa volta due poliziotti hanno dovuto ricorrere al pronto soccorso cittadino per lesioni la cui prognosi di sette e cinque giorni". "Quasi contemporaneamente - prosegue il leader giuliano del Sappe -, un altro trentenne pluripregiudicato veneziano, condannato per furti aggravati, evasione e altro, trasferito da poco tempo a Trieste per motivi di sicurezza, con la pretesa di essere trasferito nel carcere veneziano, per protesta, ha sradicato le telecamere di video sorveglianza installate nella sezione a regime aperto ove lo stesso è ubicato, immergendole in secchi d’acqua nel locale docce. Nei giorni precedenti, invece, per lo stesso motivo si è reso autore di altri danneggiamenti come rottura di sgabelli e suppellettili vari, rilevatori di fumo, un quadro di tela centenario e altro ancora. Per il Sappe è giunta l’ora di dare un segnale forte alla popolazione detenuta con la chiusura del regime aperto (da sempre ritenuto deleterio per la sicurezza dell’Istituto Coroneo) che altro non ha fatto che ghettizzare le carceri e permettere i detenuti di aggirarsi liberamente nelle sezioni per tutto il giorno". Il Sappe denuncia la crescita esponenziale degli eventi critici in carcere a Trieste "anche a seguito dell’assegnazione al Reparto detentivo dei metal detector, utilizzati per le perquisizioni ordinarie in luogo delle perquisizioni manuali, che rende molto più difficile il ritrovamento di eventuali sostanze stupefacenti introdotte fraudolentemente o di psicofarmaci vari distribuiti in terapia in quanto non rilevabili con detto strumento di controllo. Ancora una volta il plauso del Sappe va al personale di polizia penitenziaria che, tra mille difficoltà, cerca quotidianamente con professionalità e spirito di sacrificio di mantenere ordine e sicurezza nell’istituto triestino, nonostante la carenza di organico e un sovraffollamento di 202 detenuti rispetto ai 139 della capienza regolamentare". Da Roma, il segretario generale del Sappe Donato Capece aggiunge: "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri, espellendo i detenuti stranieri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Le idee e i progetti dell’Amministrazione penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati". Catanzaro: detenuti tentano fuga dal carcere minorile, bloccati dalla Polizia penitenziaria Ansa, 9 marzo 2016 Due detenuti magrebini nel carcere minorile di Catanzaro hanno tentato la fuga, ma sono stati bloccati subito dopo essere usciti dagli agenti della polizia penitenziaria. Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. I due, uno dei quali maggiorenne, mentre venivano accompagnati nella sala per svolgere le attività previste, hanno spinto l’agente che era con loro e sono fuggiti. Quindi sono riusciti a scavalcare il muro e ad uscire fuori dal carcere, ma subito dopo sono stati bloccati dagli agenti. "Agli operatori - affermano Durante e Bellucci - va il nostro plauso, sia per come si sono comportati sia per l’operazione della scorsa settimana quando hanno sequestrato droga occultata in un pacco destinato ad un detenuto. Tutto questo dimostra la pericolosità di molti ristretti anche nelle carceri minorili, dove, tra l’altro, possono permanere fino a 25 anni; un assurdo giuridico, frutto di un provvedimento recente". Alghero: raccolta di libri e cd per i detenuti con il Progetto "Libertà nella lettura" alguer.it, 9 marzo 2016 Il Rotary Club Alghero effettuerà la raccolta domenica 13 marzo presso la Torre di San Giovanni in Largo San Francesco. Progetto "Libertà nella lettura": i Rotary Club Sardi si mobilitano per raccogliere libri in favore degli istituti carcerari della Sardegna. Un libro per rendere più lieve ed educativo il percorso di coloro che stanno scontando i debiti con la giustizia dietro le sbarre di un carcere sardo. È questo il senso del progetto "Libertà nella lettura", promosso dal Rotary Club Tempio Pausania, Club capofila, in collaborazione con i tanti Club Sardi, che domenica 13 marzo chiamerà a raccolta in molte piazze cittadini di ogni età che vorranno donare i propri libri usati agli istituti carcerari dell’isola, in supporto quindi di persone che stanno affrontando un percorso di crescita personale. Insieme al Rotary Club di Tempio, parteciperanno anche Alghero, Bosa, Cagliari Est, La Maddalena, Macomer, Nuoro, Ogliastra, Olbia, Oristano, Ozieri, Quartu S. Elena, Sanluri Medio Campidano, Sassari Sassari Nord, Sassari Silki e Siniscola. Oltre alla raccolta dei libri (ma anche cd e dvd), i Club di servizio si occuperanno successivamente anche della catalogazione e del riordino dei testi raccolti, di concerto con gli Enti Locali e le biblioteche coinvolte nel progetto. "Libertà nella lettura" fa parte di un più ampio progetto condiviso dai Rotary Club, Provveditorato Amministrazione Penitenziaria (Prap) e Direzioni Carcerarie della Sardegna. Il progetto globale, che ha come obiettivo la valorizzazione e la creazione di biblioteche e sale lettura all’interno delle carceri isolane, è stato finanziato dal Distretto Rotary 2080 e dai singoli Club Sardi aderenti all’iniziativa. Grazie a questo impegno economico sono stati già acquistati scaffali ed attrezzature per completare l’allestimento delle sale biblioteca e lettura delle case di reclusione di Nuchis, Alghero, Oristano, Lanusei, Nuoro, Sassari e Uta. Con la raccolta di libri promossa in tantissime piazze sarde il prossimo 13 marzo, il Rotary Club Tempio Pausania e tutti i Club Sardi che hanno partecipato con entusiasmo al progetto andranno a completare l’iniziativa ma soprattutto raggiungeranno un importante obiettivo, in un’ottica di giustizia ripartiva, "avvicineranno" i detenuti ad un importante servizi culturale. Il Rotary Club Alghero effettuerà la raccolta domenica 13 marzo presso la Torre di San Giovanni in Largo San Francesco con i seguenti orari: mattino dalle 10,30 alle 13,00 e pomeriggio dalle 16,00 alle 19,00. Bari: domani all’Ipm si conclude il progetto "Caffè ristretto", editoria e teatro in carcere barilive.it, 9 marzo 2016 Si conclude giovedì 10 marzo alle 16.30 la seconda edizione di "Caffè Ristretto" all’interno del carcere minorile Ipm Nicola Fornelli di Bari. Finanziato dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari al 1° Cpia, il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Bari (che presiede la scuola carceraria), il laboratorio di scrittura creativa, ideato e curato dalla scrittrice e drammaturga barese Teresa Petruzzelli, ha approfondito con i ragazzi che hanno preso parte riflessioni sull’eterna contrapposizione tra il bene e il male. All’evento finale, insieme a Teresa Petruzzelli e alla docente Mariangela Taccogna, che ha portato avanti la riflessione conducendo il laboratorio con i ragazzi, parteciperanno anche: il direttore dell’Ipm, Nicola Petruzzelli, l’assessore comunale alle Politiche giovanili, Paola Romano, Domenico Piliero, dirigente del Cpia 1 di Bari. Giovanni Bello, responsabile de "La Feltrinelli" (via Melo) donerà all’Ipm di Bari alcuni dvd tematici, per avviare la creazione di una cineteca fruibile dagli ospiti dell’istituto. E se da una parte c’è un percorso che si conclude, dall’altra ce n’è uno che inizia. È quello nella casa circondariale Francesco Rucci di Bari, sostenuto dall’assessorato al Diritto allo studio e alla formazione della Regione Puglia con il patrocinio dell’ufficio Garante dei diritti dei detenuti, che hanno dato la possibilità a questa attività di diventare un punto di riferimento culturale all’interno del percorso rieducativo carcerario. Il programma di questa quarta edizione, sempre a cura di Teresa Petruzzelli, è ricco di attività e incontri formativi e informativi con addetti ai lavori del mondo della cultura (librai, editori, scrittori, critici, artisti); seminari con giornalisti su temi concordati e prevede quest’anno anche una collaborazione attiva con lo staff delle pagine di Newspaper Game inserite nella Gazzetta del Mezzogiorno, finalizzati alla produzione di testi e articoli destinati alla pubblicazione. All’avvio del percorso, in calendario sempre per giovedì 10 marzo alle 14.30 è prevista la presenza di Teresa Petruzzelli, Mariangela Taccogna, Francesco Saracino e tutto lo staff del Newspaper Game della Gazzetta del Mezzogiorno, i responsabili della direzione, Lidia De Leonardis, dell’Area trattamentale, Tommaso Minervini, Alessandra Lanzilotti e i responsabili della Polizia penitenziaria. Quanto spende il mondo per difendersi? 14mila miliardi, pari al 15% del Pil globale di Marco Birolini Avvenire, 9 marzo 2016 Fare i conti con il male costa al mondo grande sofferenza, ma anche un’enormità di soldi. Ben 14.300 miliardi di dollari nel 2015, secondo uno studio del think thank australiano Institute for Economics & Peace. Tantissimi, anche perché il trend è in netta crescita rispetto al 2014, quando il costo della violenza si fermò a 9.460 miliardi (l’equivalente dell’11% del Pil mondiale). Dalle spese militari alle conseguenze dei conflitti, dai costi sostenuti per le forze di polizia alle spese per la gestione dei rifugiati: la violenza muove cifre astronomiche, che se fossero impiegate diversamente potrebbero fare parecchio bene. Basterebbe infatti ridurle anche solo del 15% per mettere insieme un gruzzolo sufficiente a finanziare il Fondo europeo di stabilità, estinguere il debito greco e, con quel che resta, accantonare risorse sufficienti a raggiungere i Millenium Goals di sviluppo fissati dall’Onu. Il male ha infinite facce: guerre e terrorismo mostrano quelle più terribili. Le spese militari, infatti, costituiscono il 51% del budget investito per proteggersi. Ma anche la violenza sociale, individuale o di massa, si rivela economicamente devastante. Per tacere delle organizzazioni criminali, mafie in testa, che si rivelano autentici parassiti capaci di succhiare le migliori energie di un territorio, rallentandone drammaticamente lo sviluppo. La violenza quotidiana costa più del terrorismo - L’emergenza di questi anni, il terrorismo internazionale, ha fatto segnare un’escalation di paura ma anche di costi globali: 32,9 miliardi di dollari nel 2013 secondo l’Iep, 52,9 nel 2014. Un incremento del 61%, destinato a salire ancora dopo la catena di attentati che ha funestato il 2015. Mai prima d’ora il terrorismo era costato così tanto. Nemmeno nel 2001, quando si arrivò a 51,51 miliardi a causa dell’11 Settembre. L’Iep attribuisce un valore di 51,2 miliardi alle vite stroncate dagli attacchi. Ma sul bilancio del terrore pesano anche 918 milioni di costi per la cura dei feriti, 410 milioni di danni provocati dalle esplosioni, 104 da attacchi a infrastrutture, 99 dagli assalti armati e via dicendo. Pesanti anche le conseguenze sul turismo: Egitto e Tunisia hanno visto praticamente azzerarsi le presenze nei resort, con ricadute anche sulle agenzie viaggi: quelle lombarde recentemente hanno chiesto lo stato di crisi, determinato appunto dalla paura di attentati. La percezione del terrorismo da parte dell’opinione pubblica finisce tuttavia per deformare il reale impatto economico del fenomeno, che rappresenta solo una minima parte dei ‘costi del malè. Omicidi e crimini violenti, infatti, hanno determinato perdite per 1.700 miliardi di dollari nel 2014. Trentadue volte tanto. Interessante anche notare come si spenda molto di più per la prevenzione degli attentati rispetto a quella della violenza comune, nonostante la portata dei danni determinati dalla seconda sia notevolmente più incisiva. Negli Usa la spesa pro capite antiterrorismo oscilla attorno ai 115 dollari, a fronte di danni effettivi che in media non vanno oltre i 70 dollari. Al contrario, per contrastare la violenza di tutti i giorni il governo federale investe solo 281 dollari per abitante, a fronte di danni che sfiorano i mille dollari. La logica imporrebbe di dirottare maggiori risorse sulla sicurezza ordinaria, ma l’America preferisce concentrare il suo budget sulle agenzie che lottano contro il terrore: più di mille miliardi tra il 2001 e il 2014, per una media di 73 all’anno. Diverso il discorso per i Paesi che sono flagellati in maniera continua e massiccia da attentati e attacchi suicidi. In questo caso i danni sono ingenti. L’Iraq ha perso 159 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni ed è costretto a investire 389 dollari a testa in equipaggiamenti militari. La Nigeria, a partire dal 2010, ha visto crollare del 30% gli investimenti esteri a causa dell’aggravarsi della minaccia di Boko Haram. Il caso Italia: la mafia scoraggia gli investimenti - La sfiducia dei capitali stranieri, per altri motivi, è un problema che purtroppo riguarda anche l’Italia: non ci sono le bande di estremisti islamici, ma in compenso ci pensano le mafie a tenere alla larga i progetti imprenditoriali delle multinazionali. Secondo Bankitalia, la sempre più invadente presenza dei clan sul territorio nazionale ha sottratto al Paese 16 miliardi di investimenti esteri tra il 2006 e il 2012. Un anno fa, davanti alla commissione parlamentare antimafia, il governatore Ignazio Visco sottolineò che in Puglia e Basilicata la presenza delle cosche negli ultimi trent’anni ha rallentato del 16% la crescita del Pil. Poi aggiunse un impietoso confronto tra Friuli ed Irpinia, entrambi colpiti da drammatici terremoti, il primo nel 1976 e la seconda nel 1980: se in Friuli il Pil pro capite è cresciuto di 20 punti dopo il disastro, l’Irpinia ne ha persi 12 a causa della presenza della camorra, che ha drenato fondi e risorse. La Dia, nella sua ultima relazione semestrale, punta il dito anche contro i clan calabresi e su come "le cosche di ‘ndrangheta continuino a rappresentare un pesante fattore frenante per lo sviluppo economico e sociale della Calabria, influenzandone le dinamiche imprenditoriali, commerciali ed amministrative, e tendano ad estendere il proprio potere di condizionamento anche ad altre porzioni di territorio nazionale ed estero". I danni della guerra - Su scala globale, la tragedia più grande (e costosa) resta però ovviamente la guerra, che riduce in macerie anche l’economia. Difficile quantificare i danni provocati dal conflitto in Siria, almeno finché le armi non taceranno. Save the children ha provato a calcolare i costi che di sicuro graveranno sul futuro del Paese: ci vorranno 3 miliardi per ricostruire le scuole. Circa 3 milioni di bambini siriani non riceveranno un’istruzione e questo si tradurrà in una mancata crescita del 5,4% per l’economia nazionale, pari a circa 2 miliardi di dollari. In Somalia il Pil pro capite è crollato dai 643 dollari del 1991 ai 452 del 2001. L’assenza di un governo solido e autorevole ha determinato una totale stagnazione da cui non si vede come il Paese possa uscire in tempi brevi. In compenso, nel 2012 la Somalia è stata costretta a spendere più di un miliardo di dollari per contenere le violenze: una cifra pari al 18% del suo già misero Pil. In Afghanistan, il Pil per abitante è risalito solo negli ultimi anni. Non abbastanza però per superare (nel 2010) quota 1.000 dollari, la stessa toccata nel lontano 1970. In altri termini, il peso delle armi ha schiacciato 40 anni di possibile crescita economica. Di contro, le spese per contrastare talebani e narcotrafficanti (figure che non di rado coincidono) hanno superato i 7,28 miliardi di dollari nel 2012. Tutti soldi che finiscono nelle tasche dei produttori di armamenti. La difesa più redditizia - Secondo il Sipri, l’osservatorio svedese sulla pace, nel 2014 la spesa militare del mondo è sì diminuita, ma solo dello 0,4%: per comprare aerei, tank e missili le nazioni hanno sborsato 1.776 miliardi di dollari (2,3% del Pil globale). Se l’America e l’Occidente hanno ridimensionato i budget bellici, nel resto del mondo accade il contrario. Cina e Russia, in particolare, accelerano la corsa agli armamenti. Pechino ha speso 216 miliardi di dollari nel 2014: il 167% in più rispetto a dieci anni fa. Mosca si è fermata a 84,5 (+97%). Ma anche Medioriente e Asia gonfiano muscoli ed eserciti. L’Arabia Saudita è ormai la quarta maggiore acquirente sul mercato con 80,8 miliardi di dollari. E nella top 15 ci sono anche India, Emirati e Sud Corea. Spunta anche l’Italia con 30,9 miliardi. Unica consolazione: rispetto al 2005 spendiamo il 27% in meno per difenderci. L’industria della difesa (da nemici interni o esterni) resta insomma il settore più redditizio al mondo: con i suoi 9.460 miliardi, nel 2014 ha quasi doppiato l’agricoltura, che nel suo complesso vale "solo" 5.100 miliardi di dollari. Per avere un altro parametro di confronto, il fatturato del turismo mondiale si ferma a 1.900. Fare i conti con il male, per qualcuno, risulta molto conveniente. Migranti: sull’accordo Ue-Turchia arriva l’altolà dell’Onu di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 9 marzo 2016 La bozza d’accordo "non tiene conto delle salvaguardie della legge internazionale di protezione dei rifugiati". L’Unhcr esprime "profonda preoccupazione" e forti criticità giuridiche. Malumori sul testo Merkel-Davotoglu. La risposta di Bruxelles dal vertice del 17-18 marzo. L’Alto commissario per i rifugiati dell’Onu, Filippo Grandi, si è detto "profondamente preoccupato" dalla bozza di accordo che, all’una di notte, è uscita dopo più di 11 ore di vertice europeo a 29, i 28 più la Turchia. Si tratta di un’intesa che "non tiene conto delle salvaguardie della legge internazionale di protezione dei rifugiati", secondo Grandi. Per Amnesty International è semplicemente "assurdo" considerare la Turchia "paese sicuro" a cui rimandare i rifugiati dalle sponde europee (basti pensare a un profugo curdo: quali garanzie ha la Ue?). Il direttore regionale per l’Europa dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, Vincent Cochetel, ricorda che le "espulsioni collettive sono proibite dalle Convenzioni Ue". Dopo le prime, imprudenti, affermazioni del presidente dell’Europarlamento, Martin Schultz, nella notte di lunedì, secondo il quale "qualunque misura che contrasti l’attività dei trafficanti deve essere esaminata", ieri anche il parlamento europeo ha espresso "preoccupazione". I 28 hanno preso tempo fino al prossimo Consiglio del 17-18 marzo per dare una risposta definitiva alle proposte turche, in base alle quali è stata redatta la bozza di accordo al vertice di Bruxelles di lunedì. Il testo, che ha preso di sorpresa molti leader europei, era stato definito nella notte di domenica, in un lungo incontro tra Angela Merkel e Ahmet Davotuglu, alla presenza di Jean-Claude Juncker e Mark Rutte, primo ministro olandese, che ha la presidenza semestrale Ue. Ma la Ue e i suoi leader (Merkel in testa, che teme le elezioni di domenica in tre Länder) hanno fretta di trovare una soluzione qualunque alla crisi dei rifugiati, quindi non arretrano di fronte al peggiore cinismo. Così, il presidente della Commissione Juncker ha affermato che la bozza di accordo è giuridicamente corretta, anche se riguarda non solo i migranti economici ma anche i rifugiati, in particolare i siriani. I diplomatici che a Bruxelles avevano preparato un testo di accordo, sono molto più prudenti: giuridicamente, l’accordo non rispetta la lettera dei trattati internazionali, come la convenzione del 1951, che proibisce le espulsioni di massa e garantisce l’asilo esaminato caso per caso. Grandi ricorda che i rifugiati possono solo venire rinviati in paesi che garantiscono che, a loro volta, non li rispediranno verso i paesi da dove sono fuggiti. Ma la bozza di accordo dice esattamente il contrario: la Turchia dovrà negoziare con i paesi di origine dei migranti economici, per poi rimpatriarli. Per i siriani, invece, ci sarà una lista per chiedere l’asilo in Europa. Inoltre, la bozza contraddice quello che Juncker aveva ripetuto fino alla vigilia: con le espulsioni preventive collettive e sistematiche, l’analisi individuale delle richieste d’asilo sarà rimandata alla seconda fase del processo (Bruxelles ha condannato l’Austria per aver deciso unilateralmente un numero massimo di entrate giornaliere). Paradossalmente, la Commissione e i leader europei non sembrano rendersi conto che la proposta "uno a uno" - per ogni profugo riammesso dalla Turchia l’Europa si impegnerebbe ad accogliere per vie legali un altro rifugiato in un campo in Turchia - potrebbe finire per aggravare la crisi e favorire le manovre turche per aumentare il numero dei migranti illegali sulle coste greche: difatti, più ne arrivano, più ne saranno rispediti in Europa. Anche i profughi potrebbero essere tentati dallo stesso ragionamento. Chi penserà alle espulsioni? Il "lavoro" verrebbe affidato a Frontex, in collaborazione con i turchi. Molti leader europei sono estremamente imbarazzati dal tono della bozza di accordo. Timidamente, alcuni - Hollande, Renzi - hanno accennato al problema della libertà di stampa e al caso Zaman, confermato dai nuovi mandati d’arresto di ieri. In Gran Bretagna il ministero degli Esteri ha espresso perplessità (ma Londra se ne lava le mani, con un piede già fuori dalla Ue). Poi, tutti hanno accettato la logica di fondo, di subappaltare i profughi alla gestione della Turchia. A Bruxelles si sono invece fatte sentire con più forza delle riserve sui costi dell’operazione. I turchi chiedono il raddoppio del finanziamento Ue (6 miliardi entro il 2018, le prime centinaia di milioni dovrebbero venire versate a breve) e i 28 dovranno anche pagare i costi delle espulsioni. Forti riserve esistono anche sulle due altre richieste di Ankara: liberalizzazione dei visti Schengen per i cittadini turchi da giugno, senza aspettare il "rapporto" della Commissione e accelerazione del negoziato per l’adesione alla Ue (con l’apertura di 5 nuovi capitoli di trattative). Migranti: l’Italia finanzierà hotspot in Albania di Carlo Lania Il Manifesto, 9 marzo 2016 Pronto un piano di intervento con Tirana. Previsti pattugliamenti congiunti nell’Adriatico e mezzi per il controllo delle frontiere. Pattugliamenti congiunti italo-albanesi nel mar Adriatico e hotspot in Albania, costruiti con il contributo italiano, dove identificare e selezionare i migranti. La chiusura definitiva della rotta balcanica, annunciata due giorni fa a Bruxelles al termine del vertice tra Ue e Turchia e ribadita anche ieri dal premier ungherese Orban e da quello sloveno Cerar, non rappresenta certo una sorpresa per il Viminale. Da settimane infatti i tecnici del ministero degli Interni collaborano con i colleghi albanesi alla realizzazione di un piano utile ad arginare eventuali arrivi di profughi in partenza dalla sponda opposta dell’Adriatico. Per ora si tratta solo di un’ipotesi di lavoro che impegna gli esperti di entrambi i Paesi e va detto che non c’è nulla che segnali sbarchi imminenti lungo le coste pugliesi. Ma il giro di vite imposto dai paesi balcanici e dell’Austria con la chiusura delle frontiere, insieme alla decisione di Bruxelles di abbandonare i profughi nelle mani di Ankara rispedendo dall’altra parte dell’Egeo anche gli oltre 30 mila che già si trovano in Grecia, renderà inevitabile per chi fugge dalla guerra la ricerca di nuove rotte per l’Europa. Due i percorsi possibili. Partendo dalla Grecia il primo passa dall’Albania, attraversa Montenegro e Bosnia per arrivare in Croazia. Rotta possibile ma improbabile, perché Zagabria è tra i paesi che hanno adottato restrizioni nei confronti dei profughi e perché la Bosnia ha già annunciato di aver pronta una squadra operativa in grado di intervenire in 24 ore al confine se si dovessero registrare flussi di migranti nel proprio territorio. Resta dunque la seconda via, più semplice e diretta, che prevede il passaggio in Albania e da lì, attraverso l’Adriatico, in Puglia. La scorsa settimana il ministro degli Interni albanese Saimir Tahir era a Roma, al Viminale, dove ha incontrato il collega Alfano. È stato deciso di rafforzare la collaborazione tra le due polizie e di fornire a Tirana attrezzature per il controllo delle frontiere, assicurando anche la formazione del personale. In quella sede sono stati decisi anche i pattugliamenti congiunti nell’Adriatico e la realizzazione di hotspot in Albania. Dal 2014 Tirana si vede riconosciuto la status di paese candidato all’ingresso nell’Unione europea, un risultato considerato un successo del premier socialista Edi Rama, e pertanto ha tutto l’interesse a mostrare la sua disponibilità. "Noi non apriremo i confini, ma non costruiremo neanche dei muri. Siamo disposti a collaborare e a fare la nostra parte all’interno di un comune piano europeo", ha ribadito non a caso nei giorni scorsi Rama, che lunedì ha incontrato a Tirana il sottosegretario alla presidenza del consiglio Sandro Gozi. Anche da noi, però, si lavora alla ricerca di nuovi posti da destinare all’accoglienza dei migranti. Va detto che sia il governatore della Puglia Michele Emiliano che il sindaco di Bari Antonio Decaro si sono detti disponibili ad accogliere eventuali profughi in arrivo, e quindi non dovremmo assistere alle scene già viste in altre regioni del nord. Ma, è bene ricordarlo, si tratta di scenari ancora ipotetici. Come ha confermato pochi giorni fa anche il procuratore di Lecce Cataldo Motta, per il quale i migranti non dispongono neanche delle barche necessarie per attraversare l’Adriatico. "E se hanno i mezzi - ha aggiunto - questi sono piccoli e non vedo quindi come possano arrivare in massa". Rotta balcanica a parte è probabile che l’avvicinarsi della primavera porti una ripresa degli sbarchi sulle rotta più tradizionale per noi del Mediterraneo meridionale. Attualmente in Italia 120 mila migranti sono ospitati nelle strutture di accoglienza. Nonostante gli arrivi siano diminuiti rispetto all’anno scorso, al Viminale ritengono possibile che siano necessari altri 30 mila posti che si stanno cercando in collaborazione con Regioni e Comuni. Migranti: a Idomeni, dove i profughi si sentono traditi dall’Europa di Vittorio Da Rold Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2016 "Se avessi saputo di restare bloccato in questo campo nel fango a Idomeni non avrei mai lasciato la Siria: questa non è l’Europa che sognavo quando ho deciso di partire", dice deluso Omar, profugo siriano di Qamishly, ingegnere con tre figli e la moglie impantanato in una mini tenda di Msf nell’inferno del campo profughi di Idomeni, dove 13mila persone aspettano di passare il confine macedone da giorni per raggiungere la Germania senza successo. "Tornerei in Siria oggi stesso se solo la guerra finisse, una guerra che dura da cinque anni nell’indifferenza europea. Ma in ogni caso una cosa è certa e lo dica ai politici europei di Bruxelles: non tornerò nei campi profughi in Turchia perché oltre che siriano sono curdo e per noi c’è troppa discriminazione e ostilità da parte delle autorità turche". Qui al campo che la notte scorsa ha subito un devastante diluvio di pioggia e vento, si mescolano risentimenti, speranze deluse, pianti disperati di chi sperava di raggiungere i parenti in Germania e si vede sbarrata la strada proprio a metà del lungo cammino verso la speranza. I poliziotti macedoni, in tenute antisommossa nuove di zecca e con le autoblindo di pattuglia tirate a lucido, al confine non fanno passare nessun rifugiato da due giorni: i profughi in coda sono seduti in terra nel fango e le immondizie esattamente da 48 ore per non perdere il posto in fila, in attesa che il piccolo cancello di lamiera si apra per qualche ora. Appeso all’ingresso dello stretto passaggio macedone dove i profughi vengono identificati e perquisiti dai poliziotti di frontiera macedone c’è un elenco di città sicure in Siria e Iraq: se vieni da Baghdad o Damasco o Raqqa, la capitale dell’Isis, non vieni più fatto passare in Macedonia perché quelle città, (questa è l’ultima novità del regolamento che cambia ogni giorno), sono ritenute sicure dalle autorità macedoni. Mohamed mi dice che è scappato proprio da Raqqa per evitare di essere sgozzato dai seguaci del Califfato a cui l’Europa ufficialmente si oppone, ma qui ritengono sicura la città da cui sono fuggito. "Sono pazzi questi europei", dice esterrefatto dalla stupidità della burocrazia euro-balcanica. "Questa non è un crisi causata dalle guerre ma dalla disunione delle politiche europee sui migranti. Una crisi in Europa che sta diventando umanitaria per la Grecia, un paese già provato, i cui campi di accoglienza sono al limite delle capacità", dice Peter Bouckart, direttore per le emergenze di Human Right Watch al campo di Idomeni. "Chiedono ai profughi di tornare in Turchia: ma lo sanno che i bambini nei campi turchi non vanno nemmeno a scuola?", dice con pacatezza ma severo verso le decisioni di Bruxelles. Ci sarà una intera generazione perduta di siriani che non andrà a scuola per anni. Un rifugiato mi racconta la storia del primo astronauta siriano che nel 1987 andò nello spazio e ora vive a Istanbul come un profugo. È la storia di un uomo che racconta il destino e il declino di una nazione. "I leader europei hanno completamente perso il senso della realtà e l’accordo che Ue e Turchia stanno negoziando è uno degli esempi più chiari del loro cinismo: per ogni rifugiato che rischierà la vita in mare e verrà sommariamente rimandato in Turchia, un altro potrebbe avere l’opportunità di raggiungere l’Europa dalla Turchia secondo un programma definito di reinsediamento". Lo sottolinea Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere, aggiungendo che "questo calcolo sterile riduce le persone a meri numeri, negando loro un trattamento umano e compromettendo il loro diritto di cercare protezione". Molti al campo di Idomeni, soprattutto chi ha bambini piccoli ammalati alla vie respiratorie o di diarrea al seguito, si arrendono e decidono di prendere i bus verso il campo profughi di Atene. Altri però sono nel frattempo arrivati. Nell’ultimo giorno ne sono giunti dal Pireo circa mille in più, ci dice Jean, responsabile per la distribuzione dei pasti nel campo di Idomeni per Medici senza Frontiere. Msf sta affrontando una sfida enorme anche economicamente, avendo sulle proprie spalle il costo e la gestione di 13mila pasti per tre turni al giorno, mille coperte e tende al giorno, l’affitto di tre appezzamenti di terreno vicini al passaggio della dogana macedone. Molti profughi sono usciti dalle aree affittate dalla Ong e i contadini di Idomeni hanno dovuto abbandonare la coltivazione dei campi, ma stanno subendo un danno che in un momento di crisi non è sostenibile senza un risarcimento pubblico. Esraaa e sua madre, nella piccola tenda rossa tra il fango, mostrano con orgoglio e dignità Tapush, il loro gatto che si sono portate con un marsupio da Damasco per raggiungere i loro parenti in Svezia. Parlano molto bene inglese e sono istruite: famiglia di insegnanti in Siria, classe media, ora sono solo profughi nel mare di disperati di Idomeni, senza diritti e senza certezza nella civile Europa. La Slovenia blocca i migranti: "la rotta balcanica è chiusa" di Marco Zatterin La Stampa, 9 marzo 2016 Il premier Cerar: un messaggio chiaro a trafficanti e irregolari. E la Serbia blinda le frontiere con Bulgaria e Macedonia: non siamo un campo profughi. Per varcare le frontiere sarà necessario esibire un visto oppure un documento europeo. A mezzanotte è nata la Fortezza Slovenia, inaccessibile per chiunque non abbia un visto, o un regolare titolo di viaggio europeo. Il governo del premier liberal-centrista Miro Cerar ha deciso la chiusura della rotta balcanica battuta da un milione di profughi solo nel 2015. Per la prima volta dallo scoppio della crisi dei migranti, saranno respinti anche i siriani in cerca protezione internazionale, sulla strada per Lubiana non passeranno nemmeno gli uomini e le donne che hanno diritto all’asilo. A Bruxelles già dicono che non si può fare, che "sono violati i diritti umani". La mossa crea anche un effetto domino drammatico, visto che la Serbia ha già deciso di piombare le sue frontiere con Bulgaria e Macedonia perché "non può consentire che il suo territorio diventi un campo profughi". È stato inutile che al vertice Ue senza veri risultati di lunedì i leader abbiamo invocato soluzioni collettive e condannato le azioni individuali. La misura slovena è un masso lanciato nelle acque mai quiete dei Balcani occidentali. Cerar sostiene che vuole essere "un chiaro segnale ai trafficanti e ai migranti irregolari che questa rotta non esiste più". Certo sarebbe stato meglio concertarsi, perché ora il problema viene spinto a Mezzogiorno e scaricato sulla Grecia. I profughi che ancora attraversano l’Egeo diretti a Nord - potrebbero essere 100 mila nel solo marzo - resteranno in terra ellenica, se continua così. Visto che l’Europa non riesce a risolvere i problemi, c’è chi prova a spostarli. Il conclave di lunedì doveva servire a definire una strategia per "arrestare i flussi" dei migranti d’intesa con la Turchia. "É da mesi l’unica vera preoccupazione di Frau Merkel", concede una fonte diplomatica, ribadendo che bisogna seguire la tedesca per capire dove si va nel tentare di porre fine alla tragica regata nell’Egeo. La cancelliera ci si è giocata la reputazione quando ha aperto le porte a tutti i siriani. Intendeva essere all’altezza delle aspettative di leader che crede nella solidarietà, invece l’annuncio è divenuto un fattore di attrazione per i disperati. Così, mentre la rotta balcanica si affollava, spuntavano muri e Schengen rischiava il tracollo, Angela è stata obbligata a un "piano B", puntando sulla Turchia e la ridistribuzione (dei profughi fuori Ue), piuttosto che sulla riallocazione (quelli sbarcati), per evitare altri sfaldamenti del fronte dopo il litigio con l’austriaco Faymann. Alla vigilia dell’eurosummit, Angela Merkel ha fatto le ore piccole col premier Davutoglu per discutere il nuovo schema turco. La sensazione a Bruxelles è che glielo abbiano suggerito. Le fonti tedesche negano. "Era il suo piano da sempre", giura un diplomatico. C’è chi immagina che Ankara abbia capito che - chiusa la rotta balcanica - le sue chance negoziali si sarebbero assottigliate. Allora ha calato l’ultimo asso. Certi, i turchi, che la cancelliera sarebbe stata con loro. La proposta turca, col meccanismo dello scambio "uno a uno" per i siriani e i tre miliardi aggiuntivi, è stata trovata "scomoda" dai leader europei e definita "illegale" dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. I leader Ue erano perplessi per i contenuti e per la formula che bruciava giorni di negoziati con Ankara e il conseguente lavoro fra i diplomatici per trovare una quadra al vertice. Merkel ha capito che l’unica via di uscita era l’idea dei turchi, ma doveva evitare i danni possibili. Ha rischiato lo scacco ed è riuscita a tenere la porta aperta. Dell’intesa, ma non delle frontiere slovene e serbe. Dove gli asilanti non passano e l’Europa perde un altro pezzo di dignità. Gli albanesi e il sogno di avere una limousine di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 marzo 2016 Sono passati 25 anni da quando irruppe sulle coste pugliesi quella che un manifesto leghista bollò come "l’orda" albanese. "Il porto di Brindisi stamane era gremito da migliaia di profughi e fare un calcolo è divenuto ormai un serio grattacapo anche per la Capitaneria di porto. Nella sola mattinata di oggi gli arrivi sono stati oltre settemila, ma altri ne sono annunciati per la giornata…" (Ansa, 7 marzo 1991). Sono passati 25 anni da quando irruppe sulle coste pugliesi quella che un manifesto leghista bollò come "l’orda" albanese. Ma quelle immagini si conficcarono per sempre nella memoria di tutti gli italiani. Qualcuno dei quali, forse, ancora ricorda una storia piccola piccola dentro quella più grande. Sul rimorchiatore "Arzeni" che era lungo 26 metri ed era coperto da una coltre immensa di 837 persone, nacque una bambina e la mamma la chiamò Italia. Sembrò, davanti a certe foto, di rivedere le descrizioni dei nostri nonni in viaggio verso le Meriche lasciate da Edmondo De Amicis: "Ammonticchiati là come giumenti / Sulla gelida prua morsa dai venti, / Migrano a terre inospiti e lontane; / Laceri e macilenti, / Varcano i mari per cercar del pane..." Gigi Riva scrisse su Il Giorno di aver visto uno di quei profughi appena toccata terra, pazzo di gioia, fiondarsi verso il primo uomo in divisa, un vigile, e battersi le mani sul petto: "Io, limousine!". Convinto che l’Italia fosse il luogo dove si poteva realizzare qualsiasi sogno. Lo stesso inviato raccontò d’aver seguito un altro degli sbarcati per vedere dove andasse e che quello si era fermato a fissare un semaforo: verde, giallo, rosso, verde, giallo, rosso… Non ne aveva mai visto uno. Moltissimi italiani provarono compassione e solidarietà, molti altri paura. "Un voto in più alla Lega, un albanese in meno a Milano", fu lo slogan alle comunali di Marco Formentini. Un quarto di secolo dopo, gli albanesi regolari e i loro figli, in gran parte diventati italiani, sono 498.419, vantano oltre 200 mila occupati, 30 mila imprenditori, 12 mila universitari, centomila studenti dalle elementari ai licei. E anche il tasso di criminalità iniziale, che spaventò gli italiani e li rese diffidenti o ostili, è rientrato in percentuali più accettabili. Sono ancora troppi, gli albanesi in galera. Troppi. Molti di più, però, sono quelli che si sono via via integrati e diluiti tra noi al punto che a volte ci sorprendiamo davanti a un amico: "Ma dai, sei albanese?". E c’è chi, lavorando sodo, se l’è fatta davvero la limousine. Droghe: oggi la Consulta dovrà pronunciarsi sulla coltivazione ad uso personale di Andrea Oleandri (Ufficio Stampa Associazione Antigone) Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2016 Gonnella: "Ci auguriamo favorisca un cambio di politiche". Domani la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sul fatto che alcune condotte propedeutiche al consumo di cannabis, relativamente alla coltivazione ad uso personale, saranno o meno ancora reato. La questione nasce dalla Corte di Appello di Brescia che, con una propria ordinanza, ha posto alla Corte Costituzionale "la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni dell’art. 75 D.P.R. n. 309/90, nella parte in cui escludono tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, qualora finalizzate al solo uso personale dello stupefacente, la condotta di coltivazione di piante di cannabis, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli artt. 3, 13, comma secondo, 25, comma secondo e 27, comma terzo, Carta Cost". In tal senso la Corte si riunirà per deliberare sull’irragionevole esclusione della coltivazione tra le condotte propedeutiche al consumo personale passibili di sanzione amministrativa e avrà l’opportunità di cambiare orientamento rispetto al 1995 quando stabilì con sentenza 360/95 l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.75 e dell’art 73 Dpr 309/90 e confermava l’illiceità penale della coltivazione di marijuana e di stupefacenti. La ragione della bocciatura del 1995 stava nel fatto che la coltivazione comunque apporterebbe un aumento della quantità di stupefacente disponibile sul nostro territorio nazionale (da cui la punibilità penale) e che tale aumento di disponibilità venisse ritenuto escluso solo in casi in cui la coltivazione avesse dimensioni ridottissime e che potremmo definire anche ben al di sotto delle necessità di consumo personale del singolo coltivatore. Una sentenza che favorì un paradosso, ovvero quello per cui chi coltiva cannabis per il suo uso personale risponde della sanzione penale, o comunque deve subire un processo, e chi acquista al mercato nero sempre per farne uso personale ne risponde solo a livello amministrativo. Si favorisce in tal modo il ricorso al mercato illegale. Eppure il Legislatore non si è accorto di tale ovvietà e non è intervenuto per decretare che tutte le condotte propedeutiche al consumo personale non meritano la sanzione penale. "L’augurio per la sentenza di domani è duplice" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Da una parte ci auguriamo che la Corte Costituzionale chiarisca che la coltivazione per uso personale non solo non accresce lo stupefacente presente sul mercato, ma anzi che rappresenti un antidoto contro le mafie. Dall’altra che una sentenza positiva dia la spinta al legislatore affinché su questi temi ci sia un cambio di politiche radicale che vada incontro alla depenalizzazione dell’utilizzo di droghe e alla decriminalizzazione dei consumatori". Renzi e Hollande bellicosi: "Libici sappiano che il tempo non è infinito" di Andrea Colombo Il Manifesto, 9 marzo 2016 Incontro tra Francia e Italia a Venezia. I due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi. Da ieri la guerra in Libia è più vicina. Molto più vicina. All’uscita del vertice italo-francese di Venezia, svoltosi "nel nome di Valeria Solesin", la vittima italiana del Bataclan, i due presidenti rilasciano dichiarazioni ben più bellicose delle parole pronunciate nei giorni scorsi da Matteo Renzi. In Libia il governo unitario stenta a nascere, e il premier italiano avverte: "La formazione di un governo in Libia è una priorità, innanzitutto per il popolo della Libia. Ma i libici per primi devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito". Quello di Renzi è un monito minaccioso ed è anche un’inversione di rotta rispetto alla linea sin qui tenuta, ribadita del resto anche ieri da un Giorgio Napolitano che continua a parlare come se fosse il presidente della Repubblica: "Nessuna azione militare senza un governo legittimo che invochi l’intervento". Sino a ieri era una condizione necessaria. Ora è solo auspicata, e chiarendo ai libici, ma in realtà anche agli italiani, che il tempo a disposizione per evitare l’arrivo delle truppe è limitato. Toni che fanno il paio con quelli del presidente francese che, dopo aver espresso solidarietà per le due vittime italiane, va giù senza perfirasi: "Vorremmo fare di tutto in Libia per la creazione di un governo. Ma la lotta contro Daesh deve essere portata avanti". Un’inversione di marcia tanto netta dovrebbe significare che la trattativa in corso da giorni tra i due Paesi europei più coinvolti nella crisi libica ha fatto nel vertice veneziano sostanziosi passi avanti. Il principale punto critico è la composizione della spedizione, che nelle ipotesi sin qui trapelate ricadrebbe esageratamente, per Renzi, sulle spalle del suo Paese, ma è probabile che in ballo ci siano anche gli assetti della Libia dopo la guerra, o più precisamente una spartizione delle aree di influenza e dell’accesso alle fonti energetiche, che è da sempre motivo di frizione profonda tra Roma e Parigi. I venti di guerra non spirano solo a Venezia. L’inviato dell’Onu Kobler dichiara forte e chiaro che "si deve agire subito: il tempo è un fattore determinante e Daesh si sta allargando". Kobler pensa a un’offensiva, "guidata dai libici", ma "con l’assistenza della comunità internazionale". Gli americani, dal canto di loro, premono sull’acceleratore con i raid che, informa Renzi "sono già una realtà e ne eravamo stati informati". Volenti o nolenti, quelle dell’inviato delle Nazioni unite e quelle di Washington finiscono di fatto per essere entrambe pressioni sul governo che da giorni è sotto tiro con l’obiettivo di spingerlo ad agire, quello di Roma. In questo clima di fatto prebellico, stamattina alle 11 il ministro degli Esteri Gentiloni sarà a palazzo Madama, per riferire sullo stato della crisi libica, l’eventuale coinvolgimento militare italiano e sulla vicenda tragica dell’uccisione di due ostaggi quasi contemporanea alla liberazione degli altri due. Pare impossibile, ma dopo giorni di articoli sulla stampa di mezzo mondo, di polemiche nazionali e internazionali, di dichiarazioni a raffica, preferibilmente dal video, sarà la prima volta che il governo si degna di affrontare la vicenda nella sede propria, cioè in Parlamento. Ieri sera, il ministro teneva le dita strettamente intrecciate, nella speranza di non doversi presentare al Senato senza ancora le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano in Italia. "Dovrebbero rientrare in nottata", spiegavano fonti della Farnesina, aggiungendo però che purtroppo "mancano conferme ufficiali". Poi uno sprazzo di ottimismo: il rientro prima dell’alba pare certo, è già prevista l’autopsia al Gemelli. Ma è proprio Renzi a gelare di nuovo le attese: "Quando arriveranno le salme vi sarà data comunicazione ufficiale". Impossibile capire quale sia l’impedimento che ha sin qui impedito alle famiglie di riavere almeno i corpi dei loro congiunti. "Solo problemi logistici", assicurava al Corriere della Sera il ministro degli Esteri del governo di Tripoli Abuzaakouk: una di quelle formule fatte apposta per vincere il premio della reticenza. Sul piano della ricostruzione degli eventi, Gentiloni sarà quasi certamente altrettanto reticente. Le versioni ufficiali sono, se non proprio bugiarde, almeno molto parziali. Molto più credibile e completa la ricostruzione uscita sull’Huffpost di ieri. Indica una vicenda che presenta un’infinità di punti in comune con la liberazione di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari, 11 anni fa. Anche in questo caso, infatti, la tragedia sarebbe arrivata a un passo dal lieto fine, quando l’accordo era sul punto di realizzarsi e il riscatto pronto. Perché, a quel punto, i rapitori abbiano deciso di dividere in due gruppi gli ostaggi per portarli fuori da Sabrata e soprattutto perché, nonostante secondo il governo di Sabrata fossero state tutte avvertite, le milizie abbiano aperto il fuoco sul convoglio uccidendo i due ostaggi italiani resta avvolto nel mistero. Proprio come quelle raffiche di mitragliatrice che, nonostante gli avvertimenti, colpirono nel 2005 la macchina sulla quale viaggiavano Giuliana Sgrena e il suo liberatore. Così la disperazione dell’Europa uccide la democrazia in Turchia di Eugenio Cau Il Foglio, 9 marzo 2016 Martedì sera la pagina web di Today’s Zaman, la versione in lingua inglese del quotidiano turco sequestrato la settimana scorsa dalla magistratura, era online e come sospesa a venerdì scorso, ancora testimoniava la preoccupazione per la notizia appena giunta del sequestro. Dopo che una nuova amministrazione imposta dal tribunale ha preso le redini del giornale, la sua versione turca, Zaman, da lunedì è passata da essere una delle ultime voci di opposizione a giulivo libello filogovernativo, ma online tutti i contenuti sono cristallizzati al quattro di marzo, o quasi, eccezion fatta per alcuni articoli particolarmente critici con il governo, che da ieri sono inaccessibili. Tra questi c’è la rubrica di Ihsan Yilmaz, professore di Scienza politica alla Fatih University di Istanbul e columnist fisso del giornale, su cui scrive dal giorno della sua fondazione. "È da anni che il governo cerca di fare di Zaman, l’ultimo vero quotidiano di opposizione, il suo megafono. L’ex direttore, mio caro amico fin dai tempi dell’Università, fu perfino mandato in prigione", dice Yilmaz al Foglio. "La situazione oggi per i giornalisti è terribile. Sono costretti (forced, dice Yilmaz, ndr) a scrivere news favorevoli al governo, e non possono lasciare per non essere buttati in mezzo a una strada". È un meccanismo già verificato con tutti gli altri media messi sotto controllo dall’esecutivo, usando la leva giudiziaria o quella economica: "Quattro giornali e due canali televisivi tra gli altri", dice Yilmaz. "In tutti i casi all’inizio sono stati licenziati solo i dirigenti, come è successo con Zaman. Poi si costringe i giornalisti a fare informazione addomesticata, e infine, quando la situazione si è stabilizzata, si licenzia anche loro. Con una doppia beffa: secondo la legge turca, se sei licenziato per "ragioni immorali" non hai alcuna salvaguardia economica, sarà una punizione ulteriore". La discesa verso l’autoritarismo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è vecchia di anni, ma si possono notare due punti di inflessione. Le proteste di piazza Taksim nel 2013 e la vittoria elettorale dello scorso novembre. "Da quel momento il trend (verso l’autoritarismo e la repressione della libera stampa) è accelerato molto rapidamente", dice al Foglio Ilhan Tanir, analista turco e giornalista attualmente residente a Washington. "Anche media mainstream ed equidistanti come Hurriyet e Cnn Turk hanno iniziato a licenziare giornalisti che erano conosciuti come nemici del presidente e ad addolcire i toni con cui trattavano il governo. Zaman invece ha continuato nelle sue critiche, ed era solo questione di tempo prima che lo colpissero". Lo stesso Tanir è stato vittima di un’epurazione: "Ho lavorato per Vatan, uno dei principali giornali della Turchia, fino al 2014. Poi, il giorno dopo la vittoria di Erdogan alle elezioni locali (il primo passo verso la sua scalata al potere presidenziale, ndr), un consigliere di Erdogan ha consegnato al giornale una lista di giornalisti che dovevano essere licenziati. C’era anche il mio nome, siamo stati cacciati perché eravamo critici verso il governo. Ho ricevuto attacchi, insulti, minacce di morte su internet. E questo è niente se confrontato con quello che succede a molti giornalisti in Turchia". A pochi giorni dal sequestro di Zaman, ieri le autorità turche hanno predisposto il commissariamento e la nomina di un amministratore fiduciario anche per l’agenzia di stampa indipendente Cihan. Entrambi i media, Zaman e Cihan, fanno parte del gruppo editoriale Feza Gazetecilik, vicino al gruppo di Fethullah Gülen, imam e imprenditore nemico giurato di Erdogan e definito "terrorista" dal governo. Davanti a queste violazioni ripetute della libertà di espressione, i leader occidentali alleati della Turchia abbozzano. Parlano con toni gravi della situazione, ma non condannano esplicitamente. "Ho chiesto io stesso al portavoce del dipartimento di stato americano, in conferenza stampa, se l’America intende condannare quanto successo con Zaman", dice Tanir. "Mi ha risposto dicendo che la situazione è ‘preoccupantè, ma non c’è nessuna condanna ufficiale". Anche i leader europei, radunati lunedì fino a tarda notte con il premier turco Ahmet Davutoglu per raggiungere un pre-accordo sulla crisi dei migranti, si sono ben guardati dall’usare toni forti. La crisi è così grave che l’Europa ormai è disperata di avere l’appoggio di Erdogan. "Abitualmente l’Europa ha un certo influsso sulla politica turca", dice Yilmaz, "ma i leader europei sono stati schiavizzati da Erdogan a causa della crisi dei rifugiati". Al vertice di lunedì nessuno dei leader (con l’eccezione del premier italiano Renzi) ha messo con forza sul tavolo negoziale la questione delle libertà civili in Turchia, e Davutoglu ha visto accettate tutte le sue richieste. È così che si concludono i deal nell’epoca della leadership debole: per disperazione, non per diplomazia. "La disperazione europea sta uccidendo la democrazia in Turchia", ci dice Tanir. A questo Yilan ha dedicato la sua ultima column su Today’s Zaman. "La Turchia tornerà una democrazia?", si chiedeva. Gliel’abbiamo richiesto. Ci risponde di no, convinto. Stati Uniti: "Guantanámo costa troppo", Obama presenta piano per la chiusura di Antero Di Guglielmo ns-game.com, 9 marzo 2016 "Non voglio passare il problema di Guantánamo a un altro presidente" ha aggiunto infatti Obama che, conscio dei rischi in un periodo delicato con le primarie Usa in corso, ha voluto chiarire che "questo piano merita un esame imparziale anche in un anno elettorale" come questo. "Dopo anni di retorica, il presidente non ha ancora detto come e dove ospiterà gli attuali e futuri detenuti, inclusi quelli che la sua amministrazione ha considerato troppo pericolosi per essere rilasciati". La stima include prigioni già esistenti in Stati come il Colorado o la Carolina del Sud. Il governo degli Stati Uniti spende ogni anno 445 milioni di dollari per la manutenzione del campo di prigionia. "Lavoreremo con il Congresso per trovare un posto sicuro negli Stati Uniti per i detenuti rimanenti", tra cui alcuni "che pongono una specifica minaccia agli Stati Uniti". Nel suo intervento alla Casa Bianca, il presidente americano ha sottolineato che mantenere aperta la struttura è contrario ai valori Usa e che per le persone attualmente recluse nel carcere è già stato approvato il trasferimento in altre località. "Andiamo avanti e chiudiamo questo capitolo", ha detto Obama, che lascerà l’incarico il prossimo gennaio. Anche McCain sembra aver cambiato idea: "quello che abbiamo ricevuto oggi è un vago menu di opzioni, non un piano credibile per chiudere Guantánamo". Si prevede però che negli anni (circa 20) ci potrebbe essere un risparmio fino a 1,7miliardi di dollari, sempre che il numero dei prigionieri diminuisca. La risposta dei repubblicani non si è fatta attendere. Saranno trasferiti in altri Paesi 35 detenuti di Guantánamo che hanno già ottenuto l’approvazione. "Dalla ripresa delle relazioni con Cuba, il presidente sta dando al regime di Castro una concessione dopo l’altra, preferendo le promesse politiche alla sicurezza nazionale", ha spiegato Rubio. Le prime attese reazioni negative sono arrivate: "Nella sua proposta mancano dei dettagli cruciali, richiesti dalla legge, come il costo esatto e il luogo di un nuovo centro di detenzione" ha detto Paul Ryan, speaker repubblicano della Camera.