Il ministro Orlando: il nuovo Codice di procedura è strategico per il Paese di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 Disegno di legge delega per la riforma del Codice di procedura civile. Si tratta di "un provvedimento che noi consideriamo strategico anzi forse, per quanto mi riguarda, il più strategico portato di fronte a quest’Aula dal Governo, perché considero che qui si può determinare davvero un definitivo cambio di passo in una materia che è assolutamente essenziale per la competitività del Paese". In questi termini il ministro della Giustizia è intervenuto ieri alla Camera sul disegno di legge delega per riformare il Codice di procedura civile, sottolineando che il miglioramento della giustizia civile potrebbe pesare un punto di Pil. Il testo, la cui discussione generale si è conclusa ieri pomeriggio, è da oggi al voto dell’Aula. Orlando ha rivendicato l’attenzione del Governo alla giustizia civile e, nel dettaglio, si è soffermato su due degli aspetti strutturali previsti dalla delega: il potenziamento del tribunale delle imprese e la nascita del tribunale della famiglia. Sul primo ha sottolineato come devono essere evitati i rischi di un aumento dell’arretrato per effetto dell’allargamento delle competenze: la via è quella "di rafforzare gli organici e le strutture di tali tribunali, perché essi hanno individuato un modo diverso di fare giustizia, molto più direttamente collegato con i soggetti che sono gli "utenti" di questo settore; e tale esperienza credo costituisca anche oggi un elemento di forza del nostro sistema". Anche sul tribunale della famiglia Orlando ha tenuto a essere rassicurante precisando che l’intervento non intende certo disperdere l’esperienza del tribunale dei minori, anzi si propone di innestarla in un contesto più ampio, tenuto conto anche del fatto che i tribunali dei minorenni hanno perso nel tempo svariate competenze e "si è venuta a creare una frammentazione molto forte". Le tesi di un "fermo biologico" delle modifiche al Codice è stata poi confutata da Orlando, che ha ricordato come sono numerose le segnalazioni di farraginosità dei riti e come, alla fine, la scelta sia stata di intervenire nel segno della semplificazione. E Orlando è tornato anche sull’allarme lanciato dal primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio sui carichi di lavoro della Corte: "la Cassazione sul penale più o meno si difende (naturalmente, si potrebbe sempre fare di più); il vero punto di caduta è nel civile, ma nel civile, nelle sezioni civili, metà del contenzioso è originato dalle commissioni tributarie, e quel contenzioso spesso vede lo Stato come parte del procedimento. È quindi chiaro che noi dobbiamo provare a vedere di fare la pace con noi stessi. Chiamare, cioè, tutti i soggetti che in qualche modo alimentano il contenzioso per parte pubblica e capire se quelle sono le uniche strade che si possono seguire, cioè quelle del riversare sulla giurisdizione una quantità molto significativa di domanda di giustizia o, invece, seguirne altre per consentire ai cittadini di utilizzare meglio quegli strumenti che la giurisdizione offre". Legittima difesa, resta la discrezionalità del giudice di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 Disegno di legge in materia di legittima difesa. Sul piano tecnico non serve un intervento sulla legittima difesa, quanto piuttosto di modifica delle circostanze. Il senso lo ha spiegato in Aula il relatore, David Ermini, responsabile giustizia del Pd: "il testo è basato sugli orientamenti espressi da qualificati operatori della giustizia che hanno spiegato la necessità di non toccare l’articolo 52 che disciplina la legittima difesa, come pretende la proposta della Lega. Siamo perciò intervenuti sull’articolo 59 (sulla disciplina delle circostanze che attenuano o eliminano la pena) stabilendo che la reazione di una persona offesa deve essere valutata in base all’andamento dei fatti, considerandola legittima se chi la compie si difende come conseguenza di un grave turbamento psichico oppure a causa di una azione colposa o volontaria della persona contro cui è diretto il fatto (cioè il ladro o il rapinatore). Entro questi termini si può intervenire per tutelare i cittadini aggrediti ma evitando il far west auspicato dalla Lega". Un cambiamento non da poco però. E che a fatto insorgere l’opposizione con Forza Italia che parla di testo "stravolto" e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) di "politica che dimostra di stare dalla parte dei delinquenti e non dei cittadini". Il testo del disegno di legge proposto in commissione Giustizia dalla Lega prevedeva una sorta di presunzione nell’esercizio della legittima difesa da parte di "colui che compie un atto per respingere l’ingresso, mediante effrazione, o contro la volontà del proprietario, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di persona travisata o di più persone riunite, in un’abitazione privata o in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionali o imprenditoriale". Il testo all’esame dell’Aula, invece, lascia margini di discrezionalità al giudice nel valutare il peso del turbamento psichico dell’autore della reazione di fronte alla situazione di pericolo. Evviva il processo contro il "concorso esterno" in associazione mafiosa di Piero Tony Il Foglio, 8 marzo 2016 Come una sentenza ha messo a nudo il simbolo di tutti i reati fuffa. "Non si può essere condannati solo per concorso esterno". perché combattere contro la giustizia ectoplasma. È davvero la fiaba dello Stento, dopo decenni ancora oggi si deve continuare a discutere su quell’obbrobrio giuridico costituito dal concorso esterno in associazione mafiosa. E sempre in maniera vibratissima, perché chi lo sostiene è probabilmente mosso da importanti pulsioni savonaroliane che non possono tollerare di vedere impunita la fascia grigia dei rapporti di connivenza con il contesto territoriale e chi lo nega è soprattutto preoccupato per importanti anzi fondamentali principi di spessore costituzionale. Pare che qualche giorno fa per codesta contestazione di concorso esterno un gip di Catania (Bernabò Distefano) abbia emesso un proscioglimento ritenendola - come molti altri tecnici del diritto - non prevista dalla legge ma solo incondivisibile interpretazione giurisprudenziale degli articoli110 e 416 bis cp; che sia subito insorto il dirigente di quell’ufficio definendo quella conclusione - in sintonia con molti altri tecnici del diritto - come inaccettabile opinione personale. Al solito, una radicale contrapposizione di opinionisti. Il procuratore Caselli con un indignato articolo sul Fatto ha bollato - come molti altri - il revisionismo negazionista del gip. Per parte mia invece credo - come molti altri giudici che potrebbero avere quasi la stessa autorevolezza di Caselli - che quel gip abbia fatto e detto cose sacrosante e giuste. Dovrebbe bastare questa radicale antitesi - in aggiunta all’ondivago orientamento giurisprudenziale anche di Sezioni Unite della Cassazione - per ingenerare prudenza e qualche dubbio e qualche preoccupazione per la sorte dei tanti indagati, imputati e condannati in ordine a quell’evanescente ipotesi di reato. Ma andiamo con ordine. Partendo dalle due tipologie di concorso previsti dalla legge (concorso "eventuale" dell’articolo 110 cp e concorso "necessario" quale quello degli articoli 416, 416 bis cp), diventate poi tre con l’aggiunta giurisprudenziale del così detto "concorso esterno in associazione mafiosa" (per quanto si dirà forse sarebbe stato più esatto, ma anche più palesante e dunque ancor più facilmente criticabile, denominare quell’etereo delitto "reato di concorso nel concorso" e nulla più ). Il delitto di associazione per delinquere sia o non sia di stampo mafioso (articoli 416, 416 bis cp) è reato a concorso necessario di persone nel senso che può sussistere solo con il concorso di più persone, almeno 3. Esso, sia o non sia di tipo mafioso, come noto è dalla legge configurato come reato a forma libera ossia a condotte non tipizzate - fermi restando naturalmente, quanto all’articolo 416 bis, sia metodo mafioso che forza intimidatrice che conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà - ma a composizione predefinita e chiusa quanto ai soggetti attivi nel delitto, nel senso che esso esiste solo grazie alla loro presenza associata, che pertanto ne è elemento costitutivo e condizione necessaria. È evidente, pertanto, che tale "plurisoggettività essenziale e necessaria" è norma speciale (per espressa definizione della legge occorre che al pactum sceleris partecipino almeno tre persone e che queste non possano che essere o associati o promotori o costitutori o organizzatori o capi) rispetto al concorso eventuale previsto e regolato in via generale per tutti i reati dall’articolo 110 cp e scomodato dai fautori del concorso esterno, quell’articolo 110 cp che dice "quando (quindi non necessariamente, ndr) più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita…". È tutta un’altra storia! A parte il nome, realtà giuridiche assolutamente diverse e lontane tra loro non compenetrabili anzi gnoseologicamente incompatibili (come morto ma non troppo o bagnato ma un po’ asciutto, tanto per intenderci). E non solo perché, da che mondo è mondo, la regola speciale fagocita quella generale, tant’è che a nessuno verrebbe in mente di pensare alla lucertola come ad un sauro, al pipistrello come ad un chirottero, alla nonna come anziano rappresentante del genere umano e così via; ma anche perché è lo stesso codice penale a ricordare a zelanti e distratti che "quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito (articolo 15 cp e 9 legge numero 689/1981). Eppure al mondo c’è chi ha pensato, forse solo per lodevole ansia punitiva nei confronti delle zone grigie del "patto scellerato " menzionato dal procuratore Caselli, che la norma speciale del concorso necessario (articoli 416, 416 bis cp) e la norma generale di quello eventuale (articolo 110 cp) potessero filare tanto d’amore e tanto d’accordo da poter integrare con il connubio il nuovo reato di concorso esterno in associazione criminale, contemporaneamente dentro e fuori come la fata turchina, un pezzo di qua uno di là ed il gioco è fatto. Il concorso di persone, di cui all’articolo 110 cp, regola generale operante per tutti i reati e dunque per qualsiasi reato, per legge non può che essere interno al reato e mai esterno come declamano invece i fautori del concorso esterno, proprio perché a chiarissime lettere l’articolo 110 cp vuole prendere in considerazione solo persone che concorrano "nel medesimo reato". E la ragione, semplicissima, è che con il vigente articolo 110 del codice Rocco del 1930 si volle prendere le distanze dal vecchio codice Zanardelli del 1889 che, facendo molti "distinguo", sul punto si era dimostrato poco operativo; prevedeva infatti sanzioni e trattamenti penali diversi distinguendo (con intuibili difficoltà precettive ed accertative) tra compartecipazione materiale e morale, tra correità e complicità. Tagliando la testa al toro come si suole dire, il vigente codice Rocco previde che "l’evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo… e perciò a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell’intero… dall’esame dei casi della pratica si apprende che la preordinata catalogazione dell’entità dell’apporto di ciascun concorrente non può essere che arbitraria, perché in concreto il giudizio è in relazione ad un’infinità di circostanze, che sono sottratte ad ogni previsione, essendo il loro valore diverso nelle innumerevoli modalità dei fatti" (relazione al progetto definitivo - numero 134). Torniamo alla nostra ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, cioè di asserito concorso in sodalizio mafioso da parte di persona forse connivente ma che mafiosa non è. Viene naturale: per zone grigie e sfuggenti si impongono norme grigie e sfuggenti. Ovvio. Visto che codesta persona non risulta pacificamente mafiosa, per poterla "attenzionare" con indagini di verifica il solo articolo 416 bis cp da solo non basta e non serve. Tant’è vero che, anche per non lasciare impuniti quelli delle fasce grigie e del "patto scellerato", si è dovuto ricorrere… "all’esterno". Né per attenzionarla serve e basta, evidentemente, il solo articolo 110 cp, quello del concorso nel "medesimo reato" con responsabilità per l’"intero" come precisa la relazione. Non serve e non basta perché serve a regolare - come detto - il comune concorso "eventuale" e non già quello specifico e "necessario" dei reati associativi. Presi separatamente quei due articoli non possono servire a nulla, insomma, nella lotta contro il crimine delle zone grigie ed ecco perché dal cappello è saltata fuori l’accoppiata. Da anni mi chiedo come i fautori del concorso esterno abbiano potuto applicare all’articolo 416 bis cp quell’articolo 110 cp che perentoriamente esordisce non con la previsione di un concorso esterno ma, al contrario, con un "quando più persone concorrono nel medesimo reato….". E come abbiano potuto superare ogni possibile obiezione sul punto. Quale sarebbe il medesimo reato? Quello interno o quello esterno? Dall’interno verso l’esterno o viceversa? Perché sarebbe davvero grave se, con una sorta di sofisma tipo petizione di principio che sa tanto di artifizio, al fine di superare qualsiasi obiezione, si fosse posticipata la causa all’effetto invertendo le linee di partenza e traguardo del percorso logico; tanto da ritenere oggi sussistente quel tipo di reato che invece sarà ravvisabile solo domani e, come se non bastasse, solo grazie all’interpretazione della norma sub iudice… insomma mi apro nel frattempo la strada facendo qualcosa che non potrei fare. Conflitto di interessi? Gioco delle tre carte? Bah! Sarebbe così semplice, lineare, bello e giusto applicare le regole senza forzature e trattare i reati comuni come comuni e basta, senza rincorrere le utili agevolazioni investigative previste per chi indaga sulla mafia. E quelli mafiosi come mafiosi, con ordinata individuazione dei ruoli direttivi o associati nonché delle varie tipologie partecipative sia materiali sia morale. Ma in entrambi i casi, fare giustizia verificando in tempi rapidi se ogni indagato abbia materialmente o moralmente conferito un qualche contributo causale apprezzabile e concreto alla verificazione del fatto. E combattere quelli delle zone grigie del patto scellerato prima con l’educazione (furbetti e ganzini si combattono con la scuola, diceva mio nonno e mi pare ancora attuale) ossia con la prevenzione - che vuol dire mediazione e quella lotta alle ingiustizie e all’incultura civica che Giovanni Falcone invocava nel secolo scorso - poi con la giustizia "riparativa" e della persona. Utopia? Bah! Tutto il resto è contraddizione in termini, logica delle sensazioni, uno stiracchiare oltre il consentito la rete da pesca per arrivare alle fasce grigie, è fuffa. Da decenni mi chiedo a chi possa essere venuta in mente per la prima volta - ci deve essere per forza un primo! - l’idea di un concorso interno… ma allo stesso tempo esterno… esterno ma non troppo. È solo fuffa parlare di concorso esterno quando per legge il concorso può essere solo interno ed organico. O ipotizzare un concorso da parte di chi non è associato in un reato che proprio nell’associazione si integra mediante l’affectio societatis dell’associazione stessa. È fuffa ricorrere al concorso morale e nascondersi dietro queste due parole quando la condotta non è di tale valenza da rendere l’autore annoverabile nei ruoli che la giurisprudenza ha ben precisato secoli fa, cioè quelli di istigatore o rafforzatore. E conseguentemente è fuffa il rincorrere indicatori che, vaghi come ectoplasmi, non assurgono a prova quantomeno di partecipazione consapevole ma che - di volta in volta ravvisati in frequentazioni improprie, incremento del rischio per la società civile, attività mediatoria o di cerniera, cointeressenza etc. etc. etc. - hanno consentito di materializzare fantasmi e pertanto impedire non di rado qualsiasi difesa concreta. Il procuratore Caselli ha tutte le ragioni quando dice che la criminalità organizzata si nutre anche di forze conniventi del contesto sociale e che alcuni comportamenti non dovrebbero restare impuniti. È palese che essa sia agevolata e prosperi grazie agli egotismi e alle diffuse timidezze del territorio, alla corruzione ed all’ignoranza, ad una riservatezza storica che qualche volta può rasentare l’omertà, all’ingiustizia sociale e all’incultura civica di cui parlava Giovanni Falcone come causa principale del fenomeno, alle disinvolture imprenditoriali. È palese, sono condotte e comportamenti/atteggiamenti spesso di marcata pericolosità che sarebbe logico e doveroso perseguire, purché senza forzature giurisprudenziali ideate per inseguire umori. Stringi stringi penso che, almeno fino a quando non sia modificato il quadro normativo, vada abbandonata la mala-prassi del concorso esterno ed incrementata nel contempo l’attenzione per i reati-fine (che, meno evanescenti di qualsiasi concorso esterno, proprio delle fasce grigie costituiscono il tessuto connettivo) al fine di potersi accontentare… nell’attesa dei risultati socioeducativi o di una novità legislativa… di punirne gli autori, sia diretti che concorrenti interni ex articolo 110 cp. In conclusione, a mio sommesso giudizio fino a quando non cambierà il codice penale continuerà ad avere tutte le ragioni del mondo l’ingiustamente vituperato (ingiustamente e da pochi) gip di Catania. Andrea Pamparana (Tg5): "il concorso esterno è una fabbrica di poltrone" di Tommaso Montesano Libero, 8 marzo 2016 Per il magistrato Distefano è un reato che non esiste. "Ma tante toghe lo difendono perché ci hanno costruito una carriera" "Se il reato di concorso esterno in associazione manosa fosse stato codificato dieci anni prima, Enzo Tortora non sarebbe mai uscito dal carcere". Andrea Pamparana, vicedirettore del Tg5, domenica sera ha rotto un tabù: mai, a livello televisivo, era stata realizzata un’inchiesta come quella curata da lui e andata in onda sullo Speciale Tg5, sui guasti provocati dal "reato che non esiste", il concorso esterno in associazione mafiosa, appunto, che in realtà altro non è che la libera sommatoria di due ipotesi di reato: "concorso" e l’"associazione mafiosa". Un reato che vive solo grazie a una sentenza della Corte di Cassazione del 1994, visto che nel Codice penale non compare. "Un reato pericoloso, perché consente a chiunque di fregare qualcun altro", dice Pamparana. Nella rete sono finiti imputati eccellenti: Bruno Contrada e Marcello Dell’Utri. Però qualcosa si muove: un giudice siciliano, Gaetana Bernabò Distefano, ha messo nero su bianco che il concorso esterno mafioso non esiste. "Giuseppe Lipera, l’avvocato di Contrada, ha detto: finalmente c’è un giudice Italia. Io resto pessimista". L’imputato alla sbarra è stato pro sciolto: non è una buona notizia per gli altri? "La sentenza del giudice Distefano è stata subito contestata da altri magistrati, colleghi compresi. Scalfire il dogma è difficile. Sul concorso esterno in associazione mafiosa sono state costruite carriere. Politiche, anche ad altissimo livello, e non. Ma ormai, per fortuna, non si può più fare finta di niente". Nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire Contrada, condannato per un reato che, all’epoca dei fatti contestati all’ex dirigente del Sisde, non era stato codificato. "Contrada, ha ricordato il suo avvocato, sta ancora aspettando. Poi c’è Dell’Utri. Quanto deve restare in carcere per un reato che non esiste?". La storia giudiziaria dell’ex senatore di Fi può cambiare? "I suoi avvocati hanno aggiornato le carte del ricorso a Strasburgo con la sentenza siciliana di qualche giorno fa e la condanna all’Italia per il caso Contrada. Ma i tempi della Corte europea sono lunghi. Potrebbe passare anche più di un anno. Nel frattempo Dell’Utri resta in carcere e l’Italia rischia una nuova condanna. Una roba degna dell’Unione sovietica. Ma non è che siccome Dell’Utri è antipatico e amico di Silvio Berlusconi bisogna gettare la chiave. È una questione di civiltà". Non crede ai propositi di riforma, anche nel campo della giustizia, annunciati dal governo? "Piero Tony, ex procuratore capo di Prato, esponente di punta di Magistratura democratica, mi ha detto che la prima cosa da fare sarebbe la separazione delle carriere. Peccato che ogni ministro della Giustizia che la proponga sia impallinato. Sia dalla magistratura, sia dai corifei delle procure. Figurarsi cosa accadrebbe sul concorso esterno. La verità è che la magistratura tiene per le palle il Parlamento". In tutto Contrada ha scontato una pena di otto anni: quattro in carcere, altrettanti ai domiciliari. "La storia di Contrada, servitore dello Stato, grida vendetta. Per fargliela pagare, grazie al concorso esterno in associazione mafiosa hanno trasformato le zone grigie che un investigatore come lui deve doverosamente esplorare, in zone nere. Così l’hanno fatto fuori. Ma siamo proprio sicuri che quelli arrivati al suo posto, al Sisde e non solo, siano stati più capaci di lui?". La scalata delle donne in magistratura di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 8 marzo 2016 Il sorpasso c’è stato. In magistratura le donne battono gli uomini: 4.723 a 4.540. E i distretti dove sono più presenti sono quelli di Milano (60,9%), Napoli (58%) e Catanzaro (57,9%). Fino ad ora però i ruoli apicali erano quasi totalmente maschili. Ma da novembre ad oggi ben 23 donne hanno ricevuto incarichi di vertice. E anche vertici di uffici importanti come il Tribunale di Firenze, o la Corte d’Appello di Genova, o la procura generale presso la Corte d’Appello di Bari hanno cambiato colore. Una carica femminile che, anticipa il consigliere del Csm Paola Balducci, non si ferma qui: "Tra i 20 presidenti di sezione della Cassazione che dovremo nominare nei prossimi giorni, sulla base dei curricula visionati, possiamo dire che ci saranno molte donne". Un Csm, improvvisamente, più sensibile alle donne. Perché? "Sicuramente il vicepresidente, Giovanni Legnini, ha sostenuto le nomine al femminile. Ma certo la componente femminile del Consiglio ha influito. Siamo in tre: Alberta Casellati (Fi), me (area Pd-Sel) e un’unica togata, il consigliere di Cassazione, Maria Rosaria San Giorgio". Non moltissime, su 26 consiglieri. "Ma nel precedente Csm erano solo 2. I laici erano tutti maschietti. E anche la magistratura associata non ha brillato: le uniche donne venivano da Unicost, come l’attuale togata. Da Md, Area e Mi, nessuna attenzione a questo tema". In cosa ha influito la componente femminile? "Al di là del valore delle candidate, diventa anche un fatto psicologico. Di fronte alle donne non te la senti di fare tutto fra maschi". Allora le quote di genere servono? "Io che, tra le tante cose, ho fatto l’assessore in Puglia, nella giunta Vendola che aveva voluto 4 uomini e 4 donne, posso dirlo, certo che servono. Ma non le quote, l’attenzione alle donne". È solo disattenzione se le donne a capo degli uffici sono ancora così poche? "Una cosa bisogna dirla. Ormai all’università, dove insegno procedura penale, vedo moltissime studentesse, brave, preparate che superano i ragazzi. Ormai si vede anche nei concorsi. Però poi ci sono poche domande per ruoli apicali". Perché? "Perché spesso alla nomina consegue un trasferimento. E per una donna non è mai facile. Se hai una famiglia, se sei madre, o figlia di genitori anziani, che fai? L’uomo lascia tutto e se ne va. La donna paga prezzi alti. Ma poi…". Poi? "Noi siamo carenti di autostima. I maschi non si pongono problemi se sono bravi o no. Noi abbiamo sempre bisogno di riconoscimenti. E spesso non ci fidiamo delle altre: votiamo per gli uomini, scegliamo chirurghi maschi. E invece nelle istituzioni come il Csm o la Consulta le donne sono essenziali". Perché? "Laddove occorre prendere decisioni l’uomo, spesso, ricorre alla tattica del rinvio. Noi, invece, non ci sottraiamo. Come si vede in tutte le cose, la donna ha più coraggio". La Giornata dei Giusti dedicata a sei donne di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 8 marzo 2016 A Milano la cerimonia è stata spostata dal 6 all’8 marzo, anche perché quest’anno i Giusti da onorare sono donne. È stata davvero un’impresa contrastare le schiere conservatrici della tradizione intoccabile, e riconoscere il valore del Giusto universale, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, politica, partitica e sociale. Giusto è chiunque, almeno una volta nella vita, dimentichi l’interesse, l’egoismo e le convenienze offrendo un vero aiuto agli altri. Ascoltando insomma la propria coscienza. La scommessa di Gabriele Nissim, ebreo milanese, fondatore di Gariwo (la Foresta dei Giusti), è stata vinta dopo un lungo confronto culturale proprio con i suoi correligionari, prigionieri del dogma che vuole il Giusto come il "gentile" che mette a rischio la vita per salvare un ebreo. La giornata dei Giusti è diventata una ricorrenza europea, approvata dal parlamento di Strasburgo, che si celebra ogni anno il 6 marzo. Sono oltre 50 i Paesi e le città che hanno deciso di celebrarla con cerimonie, conferenze, concerti. Per poi ricordare con un albero o con una targa i figli più meritevoli. In Italia, e in particolare a Milano, quest’anno si è deciso di posporre la cerimonia, cioè la "piantumazione" di sei nuovi alberi sul Montestella, all’8 marzo, due giorni dopo. Per tre ragioni: la prima è che il 6 è domenica, le scuole sono chiuse, e sarebbe stato difficile, per professori e maestri, accompagnare i giovanissimi al giardino; la seconda, e la più importante, è che quest’anno tutti i Giusti che verranno onorati sono donne. La terza è che l’8 marzo è appunto la festa della donna. Sei Giuste internazionali, dunque, andranno a tener compagnia a tutti coloro che, in questi anni, sono stati ricordati con un albero. Nel novembre scorso, fuori dal programma canonico ma con straordinaria intensità, è stato celebrato un Giusto speciale, l’archeologo siriano Khaled Asaad, custode delle meraviglie di Palmira, decapitato dai fanatici selvaggi dell’Isis. La cerimonia si è svolta poco dopo le stragi di Parigi ed è stata particolarmente toccante. Adesso gli alberi delle sei Giuste, indomite e temerarie guerriere della giustizia e della libertà, andranno accanto a Khaled Asaad per dimostrare che il coraggio non conosce distinzioni di alcun genere. Whistleblowing, contro la corruzione legali a supporto di imprese e Pa di Elena Pasquini Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 La legge sul whistleblowing può essere un incentivo alla collaborazione dei dipendenti alla corretta gestione di imprese e pubblica amministrazione ma a fare la differenza sarà l’approccio integrato delle aziende verso il complessivo rispetto delle regole, tendendo a un business sempre più etico, anche oltre i limiti normativi imposti dal Legislatore. La riflessione sul progetto di legge inerente il whistleblowing, al momento in discussione al Senato, arriva da Francesca Rolla - partner dello studio legale Hogan Lovells e responsabile del dipartimento di contenzioso e Investigations in Italia - e ben rispecchia i risultati relativi alla prima ricerca europea sul whistleblowing che l’IBE-Institute of Business Ethics ha presentato, nel corso di un evento promosso da Fondazione Sodalitas giovedì 25 febbraio a Milano. L’indagine ha preso in esame la percezione degli strumenti di Business Ethics da parte di dipendenti pubblici e privati e del settore no-profit in Italia, Germania, Spagna e Francia, ripercorrendo un tracciato già esplorato nel 2012 in un’analisi simile. I dati presentati il 25 febbraio hanno avuto, come focus specifico, le segnalazioni da parte dei dipendenti. I dati del BelPaese - I risultati riferiti all’Italia hanno evidenziato che, rispetto al 2012, la percezione di comportamenti etici nel mondo del lavoro si è ridotta. "Un dato - spiega l’avvocato Rolla - molto legato al fatto che la ricerca prende in considerazione sia il settore privato sia quello pubblico", con la somministrazione delle domande nel periodo di emersione di situazioni critiche, come lo scandalo di "Mafia Capitale": "L’Italia, per quanto migliorata nelle classifiche internazionali rispetto al passato, resta comunque agli ultimi posti in Europa come indice di percezione positiva rispetto al livello della corruzione". Non stupisce allora che, rispetto agli altri Paesi d’indagine, in Italia il 58% degli intervistati riferisce di non aver utilizzato sistemi di segnalazione di comportamenti scorretti: questa percentuale comprende sia chi ritiene che le società non provvederebbero all’adozione di azioni correttive (35%) sia coloro che preferiscono "tacere" per timore di successive interferenze con la propria posizione sul posto di lavoro (26%). Etica nel business - Ben venga quindi una regolamentazione normativa che tuteli chi segnala comportamenti scorretti in modo puntuale e dettagliato. Peccato che, nel testo attualmente all’esame del Senato, si inserisca "la normativa in materia di whistleblowing nel settore privato in una modifica della legge sui modelli di organizzazione, gestione e controllo, che seppur ampiamente adottati, restano pur sempre facoltativi, sminuendo così la portata applicativa della disciplina", sottolinea Francesca Rolla. Che continua spiegando come certamente si aprono prospettive per l’assistenza alle imprese da parte dei professionisti legali ma, aggiunge, "l’intervento del consulente esterno può avvenire solo se il destinatario vede nella compliance un’opportunità e non un costo aggiuntivo". L’osservazione "sul campo" sembra regalare segnali positivi in tal senso: "Questo approccio alla compliance come strumento di prevenzione non è ancora radicato ma sta iniziando a diffondersi: lo vediamo dal numero dei seminari organizzati, dalla partecipazione alla formazione in materia nonché dalla maggiore consapevolezza da parte degli operatori economici del costo della corruzione per l’economia italiana". Per questo si dovrebbe parlare di etica nel business e non solo di contrasto agli illeciti, della diffusione nel mondo del lavoro "di una cultura etica sempre più forte che renda il dipendente fiero di segnalare". Perché dalla segnalazione partono poi delle verifiche interne che possono "contribuire significativamente a ridurre il rischio che una società si trovi in difficoltà". Il ruolo della consulenza legale - L’avvocato è allora il professionista cui rivolgersi non solo per l’elaborazione e l’aggiornamento dei modelli organizzativi, ma anche per la conduzione di indagini interna che non sottragga risorse alla società, sia il più rapido possibile e resti confidenziale, tanto sul versante aziendale che rispetto ai media in modo che non ci siano cadute reputazionali, dopo una segnalazione. "La delega esterna ha tutta una serie di vantaggi in questo senso - commenta l’avvocato Rolla - anche in termini di costi". La ricerca - Surveys on Business Ethics 2015: L’ indagine ha riguardato Francia, Spagna, Germania, Italia. Per quest’ultimo Paese, hanno risposto 750 dipendenti alla Survey (27 per cento manager, 73 per cento non managers), appartenenti per il 29% a imprese del settore pubblico o non-profit e per il 71% ad aziende del settore privato. Sequestro e cartella a destinatari diversi: no al "ne bis in idem" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 9224/2016. Il sequestro penale unito ad una cartella di pagamento di Equitalia per omesso versamento Iva nei confronti della società e del suo legale rappresentante non fanno scattare la violazione del "ne bis in idem" perché sono riferiti a due soggetti diversi. La Cassazione, con la sentenza 9224, respinge il ricorso di una società contro la decisione del Tribunale del riesame di mantenere la misura cautelare del sequestro preventivo per equivalente nei confronti di una società. La società, tramite il suo legale rappresentante, lamentava, richiamando la sentenza Grande Stevens, di essere stata assoggettata a una duplice sanzione con identica natura afflittiva di tipo penale per uno stesso fatto. La ricorrente era stata privata in via cautelare della somma corrispondente all’Iva non versata oltre ad essere destinataria di una cartella di pagamento emessa da Equitalia. Ma la Cassazione nega la violazione del "ne bis in idem". L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dispone che "Nessuno può essere perseguito o candannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge". La disposizione, precisa la Corte, può essere applicata solo quando del medesimo fatto contestato non è chiamato a rispondere lo stesso autore. Un’identità soggettiva passiva del destinatario della sanzione che, evidentemente, non c’è quando per lo stesso fatto rispondono a titolo diverso due soggetti differenti come nel caso esaminato: la società destinataria della sanzione tributaria e il suo legale rappresentante perseguito penalmente. Inoltre la Cassazione precisa che le sanzioni amministrative, relative al rapporto fiscale delle società con personalità giuridica, sono a carico di queste ultime e non della persona fisica che le rappresenta legalmente. Come affermato con la sentenza Gabbana (43809 del 2014), l’esercizio dell’azione penale non può essere precluso, in virtù della già avvenuta irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma con carattere sostanzialmente penale, se non c’è coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa. Un’altra ragione di infondatezza del ricorso sta nell’assenza di una sanzione definitiva sotto il profilo penale. Il decreto di sequestro per equivalente, pur essendo finalizzato alla confisca, necessita della conferma della condanna penale per il reato presupposto. Manca dunque anche il requisito della definitività della sanzione che blocca la strada ad una seconda per lo stesso fatto. Veicoli con targa estera, oltre i sei mesi c’è contrabbando di Benedetto Santacroce Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 La circolazione in Italia dei veicoli appartenenti a persone residenti all’estero con targa e documenti stranieri è in esenzione dai diritti doganali solo per un periodo non superiore a sei mesi nel corso di un anno, anche non continuativi, a condizione che siano condotti solo dal proprietario o da un suo parente residenti all’estero o da altra persona, sempre residente all’estero, munita di delega. La violazione di queste regole, che costituiva ipotesi del reato di contrabbando come ribadisce la Cassazione nella sentenza n. 2224 del 20 gennaio 2016, ora è stata depenalizzata. Si tratta comunque di operazioni di ingresso nell’Ue, e segnatamente in Italia, di veicoli provenienti da Stati extra Ue (la norma non si applica per gli acquisti comunitari), dichiarate o meno all’atto dell’importazione. In attuazione della legge delega 67/2014, sono stati emanati i Dlgs 7 e 8 del 15 gennaio 2016, l’ultimo dei quali, dispone che non costituiscono reato e sono soggette a sanzione amministrativa pecuniaria tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda. Tra esse, quasi tutte quelle riconducibili ai reati di contrabbando previsti - spesso con formule piuttosto datate - dal Testo unico delle leggi doganali (Tuld), il Dpr 43/1973. La norma si è sempre mostrata molto complessa nella sua applicazione, specialmente nei casi di sovrapposizione delle fattispecie di reato a quelle, pure gravissime, delle sanzioni amministrative previste dallo stesso Tuld. Criticità poi aumentate per l’applicazione spesso troppo variabile, oscillante tra penale e amministrativo. Anche per la quantomeno troppo generica formulazione del precedente articolo 292 del Tuld, secondo cui chiunque, fuori dei casi previsti negli articoli precedenti, sottrae merci al pagamento dei diritti di confine è punito con la multa non minore di due e non maggiore di dieci volte i diritti. Dall’entrata in vigore ordinaria del Dlgs 8/2016, la multa è sostituita da una sanzione amministrativa di un minimo di 5.000 euro e un massimo di 50.000. Le importazioni di veicoli per uso personale sono uno dei casi più classici delle difficoltà create dalle norme penali precedenti. Se non erano rispettate pedissequamente le formalità doganali, la conseguenza dell’illecito era la contestazione del contrabbando, con conseguente confisca del mezzo. Questa, infatti, è la conclusione cui addiviene la Cassazione con la sentenza in commento, in applicazione della Convenzione di New York del 1954, ratificata anche nel nostro ordinamento: è consentita la circolazione in Italia dei veicoli appartenenti a persone residenti all’estero con targa e documenti stranieri, in esenzione dai diritti doganali, per un periodo non superiore a sei mesi nel corso di un anno, anche non continuativi. Tuttavia, i veicoli possono essere condotti solo dal proprietario o da un suo parente residenti all’estero, o da altra persona sempre residente all’estero munita di delega. La mancanza di tali requisiti comportava, ai sensi degli artt. 216, 282, 292 del Tuld, la realizzazione del reato di contrabbando, per il quale il successivo articolo 301 prevedeva la confisca del veicolo. La fiduciaria-trust non basta a schermare i beni dell’indagato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 Il trasferimento dei beni a una società fiduciaria non basta, da solo, a neutralizzare gli effetti di un sequestro preventivo a fini di confisca. Il giudice deve invece verificare con attenzione eventuali cointeressenze del "guardiano", il contenuto del negozio giuridico (a cominciare dalla natura onerosa o gratuita), gli effettivi poteri del trustee e, in definitiva, tutti gli eventuali vizi originari del trust tali da vanificare la segregazione patrimoniale che è propria dell’istituto. La Terza penale (sentenza 9229/16, depositata ieri) torna ancora una volta sul tema del trust per richiamare i presupposti necessari a sterilizzare i poteri del giudice adottati nell’interesse dei creditori, in questo caso dell’erario. La questione riguarda l’indagine preliminare su un’associazione a delinquere finalizzata, tra l’altro, all’evasione fiscale. Il Gip di Cremona, a fine 2014, aveva messo i sigilli su 10 milioni di euro di beni facenti parte di un trust che, a suo giudizio, era stato creato con il solo scopo di eludere la pretesa fiscale, ma solo due mesi dopo il Riesame aveva annullato il provvedimento. Secondo il tribunale lombardo il conferimento nel trust - peraltro operato dal principale indagato, raggiunto anche da misura cautelare personale - aveva trasformato la natura del patrimonio di cui il gestore era divenuto semplice "guardiano": mancando la disponibilità (articolo 321 Cpp), argomentava il collegio, non era più applicabile il sequestro finalizzato a futura confisca per equivalente. Tuttavia la Terza penale ha bocciato la lettura del Riesame, bollandola in sostanza di superficialità. Il conferimento in trust di per sè potrebbe determinare una realtà apparente, scrive la Corte, considerata la totale mancanza di un’istruttoria per verificare i poteri residui in capo al disponente "guardiano", trascurando tra l’altro la circostanza che lo spostamento (apparente?) dei poteri del trustee dall’indagato alla fiduciaria era avvenuto in pieno svolgimento dell’inchiesta penale, e omettendo ancora qualsiasi valutazione sul fatto che beneficiari del trust - e destinatarie dei redditi lì prodotti - sono le figlie dello stesso indagato. "Vincoli di solidarietà familiare - scrive la Terza - che potrebbero essere indice della natura essenzialmente simulatoria del negozio stesso". All’atto di dotazione di un trust si applica l’imposta di donazione di Angelo Busani Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 4482/2016. All’atto di dotazione di un trust si applica l’imposta di donazione; inoltre, se il soggetto disponente coincida con il soggetto beneficiario l’aliquota applicabile è quella dell’8 per cento, in quanto non ricorre uno dei casi in cui si applica l’aliquota del 4 per cento (la quale presuppone un rapporto patrimoniale tra coniugi o parenti in linea retta) o l’aliquota del 6 per cento (che presuppone un rapporto patrimoniale tra fratelli e sorelle). È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 4482 del 7 marzo 2016. Se ci si fermasse a questi principi, non ci sarebbero novità, in quanto si tratta di conclusioni cui la Cassazione era già giunta nel recente passato. Il dato di grande interesse di questa sentenza è invece la considerazione incidentale che la Cassazione compie sul tema della tassazione degli atti di dotazione del trust con l’imposta di donazione. Afferma infatti la Cassazione che "sopravvive ovviamente lo spazio per sostenere che l’istituzione di vincoli per cui è prevista una specifica disciplina o mirati a effetti espressamente approvati dal legislatore (quale la definizione dei rapporti delle imprese in crisi) non ricadano nell’ambito impositivo di questa norma; ma simile ipotesi non si attaglia (né è stata invocata) nel caso di specie". Insomma, per la Cassazione, la tassazione del trust con l’imposta proporzionale di donazione non è un fatto ineluttabile: se per un caso come quello esaminato dalla sentenza n. 4482 (che consisteva in un’attribuzione liberale ai discendenti del soggetto che aveva istituito il trust) la Cassazione non lascia spazio a un’interpretazione nel senso che l’imposta proporzionale non sia dovuta, in casi diversi da quello esaminato lo spazio - secondo la Suprema Corte - parrebbe esserci. Al riguardo, come già accennato, la sentenza fa specifico riferimento all’ipotesi del trust istituito per "la definizione dei rapporti delle imprese in crisi" (e, quindi, ipotizzando che, in tale ipotesi, potrebbe non esservi una tassazione proporzionale); ma l’esonero da imposta proporzionale non sarebbe comunque limitato a questa sola ipotesi, poiché appunto ve ne potrebbero essere altre (rientranti nel delineato perimetro della "istituzione di vincoli per cui è prevista una specifica disciplina o mirati a effetti espressamente approvati dal legislatore") le quali appunto "non ricadano nell’ambito impositivo" dell’imposta di donazione. Probabilmente, l’allusione (nemmeno tanto oscura) è all’atto istitutivo del fondo patrimoniale; nonché ai vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile. Per il resto, la sentenza confuta la decisione di secondo grado (adottata dalla Ctr Lombardia) secondo la quale l’atto costitutivo del trust sarebbe "tassabile solo nei limiti in cui costituisca un atto di liberalità": secondo la Cassazione, invece, la legge sottopone a tassazione "tutti gli atti che costituiscono un vincolo di destinazione a prescindere dallo spirito di liberalità ad essi sotteso". Infatti, il tenore della norma sulla tassazione dei vincoli di destinazione - secondo la Cassazione - evidenzia che l’imposta è istituita non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione, come invece accade per le successioni e le donazioni; ma è istituita direttamente sulla costituzione dei vincoli di destinazione, con l’intento di colpire un fenomeno patrimoniale del tutto diverso e distinto rispetto a quello investito dalla imposta sulle successioni e donazioni. Secondo la Suprema Corte dunque "appaiono incongrue" le riflessioni che collegano la tassazione alla identificazione di un qualche "utile" o "vantaggio" percepito da un soggetto e che quindi vorrebbero collegare l’onere tributario alla acquisizione dei beni da parte di un soggetto legittimato ad utilizzarli a proprio esclusivo vantaggio. E ciò in quanto l’atto costitutivo del vincolo di destinazione esprime una "capacità contributiva" ancorché non determini (o non determini ancora) alcun vantaggio economico diretto per qualcuno. Se persino l’omicidio diventa "piacere estetico" di Stefano Zecchi Il Giornale, 8 marzo 2016 La morte come un curioso fenomeno estetico. Che effetto fa indossare una pelliccia? Cioè, che sensazione, che emozione si prova portando quell’abito? Si vede nelle vetrine dei negozi, ma una cosa è guardarlo, altra cosa è portarlo, provarlo. La morte come un abito, il cui effetto incuriosisce. E se l’interesse è così alto, perché non tentare di soddisfarlo? Per procedere, allora, dalla morte bisogna eliminare qualsiasi componente di sacrale inviolabilità e trattarla come cosa tra le cose. Non solo: si deve trasgredire qualsiasi limitazione, non solo quelle morali, ma anche quelle di carattere giudiziario. La prima domanda è come possa nascere questa curiosità; la seconda è quale mente sia in grado di dare effettiva soddisfazione a tale curiosità. Per quanto riguarda la prima questione, credo sia necessario riflettere sull’invasione della violenza virtuale che sta inondando la televisione. Non tanto i film, le fiction di cui abbiamo ormai da diversi anni una buona scorta. Piuttosto, le notizie che ci inviano i telegiornali, e relativi approfondimenti, sempre molto ricche di immagini di forte suggestione. Ricordiamo, per esempio, quando ci sono giunti i primi reportage sulle decapitazioni eseguite dai miliziani dell’Isis. I filmati non mostravano mai l’atto conclusivo con cui veniva tagliata la testa della vittima; giustamente è il mio parere la scena era censurata, sostituita da brevi e ovvie parole. Tuttavia, se siamo sinceri, la decapitazione con tutto il suo orrore e lo sdegno che provoca, avrebbe incuriosito: avremmo girato la testa ma non ci saremmo negati almeno un rapido sguardo. D’altra parte, questo interesse morboso per l’evento mortale attraversa la storia. Ci sono resoconti molto dettagliati sulle teste ghigliottinate durante la Rivoluzione francese, quando a quelle esecuzioni assisteva nelle piazze il popolo festante. Oggi la grande diffusione delle immagini sulla morte ci porta ad avere con essa una confidenza virtuale, mentre ciò che è realtà rimane nell’immaginazione. Un’immaginazione pervasa di pietà quando si possiede un elementare sentimento morale e religioso della morte, che consente di pensarla anche come un evento che trascende la materialità delle cose, rispettato nella sua sacralità o intangibilità. Quando è assente la pietà, la morte può diventare una cosa che suscita curiosità per i suoi effetti concreti, che interessa per vedere realmente come si comporta chi sta avvicinandosi ad essa. È il fascino di violare un segreto assoluto, attraversare il mistero per possederlo, non fermarsi di fronte all’ignoto, violarlo. Arriviamo alla seconda domanda. Quei due giovani che hanno ammazzato il loro amico hanno dovuto ricorrere agli stupefacenti per commettere un’azione drammatica che un minimo di lucidità razionale non avrebbe loro consentito. E, infatti, uno del gruppo, una volta tornato in sé e consapevole del gesto compiuto, ha tentato di suicidarsi. La droga ha permesso di oltrepassare i limiti morali, di non riflettere sulle conseguenze giudiziarie e di guardare alla morte come a una realtà puramente estetica, di cui è interessante cogliere effetti e sensazioni. Dunque, dal fenomeno virtuale conosciutissimo attraverso i media alla sua concretezza materiale da indagare. Orribile ma comprensibile. Soprattutto un fenomeno non nuovo nella storia dell’umanità, a cui si assiste tutte le volte che l’essere umano è visto come un meccanismo senz’anima, da montare e smontare a piacere, come un oggetto d’ingegneria genetica, di cui si può impunemente infrangere la natura. Che effetto fa uccidere di Luigi Cancrini L’Unità, 8 marzo 2016 "Boredom" è la parola inglese, che si traduce letteralmente con noia ma che designa, in psicopatologia, l’inquietudine dolorosa delle persone che soffrono di un disturbo "border line" di personalità: il disturbo cui mi è venuto naturale pensare nel momento in cui mi sono trovato di fronte alle parole di due giovani che ne hanno ucciso un altro "per vedere l’effetto che fa". Due giovani che hanno confessato il gesto o più precisamente l’insieme orrendo di gesti cui si sono lasciati andare, con il pentimento insieme doloroso e smarrito delle persone che non capiscono quello che è successo alle loro mani ed alla loro mente nel tempo vicino e tuttavia tremendamente lontano in cui, con quella dell’amico ucciso, hanno perso o comunque irrimediabilmente compromesso la loro stessa vita. Chiedendo aiuto al padre cui candidamente ha detto al telefono di aver "fatto una cazzata" di cui ancora non si capacitava il primo e tentando di uccidersi in una stanza di hotel il secondo, che della enormità di ciò che aveva fatto si era già reso drammaticamente conto. Perché fatti di questo genere accadono non è mai facile ricostruire. Serve, per farlo, una conoscenza approfondita della storia delle persone che li commettono e delle loro relazioni con gli altri. Fra cui forse la vittima perché non è facile credere che sia stata scelta completamente a caso. Una conoscenza davvero approfondita non può esserci tuttavia, nel singolo caso, se non all’interno di un lavoro terapeutico di cui al momento possiamo solo dire che sarebbe necessario e che si svolgerà comunque, se si arriverà a farlo, in una dimensione privata. Da rispettare con cura perché le persone umane meritano rispetto anche quando commettono delitti atroci o atrocemente stupidi. Anche se possibile è per noi riflettere, un po’ più in generale, sui meccanismi che probabilmente sono entrati in gioco. Sulla fenomenologia, voglio dire, di questo genere di delitti. Facilitati dall’uso di alcol e/o di sostanze, i delitti border line sono delitti legati ad una difficoltà di controllo degli impulsi. Vengono commessi da persone il cui equilibrio è labile da sempre e, che sono note per l’instabilità e la fragilità del loro carattere. Che non si sono mai emancipate del tutto dalla necessità di essere protetti dalle loro famiglie. Che vivono storie d’amore caratterizzate sempre dalla violenza degli innamoramenti e dalla paura fino al terrore dell’abbandono. Che soffrono più per quello che accade o potrebbe accadere nella loro fantasia che per quello che accade nella realtà della loro vita e che provano, spesso, un desiderio doloroso, a tratti accecante, di non pensare. Che hanno la sensazione sbagliata di potersi sentire protetti anche per questo dal tentativo di correre da un "divertimento" all’altro e dall’uso di alcol o di cocaina. Che si trovano coinvolte spesso in varie situazioni di dipendenza da gioco. Che vivono una loro forma speciale di angoscia non motivata o difficile da spiegare, un’inquietudine dolorosa che si trasforma in noia. O in boredom. Da dove viene questo tipo di sofferenza, quale ne è l’origine lontana, cominciamo a capirlo solo oggi. Riflettendo sui traumi infantili legati alla instabilità delle figure di riferimento affettivo che la gran parte di loro vive nel corso già dei primi anni di vita e sulle carenze importanti di sostegno educativo ed affettivo con cui molti di loro si incontrano nel corso della adolescenza. Un insieme di dati che spiega, senza pretendere di giustificarlo, ciò che loro fanno da grandi: come vendicandosi contro chi non c’entra nulla di quello che hanno vissuto prima. Un insieme di dati che qualcosa potrebbe e dovrebbe insegnarci però in tema di prevenzione perché altro non possiamo fare per evitare lo sviluppo dei disturbi gravi di personalità che curare le infanzie infelici e gli adolescenti che da quelle infanzie provengono. Intervenendo prima che il danno sia troppo grave. Dove ci portano tutti questi ragionamenti, però, quando i fatti sono già accaduti e quelle con cui ci confrontiamo sono due giovani vite distrutte anche loro dalla distruzione che hanno determinato. Pare a me perfino troppo semplice dire che accanto alla pena, da portare avanti con tutta la durezza che la gravità del loro delitto richiede anche per loro, per aiutarli ad affrontare con il dolore necessario la gravità di ciò che hanno fatto, quella cui si dovrà porre mano è anche una iniziativa di terapia capace di dare alla pena il valore riabilitativo che la nostra Costituzione le attribuisce. Il male esiste infatti e va affrontato. Senza moltiplicarne le conseguenze però e con la volontà sempre di essere accanto anche a colui che lo ha commesso. Abruzzo: "nominate il Garante detenuti", appello del sottosegretario Chiavaroli emmelle.it, 8 marzo 2016 Tutti convergono su Rita Bernardini, "ma l’opposizione pone un veto sui metodi" dice D’Alessandro. "D’Alfonso si faccia parte attiva per un accordo, l’Abruzzo non può attendere ancora la figura del Garante dei detenuti". Così il sottosegretario Federica Chiavaroli, oggi, a margine dell’incontro con i detenuti del carcere di Chieti. La Chiavaroli è ancora in attesa delle deleghe e, secondo quanto si apprende da Roma, oltre alla polizia penitenziaria e la formazione, dovrebbe assumere anche i carceri minorili e la giustizia civile e dunque oggi ha parlato a ragione veduta, rilanciando la querelle della nomina della Bernardini, che non decolla da mesi. Non ha fatto cadere nel vuoto l’appello la giunta regionale e alla Chiavaroli ha risposto Camillo D’Alessandro, coordinatore della maggioranza in Regione: "Ciò che ci ha guidato nella individuazione del profilo del Garante dei detenuti non è stata né l’amicizia né tanto più la partigianeria. Non abbiamo indicato un amico, non un esponente di partito né qualcuno a cui dare uno stipendio, ma chi in Italia è riconosciuta come indiscutibile punto di riferimento per i detenuti: Rita Bernardini. Ritenevamo che la scelta di un curriculum oggettivo potesse superare i veti sul metodo, apparso alle opposizioni come non rispettoso delle proprie prerogative. Tuttavia nei prossimi giorni il Presidente D’Alfonso lavorerà per creare le condizioni di un’intesa quanto mai opportuna e necessaria". Insomma, tutti d’accordo, ma l’Abruzzo non ha ancora il suo Garante dei detenuti. Marche: mense nelle carceri, venerdì 11 sciopero contro le mancate retribuzioni Dire, 8 marzo 2016 Sciopero, venerdì 11 marzo, dei lavoratori delle mense delle carceri di Montacuto, Barcaglione, Ascoli Piceno, Fermo, Pesaro e Fossombrone. La protesta è contro la mancata corresponsione degli stipendi, fermi da gennaio 2016, e anche per manifestare la preoccupazione per le mensilità future. La ditta, in questione, infatti, il consorzio Slem-Rica, ha già dichiarato che non pagherà, oltre le retribuzioni di gennaio 2016, le future mensilità, a causa di mancanza di liquidità dovuta alle mancate erogazioni delle fatture 2015 da parte dei Prap, provveditorati penitenziari, ferme ad ottobre scorso. La Filcams Cgil Marche, dunque, sottolineando che il rischio di impresa non può essere scaricato sui lavoratori, comunica lo stato di profondo disagio dei lavoratori, proclamando un’intera giornata di sciopero. Marche: il Consigliere Marzia Malaigia dona un computer ai detenuti di Fermo informazione.tv, 8 marzo 2016 Il consigliere regionale Marzia Malaigia ha consegnato ieri un computer, donato alla redazione dell’Altra chiave news, giornale dei detenuti nel carcere di Fermo, proprio per lavorare all’impaginazione del periodico della Casa di reclusione Un gesto che arriva dal cuore e che porta speranza e consolazione. È stato consegnato ieri nel carcere di Fermo il computer che il consigliere regionale della Lega nord, Marzia Malaigia, ha voluto regalare, in forma del tutto privata, alla redazione dell’Altra chiave news, il giornale dei detenuti nel carcere di Fermo. Un regalo particolarmente gradito ai ‘redattorì che avranno così la possibilità di installare un programma di impaginazione, per provvedere anche alla sistemazione grafica del giornale che già scrivono. Grande la riconoscenza dei detenuti e della direttrice del carcere, Eleonora Consoli, che ha ricevuto il dono dalle mani della stessa Malaigia, alla presenza di Loredana Napoli, comandante della Polizia penitenziaria, e dell’educatore Nicola Arbusti. Marzia Malaigia ha poi chiesto di incontrare i detenuti che fanno parte della redazione, raccontando: "Il mese scorso ho avuto occasione di visitare il carcere di Fermo, nell’ambito delle iniziative promosse dall’Ombudsman, Andrea Nobili. Confesso di essere entrata prevenuta, perché mi aspettavo di incontrare una realtà satura di squallore e testimonianze di vite ormai consumate e circoscritte tra muraglioni, cancelli e sbarre. Non pensavo di certo, dopo l’incontro avuto con i detenuti, di trovare un grande desiderio di comunicare e raccontarsi e soprattutto una prospettiva che, partendo dal proprio vissuto, fosse proiettata al domani, con un condiviso pensiero apprensivo rivolto alle famiglie di ognuno. Segno concreto di questa volontà è la realizzazione del giornalino Altra Chiave News, che raccoglie voci e crea un ponte virtuale tra il dentro ed il fuori. Credo che i ragazzi non si rendano nemmeno conto di quanto questo sia importante, perché ho visto che ci lavorano con la spontaneità propria di chi non mira a raggiungere altro scopo, se non quello di parlare ed essere ascoltati". "Nel contesto carcerario, ha proseguito Malaigia che è anche vice presidente del Consiglio regionale, si ha bisogno anche di strumenti: a me in fondo non costa poi molto lasciare un segno tangibile di stima per un lavoro collettivo che penso meriti di essere riconosciuto, valorizzato, compensato e stimolato. Del resto, gli strumenti sono solo un mezzo, i contenuti sono l’essenza: per questo, sono io che ringrazio voi, ragazzi. Spero di poter seguire i vostri percorsi e poter raccontare che si può rinascere, se si vuole e se c’è qualcuno che crede in te e ti tende una mano. (Ho un ruolo istituzionale, sì, ma ho preferito agire a titolo personale, perché più immediato e meno soggetto a strumentalizzazioni: non ho fatto campagna elettorale prima, figuriamoci se la faccio adesso)". Livorno: ancora botte e tensione nel carcere di Porto Azzurro Il Tirreno, 8 marzo 2016 È stato picchiato il detenuto che sabato scorso aveva ferito due reclusi col punteruolo: il quarantacinquenne finisce in ospedale. Un regolamento di conti a suon di botte. È quanto accaduto nel carcere di Porto Azzurro. Il responsabile dell’aggressione di venerdì scorso, un detenuto italiano di 45 anni, è stato picchiato da un gruppetto di 2-3 detenuti nel pomeriggio di domenica. Una sorta di regolamento dei conti dopo che l’uomo, solo un giorno prima, aveva ferito due ospiti del carcere con un punteruolo artigianale che aveva realizzato. Ad avere la peggio è stato un detenuto albanese, ancora ricoverato in ospedale a Portoferraio (è fuori pericolo dopo un intervento chirurgico compiuto in seguito alla rottura della milza. I fendenti scagliati alle spalle hanno, per fortuna, solo sfiorato un polmone). L’episodio di sabato ha messo in apprensione per alcune ore il pronto soccorso di Portoferraio che tuttavia ha dimostrato una buona tenuta, assistendo i due reclusi piantonati e scortati dagli agenti della polizia penitenziaria. Sul caso sta indagando la Procura di Livorno. Dopo un giorno il pronto soccorso di Portoferraio ha prestato le cure a un altro detenuto: quello, per intendersi, che sabato aveva usato il punteruolo. Secondo quanto riportato da fonti interne al carcere l’uomo, rientrato nella struttura e messo in isolamento, è stato aggredito da un gruppetto di reclusi durante l’ora d’aria. L’intervento degli agenti della polizia penitenziaria ha riportato la calma, con il 45enne che è stato soccorso e portato all’ospedale per le ferite riportate a un braccio e al volto. È probabile che i reclusi, non coinvolti direttamente nell’aggressione di sabato, siano passati alle vie di fatto, arrabbiati e preoccupati per le possibile ricadute negative che l’episodio potrebbe generare. Il fatto è avvenuto, infatti, dopo pochi giorni dalla visita del garante regionale dei detenuti Corleone che ha sottolineato il miglioramento delle condizioni del carcere elbano e gli sforzi compiuti per il rilancio della struttura e dalla presentazione della nuova sala colloqui. A sciupare il clima costruttivo e incoraggiante per il futuro del carcere di Porto Azzurro erano già emerse le due notizie, a stretto giro, del suicidio di un detenuto e della fuga, terminata in poche ore, di un altro ospite del penitenziario che non si ripresentò a Porto Azzurro dopo aver usufruito di un permesso. Il direttore del carcere D’Anselmo, sentito dal Tirreno sabato scorso ha definito come del tutto imprevisto e inatteso il comportamento del detenuto, responsabile dell’aggressione. E, alla luce di quanto accaduto domenica, lo stesso D’Anselmo ha ribadito come i due fatti avvenuti in queste ore siano "casi isolati" e come il "clima all’interno della casa di reclusione sia globalmente tranquillo". Roma: sfida all’ultimo congiuntivo, galeotti battono universitari di Flavia Amabile La Stampa, 8 marzo 2016 Vittoria dei carcerati di Regina Coeli sfidati dagli studenti di Tor Vergata. Chi usa ancora la parola "affinché"? Per di più unita al congiuntivo perfettamente coniugato? Oppure parole come "altresì" o "diatriba"? Nel carcere di Regina Coeli le usano e, a colpi di vocaboli di alto spessore linguistico e di condizionali, congiuntivi e preposizioni, hanno battuto gli studenti dell’università di Tor Vergata. Sabato mattina la biblioteca del penitenziario romano ha ospitato la prima guerra di parole mai organizzata in Italia tra detenuti e ragazzi. Ci sono dei precedenti negli Stati Uniti, lo scorso settembre i giovani della rinomata Harvard, fino ad allora campioni nazionali di dibattito, sono stati pesantemente sconfitti da tre carcerati americani del penitenziario di Eastern New York. Un paradosso che si è ripetuto anche sabato mattina nell’ora di sfida Regina Coeli-Tor Vergata. Non erano impreparati i ragazzi dell’università, non hanno nulla in comune con gli adolescenti che hanno partecipato qualche giorno fa alla due giorni dello Young International Forum di Rimini e che davanti alle domande degli esperti hanno dimostrato di non conoscere il significato di parole come "empatia" o "assertività". In questo caso gli studenti conoscevano di sicuro il significato di tantissime parole ma non le hanno usate. E non sempre badavano ai congiuntivi. Al contrario dei detenuti, ribattezzati sabato mattina i signori di Regina Coeli, che hanno fatto sfoggio di un lessico invidiabile. Dicevano cesoie e non forbici, ascari e non soldati, smidollati e non insulti irripetibili. La gara si svolge secondo regole molto rigide. Le squadre sfidanti devono condurre un dibattito sull’uso delle armi come legittima difesa. Hanno a disposizione due round, ciascuno formato da un minuto per una presentazione, venti minuti per la discussione vera e propria, un altro minuto per la conclusione. Nel primo round la squadra sostiene una tesi, nel secondo la tesi opposta, ed è questa la vera difficoltà della sfida, riuscire ad essere credibili e convincenti sia come accusatori che come difensori dell’uso delle armi. "Entrambe le squadre si sono preparate separatamente - spiega Flavia Trupia, una laurea in filosofia del linguaggio, docente e presidente di PerLaRe-Associazione Per La Retorica che ha organizzato la sfida - ognuno ha ricevuto lezioni di attorialità e di argomentazione. E hanno dovuto imparare le regole della guerra di parole: non si interrompe, non si insulta, l’aggressività non serve, anzi, fa perdere la propria squadra". Insomma le uniche armi a disposizione sono le parole. E alla fine è grazie alle parole che la giuria emette il suo verdetto dopo pochi minuti di camera di consiglio. Primo premio ai signori di Regina Coeli, "una vittoria di misura per la capacità e il controllo e per la capacità di retorica che è stata ammirevole", legge la presidente della giuria, la linguista Valeria Della Valle. Loro, i signori di Regina Coeli, minimizzano: "Ho solo seguito i consigli sull’esposizione in pubblico e le tecniche di postura. Ho aggiunto ironia, ridicolizzato gli avversari. E ho avuto conferma di come si possa essere sempre più vicini di quello che si pensi", spiega Valerio usando due congiuntivi in una frase. Venezia: "Mamme dentro", un libro sulle madri e i figli detenuti La Nuova Venezia, 8 marzo 2016 "Mamme dentro" racconta dodici anni di volontariato con i figli delle detenute nel carcere femminile della Giudecca, il passaggio dai vecchi "nidi" agli attuali Istituti a Custodia Attenuata Maternità, i molteplici problemi da risolvere nel contatto con questa infanzia sofferente, reclusa ed insieme innocente. Lo ha scritto la veneziana Carla Forcolin, è in libreria da qualche giorno e verrà presentato dall’autrice martedì 7 marzo alle 17,30 a Palazzo Cavagnis (Castello 5170). Il libro racconta storie di vita e la dura lotta giornaliera per fare in modo che i diritti dei bambini vengano rispettati, nell’intrico di autorità e competenze che esistono sulle mamme detenute e di conseguenza sui loro bambini; talora nel conflitto di diritti, perfino tra quelli delle madri e quelli dei loro figli. Questo libro si pone con forza il problema del "dopo carcere". Narra l’incontro in Nigeria di due gemelli di sette anni, nati in Italia, cresciuti nel carcere della Giudecca, poi in affidamento ed infine portati nel paese d’origine della famiglia, con la loro ex-affidataria italiana. Il libro pone problemi e prospetta soluzioni. Tra queste un protocollo d’intesa tra istituzioni nella regione Veneto. Non soluzioni demagogiche, non proposte campate in aria, ma soluzioni possibili anche se mai semplici, perché semplice non è la situazione di questo spaccato particolarissimo di umanità, che non possiamo e vogliamo ignorare: i figli dei carcerati. Il libro si compone di 7 capitoli e di una corposa introduzione. Bari: teatro nel carcere minorile, va in scena "L’agnello di Dio" barilive.it, 8 marzo 2016 Giovedì e venerdì la produzione della Compagnia Casa Teatro realizzata con donne del quartiere San Pio di Bari. Un nuovo appuntamento nella sala prove dell’Ipm Fornelli di Bari. Il carcere minorile ospita il laboratorio teatrale condotto dal regista Lello Tedeschi con i giovani detenuti, con spettacoli aperti a tutti. Giovedì 10 e venerdì 11 marzo sarà in scena "L’agnello di Dio", una produzione della compagnia Casa Teatro realizzata con donne del quartiere San Pio di Bari. Sinossi - Scritto e diretto da Lello Tedeschi in collaborazione con Piera Del Giudice, lo spettacolo vede in scena la stessa Piera Del Giudice con la partecipazione di Vito Piemonte e Noemi Alice Ricco, ed è il ritratto dolente e grottesco di una donna nei rigidi confini di una stanza: una riflessione sulla forza e la fragilità della condizione umana, in questo caso di una donna in un generoso atto di resistenza alla perdita in uno scenario di desolazione beckettiana. La consolazione della vita a prendere forma tra ricordi, apparizioni, visioni. Allestisce rituali privati di esorcismo, patti di tregua. Mai abbastanza, però, mai sufficienti. Le domande restano, sacre e misteriose. Come litanie. Come preghiere. Come candele votive. Come volti di Dio che giocano a nascondino. "Dio è amore… dolci misericordie… diverse ogni mattina…". Qualcosa le dice che dovrebbe scendere a patti, cedere, che c’è qualcuno che veglia, una ragione, un sentimento delle cose, una distesa di acqua beata che l’aspetta, che aspetta tutti, tutti quelli che ha amato, meglio di qui, meglio della carne spezzata di qui, della carne debole schiacciata sotto le pietre, dei corpi a terra di quelli che ama, delle ossa rotte, dei pezzi di parole che restano e non significano niente, "Dio è amore… dolci misericordie… diverse ogni mattina…", e allora vorrebbe cedere, lasciarsi accomodare tra le braccia luminose di questa consolazione. Guarda avanti, dove tutti i corpi che ama non ci stanno più. Guarda indietro, dove ballava nella stanza grande fino a perdere il fiato e mamma passava senza fare rumore, dove i vestiti erano a fiori e i sorrisi non finivano mai. Il presente, questo eterno presente assoluto conosceva, e basta. "Cosa?… chi?… non importa… continuare… Dio è amore… dolci misericordie… diverse ogni mattina". Informazioni. Sipario alle 20.30. ingresso gratuito, prenotazione obbligatoria al numero 0805797667. Arienzo (Ce): "Perché non sia notte per sempre", l’evento a San Felice a Cancello goldwebtv.it, 8 marzo 2016 "Perché non sia notte per sempre". È questo il titolo del calendario realizzato con le vignette dei detenuti del Carcere di Arienzo, da cui prende il nome anche l’evento, organizzato e promosso dalle associazioni Insieme, Koinè e Terra Di Cinema, previsto il 15 marzo alle ore 19.00 presso la sala del Chiostro dei Padri Barnabiti a S. Felice a Cancello. Lo scopo del calendario è fare emergere e svelare le qualità espressive dei detenuti, nate dalla sofferenza e dall’isolamento della detenzione. Il lavoro è stato- si legge dalla nota - uno stimolo per contribuire al ripensamento sulla propria identità. Il progetto persegue le finalità dell’inclusione sociale dei detenuti, che avranno la possibilità di incontrare la società civile per presentare il proprio lavoro artistico. "Questa piccola opera è una realtà carica di tutta la forza dell’espressione artistica dei ristretti per poter immaginare qualcos’altro oltre le mura", ha dichiarato la coordinatrice Anna Carfora, curatrice del progetto, in servizio da oltre dieci anni presso l’Istituto Penitenziario di Arienzo. "Questo calendario vuole essere un’occasione per ricalcare - si legge dalla nota - un aspetto dell’altro volto della Giustizia", continua la Carfora, "quello umoristico, ma allo stesso tempo pieno di speranza verso una giustizia indispensabile all’essere umano per sentirsi attivi e reinseriti nel sociale." Il materiale stampato è frutto di una rielaborazione di vignette e testi umoristici dei detenuti che hanno partecipato agli anni scolastici "2014-2015" e "2015-2016" nel Carcere di Arienzo, seguendo la didattica della docente Anna Carfora. Il calendario sarà presentato il 15 marzo a S. Felice a Cancello, in una serata in cui i detenuti leggeranno le vignette e le didascalie, con il supporto musicale dei maestri Imma Perrotta (piano), Francesco Lettieri (tromba) e Raffaele Crisci (chitarra). Un doveroso ringraziamento va al Direttore della Casa Circondariale di Arienzo, Dott.ssa Maria Rosaria Casaburo, all’aera trattamentale: Educatori Dott.ssa Maria Rosaria Romano e Dott.ssa Francesca Pacelli; al Dirigente scolastico Dott. Rocco Gervasio. I ristretti che hanno realizzato le vignette del calendario: Pasquale Amato, Giovanni Gemito, Giuseppe Castelli, Gelardo Martucci, Allajan Mujah. I bibliotecari detenuti che hanno curato la grafica: Vincenzo Fioretti, Antonio Caputo, Giuliano Maisto, Carmine Aversano, Bernardo Chianese. La serata si concluderà con le degustazioni curate dal sommelier Carmine Guida. L’organizzazione e la promozione dell’evento è a cura di Carmine Guida, Margherita Zotti e - continua la nota - Gaetano Ippolito per le associazioni Insieme, Koinè e Terra Di Cinema. La manifestazione è ad ingresso libero. Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare. Milano: il ristorante del carcere di Bollate conquista il New York Times di Lucia Landoni La Repubblica, 8 marzo 2016 Il ristorante del carcere di Bollate conquista il New York Times: "Vale la pena andare in galera". Ingalera è anche il nome del locale inaugurato a ottobre. Il cronista colpito dal "successo culinario" e dall’ "intrigante esperimento di riabilitazione dei detenuti". "È difficile immaginare una storia di successo culinario più inconsueta o un esperimento più intrigante di riabilitazione dei detenuti": così il New York Times parla del ristorante InGalera che ha aperto qualche mese fa, a ottobre, all’interno del penitenziario di Bollate, alla periferia di Milano, il primo in Italia all’interno di un carcere. In un lungo articolo l’inviato del quotidiano statunitense, Jim Yardley, racconta il suo tour nel locale, guidato da Silvia Polleri, direttrice e ideatrice del progetto alla base di InGalera. I primi dettagli che colpiscono il giornalista sono la tenuta elegante dei detenuti, che servono ai tavoli "con cravatta, camicia bianca e giacca nera", e i poster appesi alle pareti, dedicati a celebri film a tema carcerario, a cominciare da Fuga da Alcatraz con Clint Eastwood. Ma viene dato ampio risalto anche alle parole dei detenuti che lavorano al ristorante: il New York Times sottolinea il loro orgoglio professionale nel dimostrare "alle persone che anche chi è finito in carcere può cambiare ed evolvere". Scorrendo il pezzo, si trovano descrizioni della sala affollata da una clientela eterogenea e accenni alle reazioni entusiaste degli ospiti, espresse con giudizi lusinghieri su TripAdvisor e prenotazioni per tutto il mese di marzo: "La curiosità per un mondo proibito e temuto trasforma una serata da InGalera in un’emozionante avventura, con un buon pasto come bonus" scrive Yardley. Non manca un accenno ai problemi del sistema carcerario italiano, per cui il nostro Paese ha ricevuto un richiamo ufficiale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche alle varie attività per il reinserimento dei detenuti promosse a Bollate, definito "all’avanguardia nella sperimentazione". Una promozione illustre che arriva da oltreoceano insomma, anche se condita da due errori che faranno sorridere i lettori italiani, nonostante siano stati prontamente corretti: nella prima versione dell’articolo, il New York Times aveva trasformato Bollate in "Ballate" e InGalera in "InGalara". Socialdemocrazie alla prova, i muri inattesi della sinistra di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 8 marzo 2016 Le ondate di migranti stanno sommergendo un po’ ovunque ciò che resta o restava di una certa idea dell’Europa, sospingendo persino l’avanzatissima Svezia sotto l’Opa politica del populismo. Ancora a settembre, Stefan Löfven, premier socialdemocratico della tollerante Svezia (prima in Europa per numero di rifugiati), aveva bacchettato l’ultradestra di casa sua: "Noi accogliamo chi fugge dalle guerre! Il nostro Paese non costruisce muri, apre porte!". Poche settimane (e ottantamila profughi) dopo, alla vigilia della chiusura del ponte di Öresund, ha dovuto spiegare in lacrime agli svedesi esasperati ciò che loro già temevano: "Non ce la facciamo più, dobbiamo rimettere i controlli alle frontiere". Lo scorso ottobre Werner Faymann, cancelliere socialdemocratico austriaco, visitando due campi di rifugiati in Grecia, commosse Tsipras per la "faccia solidale" che gli stava mostrando e attaccò Viktor Orbàn, il premier ungherese xenofobo sospettato di derive fascistoidi: "È un irresponsabile quando dice che i profughi sono tutti migranti economici!". A fine gennaio ha rotto con la Merkel (troppo buonista) e messo in cantina Schengen, vagheggiando il "muro del Brennero". Ieri, al vertice di Bruxelles tra Ue e Turchia - che di fatto ha certificato la morte provvisoria del trattato di libera circolazione già col solo auspicio che un giorno possa risorgere - Faymann s’è trovato accanto a Orbàn in un asse "neoasburgico", anzi, schiacciato sotto di lui, nell’invocare "la chiusura di tutte le rotte, anche quella balcanica": un bel rischio per noi italiani, perché già a primavera il blocco spingerebbe certamente i flussi di rifugiati verso la direttrice albanese-adriatica con approdo in Puglia (benché la notizia dello stop sia stata derubricata a mera "ipotesi" dalla portavoce della Merkel). Al netto degli interessi nazionali, che ormai hanno trasformato l’Unione in un’insalata di egoismi, le ondate di profughi (con i problemi di sicurezza e convivenza che si tirano dietro) stanno sommergendo un po’ ovunque ciò che resta o restava di una certa idea di Europa, sospingendo persino socialdemocrazie collaudate e avanzatissime come quella svedese sotto l’Opa politica dell’ultradestra e del populismo. Sul fronte dell’immigrazione, il primo e più grave ferito pare insomma il riformismo, e questo scenario non sembra certo agevolare la marcia di Matteo Renzi alla faticosa ricerca di nuovi equilibri dentro il Partito socialista europeo: tanti zero virgola e poca passione, per usare il lessico del premier italiano. La sensazione che, bandita ogni idealità e ogni ragione morale per stare insieme, tutta la partita si riduca a un mercimonio di piccole e grandi concessioni da estorcere a un potenziale rivale, deve avere influenzato parecchio pure l’atteggiamento del primo ministro turco Ahmet Davutoglu al vertice di ieri. Di fronte a europei arrivati in ordine sparso con la sola idea guida di indurre i turchi a trattenere il maggior numero possibile di profughi evitando così alla Grecia il destino di gigantesco hotspot camuffato da Stato sovrano, il premier turco ha semplicemente rilanciato. Ha chiesto più soldi (altri tre miliardi di "finanziamenti", secondo il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz) e, soprattutto, un’accelerazione nelle procedure d’avvicinamento della Turchia alla Ue ("siamo pronti a entrare"). Ora, a parte le sacrosante perplessità delle organizzazioni umanitarie che temono "l’esternalizzazione delle frontiere" e, in sostanza, l’appalto della nostra emergenza-profughi a un Paese assai più disinvolto quanto a diritti umani, resta davvero problematico fingere di distrarsi con i turchi all’indomani della brutale repressione poliziesca contro Zaman, il maggior giornale d’opposizione al regime di Erdogan. Ma in fondo è pieno di paradossi ciò che resta del sogno di Robert Schuman: "L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto". Solo un sopravvissuto all’orrore della Seconda guerra mondiale poteva mettere nero su bianco una simile professione d’ottimismo come questa del ministro degli esteri francese, papà dell’integrazione europea, il 9 maggio 1950. Quasi 66 anni dopo, per i popoli e gli elettori d’Europa "solidarietà" è diventata una parola sconcia. E dunque è stretto il sentiero per chi, d’ispirazione cattolica o socialista che sia, voglia resistere al vento populista; strettissimo per ciò che resta della sinistra democratica, o per chi ancora pensi che chiudere le frontiere davanti a disperati in fuga da guerra, violenza e carestie sia pura barbarie. E che chiudercele in faccia tra noi, cittadini europei, sia pura stupidità. Ma, nell’era degli zero virgola, barbarie e stupidità vanno battute col pragmatismo, non più o non solo con l’idealità. E con l’ennesimo paradosso: l’Europa che ha consegnato il proprio destino a una moneta comune senza corredarne il percorso con un comune progetto politico e con un necessario rafforzamento istituzionale, insomma quell’Europa che ha messo fuori dalla porta il fattore umano, ora con quel fattore deve fare i conti; perché migliaia e migliaia di esseri umani, chiedendo aiuto, mandano in crisi lo spazio Schengen. E, di conseguenza, centri studi governativi e autorevoli fondazioni snocciolano da mesi dati assai gravi sulla fine della libera circolazione europea, sui miliardi di euro che sarebbero perduti nei prossimi anni se non dovessimo recuperare la più grande acquisizione reale di questo nostro accidentato percorso comune. Non per buonismo ma per buonsenso, dunque. Forse pochi tra i leader ieri a Bruxelles guarderanno il dvd di Fuocoammare che Renzi ha donato loro. Ma pochissimi potranno restare indifferenti ai numeri di fuoco che la Fondazione Bertelsmann proietta su un futuro in cui dovessimo restarcene blindati nel cortile di casa. Il Bunker-Europa nelle mani della Turchia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 8 marzo 2016 Consiglio europeo. Accettato il dato di fatto della chiusura dei Balcani. Ankara alza la posta e chiede il raddoppio dei 3 miliardi promessi. L’Ue mette la sordina al caso Zeman e per convincere la Grecia propone l’idea surrealista dell’ "uno a uno": un profugo riammesso dalla Turchia proveniente dalla Grecia, un rifugiato accolto in Europa per via legale. Intanto l’operazione Nato si rafforza con la partecipazione britannica. Accettare il fatto compiuto dell’Europa chiusa in un bunker, con la strada dei Balcani bloccata, e affidarsi alla buona volontà della Turchia, grazie al viatico del denaro, inghiottendo il boccone amaro della repressione della stampa: cioè la "filosofia" dell’ungherese Viktor Orban più l’idea di Angela Merkel di appoggiarsi su Ankara. Con un’idea diabolica, per convincere la Grecia: anche i rifugiati con la prospettiva di essere candidati all’asilo potranno essere rinviati in Turchia, per poi venire riammessi nella Ue, per via regolare, evitando le mafie (è il principio surrealista dell’"uno a uno": uno riammesso in Turchia, uno ripreso dalla Ue). Un altro estenuante Consiglio europeo straordinario "dell’ultima chance" sui rifugiati, ieri a Bruxelles, ha dato in spettacolo le divisioni e gli egoismi europei, in una trattativa con la Turchia a livello di bazar, con la Grecia senza nessuna vera garanzia per evitare di essere la vittima sacrificale e trasformarsi in un immenso campo profughi (con qualche centinaia di milioni di euro come medicina). Il vertice è stato preceduto da una maratona tra Merkel e il primo ministro turco, Ahmet Davutoglu, durato domenica notte fino alle 3 del mattino. Ankara ha alzato la posta, arrivando a chiedere di raddoppiare da 3 a 6 i miliardi promessi dalla Ue (entro il 2018), per accettare di "dissuadere" i rifugiati ad intraprendere il viaggio verso le sponde greche tramite i passeurs. Davutoglu, ha anche avanzato altre richieste precise a Bruxelles: togliere i visti Schengen per i cittadini turchi dal prossimo giugno, cioè senza aspettare il "rapporto" della Commissione previsto per ottobre e l’apertura di altri 5 capitoli nel negoziato per l’adesione della Turchia alla Ue. Sul primo punto, gli europei pur restando molto reticenti sono disponibili e, in compenso, chiedono che la Turchia adotti il passaporto biometrico e riveda la circolazione con i paesi islamici. Sul processo di adesione alla Ue, ci sono molti freni. In Germania, per esempio, dove Merkel deve far fronte ai rischi delle elezioni in tre Länder domenica prossima (Renania-Palatinato, Bade-Wurtemberg, Sassonia-Anhalt) e alla contestazione all’interno della Cdu che teme la crescita elettorale di Afd, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha espresso "dubbi" sulle possibilità per la Turchia di diventare paese membro della Ue. L’indignazione per la repressione del quotidiano di opposizione Zeman si è presto dimostrata solo una posizione di circostanza da parte di alcuni dirigenti Ue, come François Hollande, che hanno fatto subito calare il silenzio sulle deboli critiche, nella speranza di concludere un accordo con Davutoglu. Renzi ha fatto un po’ la voce grossa, minacciando di non firmare se il caso Zeman non viene esplicitamente evocato. La Turchia chiede più soldi per applicare, in pratica, l’accordo che aveva concluso con la Grecia nel novembre 2015, finora mai applicato: la riammissione dei migranti "irregolari", che non hanno possibilità di ottenere l’asilo, ma anche dei siriani, che hanno la vocazione di avere l’accoglienza per la convenzione internazionale del 1951. La Ue chiede alla Turchia di lottare contro le filiere mafiose e di sorvegliare le frontiere. Ci sarà l’aiuto determinante della Nato: Ankara ha accettato, domenica, la presenza di una missione dell’Alleanza atlantica nelle sue acque territoriali. L’operazione Nato - ufficialmente contro i passeurs - sarà rafforzata, con l’arrivo di tre navi britanniche e una francese. La Ue si impegna a rispettare un rapporto "uno a uno" tra i migranti riammessi in Turchia e i rifugiati che dovrebbero venire accolti nella Ue in nome del diritto d’asilo. La riammissione in Turchia riguarderà migranti sbarcati in Grecia da non più di 15 giorni (quindi non riguarda chi è già presente), mentre la Ue si impegna a organizzare un’accoglienza per vie legali di coloro che sono stati schedati in Turchia come aventi diritto all’asilo, nella speranza di limitare gli arrivi selvaggi e il dominio delle mafie. Ma queste "reinstallazioni" saranno fatte solo su base volontaria: il "piano Juncker" dell’autunno scorso, sul ricollocamento di 160mila profughi è miseramente fallito, solo qualche centinaio (meno di mille) ha trovato rifugio in Europa, mentre contemporaneamente molti paesi, a catena, hanno chiuso le frontiere e non vogliono sentir parlare di accoglienza. L’accordo evoca anche una "cooperazione" Ue-Turchia per la creazione di "zone sicure" per i profughi sul territorio siriano. Passa cioè la linea Orban e l’accettazione del fatto compiuto, difese nel fine settimana anche dal presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, che ha proposto la seguente formulazione nel testo di conclusione: "i flussi irregolari di migranti sulla strada dei Balcani occidentali son finiti, la strada è chiusa", dove nel 2015 hanno transitato 850mila persone. L’Albania e la Bosnia sono inquiete, perché potrebbero rappresentare una strada alternativa. L’Austria non cede sul blocco delle entrate e si auto-esclude dal futuro sistema di reinstallazioni, con l’argomento che ha già accolto quasi 40mila rifugiati. I paesi dell’est impongono a tutti la filosofia del bunker e non hanno nessuna intenzione di dichiararsi "volontari" per l’accoglienza. Sullo sfondo, in un paese dopo l’altro, domina la paura della crescita dell’estrema destra (come hanno dimostrato i risultati delle legislative in Slovacchia, che avrà la presidenza semestrale della Ue dal prossimo 1° luglio, con dei neo-nazi eletti al parlamento). David Cameron proclama che la Gran Bretagna ha "forti accordi" per non partecipare, la Danimarca invoca l’opt out. La Turchia continua ad avere in mano l’arma del ricatto: Erdogan, da Ankara, ha urlato ieri che il paese ha già speso 10 miliardi per i rifugiati e che dei 3 miliardi promessi dalla Ue non si è visto un soldo, ma nei fatti in Turchia solo il 15% dei 2,7 milioni di profughi è registrato, quindi c’è molto margine di manovra per continuare ad utilizzare questa miseria umana per ricattare gli europei. Alexis Tsipras è ben solo a ripetere che la Ue deve scegliere tra "paura e razzismo e la solidarietà". Amnesty: "Sulla pelle dei migranti" di Carlo Lania Il Manifesto, 8 marzo 2016 Intervista a Riccardo Noury: "Europa ipocrita, non si preoccupa dei profughi". "L’Unione europea condanna la repressione della stampa turca, ma è pronta a chiudere gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani di migranti e rifugiati messa in atto dal governo di Ankara. Questa è pura ipocrisia. La Turchia non garantisce i diritti umani dei suoi cittadini, figuriamoci quelli di stranieri in fuga dalla guerra". Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, condanna senza mezzi termini l’operazione che Bruxelles sta conducendo con il governo turco per fermare le partenze dei profughi diretti in Europa. "Stiamo assistendo a una riedizione di quanto accaduto in passato, quando si facevano accordi con i paesi del Mediterraneo meridionale. Soprattutto mi sembra di rivedere l’accordo fatto dall’Italia con la Libia di Gheddafi in cui noi oltre a pagare fornivamo materiali e aiutavamo a costruire centri di detenzione". L’Europa fa male a fidarsi di Ankara? "L’Europa fa un calcolo cinico sulla pelle e sulla vita di persone che stanno scappando dalla guerra in Siria, in Iraq, in Afghanistan. Ma penso anche a quanto sta accadendo nel Sud-Est del paese, dove le operazioni militari sono ancora in corso e dove in alcune zone la situazione dal punto di vista umanitaria è disperata". Come vengono trattati i rifugiati? "Va detto che in questi anni la Turchia ha fatto uno sforzo enorme ospitando 2,5 milioni di rifugiati. Riconosciuto questo, resta il fatto che le condizioni nei campi per molti sono insostenibili. Ci sono almeno 400 mila persone, i cosiddetti vulnerabili, che non possono assolutamente stare nei campi: minori non accompagnati, vedove, orfani, malati di cancro, vittime di stupro e di tortura. Per questi stiamo chiedendo all’Unione europea di garantire un reinsediamento in tempi rapidi. Ci risulta che i bambini non hanno avuto accesso al sistema educativo. Abbiano notizie, forniteci da associazioni locali per i diritti umani, di minori non accompagnati che entrano nel circolo del lavoro nero. Quello che poi abbiamo verificato all’indomani dopo il primo negoziato del 2015, in cui si è deciso di stanziare 3 miliardi di euro alla Turchia, è che sono stati fatti dei rastrellamenti, i migranti sono stati portati in centri di detenzione simili ai Cie italiani situati nell’Est del paese dove hanno subìto maltrattamenti. Sappiamo inoltre di respingimenti forzati verso Siria e Iraq. Senza parlare della situazione che c’è adesso in Siria dopo l’offensiva su Aleppo, con ancora migliaia e migliaia di persone bloccate alla frontiera turco-siriana e con Ankara che lascia passare solo i malati gravissimi respingendo tutti gli altri, come se non sapesse che in Siria ormai non ci sono più, o quasi, ospedali che funzionano". Eppure la Turchia ha firmato la Convenzione dei rifugiati del 1951. "La Turchia ha sicuramente fatto parte della convenzione del 1951, ma va detto che gli standard internazionali ormai vanno ben oltre i problemi dell’epoca, che riguardavano la necessità di fornire protezione a persone in fuga da tutt’altre zone geografiche". Il fatto che la Turchia chieda di essere riconosciuta come paese sicuro non rischia di peggiorare ulteriormente i rischi per i migranti? "È una richiesta che ci preoccupa moltissimo, però noto che questo stratagemma del paese sicuro viene invocato da più parti. Lo ha fatto anche l’Ungheria nei confronti della Serbia, e più in generale ha adottato una legge che prevede più di venti paesi cosiddetti sicuri. Ripeto: la Turchia non è un paese sicuro neanche per i suoi cittadini. Figuriamoci se può esserlo con i cittadini stranieri. Oltretutto c’è questa allarmante situazione dei respingimenti verso zone di guerra, prassi del tutto illegale. L’Unione europea è perfettamente consapevole del partner con cui sta avviandosi a chiudere questi accordi, ma fa finta di non vedere. Chi oggi critica la situazione dei diritti umani per un episodio certamente grave come quello del quotidiano "Zaman", e allo stesso tempo afferma che si può procedere con l’accordo sui migranti è solo un ipocrita. L’unico obiettivo di Bruxelles è quello di chiedere ad Ankara un servizio di guardianìa alla frontiera in modo da fermare i profughi". Truppe italiane in Libia, il governo tratta di Andrea Colombo Il Manifesto, 8 marzo 2016 Guerra. Attese per oggi le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano. Anche se non è chiaro quale sia l’impedimento che costringe il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a usare la formula dubitativa. Riguardo la partecipazione all’azione militare, l’ambasciata Usa precisa: decide l’Italia. Renzi oggi vede Hollande. Tra i nodi principali, come formare la spedizione. Le salme di Salvatore Failla e Fausto Piano saranno in Italia oggi. Forse. "Se possibile rientreranno non oltre la giornata di domani", ha detto ieri Paolo Gentiloni. Non è chiaro quelle sia l’impedimento che costringe il ministro degli Esteri a usare la formula dubitativa. Gentiloni non ha specificato se l’autopsia si sia svolta, com’è probabile, a Tripoli, ipotesi che le famiglie dei due uccisi contestano fortemente. La ritengono "un oltraggio" e si fidano pochissimo dell’attendibilità dei libici. È ovvio che lo slittare del ritorno dei corpi dei due tecnici italiani uccisi esasperi ulteriormente le famiglie, che continuano a usare, specialmente la moglie di Failla Rosalba Greco, toni durissimi nei confronti del governo italiano: "Lo Stato ha fallito. È una vergogna come le istituzioni stanno gestendo il rientro della salma". Ai congiunti delle vittime non devono aver fatto piacere neppure le parole pronunciate da Renzi domenica, con l’accenno alle "responsabilità" di chi aveva permesso che i quattro tecnici italiani si trovassero in Libia. La risposta il capo del governo la conosce perfettamente: chi meglio di lui può sapere che erano lì per conto dell’Eni, con il compito di garantire il funzionamento di un gasdotto di vitale importanza per l’Italia? I due superstiti, Gino Policardo e Filippo Calcagno, hanno confermato ieri di essersi liberati da soli, usando un chiodo. Il loro racconto chiarisce che tutti e quattro i rapiti stavano per essere liberati. Resta dunque misterioso perché siano poi stati separati, mossa rivelatasi fatale per due di loro. I rapitori avevano inoltre garantito, hanno raccontato i due agli inquirenti, che non li avrebbero venduti all’Isis, dopo che uno dei due uccisi, Failla, li aveva implorati di non farlo. Domani il ministro Gentiloni riferirà in Parlamento sia sulla vicenda dei quattro ostaggi sia sulla possibilità di una spedizione militare. Renzi invece è stato convocato dal Copasir. Quella di Gentiloni sarà una "informativa", senza nessun voto. Ancora una volta il Parlamento non potrà dire nulla sulla gestione della crisi libica, a tutt’oggi incontrollata. Renzi ha parlato in abbondanza nel week-end, ma ha preferito farlo sul web o di fronte alle telecamere. Il presidente del Senato Grasso, dopo aver preso posizione contro "un intervento puramente militare" destinato a certo fallimento, trova indirettamente modo di ricordare al governo che il Parlamento esiste, con la formula retorica: "Sono sicuro che continueranno a essere garantite tutte le prerogative del Parlamento nelle sue diverse articolazioni". Il premier, in tv, ha smentito con vigore che l’azione militare sia imminente e la diplomazia italiana ha fatto i passi necessari per ottenere dall’ambasciata Usa una correzione delle dichiarazioni dell’ambasciatore Phillips della settimana scorsa, che davano il corpo d’armata italiana pronto a partire e avevano mandato Renzi su tutte le furie. La precisazione è arrivata ieri. "Non si è trattato di un suggerimento o di una raccomandazione" assicura una nota dell’ambasciata a Roma. Il commento di Phillips "si colloca nell’ambito di un ampio dibattito pubblico, in cui fonti italiane discutevano il possibile impegno e leadership dell’Italia". Ma certo "spetta all’Italia decidere e definire i dettagli del suo impegno". Parole calibrate per non smentire. L’ambasciatore ricorda infatti che è stata, ed è tuttora, l’Italia a reclamare la guida di un’eventuale spedizione, ed è significativo che parli di "definire i dettagli" di un impegno che viene dato per certo. Del resto proprio ieri il sito dell’inglese Guardian confermava che "una forza internazionale di 5000 uomini a guida italiana è pronta per essere schierata in Libia". I britannici si sono distratti quando Renzi giurava in tv che "con me presidente l’Italia a fare la guerra in Libia con 5000 uomini non ci va"? Impossibile: lo stesso articolo cita le parole del premier. Il punto è che le assicurazioni di Renzi vanno prese con cautela. Non a caso, subito dopo il fragoroso annuncio pacifista, fonti di palazzo Chigi precisavano che s’intendeva il rifiuto di ogni "impegno unilaterale", come dire che la guerra da sola e senza un governo libico a chiedere l’intervento l’Italia non la farà. Benissimo ma era già noto. Renzi ha detto qualcosa di più, quando ha specificato il numero di militari che, con lui al governo, non partiranno mai. Non è un problema secondario: spedire 5000 soldati costerebbe una tombola e una spedizione quasi esclusivamente tricolore esporrebbe l’Italia a rappresaglia. La composizione della spedizione è uno dei punti sui quali la trattativa in particolare con la Francia è aperta. Uno dei principali tra quelli che saranno al centro del colloquio di oggi a Venezia tra Renzi e Hollande. La ricolonizzazione della Libia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 8 marzo 2016 Nella commedia degli equivoci per il teatrino della politica, il primo attore Renzi ha detto che in Libia "l’Italia farà la sua parte", quindi - appena il Pentagono ha annunciato che l’Italia assumerà il "ruolo guida" - ha dichiarato: "Non è all’ordine del giorno la missione militare italiana in Libia", mentre in realtà è già iniziata con le forze speciali che il parlamento ha messo agli ordini del premier. Questi, per dare il via ufficiale, aspetta che in Libia si formi "un governo stra-solido che non ci faccia rifare gli errori del passato". In attesa che nel deserto libico facciano apparire il miraggio di un "governo stra-solido", diamo uno sguardo al passato. Nel 1911 l’Italia occupò la Libia con un corpo di spedizione di 100mila uomini, Poco dopo lo sbarco, l’esercito italiano fucilò e impiccò 5mila libici e ne deportò migliaia. Nel 1930, per ordine di Mussolini, metà della popolazione cirenaica, circa 100mila persone, fu deportata in una quindicina di campi di concentramento, mentre l’aviazione, per schiacciare la resistenza, bombardava i villaggi con armi chimiche e la regione veniva recintata con 270 km di filo spinato. Il capo della resistenza, Omar al-Mukhtar, venne catturato e impiccato nel 1931. Fu iniziata la colonizzazione demografica della Libia, sequestrando le terre più fertili e relegando le popolazioni in terre aride. Nei primi anni Quaranta, all’Italia sconfitta subentrarono in Libia Gran Bretagna e Stati uniti. L’emiro Idris al-Senussi, messo sul trono dagli inglesi nel 1951, concesse a queste potenze l’uso di basi aeree, navali e terrestri. Wheelus Field, alle porte di Tripoli, divenne la principale base aerea e nucleare Usa nel Mediterraneo. Con l’Italia re Idris concluse nel 1956 un accordo, che la scagionava dai danni arrecati alla Libia e permetteva alla comunità italiana di mantenere il suo patrimonio. I giacimenti petroliferi libici, scoperti negli anni 50, finirono nelle mani della britannica British Petroleum, della statunitense Esso e dell’italiana Eni. La ribellione dei nazionalisti, duramente repressa, sfociò in un colpo di stato incruento attuato nel 1969, sul modello nasseriano, dagli "ufficiali liberi" capeggiati da Muammar Gheddafi. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica costrinse Usa e Gran Bretagna a evacuare le basi militari e nazionalizzò le proprietà straniere. Nei decenni successivi, la Libia raggiunse, secondo la Banca mondiale, "alti indicatori di sviluppo umano", con una crescita del Pil del 7,5% annuo, un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro oltre 2 milioni di immigrati africani. Questo Stato, che costituiva un fattore di stabilità e sviluppo in Nordafrica, aveva favorito con i suoi investimenti la nascita di organismi che avrebbero creato l’autonomia finanziaria e una moneta indipendente dell’Unione africana. Usa e Francia - provano le mail di Hillary Clinton - decisero di bloccare "il piano di Gheddafi di creare una moneta africana", in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Per questo e per impadronirsi del petrolio e del territorio libici, la Nato sotto comando Usa lanciava la campagna contro Gheddafi, a cui in Italia partecipava in prima fila l’"opposizione di sinistra". Demoliva quindi con la guerra lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali e gruppi terroristi. Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia. Dove rimette piede quell’Italia che, calpestando la Costituzione, ritorna al passato coloniale. Regeni, atti incompleti dall’Egitto di Marzio Laghi Il Tempo, 8 marzo 2016 La Procura di Roma sollecita la consegna di tutte le carte utili. Forse non sapremo mai tutta la verità sulla morte di Giulio Regeni. L’Egitto traccheggia, è avaro di informazioni e gli atti trasmessi finora all’autorità giudiziaria di Roma dal Paese dove il giovane ricercatore ha trovato la morte sono incompleti e insufficienti. Sulla fine del ventottenne di origine friulana, scomparso al Cairo in circostanze misteriose il 25 gennaio scorso e trovato morto dopo otto giorni, gli inquirenti di piazzale Clodio hanno bisogno di ulteriori informazioni. E così’ la Procura capitolina ha deciso di sollecitare di nuovo i contenuti della rogatoria inoltrata settimane fa nella speranza che l’Egitto metta a disposizione del team di investigatori italiani tutte le carte utili. I tre poliziotti dello Sco e i tre carabinieri del Ros saranno nella capitale egiziana ancora qualche giorno. Poi qualcuno dovrà tirare le somme e decidere se far rientrare in patria la squadra di investigatori. Intanto sul caso del ricercatore trovato cadavere il 3 febbraio in Egitto sull’autostrada Il Cairo-Alessandria intervengono anche i Fratelli Musulmani. Per il responsabile dell’alto comitato del gruppo "è la testimonianza" di come gli apparati egiziani "torturano i detenuti per far confessare ciò che vogliono". Muhammad Abdelrahman al-Morsi, l’esponente della Fratellanza fa appello a "un’inchiesta internazionale per proteggere i detenuti dalle torture inflitte dagli sgherri del golpe", con riferimento al colpo di stato con cui fu deposto l’ex presidente Muhammad Morsi. Da allora, i Fratelli Musulmani sono considerati dalle autorità egiziane un’organizzazione terroristica, un "alibi" con cui "il ministero dell’Interno egiziano e i media vicini ai golpisti giustificano i crimini, gli attacchi e le torture da essi compiuti", afferma al-Morsi, che ribadisce il rifiuto della Fratellanza "di ogni forma di violenza e spargimento di sangue". E dall’Italia la sinistra radicale chiede il pugno duro. "Apprendiamo dalle agenzie di stampa che la Procura di Roma ha reiterato la richiesta all’Egitto di documenti utili per l’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni. Evidentemente finora sono giunti documenti incompleti o insufficienti. È chiaro che è l’ultimo appello, se le autorità egiziane continueranno a non collaborare con l’Italia nella ricerca della verità, il governo ha un’unica scelta da fare: ritirare l’ambasciatore italiano al Cairo - afferma in una nota Sinistra Italiana con Nicola Fratoianni - Non ci possono essere compromessi di alcun genere o sotterfugi nella ricerca della giustizia per questo nostro ragazzo". Turchia: con Erdogan il giornale di opposizione diventa voce del governo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 marzo 2016 Dopo il commissariamento, Zaman torna in edicola con articoli pro-Ankara mentre la polizia picchia le manifestanti in piazza per l’8 marzo. In Siria le opposizioni aprono al negoziato ma poi ci ripensano. Le opposizioni siriane danno il via libera al negoziato e poi lo mettono in stand by. Ieri l’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc) si era detto pronto a partecipare al tavolo che si dovrebbe aprire domani a Ginevra (ma che probabilmente sarà rinviato al 14 marzo), smentendo le dichiarazioni di Riad Hijab. Il leader dimissionario della Coalizione Nazionale venerdì aveva parlato di "momento non adatto", facendo presupporre l’ennesimo boicottaggio. Nel pomeriggio di ieri, però, è arrivato un parziale stop: il presunto raid russo contro un deposito di carburante a Idlib (12 vittime) ha spinto l’Hnc a mettere in discussione la partecipazione. A monte dell’invio in Svizzera della propria delegazione stava la relativa tenuta della tregua: gli ultimi giorni hanno visto una riduzione maggiore degli scontri. "Abbiamo notato un declino consistente delle violazioni governative e un progresso nella consegna degli aiuti", aveva detto il portavoce Agha. Nelle stesse ore la Russia annunciava la concessione di due basi militari: gli aiuti saranno immagazzinati a Tartus e Latakia e poi distribuiti con mezzi militari russi. I civili, quasi rassegnati a subire la volatilità della diplomazia mondiale, non nascondono la speranza, rincuorati da un effettivo calo delle violenze. Parzialmente diversa la situazione a nord, dove la presenza radicata di al-Nusra e Isis impedisce una seria riduzione di raid e attacchi islamisti. La stessa cosa che succede nel dimenticato Iraq. Domenica l’ennesimo attentato rivendicato dallo Stato Islamico ha ucciso 70 persone ad un checkpoint di Hilla, sud di Baghdad: un camion bomba è esploso mentre decine di auto erano in fila per attraversare il posto di blocco, dimostrando ancora una volta la capacità di infiltrazione degli islamisti in tutto l’Iraq. Lo stesso giorno Mosca denunciava il lancio di razzi dalla Siria verso il territorio turco da parte di al-Nusra, "azioni volte a provocare una reazione militare turca e l’ingresso delle truppe in Siria, che inevitabilmente interromperebbe il processo di pace". Come? Secondo la Russia imputando la responsabilità degli attacchi a Damasco. Un’accusa che sottintende al sostegno che Ankara riconosce ai gruppi islamisti e che fa del presidente Erdogan un partner sempre meno affidabile. Inaffidabile sì, ma quasi inevitabile: nei giorni in cui la libertà di stampa in Turchia vive uno dei periodi più bui dell’autoritarismo del "sultano" Erdogan, il governo turco discute con Bruxelles della cosiddetta emergenza rifugiati. L’asso nella manica del presidente che sa di poter così zittire le flebili critiche della fortezza Europa che finge di non vedere le censure, le repressioni di ogni protesta, il controllo capillare esercitato su servizi segreti e magistratura. Ma soprattutto la Ue tappa vergognosamente occhi e orecchie sulla brutale campagna anti-kurda che ha già ucciso centinaia di civili e devastato intere città. L’immagine più cruda del pugno di ferro governativo la danno gli ultimi due numeri del quotidiano più letto in Turchia, Zaman, commissariato con l’accusa di legami con organizzazioni terroristiche. Dopo l’attacco con cannoni d’acqua, proiettili di gomma e lacrimogeni contro i manifestanti ritrovatisi sabato sotto la sede del giornale, i giornalisti erano riusciti a far uscire un ultimo numero prima che venisse bloccato l’accesso agli uffici e venissero oscurati sito, pagina Facebook e account Twitter: "Costituzione sospesa", il titolo che occupava la prima pagina del giornale di opposizione. Ventiquattro ore dopo quello stesso quotidiano ha cambiato faccia: in prima pagina una foto del presidente Erdogan e la notizia dell’inaugurazione di un terzo ponte sul Bosforo, progetto da 3 miliardi di dollari per collegare la Istanbul europea a quella asiatica. Nella colonna di sinistra campeggiava invece l’elogio della campagna anti-Pkk e le immagini dei funerali dei soldati "martiri". Nemmeno una riga sulla repressione delle proteste per l’occupazione governativa di Zaman, mentre nel sito web oscurato campeggiava un messaggio a dir poco inquietante: "Vi forniremo al più presto maggiore qualità e servizi più oggettivi". Ma più di tutto a colpire come un pugno in faccia è stato l’articolo che raccontava dell’evento organizzato dalla presidenza per la Festa della Donna: di nuovo una foto di Erdogan che stringe la mano di un’anziana. Peccato che nello stesso momento le centinaia di donne scese in piazza a Istanbul e Ankara per protestare contro le discriminazioni subite siano state aggredite dalla polizia, ferite, arrestate. La loro colpa è aver ricordato che la Turchia è solo 77esima su 138 paesi nella classifica stilata dall’Onu sulla parità di genere. Siria: il ritorno dei cristiani tra le rovine di Homs "qui c’è la nostra anima" di Alberto Stabile La Repubblica, 8 marzo 2016 La città siriana, un tempo specchio del pluralismo religioso, è stata teatro dello scontro tra esercito e jihadisti. Ora i miliziani si sono ritirati e così centinaia di profughi sono rientrati. "Ora ricostruiremo chiese e quartieri". Una fila chilometrica di case vuote allineate lungo una strada deserta. Nessun segno di vita, tranne due soldati seduti all’ombra di un gazebo di lamiera ondulata con i kalashnikov a riposo sulle gambe. Ecco il quartiere spettrale di Deir el Baalba, alle porte di Homs, dopo la fuga di migliaia di miliziani di Jabat al Nusra, i quali hanno preferito i lidi più sicuri di Idlib, tuttora in mano agli islamisti. Di contro, in quello che è stato il principale teatro dello scontro tra i jihadisti e l’esercito di Assad, in quella che era la culla di una delle più antiche comunità cristiane d’oriente, tornano poco a poco i profughi a far rivivere le loro case ridotte in macerie. Ritirata strategica dei rivoltosi, da un lato, e lento ritorno dei rifugiati nelle case avite dalle quali erano stati costretti a scappare con l’avvicinarsi della guerra, dall’altro: questi i movimenti di folla che si osservano oggi a Homs, la ricca e raffinata città siriana crocevia di tutti i transiti e i traffici di uomini, merci, beni primari, servizi dalla costa mediterranea, libanese verso il Nord, ma anche specchio fedele del pluralismo religioso e dello spirito comunitario che fu di questo paese. Forse anche per questo la guerra civile vi si è abbattuta con particolare accanimento, e tutt’ora la lambisce con la sua onda lunga sanguinosa. Dopo Deir al Baalba ecco l’obbiettivo della nuova strategia del terrore: Al Zaharaa (Piazza della Rosa), teatro di più di 30 attentati nell’ultimo anno e mezzo, l’ultimo dei quali, il 21 febbraio, ha visto un kamikaze alla guida di una macchina piena d’esplosivo che rimorchiava una seconda autobomba senza autista, come se fosse trainata per un guasto meccanico. Impatto devastante: 83 morti e decine di feriti. In gran parte tra gli alawiti, la setta eterodossa dello sciismo a cui appartengono i seguaci e la stessa famiglia Assad, e i cristiani armeni che popolano la zona. È questa violenza residua, questa ricerca disperata di una vendetta postuma da parte dei gruppi islamisti radicali che frena il ritorno dei duecentomila cristiani che abitavano il quartiere Bustan al Diwan (il giardino del Consiglio) sorto intorno alle antiche chiese cattoliche, armene e siriache, e ai santuari e conventi greco ortodossi che popolavano Homs e che per quasi un anno e mezzo, fino alla primavera del 2014, è stato il fortino assediato della ribellione armata contro il regime di Bashar el Assad. Entriamo nella strada più famosa della zona, el Hamadiyeh, che dà il nome convenzionale a tutto il "quartiere cristiano" di Homs. La quantità di devastazioni dovute ai bombardamenti dell’esercito per stanare le postazioni dei ribelli è imponente. Il video recente registrato dall’occhio ineludibile di una telecamera montata su un drone ha fatto rivivere il dramma di una città che ha visto le sue parti più belle sottoposte a una selvaggia demolizione. Lungo El Hamadye non c’è un palazzo in piedi. Per trovare qualche angolo ancora accessibile bisogna entrare nelle traversa che conduce al santuario di Notre Dame de la Cynture. Qui, tra le macerie, si lavora alacremente per rimettere in sesto le case. È un tiepido pomeriggio domenicale, le funzioni sono finite. Agli angoli degli edifici, intorno ai vassoi con il caffè fumante appoggiati ad uno sgabello, siedono gruppi di cristiani tornati provvisoriamente, o per rimanerci più a lungo possibile nel loro quartiere. I fratelli Aoun e Daoud, rispettivamente falegname e insegnante sulla settantina, sono andati via alla fine del 2012, per ritornare soltanto un anno fa. "Abbiamo trovato ospitalità da un nostro parente a Latakia, quando i terroristi si sono ritirati siamo tornati soltanto per vedere la nostra casa saccheggiata e distrutta. Non capisco - dice Daoud - perché il governo li ha lasciati andar via con le loro armi ". I due fratelli si sono messi a lavoro di buona lena, ma mi fanno notare che sono i soli ad aver messo mano alle riparazioni in un palazzetto di quattro piani con otto appartamenti. In effetti, sottolinea Abu Mahmud, il poliziotto di guarda alla chiesa di Notre Dame, "non credo che più del dieci per cento degli abitanti del quartiere sia tornato. Ma è già qualcosa". Gina, una signora di mezz’età, è venuta dalla Svizzera per riunire di nuovo la famiglia, le due sorelle sposate che si erano rifugiate a Damasco, e le amiche di una vita con cui ha condiviso i giochi sulla strada, la scuola elementare delle suore ("il migliore istituto scolastico del paese") le prime uscite fuori dalla cerchia famigliare, ma sempre all’interno del quartiere, e i viaggi settimanali all’università di Damasco. Nel convento di padre Frans Van der Lugt, il gesuita ucciso nell’aprile del 2014, un delitto mai rivendicato da nessun gruppo armato, sono tornati i giovani che rappresentavano la linfa vitale, il segno di una presenza perdurante, pacifica e creativa. Liliana, una ragazza di vent’anni, dalla bellezza naturale e senza forzature, ha girato con la famiglia per tre anni, dal 2012 al 2015 e descrive il dolore della lontananza da qui "come quello di una persona che sente la propria anima totalmente dipendente (addicted, dice) da un luogo". Scendiamo lungo il suk, fino alla piazza del Vecchio Orologio, per immergerci in un panorama di macerie. Usciamo dal centro per raggiungere le barriere ancora abbassate di Baba Amr, il quartiere simbolo della rivolta, il primo sito toccato dalla guerra civile a guadagnare notorietà mondiale. Anche per il dramma di alcuni giornalisti, tra cui l’apprezzatissima Marie Kolvin, del Sunday Times, che vi morirono uccisi in un bombardamento dell’artiglieria siriana. Il viale centrale che si allunga per 2 chilometri riassume la desolazione di questa guerra. Ma anche qui, nei vicoli dove un tempo vivevano 60mila persone, sono tornate 700 famiglie: nelle case che abitavano un tempo, o hanno trovato un buon affitto a prezzi bassissimi in una zona che non offre niente. Sono persone che vantano qualche connessione con l’esercito che controlla la zona: un parente volontario, un figlio richiamato sotto le armi. Ovvero, come Ahmed al Huleibi, funzionario della sanità pubblica, sposato, sei figli, non hanno paure di dire che "con la rivolta di Bab Amr non ho avuto niente a che fare". Egitto: Fratelli Musulmani "caso Regeni prova che apparati torturano i detenuti" Adnkronos, 8 marzo 2016 Il caso del ricercatore italiano Giulio Regeni, trovato morto il 3 febbraio in Egitto sull’autostrada Il Cairo-Alessandria, "è la testimonianza" di come gli apparati egiziani "torturano i detenuti per far confessare ciò che vogliono". È questo l’atto d’accusa del responsabile dell’alto comitato dei Fratelli Musulmani in Egitto, Muhammad Abdelrahman al-Morsi. In una nota, l’esponente della Fratellanza fa appello a "un’inchiesta internazionale per proteggere i detenuti dalle torture inflitte dagli sgherri del golpe", con riferimento al colpo di stato con cui fu deposto l’ex presidente Muhammad Morsi. Da allora, i Fratelli Musulmani sono considerati dalle autorità egiziane un’organizzazione terroristica, un alibi con cui "il ministero dell’Interno egiziano e i media vicini ai golpisti giustificano i crimini, gli attacchi e le torture da essi compiuti", afferma la nota, che ribadisce il rifiuto della Fratellanza "di ogni forma di violenza e spargimento di sangue". Gran Bretagna: 20 mln ad ex detenuto Guantánamo legato a Jihadi John blitzquotidiano.it, 8 marzo 2016 Un ex detenuto britannico di Guantánamo che ha ricevuto un risarcimento di 20 milioni di sterline è stato collegato al famigerato combattente jihadista Isis britannico noto come Jihadi John. Tarek Dergoul era andato in Portogallo con Mohammed Emwazy per incontrare un sospetto terrorista siriano nell’estate del 2011, un anno prima di andare in Siria a giustiziare ostaggi. Secondo il Daily Mail, Dergoul, di origini marocchine ma nato nell’East London, ha confermato che i servizi di sicurezza britannici sapevano del suo rapporto con Emwazy. Il trentottenne Jihadista John è stato ucciso in un attacco aereo degli Stati Uniti lo scorso novembre a Raqqa, città occupata dall’Isis in Siria. Mohammed Emwazy è stato nel mirino dei servizi di sicurezza britanni per diversi anni, con un’intensificata sorveglianza dopo un safari di Emwazy in Tanzania nel 2009. In viaggio con altri due amici, Emwazy era stato fermato in Tanzania ed espulso dal Paese: era solo una copertura di un piano segreto per recarsi in Somalia e unirsi ad al-Shabaab. Emwazy, successivamente ha ripetutamente rivendicato di essere stato tormentato dai servizi di sicurezza accusando gli agenti dei servizi segreti di aver rovinato, per due volte, la possibilità di sposarsi quando era fidanzato. Nonostante la maggiore sorveglianza dei servizi di sicurezza e diversi tentativi falliti di tornare in Kuwait, il laureato alla University Westminster passò attraverso i controlli di frontiera quando accompagnò Drove da Londra a Lisbona. Questa settimana, quando gli è stato chiesto del suo rapporto con Emwazy e del viaggio in Portogallo, Dergoul ha detto al Sunday Times:"Non so di cosa stia parlando". Ha parlato con franchezza del suo passato affermando:"L’MI5 (i servizi segreti britannici, ndr) sa… Cosa c’è di così segreto su esso? Non ho niente da nascondere. Qualsiasi Paese che ho visitato ha il suo file". Nel corso del viaggio in Portogallo, Tarek Dergoul e Mohammed Emwazy, si incontrarono probabilmente con un uomo siriano di cui per motivi legali non può essere fatto il nome. L’uomo siriano era stato a Guantánamo dopo la cattura in Afghanistan. Dergoul, Emwazy e l’uomo incontrarono diversi membri dei servizi di sicurezza portoghesi, che li interrogarono sulla loro provenienza. Dergoul ed Emwazy li informarono che erano in Europa per un viaggio turistico, prima che i due uomini fossero rimandati nel Regno Unito e dopo che Emwazy aveva ricevuto una telefonata urgente da suo padre in merito a questioni familiari. Dergoul, a Guantanámo dopo l’arresto in Afghanistan ha sostenuto che aveva viaggiato in Pakistan per studiare l’arabo, cercando di acquistare terreni e sviluppare le proprietà per poi venderle e trarne profitto dopo la guerra. Ha negato le accuse degli Stati Uniti di aver frequentato un campo di addestramento jihadista in Afghanistan. Dopo essere stato detenuto a Guantánamo e aver raccontato come sia stato picchiato e abbia subito ripetuti abusi, Dergoul e altri quattro britannici sono stati rimpatriati nel Regno Unito. Dergoul e un altro detenuto, Jamal al-Harith, nel 2010 hanno ricevuto una somma di 20 milioni di sterline dai ministri. Conosciuto come Ronald Fiddler prima della conversione, al-Harit avrebbe viaggiato in Siria e si sarebbe unito all’Isis nel mese di aprile 2014 e sarebbe stato ucciso in una battaglia. Emwazy, è ritenuto un membro chiave di una gang del West London formata da giovani estremisti, che comprendeva Bilal al-Berjawi e Mohammed Sakr uccisi entrambi in un attacco dei droni mentre combattevano per al-Shabaab in Somalia. Circa un anno dopo il viaggio di Emwazy in Portogallo, l’informatico nato in Kuwaitn scomparve e si pensa abbia attraversato l’Europa per andare in Siria. Avrebbe camminato attraversando le catene montuose europee e secondo Dabiq, la rivista di propaganda di Isis, "sarebbe stato arrestato almeno due volte dalle autorità di varie Nazioni". Nel gennaio 2016, Isis ha confermato la morte del notorio propagandista scrivendo un lungo tributo dedicato a lui su Dabiq. Emwazy, noto come Abu Muharib al-Yemeni, membro del Bedoon, nell’articolo è stato elogiato quale "onorato fratello" che una volta ha dato via una concubina di un compagno combattente ferito. "La sua durezza verso i kuffar (non credenti) si manifestò con fatti che fecero infuriare tutte le nazioni, religioni e fazioni kuffar. Il mondo intero lo può testimoniare". L’articolo ha anche descritto come Emwazy fu interrogato in diverse occasioni dai servizi di sicurezza quando cercò di lasciare il Regno Unito. "Durante l’interrogatorio, Abu Muharib fingeva di essere poco intelligente, era il metodo che usava quando si trattava d’Intelligence. Il Profeta ha detto: La guerra è inganno", sosteneva Emwazy.