I detenuti scrivono al ministro Orlando dopo l’apertura del penitenziario di Rovigo Il Mattino di Padova, 7 marzo 2016 Scrivere direttamente da un carcere al ministro della Giustizia, da parte di persone che stanno scontando una pena, può sembrare un atto irriverente o arrogante, in realtà è un modo per riflettere su come dovrebbero essere le istituzioni: vicine a tutti i cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato e stanno duramente pagando. Noi questo bisogno di "vicinanza" lo vogliamo esprimere al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che lunedì scorso ha fatto tappa in Veneto dove ha inaugurato il nuovo carcere a Rovigo ma, per fortuna, ha anche affermato che non è il carcere che ci rende più sicuri, quanto piuttosto le pene scontate in modo civile, e possibilmente dentro la comunità, e non fuori, da esclusi. E non è un caso che oggi le pene e le misure alternative al carcere si chiamano "misure di Comunità": il nome deve ricordare ai cittadini che accogliere e accompagnare chi ha sbagliato è molto più efficace per la nostra sicurezza che escluderlo e cacciarlo per anni in galera. Il recupero passa per il confronto Mi chiamo Lorenzo Sciacca e sono un detenuto ristretto nella Casa di reclusione di Padova. Per quello che può significare, voglio dirle che ho apprezzato le parole che ha espresso davanti all’assemblea della Camera in occasione delle comunicazioni sull’anno giudiziario. Lei ha rivendicato di aver creato un clima nuovo grazie a una costante ricerca del confronto e di avere stimolato un senso diverso e più vivo della responsabilità. Leggendo queste sue affermazioni la prima cosa che mi è venuta da pensare è stata la maniera in cui oggi sto affrontandola mia pena in questo istituto. Faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti da tre anni e da tre anni per la prima volta affronto la mia lunga pena con un senso di responsabilità e soprattutto con la voglia di confronto. Questa maniera diversa di affrontare la carcerazione è dovuta al progetto della redazione "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere", un progetto che vede entrare migliaia di studenti ogni anno per confrontarsi con noi detenuti, per conoscere chi c’è dietro a questi imperiosi muri e per comprendere che il carcere dovrebbe essere parte integrante della società e non qualcosa di nascosto e "impresentabile". Durante questi incontri, condotti dalla nostra direttrice, noi partiamo raccontando tre nostre storie, una storia di un reato in famiglia, una storia di tossicodipendenza e un’altra, come la mia, che parla di una scelta di vita fatta in età adolescenziale. Partiamo da tre testimonianze per poi lasciare spazio alle domande che ovviamente sorgono negli studenti ad ascoltare le nostre storie, e qui nasce il confronto. Le loro domande molto spesso sono scomode per noi, ma assumendoci le nostre responsabilità per un gesto commesso, o nel mio caso per una scelta di vita, cerchiamo di rispondere nella maniera più onesta possibile. Come vede sto parlando di "confronto" e di "responsabilità", temi che molto spesso il detenuto non è stato abituato ad affrontare, sicuramente per un senso di presunzione, ma anche perché il carcere com’è oggi non consente delle opportunità per rivedersi in maniera critica. Nel nostro Paese, il carcere è un sistema che produce una recidiva impressionante per un Paese che si ritiene civile. Questo è un progetto che farebbe bene a tutti per abbattere dei pregiudizi che molto spesso vengono alimentati da una informazione alquanto distorta, un’informazione che cavalca i dolori e il desiderio iniziale di vendetta, comprensibile, di una vittima, ma non va quasi mai oltre per cercare di comprendere, non di giustificare, ma provare a comprendere che tutti possono commettere degli errori e che a tutti può capitare di finire in questi posti abbandonati. Sono convinto che nessuna parola possa realmente far capire l’importanza di questo progetto, potrei stare ore a spiegarle l’influenza positiva che dà confrontarsi con gli studenti che sono il futuro della società, è per questo che la invito a partecipare a uno di questi incontri, sono convinto che rafforzerebbe la sua idea di rieducazione grazie al confronto e alla responsabilità. Spero che anche questa mia richiesta non cada nel silenzio più assoluto. Per noi averla ospite qui, nella Casa di reclusione di Padova, sarebbe un chiaro segnale per iniziare a dare una svolta alla cultura di una pena esclusivamente retributiva che da anni vige nel nostro Paese. Lorenzo Sciacca Meglio investire in strutture alternative "Un Paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle scuole e dalle carceri, quando le carceri siano più scuole e le scuole meno carceri. La pena deve essere un diritto, se sia condanna deve poter essere la condanna a capire e capirsi" (Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia all’Università Federico II di Napoli). In questi giorni sui giornali mi ha colpito la notizia dell’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo, vissuta un po’ come una festa. Io credo che ci sia poco da festeggiare per l’apertura di una nuova prigione, perché nel nostro Paese il carcere produce nella stragrande maggioranza criminalità. Non lo dico solo io che sono un avanzo di galera, ma lo dice lo stesso ministro della Giustizia: "Siamo un Paese che spende 3 miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena, più di tutti gli altri in Europa e siamo il Paese con il più alto tasso di recidiva di tutta l’Europa. (…) Un carcere che accoglie delinquenti e restituisce delinquenti non garantisce sicurezza" (fonte: Il Gazzettino, 1 marzo 2016). Sostanzialmente il ministro della Giustizia conferma l’alta recidiva che esiste nelle carceri italiane: infatti, il 70% dei detenuti che finiscono la loro pena rientrano presto in carcere e le carceri minorili rappresentano, di fatto, l’anticamera di quelle per gli adulti. Signor ministro, credo che lei abbia ragione perché il carcere così com’è ti fa disimparare a vivere, ti fa odiare la vita e ti fa sentire innocente anche se non lo sei. E credo che se cambi il tuo modo di vedere soffri di più. Forse per questo molti detenuti preferiscono non cambiare per difendersi dalla sofferenza della detenzione. Mi creda, in Italia la prigione è l’anti-vita perché nella stragrande maggioranza dei casi qui da noi il carcere ti vuole solo sottomettere e distruggere. Non penso certo che quelli che stanno in carcere siano migliori di quelli di fuori, forse però in molti casi non sono neppure peggiori, ma con il passare del tempo lo diventeranno se vengono trattati come rifiuti della società. Signor ministro, fra queste mura hai poche possibilità di scelta, perché spesso è "l’assassino dei sogni" (il carcere come lo chiamo io) che ci condiziona su come, quando e cosa pensare. Purtroppo, va a finire che spesso ti dimentichi chi sei e cosa sei e c’è il rischio di diventare cosa fra le cose. Signor ministro, mi permetto di citare un brano della tesi di laurea di una volontaria, Anna Maria Buono: "La mia esperienza di relazione di aiuto si svolge in questa struttura alternativa al carcere situata a Montecolombo, della comunità Papa Giovanni XXIII. È una casa colonica, in mezzo al verde abbastanza grande da ospitare una ventina di persone. Ha un grande cortile da cui si accede all’entrata principale, sulla quale spicca un grande cartello in cui è scritto "l’uomo non è il suo errore". (…) Qui non vi sono cancelli, sbarre, tutte le porte e finestre sono aperte, non vi sono guardie. Signor ministro, dalle notizie di stampa il nuovo carcere di Rovigo è costato 30 milioni, ma non sarebbe stato meglio investire quel denaro in strutture alternative al carcere come questa appena citata? Non dico per me che sono un delinquente incallito e pericoloso, ma almeno per i detenuti problematici e tossicodipendenti. Colgo l’occasione per invitarla a venirci a trovare nella redazione di Ristretti Orizzonti nella Casa di reclusione di Padova, perché di carcere ce ne intendiamo e le potremmo dare qualche idea per portare la legalità costituzionale nelle nostre "Patrie Galere". Un sorriso fra le sbarre. Carmelo Musumeci "Ammazzato per vedere che effetto faceva" di Ilario Filippone Il Messaggero, 7 marzo 2016 "Eravamo gonfi di alcol e droga, in preda alle allucinazioni, quando io e Marco abbiamo seviziato e ucciso Luca nel pieno di un festino consumato a casa mia. Volevamo vedere l’effetto che fa". Caserma dei carabinieri, due sere fa. Lo studente universitario Manuel Foffo, 30 anni, figlio di un assicuratore molto noto in zona, confessa di avere ucciso l’amico Luca Varani, 23 anni, indicando agli investigatori le generalità del suo complice, Marco Prato, anch’egli di 29 anni, e il luogo in cui si è consumato lo scempio, un appartamento al decimo piano di un palazzo in via Igino Giordani, al Collatino. "Dopo avere assunto quasi dieci grammi di coca - ha svelato - io e Marco abbiamo siglato un patto, decidendo di uccidere qualcuno. Abbiamo chiesto a Luca di raggiungerci a casa mia. Non so perché lo abbiamo fatto, eravamo in preda al delirio". Straziato dai rimorsi, Marco Prato si era rifugiato in un albergo in piazza Bologna, per suicidarsi. I militari dell’Arma hanno fatto irruzione nella sua camera, strappandolo alla morte: il trentenne aveva già ingerito un tubetto di barbiturici. In ospedale - Ora, è piantonato all’ospedale Sandro Pertini, ma non verserebbe in pericolo di vita: "È stato sottoposto a lavanda gastrica" hanno spiegato i sanitari. Le indagini sono state affidate ai carabinieri di piazza Dante, coordinati dal capitano Lorenzo Iacobone, e ai colleghi del Nucleo investigativo di via In Selci. Il delitto è stato consumato la notte tra giovedì e venerdì, ma il cadavere è stato rinvenuto nella tarda serata di sabato. Quando gli inquirenti sono entrati nella casa, si sono trovati di fronte a una scena raccapricciante: il corpo senza vita di Luca era riverso in una pozza di sangue, aveva il volto sfondato. I due fermati sarebbero incensurati, Manuel Foffo frequenta la facoltà di Giurisprudenza ed è il proprietario dell’appartamento in cui si è consumata la tragedia. La notte tra giovedì e venerdì, stando a una prima ricostruzione, i due erano da soli in casa. Strafatti di coca, hanno siglato il patto perverso, decidendo di uccidere un loro amico. Luca Varani è stato assassinato come un cane, il suo cadavere è stato rinvenuto in una camera da letto trasformata in luogo di sevizie e torture. "Presentava segni di torture in diverse parti del corpo, una scena agghiacciante" hanno ribadito i militari dell’Arma. Gli investigatori, al momento, ci vanno con i piedi di piombo. Forse, all’origine ci sarebbe un litigio degenerato in tragedia. Per avere un quadro più chiaro, sono stati ascoltati anche i vicini di casa della vittima. Il 23 enne Luca Varani era fidanzato. La foto con la sua ragazza campeggia ancora sulla sua bacheca Facebook. In un’altra foto, Luca ha sul braccio inciso il nome di lei. Le vite allucinate di ragazzi normali di Paolo Graldi Il Messaggero, 7 marzo 2016 Bisogna scandagliare nel pozzo nero della banalità del male che racchiude in sé la follia omicida, per ciò stesso insensata e orribile. E invece è tutto vero quel che è accaduto in un appartamento al Collatino dove a Luca Varani hanno squarciato la vita trafiggendolo con due coltelli da cucina e finendolo a martellate. Due suoi amici, gli assassini. Un delitto che non sa neppure rintracciare un movente, che affida lo svolgimento di quella allucinante sequenza di morte agli effetti di alcol e cocaina: un trangugiare allucinazioni per due giorni, l’infinito dispiegarsi di un festino di fine settimana fra tre amici finito nel sangue. "Non so perché lo abbiamo fatto", ha racchiuso nella formula infantile e delirante uno dei colpevoli. Quasi a voler dire: non è colpa nostra. Uno dei due, Manuel Foffo, 29 anni, studente fuoricorso di Giurisprudenza, era l’ospite. Figlio di ristoratori, gente che lavora sodo, che tira avanti senza sfarzi. No Manuel è diverso. Nei prossimi giorni il suo ritratto sarà più nitido e forse allora si capirà meglio che cos’è accaduto in quelle tragiche ore, sfociate nel delirio omicida al quale ha partecipato anche l’altro personaggio, Marco Prato, trent’anni sciupati da studi stentati e mediocri. Non è improbabile che la vittima, conosciuta da poco, più giovane, forse anche meno coinvolto nella scelta di annientarsi con alcol e cocaina, a un certo punto si sia ribellato, abbia tentato di chiudere all’improvviso quella esperienza che stava degenerando, perdendosi in una allucinazione infinita. Luca Varani, trovato nudo su un letto, il corpo inondato di sangue, forse voleva scappare da quella trappola, tutti e tre chiusi nell’appartamento di via Igino Giordani, al decimo piano. Questi uomini, perché a trent’anni si è uomini belli e fatti, dovranno ritrovare la memoria, uno straccio di dignità e riportare l’accaduto a qualcosa di credibile, ancorché di orribile. Marco Prato dev’essersi reso conto della enormità del fatto, del peso insopportabile per quel gesto spiegabile soltanto con la perdita di ogni facoltà inibitoria: si è rinchiuso in una stanza d’albergo, nei pressi di piazza Bologna, non lontano da casa sua, e ha cercato di morire ingoiando barbiturici. Lo hanno salvato con una lavanda gastrica al "Pertini", fuori pericolo ma non fuori dalle responsabilità che le indagini gli attribuiranno. Gli esperti mettono in guardia dalla diffusione sempre più marcata di comportamenti violenti, che rispondono soltanto agli schemi della allarmante perdita di riferimenti normali. Il festino del venerdì sera, con davanti tutto il weekend per smaltirne gli effetti, è ormai una modalità consolidata negli ambienti più diversi, senza distinzione di ceto. Punte di violenza sanguinaria ci stanno segnalando l’estremo esito di fenomeni che penetrano profondamente anche nella nostra società. L’uccisione a coltellate e a martellate di un amico ci rivela che la allucinazione omicida trova solo nella sua totale insensatezza la ragione del suo dispiegarsi. "Non so perché l’ho fatto" è un’ammissione di colpa che mette i brividi: la ragione è finita nel pozzo dell’orrore senza senso. La società no-limits che genera mostri di Alessandro Perissinotto Il Mattino, 7 marzo 2016 Dieci anni fa, una mia studentessa, all’Università di Torino, presentò una tesi dal titolo "Vivere con il buco: storie di vita di tossicodipendenti" ed io la trovai così affascinante che da quelle storie presi ispirazione per scrivere un romanzo che ha come protagonista un’educatrice: "L’ultima notte bianca". Mi permetto di citarne un passaggio, perché mi pare possa riportare la vicenda dell’omicidio di Luca Varani nel quadro di una più generale riflessione sulla droga. Quante ne avevo sentite di storie partorite dalla fantasia disperata dei tossici! Devo fare una telefonata, sono rimasto a secco con la macchina, devo tornare in treno da mia madre che sta male, sono in ritardo a un colloquio di lavoro e devo prendere il taxi, mi hanno rubato il bagaglio e devo comprarmi qualcosa. E per ogni scusa un’identità diversa: sono un avvocato, un turista, un vigile del fuoco, un ricercatore in città per un convegno. I tossici si fingevano persone normali per spillarti due soldi. Per molti anni, l’immaginario collettivo ha sovrapposto la figura del tossicodipendente a quella dell’eroinomane: il tossico era quello che ti chiedeva cento lire per strada, inventandosi mille scuse, era quello senza denti, che camminava ciondolando, quello che si faceva negli angoli bui, quello che rubava i cucchiaini nei bar per scioglierci la roba con l’accendino, quello che poteva minacciarti con una siringa per comprarsi la dose. Per farla breve, l’eroinomane era l’icona stessa dell’inaccettabilità sociale della droga; la devastazione fisica e morale della dipendenza da sostanze gliela leggevi in volto, la coglievi nelle guance scavate, nella magrezza scheletrica delle braccia. Al confronto di quell’immagine così potente e così ributtante al tempo ogni altra rappresentazione del tossicodipendente ci pareva potesse essere "socialmente accettabile". Ed è forse per quello che sulle meta-anfetamine, sulle smart drugs e su tutte le altre sostanze psicotrope non è mai caduto lo stigma, la condanna collettiva che invece, giustamente, ha colpito l’eroina. Ma la sostanza che più di tutte ha tratto beneficio dal confronto con l’eroina è di sicuro la cocaina. Se l’ero era la droga dei disperati, dei "rifiuti umani", la coca era lo sballo della classe dominante, della razza padrona: negli anni Ottanta, bastava vedere il prezzo di una dose per capire che la cocaina era roba da privilegiati, anzi, era il simbolo stesso del privilegio, come il Rolex d’oro, l’auto di grossa cilindrata e la casa a Cortina. Gli eroinomani erano come i Lotofagi che Ulisse incontra nel suo viaggio: uomini dimentichi di tutto, spettri dell’oblio. I cocainomani no: i cocainomani aspiravano la polvere col naso e poi erano pronti a ballare tutta la notte o a guidare un consiglio d’amministrazione. Gli eroinomani diluivano la polvere nell’acqua sporca delle pozzanghere, i cocainomani tracciavano le piste con la carta di credito Platinum. È questa maledetta associazione tra cocaina, successo ed efficienza che ci portiamo dietro ancora oggi, è questa stupida idea che la coca non faccia male che la rende oggi mille volte più pericolosa di ieri. Sì, perché oggi i prezzi sono crollati; oggi la coca è ancora la droga dei ricchi, ma tutti se la possono permette; come dire che i tropici sono ancora i tropici, ma ci puoi andare con un volo low cost. Oggi sappiamo che il fumo uccide, che il colesterolo uccide, che la velocità uccide, ma abbiamo colpevolmente abbassato la guardia su tutte le droghe che, in apparenza, non ti riducono come uno zombie. Non ci sono smart drugs, non ci sono droghe intelligenti, non ci sono droghe che ti fanno stare meglio (a parte quelli somministrate per la terapia del dolore dei malati terminali): lo stato di alterazione psichica non si può associare al benessere e l’omicidio avvenuto a Roma nella notte tra venerdì e sabato lo dimostra nel modo più crudele. Le confessioni di Manuel Foffo e di Marco Prato sembrano confermare l’assenza di qualsiasi movente per l’omicidio del loro amico: quello che emerge è un delitto maturato (ma sarebbe meglio dire "esploso") all’interno di un quadro di totale allucinazione, di perdita di ogni contatto con la realtà. Ma non è forse l’abbandono della realtà quello che si chiede alla cocaina? Mascheriamola pure da ricerca della performance, da stimolo per una iper-lucidità mentale, da integratore per reggere allo sforzo, ma la verità è sempre quella: si tira di coca per non accettare i limiti della realtà, per non accettare che non si può rimanere svegli 36 ore di fila, che non si può ballare una notte intera e poi sentirsi freschi come appena svegliati, che i supereroi stanno solo nei fumetti. Negli anni Settanta si ripeteva "È colpa della società"; era diventato un tormentone e tutti avevano preso a scherzarci sopra: un quattro di matematica? è colpa della società, un’ammaccatura sul parafango? è colpa della società, le corna alla fidanzata? è colpa della società. E così, chi, alla luce dei fatti di Roma, dicesse oggi che tre vite si sono spezzate per colpa della società si farebbe deridere, ma, in fondo, non andrebbe lontano dal segno. La società del No-limits, dell’incoscienza spacciata per coraggio, ha sdoganato ogni tipo di "sballo" e quei tre ragazzi che venerdì sera si sono annullati nella droga e nell’alcool fino a perdere la ragione e a togliere la vita, di quella società sono un piccolo campione. Ma forse sbagliamo a leggere questa vicenda come un dramma della contemporaneità: 32 anni fa, la fotomodella americana Terry Broome, dopo una notte di alcool e cocaina, uccise l’uomo con cui aveva trascorso le ultime ore. Storia diversa, certo, ma non così tanto, figlia di una comune voglia di esagerare, di superare il limite, di uscire da quella realtà che, con sprezzo, si crede destinata al "gregge"; peccato che dalla cronaca non si riesca mai a imparare nulla! Non so dove si possa scrivere, a caratteri cubitali e con immagini scioccanti, "Lo sballo uccide", ma sarebbe ora di farlo L’anticorruzione e la mala pianta della "furbizia" di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2016 Chi ha paura dell’anticorruzione? I corrotti, ovvio. I quali, mai rinunciando a predicare bene, tramano per vanificare ogni iniziativa che insidi la possibilità di lucrare nella penombra e nell’intrico normativo. Sordi a ogni moral suasion (in quanto privi di moral) i corrotti si piegano solo con le maniere forti: indagini, manette, condanne. Purtroppo, però, questa nutrita banda può contare su un ampio bacino di fiancheggiatori, emuli e ammiratori che li favoriscono tacendo, votandoli e adattandosi a pagare il conto di pessimi servizi a costi maggiorati. Ecco perché continuano a incontrare ostacoli le persone, gli enti, le imprese pubbliche e private, intenzionati a esplorare sentieri nuovi e sostenibili nell’italica palude dell’etica smarrita. Ostacoli diversi, che rallentano l’adozione degli strumenti di prevenzione e contrasto necessari e ormai urgenti per arginare il malcostume. È di soli pochi giorni fa l’allarme dell’Anac per la scarsità di risorse utilizzabili, nonostante gli impegni sempre più numerosi che le vengono assegnati e per i quali si pretendono rapidità e precisione d’intervento. Un film visto e rivisto. La stessa Autorità affidata a Raffaele Cantone è nata con grande ritardo, dopo un balletto durato anni, che ha prodotto finte strutture e inutili relazioni. Idem per la legge 190/2012, la prima vera normativa anticorruzione, varata dal governo Monti in un momento di quasi tracollo del Paese: i primi a criticarla e a tentare di schivarla sono le stesse forze politiche che mai ne hanno prodotta una e nelle cui file accolgono corrotti e corruttori "messi in salvo" dalla "furia" della "magistratura politicizzata" (le virgolette non indicano sintesi forzose, ma testuali parole dei leader di partito). Si potrebbero proporre riflessioni analoghe per la mancata legge sulle lobby, altra casella lasciata ostinatamente vuota, con la bizzarra motivazione che "l’Italia non è l’Unione sovietica, dove lo Stato controlla tutto", fingendo di non capire che un’anticorruzione solida - in vigore da oltre 20 anni in primari Paesi membri della Ue - non può che fondarsi su un grado di trasparenza, compresi un elenco pubblico di lobbysti e registri in cui è tracciato ogni incontro tra i legittimi portatori di interessi privati e i politici. Non è difficile e nemmeno tanto sovietico. Contrari a far sul serio si mostrano a volte gli stessi sindacati, anteponendo interessi di bottega alla caccia ai corrotti nella nostra Pa - che dovrebbe essere da tempo senza quartiere - intralciando nei fatti la revisione delle piante organiche, i sistemi di controllo delle presenze e della produttività, fino a obiettare sulle rotazioni degli incarichi e sull’introduzione delle innovazioni che, pure, faciliterebbero la vita di tutti. Ostacoli inaccettabili, incrostazioni corporative che producono sia i timbratori in mutande sia i tecnici infedeli, così difficili da licenziare. Altrettanto sconsolanti le diffidenze verso strumenti già rodati (altrove), come il whistleblowing o l’utilizzo di agenti sotto copertura. È vero: esistono difficoltà oggettive a "innestare" regole importate dalla common law nel nostro ordinamento che, ad esempio, non garantisce l’anonimato al dipendente che denunci un illecito; altrettanto difficile è autorizzare un poliziotto a offrire mazzette per testare il grado di onestà del politico o dell’impiegato. Difficoltà cui può provvedere solo il Parlamento, ma all’alto rischio di leggi arruffate e perciò inapplicabili, si aggiunge un insidioso fiorire di dotte riflessioni su presunti rischi del whistle blowing per la serenità dei rapporti tra colleghi, su quanto sia disdicevole incentivare le "delazioni" dando così fiato a interessate calunnie, sugli abusi cui le forze dell’ordine si abbandonerebbero se autorizzate a non dichiararsi. Sarebbe facile ironizzare sulla qualità di simili suggestioni, se queste non fossero così utili a quanti aborrono l’anticorruzione e tanto radicate nella cultura profonda del Paese di furbi. E se fosse un po’ meno diffusa questa epidemia da cui l’Italia non sa o non vuole guarire. Tribunale delle imprese a rischio arretrato di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2016 L’aumento delle pendenze e della durata dei procedimenti potrebbe minare l’attività dei tribunali delle imprese, uno strumento che ha poco più di tre anni di vita. È stato il Dl 1/2012 a prevedere l’istituzione di sezioni dedicate alle controversie in materia d’impresa (subito chiamate "tribunali") che hanno cominciato a operare a fine settembre 2012. Pendenze in aumento - Al 30 giugno 2015 le 22 sezioni distribuite a livello regionale(tranne in Lombardia e in Sicilia dove ce ne sono due, e in Valle d’Aosta dove non ce n’è nessuna) avevano però accumulato un "arretrato" di 7.598 fascicoli, con un incremento del 45% rispetto alla fine del 2013. Una tendenza, fra l’altro, non giustificata dall’aumento delle iscrizioni, che sono, invece, in lieve calo. Ed anche la durata, seppur sempre inferiore a quella del contenzioso commerciale, ha iniziato a crescere. Particolarmente positivi i tempi delle controversie che non si concludono con una sentenza (si tratta soprattutto procedimenti cautelari ma anche accordi bonari) e che rappresentano la stragrande maggioranza dei fascicoli. In questi casi, nel primo semestre 2015, la durata è stata infatti di 263 giorni, mentre per arrivare a una sentenza ce ne vogliono 836 (che sono comunque meno dei 902 necessari per le liti commerciali). Grazie a questi percorsi alternativi, nel 2012-2014 l’80% dei procedimenti si è concluso in meno di un anno. Ma la situazione sta peggiorando: nel 2015 questa percentuale è scesa al 70% e la durata dei percorsi "brevi" è sì di 263 giorni, ma nel 2014 era stata di 224 e nel 2013, di 163. Il nodo specializzazione - Perno della riforma partita nel 2012 è la specializzazione dei magistrati, che la legge ha inteso raggiungere concentrando le controversie in un numero ridotto di tribunali, con l’obiettivo di accorciare i tempi e accrescere qualità e uniformità delle pronunce. La posta in ballo è alta: un sistema giudiziario più efficiente ha ricadute positive sia sulla competitività delle imprese sia sulla capacità di attrazione di soggetti stranieri. L’attuazione della riforma non è stata però omogenea e la specializzazione resta un traguardo, ancora non completamente centrato. La prima ragione è che in moltissime sedi, il volume dei ricorsi non è sufficiente a che i giudici si occupino solo delle materie indicate dal Dl 1/2012. La relazione per il 2015 dell’Osservatorio sugli effetti sull’economia delle riforme, operante presso il ministero della Giustizia e guidato da Paola Severino ha sottolineato che le sezioni di Perugia, Trento, Genova, L’Aquila, Ancona, Catania, Palermo, Cagliari, Campobasso, Catanzaro, Potenza e Trieste, nel 2014, hanno avuto meno di 100 cause l’anno e questo non ha "permesso di realizzare in modo compiuto la specializzazione". Ma i magistrati non sono esclusivamente dedicati anche in Tribunali dove il numero di procedimenti è invece importante, come in quello di Roma. "Il fatto di non occuparci solo delle controversie in materia d’impresa è un grosso limite" dice Tommaso Marvasi presidente della IX sezione del Tribunale civile di Roma che, insieme con la III, si occupa delle liti indicate dal Dl 1/2012. "Nella mia sezione - continua Marvasi - su 9mila cause pendenti solo un migliaio ricadono in questo ambito". Anche a Venezia non è stata creata una sezione "esclusiva". "Sarebbe l’ideale ma non è stato possibile perché l’organico non è aumentato e non ci sono magistrati a sufficienza", spiega Manuela Farini, presidente della sezione imprese. A Milano e Napoli, invece, i Tribunali delle imprese, in linea con lo spirito della legge, non hanno altre competenze. "A Milano la specializzazione è stata raggiunta - commenta Marina Tavassi, coordinatore delle due sezioni in materia d’impresa - e questo sta portando risultati positivi, sia in termini di velocità che di qualità delle decisioni". Secondo l’Osservatorio Severino, a Milano, la tenuta delle pronunce rispetto al II grado è infatti del 70-80%. "Si diventa dei super esperti - continua Tavassi, e questo è importante poiché si tratta di questioni complesse che richiedono un’approfondita conoscenza della giurisprudenza europea". Il giudizio delle imprese - Nonostante le differenze territoriali, i risultati ottenuti sono giudicati positivamente dal mondo imprenditoriale: da un’indagine a campione promossa da Abi-Confindustria è emerso infatti che la specializzazione dei magistrati è un elemento fortemente apprezzato e che va ulteriormente rafforzato. "La qualità delle pronunce è molto alta e questo si riflette sulla loro tenuta - commentano in Confindustria -. I giudici hanno inoltre sviluppato una forte sensibilità al fattore tempo. E l’ampio ricorso ai percorsi alternativi rispetto a quello ordinario è un sintomo molto positivo". Meno di un quinto dei 2.594 procedimenti definiti nel primo semestre 2015 hanno seguito il percorso ordinario e si sono conclusi con una sentenza. "I procedimenti cautelari sono numerosi e la loro trattazione è molto veloce - dice Luigi Costanzo, presidente della IX sezione del Tribunale di Genova - Si tratta di questioni che spesso richiedono interventi urgenti. A Genova i magistrati non si occupano solo della materia di impresa ma un certo grado di specializzazione lo si è raggiunto lo stesso". "A Palermo non ci sono i numeri per una competenza esclusiva - dichiara Giuseppe De Gregorio, magistrato della V sezione - ma la specializzazione è stata acquisita: sui tempi si cerca invece di fare in modo che la corsia preferenziale prevista dalla legge non abbia ricadute eccessivamente negative sugli altri procedimenti". Sui benefici della specializzazione l’accordo è unanime e per rafforzarla potrebbe essere utile la riduzione del numero di Tribunali. "Ci sono Regioni in cui le cause sono pochissime - commenta il presidente della IX sezione del Tribunale civile di Roma -, un accorpamento sarebbe quindi opportuno". Molte più perplessità solleva invece l’ipotesi di allargamento delle competenze. "Più si estende il campo, più si riduce la specializzazione - dice Arduino Buttafoco, presidente della sezione imprese del Tribunale di Napoli -. Il peso specifico di queste controversie è elevato, spesso vanno valutate le posizioni di decine di parti: il numero contenuto di procedimenti non è indicativo perché una di queste cause corrisponde a 50 in altre materie". Delitti e giustizia, non è Italia felix di Francesco Provinciali (Giudice onorario del Tribunale dei minorenni di Milano) Il Secolo XIX, 7 marzo 2016 Non è malata di sindrome da risarcimento quella parte di società che reclama ogni giorno, in modo accorato, verità e giustizia. Ma se questo avviene con intensità crescente vuol dire che stiamo varcando l’anticamera della disperazione, perché verità e giustizia sono ormai tangibilmente espunte dal nostro orizzonte esistenziale, quasi come se le cercassimo, senza trovarne traccia, in ogni meandro della nostra vita sociale. È pur vero che i fatti di cronaca nera sono sempre esistiti, che adesso se ne parla di più perché TV e giornali amplificano crimini e delitti. Resta il fatto che - senza essere profeti di sventure - cogliamo intorno a noi una crescente percezione di insicurezza. Non so a quale Paese si pensi quando si parla di "Italia felix": a volte la descrizione delle cose discende più da un’ottimistica immaginazione che da una aderente osservazione della realtà. Molto è cambiato in questi ultimi due decenni, per certi aspetti si resta sgomenti riscontrando il ribaltamento di consuetudini, regole e stili di vita che costituivano una sostenibile quotidianità. Ascoltare, vedere, approfondire fatti di cronaca dove la violenza prevale sulla normalità fino a declassare il concetto stesso di bene e la doverosa cura della vita suscita timori e apprensioni che appaiono una deriva quasi inarrestabile. Il mondo intorno a noi - tra terrorismo, soprusi, aggressioni, furti, malefatte, violenze fisiche e morali, imbrogli, persecuzioni - celebra l’ostentazione del male e la sua inarrestabile corsa nel superare se stesso in efferatezza e criminalità. Si naviga a vista - senza rassicuranti protezioni. Da quando viviamo rassegnati nella globalizzazione della società liquida si confondono il bene e il male, il relativismo dei valori porta a giustificare tutto, a trovare attenuanti, a perdere di vista la verità lungo i tortuosi e incerti sentieri della giustizia umana, sovente offuscata dal paradosso dei dettagli piuttosto che dall’accecante verità. L’evidenza di certi fatti è messa a dura prova: la depenalizzazione dei reati cd. "minori" alza di fatto il livello di illegalità diffuso come consuetudine socialmente metabolizzata e subita, i delitti, i gesti di violenza, gli atti illeciti restano spesso impuniti tra processo breve, riduzione della pena, attenuanti generiche, facoltà di non rispondere, consulenze periziali che spiegano la gravità dei reati con l’asserito offuscamento della coscienza e della volontà. Ogni giorno siamo sommersi e annichiliti da notizie feroci, l’una leva l’altra. "Chiediamolo a loro"....: chiediamo ai familiari delle vittime come si sopravvive senza la consolazione della verità e della giustizia. C’è una sola risposta, attesa da tutti: la chiarezza del diritto e la certezza della pena. Dato che la sicurezza individuale e sociale non ha colore politico questa risposta va data al più presto. Quel narcisismo frustrato che arma i killer di provincia di Marco Neirotti La Stampa, 7 marzo 2016 Da Doretta Graneris a Defilippi: un copione che si ripete. Gabriele Defilippi, l’assassino di Gloria Rosboch, aveva tappezzato i social network con decine di camuffamenti e false identità. Il ragazzo senza identità ne cercava con trucco, seduzione, social network, scontati nomi come Alexander o Kennedy. Per disancorarsi dalla vita di provincia, Gabriele Defilippi, facendosi assassino, si è ancor più impantanato nella banalità della sua prigione. La stessa palude che, sognando Cannes e amore, voleva lasciare la sua vittima, Gloria Rosboch, in un tenero anelito uscito dai romanzi rosa, già intrisi di "nero", del primo Scerbanenco. La medesima percezione di soffocamento - spesso sposa della voracità di denaro - è humus e scintilla di delitti e stragi, con la colonna sonora d’una canzone di Enrico Ruggeri del 1988: "Partono da qui /tutte le macchine che stanno andando via / incontro alla città / Parlano così, / hanno la voce di chi cerca compagnia / e non la troverà./ In una notte di provincia". Nel film cucito dagli archivi della cronaca scorrono esistenze impennate o sbranate da conflitti e fuga, frustrazione e narcisismo, assenza d’identità e mito del lusso. Quasi la provincia fosse l’orto dove cresce l’inadeguatezza alle chances di vita altra, patinata ed esibita, assorbita, confusa e dispersa tra grigio e luci, rincorsa e frastuono della metropoli. La provincia più della grande area urbana è teatro di delitti di prossimità (genitori, figli, amanti, coinquilini). Dalla pesca a strascico nelle raccolte di giornali affiorano Alberto Stasi e Chiara Poggi a Garlasco, l’incompiuto mistero di Meredith Kercher a Perugia (condannato l’ivoriano Rudy Guede, assolti e divenuti scrittori Amanda Knox e Raffaele Sollecito), Olindo e Rosa ergastolani per la strage di Erba, l’orrore della fine di Yara a Brembate, e poi la cadenza di campane funebri dei bambini uccisi dalle madri, con il caso di Cogne che spaccò l’Italia e diede audience ai talk show del macabro, con rintocchi ripetuti fino all’oggi di Veronica Panarello e Loris Stival. Sangue e denaro - Il legame fra sangue e connubio di denaro, frustrazione, libertà, futuro idealizzato matura quasi sempre in quel campo che una volta significava quiete. Pochi ricordano una delle poche eccezioni: via Caravaggio a Napoli, dove nel ‘75 furono sgozzati padre, figlia, seconda moglie, cagnolino. Fu condannato in primo grado un nipote, assolto in Appello e in Cassazione, tornato sotto la lente nel 2011 per il Dna, ma non processabile per lo stesso reato: ne bis in idem, non due volte per la stessa cosa. Alla fine dello stesso 1975 una tragedia analoga a Vercelli si incuneò nella memoria italiana: la notte fra 13 e 14 novembre, Doretta Graneris, diciottenne, e il fidanzato, Guido Badini, ventunenne, uccidono a colpi di pistola padre, madre, nonni materni e fratellino di lei. I due vivevano insieme, in condizioni economiche difficili, senza lavoro. Guido orfano di padre, malata terminale la madre cui era morbosamente legato; Doretta insicura, scontenta di sé, in conflitto con la famiglia che pur si adeguò a quel legame che non approvava. Nella sua atrocità, il percorso di Doretta (fino al reinserimento nel lavoro) è stato il più prezioso non soltanto per lei ma per una società attonita. Diverse la storia di Ferdinando Carretta, che il 4 agosto 1989, a Parma, ammazza genitori e fratello, sistema i cadaveri nel bagno e poi in discarica, pulisce le tracce, intasca assegni, porta il camper a Milano. Lo trovano per caso a Londra nove anni dopo: per una multa (divieto di sosta) dalla banca dati emerge la famiglia sterminata. Pochi giorni dopo dirà al giornalista Giuseppe Rinaldi, di "Chi l’ha visto?": "Ho sparato io". Incapace di intendere e volere finisce all’Opg di Castiglione delle Stiviere, esce nel 2006 e si dedica al recupero di parte dell’eredità. Il caso più clamoroso di provincia stretta, narcisismo, freddezza, bisogno patologico di soldi per esistere è quello di Pietro Maso. Terzo figlio, dopo due sorelle, di un agricoltore benestante, Maso lascia l’Istituto agrario e si dedica alla bella vita, sorretto da una famiglia amorosa e generosa: profumi, abiti firmati, auto, locali notturni. Quando il denaro diviene l’unico suo ossigeno organizza con tre amici l’assassinio: nella casa di Montecchia di Corsara (Verona) il 17 aprile 1991 uccide i genitori. All’amico e complice Giorgio Camborgin che chiede "che faremo quando l’eredità sarà finita", risponde "passiamo ai tuoi". Di Maso si è continuato a parlare per il ritorno in libertà, l’annuncio di voler aprire una comunità e, ora, per una denuncia: tentata estorsione. Suscita meno clamore un delitto analogo ma più "povero" a Cantalupa, paesino del Pinerolese, dove Paolo Galliano, 32 anni, nel 1997 uccide a coltellate per 3 milioni di lire padre e madre e pugnala il cane lupo. Esce, fa una rapina da 4 milioni e scappa a Milano, dove lo trovano i carabinieri. Due volte sconvolgente è invece, il 21 febbraio 2001, il delitto di Novi Ligure: madre e fratellino di 11 anni assassinati in una furibonda notte di tentativi dalla figlia Erika Di Nardo, sedicenne, e dal fidanzato Omar, diciassettenne. Sgomenta per l’assenza di odi espressi e appetiti economici. Nel nitore della famiglia, il gesto è una spallata per afferrare più libertà. Il rivolo di sangue che accomuna queste storie è l’affrancamento ora dal nucleo stretto della famiglia ora da quello più ampio dell’ambiente, come se la rapida comunicazione - telematica o fisica - anziché tagliare distanze soffiasse rancore. Per nuove vite come quelle di Doretta, Erika, Omar resta la pena accessoria d’essere evocati ad ogni nuovo fatto. Per tutti quelli che hanno creduto, cancellando persone, di cancellare la propria realtà, la palude è cresciuta: il magazziniere Pasqualino Folletto, assassino ad Asti, che sfuggiva a se stesso con l’ossessivo calar gettoni nelle slot machines, il mutante Defilippi, il Pietro Maso che accendeva la sigaretta con una banconota sono rimasti atroci, patetiche e sconfitte maschere di provincia. Sardegna: "Libertà di lettura", si raccolgono libri per le carceri sarde di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 7 marzo 2016 L’idea è del Rotary, adesioni da club di tutta l’isola. Si creeranno biblioteche in tutti gli istituti penitenziari. Il Rotary di Tempio, in questo caso club capofila, ha promosso in Sardegna,( trovando immediata adesione degli altri Circoli sardi), un progetto definito, " Libertà di Lettura" che si propone di raccogliere libri in favore degli Istituti carcerari della Sardegna. A darne notizia con un comunicato (che annuncia anche per domenica 13 marzo la raccolta), è Piera Sotgiu, funzionaria comunale e presidente del Rotary club di Tempio. "Il senso del progetto "Libertà nella lettura", pensato e proposto dal nostro Club come contributo anche al più ampio progetto della Giustizia riparativa, si propone di rendere più lieve ed educativo il percorso di coloro che stanno scontando i debiti con la giustizia dietro le sbarre di un carcere sardo, con un libro. Progetto forse ardito ma nel quale crediamo fermamente. Per questo, in collaborazione con i club sardi, abbiamo proposto per domenica 13 marzo di chiamare a raccolta in molte piazze della Sardegna cittadini di ogni età che vorranno donare i propri libri usati agli istituti carcerari dell’isola, in supporto di persone che stanno affrontando, privati della libertà, un percorso di crescita personale". A Tempio, i libri potranno essere consegnati domenica 13 marzo dalle 10 alle 13 ai rappresentanti del Rotary Tempio, presso la sede di piazza Gallura della Pro Loco. Insieme al Rotary club di Tempio, parteciperanno al progetto, anche i circoli di Alghero, Bosa, Cagliari Est, La Maddalena, Macomer, Nuoro, Ogliastra, Olbia, Oristano, Ozieri, Quartu S.Elena, Sanluri Medio Campidano, Sassari, Sassari Nord, Sassari Silki e Siniscola. "Oltre alla raccolta dei libri -, annuncia la presidente Sotgiu, i club di servizio si occuperanno successivamente anche della catalogazione e del riordino dei testi raccolti, con il concerto degli enti locali e le biblioteche già coinvolte nel progetto. "Libertà nella lettura", fa parte di un più ampio progetto condiviso dai Rotary club, dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e dalle Direzioni carcerarie della Sardegna. Il progetto globale, che ha come obiettivo la valorizzazione e la creazione di biblioteche e sale lettura all’interno delle carceri isolane, è stato finanziato dal Distretto Rotary 2080 e dai singoli club sardi aderenti all’iniziativa. Grazie a questo impegno economico - continua la Sotgiu, sono stati già acquistati scaffali e attrezzature per completare l’allestimento delle sale biblioteca e lettura delle case di reclusione di Nuchis, Alghero, Oristano, Lanusei, Nuoro, Sassari e Uta". Con la raccolta di libri promossa in tantissime piazze sarde il prossimo 13 marzo, il Rotary club Tempio e tutti i club sardi aderenti, ritengono che, se ci sarà generosità da parte della gente, potrà andare a completarsi l’iniziativa ma soprattutto che si raggiunga un importante obiettivo che in un’ottica di giustizia riparativa, avvicini i detenuti a un importante servizio culturale. Sondrio: Radicali; dopo la visita ispettiva i dati e la situazione del carcere Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2016 A seguito della visita ispettiva alla Casa Circondariale di Sondrio del 30 dicembre scorso, da parte di una delegazione di Radicali Sondrio congiuntamente a due parlamentari, ci sono stati forniti, dopo qualche insistenza, i dati richiesti con apposito questionario. È stata dichiarata una capienza regolamentare di 65 posti, sebbene dai siti ufficiali del Ministero della Giustizia questa cifra risulti essere di 31 al 15.07.15 e di 29 al 31.12.15, mentre nel 2010 ci era stato risposto che erano 27. Eppure l’edificio risale a più di un secolo fa (per intenderci ai tempi di Lombroso) e l’impianto quello è rimasto, salvo modifiche non strutturali. Erano presenti 36 detenuti comuni, tutti uomini, di cui 25 con condanna definitiva e 11 in attesa di giudizio: 10 sono tossicodipendenti, di cui 2 in terapia metadonica. Gli stranieri sono 25, i residenti fuori regione 27, solo 12 effettuano colloqui regolari e un detenuto usufruisce di permessi premio, in 6 lavorano come dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Quanto al personale operante nel carcere, sono in servizio effettivo 20 agenti (rispetto ad una pianta organica che ne prevede 30), 1 educatore (sui 2 prescritti), mentre per gli stranieri non è prevista la figura del mediatore culturale. Dopo un recente incontro con la Direttrice del carcere, Stefania Mussio, Gianfranco Camero ha dichiarato: "Sebbene dai dati dello stesso Ministero della Giustizia continui a risultare un eccesso di detenuti rispetto alla capienza regolamentare (49.592 contro 52.846 al 29/02/16), abbiamo finalmente compreso perché il Ministro Orlando ripeta che l’emergenza carceraria è terminata: se è possibile raddoppiare la capienza (almeno sulla carta) in tutta Italia, come sembra accadere a Sondrio, sicuramente c’è posto per tutti! Poi non sarà comunque come per Breivik, l’attentatore di Oslo, responsabile di 77 vittime, condannato a 21 anni di carcere, che sta scontando in una prigione norvegese di massima sicurezza, con 252 celle dotate di ogni comfort: tv, frigo e bagno con doccia, arte contemporanea alle pareti, palestra, laboratori, sovraffollamento inesistente, metà del personale costituito da donne, guardie disarmate. Il fatto però che lì il tasso di recidiva sia del 20%, mentre da noi circa il 70%, vorrà pur dire qualcosa. I progetti che compaiono nella relazione del Garante dei diritti dei detenuti di Sondrio dell’aprile dello scorso anno (corsi di informatica, formazione professionale di tipo artigianale, lo "sportello del cittadino detenuto" per la tutela giuridica dello stesso), dovendosi basare solo sul volontariato, non trovano realizzazione per la mancanza di risorse finanziarie e per le diverse opinioni e modi di agire che caratterizzano i numerosi (e spesso precari) responsabili che si sono succeduti nella direzione dell’istituto penitenziario. Diventa quindi un’illusione, nella maggioranza dei casi, il modello riabilitativo, pure sancito dalla Costituzione, così come andrebbe ripensato l’attuale modello di giustizia "retributiva", che considera il reato come violazione di una norma e la pena come conseguenza giuridica che sanziona tale condotta e che ha generato un’impostazione formalistica del diritto penale ed un conseguente sistema altamente burocratizzato e astratto, nel quale le persone rimangono del tutto marginali. Guardando a nuovi modelli, come la giustizia "riparativa", andrebbe affrontata una sorta di rivoluzione copernicana, considerando il problema centrale della giustizia penale non più il concetto astratto di ordine giuridico, bensì la persona come singolo e come essere relazionale, a cominciare dalla vittima del reato e dall’obbligo che ne consegue per chi l’ha commesso di porre rimedio alle conseguenze lesive della sua condotta". Rimini: Ilaria Pruccoli Garante detenuti. M5S: serve indipendenza dall’amministrazione di Andrea Polazzi newsrimini.it, 7 marzo 2016 La dottoressa Ilaria Pruccoli è la nuova Garante delle persone private della libertà personale. La nomina è avvenuta alcuni giorni fa. Il ruolo era rimasto vacante dopo le dimissioni di Davide Grassi che lamentava la scarsità dei mezzi messigli a disposizione dall’amministrazione. Dal MoVimento 5 Stelle, in una nota firmata dai consiglieri comunali Tamburini e Fonti, dalla consigliere regionale Sensoli, dall’onorevole Sarti e dall’europarlamentare Affronte, arrivano le congratulazioni ma con alcuni distinguo legati in particolare alla vicinanza della Pruccoli con l’assessore Lisi. "Il profilo e il curriculum del nuovo garante - scrivono - ci rassicurano sulle competenze, ma la vicinanza proprio con l’Assessore Lisi, visto il suo lavoro come operatore sociale per l’Associazione Madonna della Carità, è stata alla base delle nostre perplessità che abbiamo palesato con forza durante i lavori consiliari precedenti alla nomina. Tra l’altro i conflitti d’interesse dell’Assessore sono stati oggetto di un’apposita interrogazione in Regione, per la quale attendiamo ancora una risposta concreta. Auspichiamo che i nostri dubbi siano fugati e che le prime parole del nuovo garante a riguardo, lette nelle scorse ore, trovino riscontro alla prova dei fatti. Con l’occasione intendiamo rimarcare il nostro sostegno al nuovo garante rendendoci disponibili a supportare, anche da un punto di vista istituzionale, la sua attività per quanto nelle nostre possibilità e la collaborazione dei nostri Portavoce Istituzionali. Ricordiamo che la Casa Circondariale di Rimini attende ancora un Direttore a pieno servizio". Roma: evasione dei due detenuti romeni, il sistema d’allarme di Rebibbia era fuori uso di Giulio De Santis Corriere della Sera, 7 marzo 2016 Inchiesta sulla fuga di Ciobanu e Diaconescu. Oltre ai due agenti della penitenziaria, sono indagati per favoreggiamento due reclusi che avrebbero fornito una seghetta e tre manici di scope. Il mancato funzionamento dell’allarme del muro di cinta di Rebibbia è al centro dell’inchiesta sull’evasione dei due romeni, fuggiti dal carcere lo scorso San Valentino. Il pomeriggio della fuga, avvenuta alle 18.30, il sistema non ha allertato le guardie carcerarie. Un buco nella sicurezza che ha favorito il piano studiato da Catalin Ciobanu e Mihai Florin Diaconescu, poi riacciuffati il 18 febbraio. Oltre a dove accertare le ragioni dell’avaria del sistema d’allarme - segnalato da mesi dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria diretto dal segretario Donato Capece - gli inquirenti stanno verificando chi ha avvisato i due immigrati dei problemi che l’avevano mandato in tilt. Diaconescu e Ciobanu, nel corso degli interrogatori di garanzia, hanno affermato che la fuga è stata il frutto di mera improvvisazione mischiata a una dose di fortuna. Versione ritenuta poco credibile dagli inquirenti. Anzi la procura è convinta che i fuggiaschi abbiano ricevuto una "soffiata" su come muoversi più agevolmente dall’interno del penitenziario. Il pubblico ministero Silvia Sereni ha, infatti, indagato Ciobanu e Diaconescu - il primo condannato per omicidio e sequestro di persona, il secondo per rapina - anche con l’accusa di corruzione. L’ipotesi è che abbiano pagato qualche guardia carceraria per avere la strada spianata al momento della fuga. Ad avvalorare questa pista ci sono, tra l’altro, le dichiarazioni di numerosi detenuti che hanno riferito agli investigatori di aver notato movimenti strani nei giorni precedenti il 14 febbraio tra i due fuggiaschi e alcuni secondini. Da "radio carcere" è saltato fuori un retroscena dietro la preparazione della fuga. All’evasione, com’è stato riferito dall’interno di Rebibbia, dovevano partecipare, al fianco dei due romeni, altri quattro detenuti del reparto G11. In tutto pertanto avrebbero dovuto essere sei i fuggitivi. All’ultimo momento in quattro si sono però tirati indietro. Tra i protagonisti ci sarebbero i due indagati per favoreggiamento che hanno aiutato Ciobanu - difeso dall’avvocato Andrea Palmiero - e Diaconescu fornendo a entrambi una seghetta e tre manici di scope, strumenti fondamentali quel pomeriggio per scappare da Rebibbia. Il primo mezzo, essenziale per segare le sbarre di un magazzino, sarebbe stato dato da un detenuto che lavora come elettricista, mentre i manici di scopa sono stati consegnati da Madelin Dragan, detenuto in una cella vicino a Diaconescu e Ciobanu. Porto Azzurro (Li): resa dei conti in carcere, pestato detenuto accoltellatore tenews.it, 7 marzo 2016 Il recluso italiano è stato affrontato da altri detenuti e mandato all’ospedale. Ha avuto purtroppo un seguito l’episodio di violenza che si era verificato venerdì scorso all’interno della casa di reclusione di Porto Azzurro. Nel pomeriggio di domenica 6 marzo c’è stata una specie di "regolamento di conti" nei confronti di SG, recluso 38enne di nazionalità italiana che aveva mandato all’ospedale altri due detenuti colpendoli con una rudimentale arma da taglio: l’uomo, che aveva trascorso la notte precedente in isolamento, appena è rientrato in uno degli spazi comuni del carcere è stato affrontato da un gruppo di reclusi che lo hanno sottoposto ad un vero e proprio pestaggio. Il 38enne italiano è rimasto a terra e, dopo essere stato soccorso dal personale della Polizia Penitenziaria che ha immediatamente ripreso il controllo della situazione, è stato subito portato all’ospedale di Portoferraio, attraverso un rendez vous fra la Pubblica Assistenza di Porto Azzurro e la Croce Verde di Portoferraio, che aveva il medico a bordo. Le sue condizioni non sarebbero gravi, anche se sono in corso accertamenti che per il momento avrebbero rilevato una frattura ad un braccio e numerose contusioni. In ambiente carcerario un’altra situazione che ha sorpreso gli stessi operatori, che probabilmente non pensavano potesse avere un seguito l’episodio che aveva avuto per protagonista il 38enne detenuto italiano, persona apparentemente tranquilla che aveva accesso alla rieducazione e che svolgeva attività anche di un certo livello come quelle letterarie. Sembrava che si fosse trattato di un episodio isolato, in un momento oltretutto in cui la direzione penitenziaria sta puntando particolarmente alla rieducazione e alle misure di riabilitazione, per far tornare Porto Azzurro nella dimensione di carcere modello che lo contraddistingueva in passato. In effetti, quanto accaduto oggi potrebbe essere visto nella stessa ottica, non tanto come un segno di malessere interno quanto come una classica questione "d’onore" fine a se stessa. Firenze: l’olio extravergine di oliva che nasce nel carcere di Sollicciano di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 7 marzo 2016 La scena è incongrua e allo stesso tempo sublime. E sembra spezzare, come un’improbabile stringa spazio temporale, il monotono e plumbeo incedere del tempo che in quel luogo ha significati diversi, sensazione sghembe. Cammini verso un’area di Sollicciano, il carcere di Firenze, verso ciò che qui si chiama il Giardino degli Incontri, ed ecco materializzarsi un’oliveta. Alberi di ulivi, schietti e rigogliosi, circondati da detenuti che stanno raccogliendo le olive per la prima e storica raccolta. Diventeranno trecento bottiglie, quest’anno per poi aumentare sino a tremila. "Una produzione di ottima qualità e soprattutto una scommessa vinta nel settore del sociale". Già, perché anche una bottiglia di olio e il lavoro che si nasconde dietro a quest’arte della terra, può significare redenzione sociale. "La cura degli olivi, la raccolta dei suoi frutti, la frangitura e infine l’imbottigliamento possono significare un vero reinserimento nella società civile e un no definitivo alla recidiva", spiega Lamberto Frescobaldi, tra i più grandi produttori di vino al mondo, presidente dell’omonima azienda. "Governare un olivo", come dicevano in vecchi contadini, è anche una pratica pedagogica, un’autoeducazione a tornare cittadini liberi. Si tolgono le erbacce, si "sbroccano" i "polloni" per evitare alla pianta quell’antiestetico e poco produttivo effetto cespuglio, in inverno si pensa alla potatura. Poi ci sono i trattamenti, con l’impiego di prodotto biologici, per evitare gli attacchi di malattie e della temutissima mosca. È la prima vota che in un carcere si produce olio. E quest’anno le prime bottiglie sono diventate realtà con tanto di etichetta esclusiva con su scritto "Olio degli incontri prodotto dal Carcere di Sollicciano" È un altro passo verso un progetto (che non riguarda solo l’olio) che i marchesi Frescobaldi stanno portando avanti da tempo nelle carceri toscane e che avrà a breve sviluppi impensabili. "C’è un’intera collina, quella di Scandicci, che vogliamo dedicare alla produzione dell’olio con interventi di carcerati in permesso o semilibertà - spiega Lamberto Frescobaldi. E qui la produzione potrebbe diventare industriale: ventimila bottiglie l’anno di altissima qualità". Sollicciano è il secondo carcere dove operano i Frescobaldi. Che al vino hanno invece dedicato un progetto nel carcere della Gorgona, davanti alle coste livornesi. Qui viene prodotto un bianco a base di ansonica e vermentino e i detenuti che lavorano in vigna a Gorgona sono regolarmente assunti e stipendiati da Frescobaldi, che annualmente investe nel progetto 100 mila euro. Il futuro? Si sta lavorando a un progetto per Pianosa, l’altra isola carcere dell’Arcipelago Toscano dove oggi opera una cooperativa di detenuti ed ex detenuti. Nell’ex isola del diavolo, già inferno per i mafiosi condannati al 41 bis, potrebbe nascere un’importante azienda agricola. Che guarda al mercato ma anche e soprattutto al sociale. "Perché l’obiettivo comune è quello di dare ai detenuti una concreta possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro e vorremmo che le nostre iniziative non rimanessero casi isolato, ma buone pratiche italiana da esportare nel mondo", spiega Frescobaldi. Molti degli ex detenuti che hanno partecipato al progetto lavorano nella sua azienda. "Sono bravi e si sono reinseriti perfettamente ed è questa la soddisfazione più grande", conclude il presidente. Palermo: l’Associazione di Volontariato Penitenziario "dalle carceri storie di riscatti" antimafiaduemila.com, 7 marzo 2016 Il racconto della storia di Franco Chinnici, insegnante di religione e di teologia, pubblicato su livesicilia.it, manifesta davvero l’opportunità di riscatto per chi ha commesso un errore nella vita. Una storia semplice ma al tempo stesso di grande impatto, alla scoperta del lavoro che quotidianamente l’Asvope - l’Associazione volontariato penitenziario di cui Chinnici è presidente - compie a sostegno degli "ultimi". "Quello che faccio in fondo è semplice - racconta al collega Puglisi - Ascolto la voce umana, laggiù, nella profondità del buio, dove è più difficile che qualcuno la raccolga". "Abbiamo cominciato da molti anni, prima con esperienze singole che abbiamo messo insieme - dice Franco, il professore. L’aspetto più importante è far riscoprire l’umanità a chi, magari, l’ha smarrita. Di recente, alcuni detenuti dell’Ucciardone hanno portato sulla scena Omero, Iliade e Odissea, grazie a un laboratorio teatrale. Non si può neanche immaginare la forza, la rabbia e le emozioni che hanno tirato fuori. Uno mi ha detto: ‘non ho mai saputo fino ad ora quanto fosse potente il teatro’". Rappresentazioni teatrali recitate in siciliano che hanno davvero portato i detenuti alla scoperta di una nuova realtà. L’Asvope esiste ormai da sedici anni ed in campo mette una lunga serie di attività. Dal sostegno scolastico, ai laboratori, passando per le pratiche burocratiche o i collegamenti con parrocchie e patronati. Poi ancora colloqui psicologici, attività sportive ma anche dei contributi materiali come la consegna di occhiali, vestiti e quant’altro. Chinnici prosegue il suo racconto ricordando quanto gli disse un ragazzo rom che era finito in carcere per omicidio: "Lui non voleva uccidere nessuno, mentre stava rubando una macchina travolse il proprietario per disgrazia. Lui è uno di quelli che testimoniano quanto si possa cambiare, se uno lo vuole davvero. Ci siamo incontrati per anni. Ha mandato i suoi bambini a scuola e mi ha spiegato perché: ‘qui ho capito che senza l’istruzione si è destinati a rimanere schiavì. Ricordo soprattutto un altro che mi è rimasto appiccicato al cuore". Poi c’è anche la storia "dell’amico che ammazza il suo migliore amico" che prima "sembrava uno zombie" poi "ha iniziato un percorso di vera redenzione" aiutando altri compagni di prigionia, prendendosene carico. "Avrebbe desiderato intraprendere un’esperienza di volontariato - aggiunge il professore - Il dolore che ha provocato è il suo cocente rimorso. Invano, ha cercato il perdono". Così si cerca di dare una mano ai cinquecento ospiti dell’Ucciardone e i mille e passa del Pagliarelli. Aggiunge ancora Franco: "Il carcere consuma l’aria che respiri, ti toglie lo spazio e il tempo. L’effetto peggiore consiste nel perdere lo status di persona. Gli altri ti vedono, e tu stesso finisci per vederti, come un animale in gabbia. Quale tipo di rinascita è possibile se sei un vuoto a perdere?". Eppure anche in questo caso c’è chi non si arrende e talvolta arrivano anche i risultati. "Un detenuto - conclude - un giorno mi disse: ‘ti prometto di essere migliorè, non ho mai sentito parole più belle". Un messaggio di speranza e riscatto per tutti coloro che si trovano a dover affrontare quest’esperienza di vita. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme e Fidapa, per 8 marzo "un sorriso oltre le sbarre" Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2016 Sarà una Giornata Internazionale della Donna interamente dedicata alla solidarietà e alla prevenzione della principale patologia tumorale femminile quella in programma martedì 8 marzo nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Una delegazione di rappresentanti dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che l’ha ideata fin dal 2009, e della Fidapa di Cagliari, che collabora all’evento dal 2012, incontrerà alle ore 10 le donne detenute e affronterà le problematiche inerenti la loro realtà. Le organizzatrici, per la settima edizione dell’appuntamento di solidarietà, hanno voluto approfondire il tema della salute. L’oncologo Massimo Dessena, che svolge l’attività presso l’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Sperimentale dell’ospedale "Businco" dell’Azienda Ospedaliera "G. Brotzu" di Cagliari illustrerà infatti i più recenti esiti della ricerca clinica e risponderà alle domande delle donne. "Nel 2015 in Sardegna - osserva il dott. Dessena - si sono registrati oltre 1.300 casi di carcinoma della mammella, che è il tumore più frequente nella popolazione femminile di ogni età. In Italia complessivamente circa 50mila casi nello scorso anno. Si presume che una donna su nove andrà incontro nell’arco della sua esistenza a una neoplasia mammaria. Grazie alla diagnosi precoce, allo screening, alle Brest Unit e alle moderne tecniche multi disciplinari diagnostiche e alle nuove terapie farmaceutiche si è raggiunto un incremento della sopravvivenza che negli stadi iniziali della patologia raggiunge il 98%". All’iniziativa, che come ogni anno vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà della detenzione al femminile, interverrà Claudia Firino, assessora regionale della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport. "Si tratta - sottolinea la responsabile regionale della Cultura - di un’iniziativa che, aldilà delle celebrazioni formali della Giornata Internazionale della Donna, offre l’occasione di conoscere e riflettere su una condizione femminile spesso trascurata". "L’8 marzo - affermano Maria Grazia Caligaris e Liliana Floris, presidenti rispettivamente di Sdr e Fidapa Cagliari - è una giornata simbolo per richiamare l’attenzione anche su condizioni sociali e umane al femminile degli Istituti Penitenziari. Realtà spesso meno note sia per il numero fortunatamente molto esiguo di donne private della libertà sia per la tipologia dei reati loro ascritti. Un’opportunità anche per approfondire il delicato lavoro delle Agenti della Polizia Penitenziaria". In occasione dell’incontro sarà consegnata a ciascuna detenuta una busta contenente alcuni prodotti per la cura personale, anche grazie alla generosità dell’Agente Generale della UnipolSai Paola Melis, nonché di Farmacie, Erboristerie e di un Centro Medico Estetico. Sarà infine consegnata una piantina per abbellire la Sezione. Milano: il cardinale Scola in processione fino a San Vittore con le preghiere dei detenuti di Zita Dazzi La Repubblica, 7 marzo 2016 Hanno commesso peggiori reati, ma per la processione col cardinale hanno scritto le più belle preghiere chiedendo un carcere più umano che rispetti i diritti e non umili i detenuti. I reclusi di San Vittore venerdì sera hanno applaudito dalle loro celle il passaggio dei 2mila fedeli che, assieme all’arcivescovo Angelo Scola e al cappellano Marco Recalcati, hanno partecipato alla processione Misericordiae Vita in occasione del Giubileo. I detenuti hanno voluto scrivere i testi del libretto che è stato letto durante la marcia da Sant’Ambrogio al carcere in via Filangieri, iniziativa senza precedenti nella storia della Diocesi ambrosiana, promossa dalla Curia per chiedere migliori condizioni di vita nei penitenziari e rispetto per chi vive in cella scontando una pena. Nelle preghiere scritte dai detenuti e lette dal cardinale, i carcerati hanno messo la loro vita, in mezzo alle invocazioni a Dio e alla parola cardine del Giubileo: perdono, legato a rinascita. Nel libretto ci sono i pensieri e le speranze, parole di fede e di pentimento, di dolore e di attesa di un futuro diverso. "Tu perdoni e dimentichi, noi vogliamo che si creda nella nostra rigenerazione", recita la preghiera dei carcerati di San Vittore. "Padre abbi misericordia di noi che abbiamo peccato e apri i nostri cuori - pregano dal penitenziario di Opera - Dacci il perdono per i dispiaceri causati a chi abbiamo più caro". Dopo un’Ave Maria, la preghiera da Bollate: "Non abbiamo altro da offrirti che noi stessi, aiutaci a riconoscere le nostre debolezze e a rinascere nel tuo amore". Chieti: presentata nel carcere di Lanciano la seconda edizione di "Mettiamoci in gioco" divisionecalcioa5.it, 7 marzo 2016 Un’iniziativa giunta alla seconda edizione, da poco arricchita da un nuovo campo molto più vicino al futsal "reale". È stato presentato questa mattina alla Casa Circondariale di Lanciano il progetto "Mettiamoci in gioco", che consente ai detenuti di partecipare al campionato di Serie D della delegazione provinciale di Chieti con la maglia della Libertas Stanazzo. Dopo la conferenza stampa per illustrare il progetto, alla presenza tra gli altri del sindaco di Lanciano Mario Pupillo, del presidente del CR Abruzzo della LND Daniele Ortolano e del presidente della Divisione Calcio a cinque Fabrizio Tonelli, i detenuti si sono allenati sul nuovo campo - inaugurato oggi ufficialmente con tanto di taglio di nastro - sotto gli occhi del Ct della nazionale italiana di futsal, Roberto Menichelli, e del suo vice Carmine Tarantino. La Libertas Stanazzo gioca tutte le partite in casa, visto che ovviamente i suoi giocatori non possono uscire dalla casa circondariale, ed è guidata dal tecnico Pio Fiore Di Vincenzo. Durante l’incontro mattutino un giocatore della squadra, Ciro Villacaro, a nome di tutti i detenuti ha voluto leggere una lettera per ringraziare i presenti dell’opportunità offerta; questa sera un suo compagno, Carlo Finizio, e l’allenatore saranno in tribuna al Pala Giovanni Paolo II per assistere alla finale di Coppa Italia tra Pescara e Asti. Erano presenti al carcere anche il vice presidente vicario della Divisione Calcio a cinque, Alfredo Zaccardi, e il consigliere Andrea Farabini, oltre a una delegazione dell’Acqua & Sapone Emmegross (il presidente Marco Fiore, il ds Gabriele D’Egidio e l’ad Tony Colatriano) che ha voluto regalare del materiale sportivo ai detenuti. Prato: il cappellano dell’Ipm di Torino presenta il libro "Il cortile dietro le sbarre" Il Tirreno, 7 marzo 2016 A Prato per raccontare gli oltre 35 anni nel "Cortile dietro le sbarre": dice già molto il titolo del libro - scritto da Marina Lomunno - che raccoglie l’esperienza di don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile "Ferrante Aporti" di Torino. Il sacerdote sarà nella nostra città martedì primo marzo, alle ore 21, per presentare il volume presso l’ex chiesa di San Giovanni (nella via omonima, dietro al Castello). L’evento è stato organizzato dall’oratorio cittadino di Sant’Anna, dalla parrocchia di Santa Maria delle Carceri e dall’associazione La Lunga domenica. Prima della presentazione, alle ore 19, è previsto un aperitivo con don Domenico nei locali dell’oratorio di viale Piave. "Il libro nasce col pretesto - racconta don Ricca - di raccontare le mie memorie da cappellano del carcere minorile. Partendo da sogni, passando dalle difficoltà e raccontando anche gli ultimi fenomeni. In mezzo trovano spazio i temi fondamentali del fare oratorio in carcere. Ma l’intento non vuole essere tanto quello di raccontarmi, quanto quello di far vedere che, lavorando insieme e impegnandosi sul territorio, si possono fare tante cose". Un quadro vivo quello che emerge dalle pagine di questa intervista che si legge come un romanzo, fatto di speranze, di progetti, di proposte. Anche perché, con don Domenico Ricca, il carcere può diventare un oratorio, una scuola, perfino una famiglia. Un testo che ha tanto da insegnare anche alla nostra città: lo testimonia la parte de "Il cortile dietro le sbarre" in cui si parla del fenomeno delle migrazioni visto dal carcere minorile. "Dobbiamo smetterla con i discorsi del noi e loro - dice il cappellano degli immigrati, che vengono nel nostro paese per sperare in un futuro migliore - l’accoglienza si fa sul territorio, si comincia da lì. Nessuno escluso". I diritti d’autore, ricavati dalla vendita del libro, saranno devoluti per progetti di studio e lavoro dei ragazzi del "Ferrante Aporti". Il contenuto è stato pubblicato da Diocesi di Prato in data 27 febbraio 2016. Migranti, gli italiani hanno paura: via Schengen, sì alle frontiere di Ilvo Diamanti La Repubblica, 7 marzo 2016 Gli abitanti del Belpaese chiedono, più di francesi, tedeschi e spagnoli il ripristino dei controlli sulla circolazione delle persone. Percentuali alte nei partiti di destra, ma anche tra i simpatizzanti del Pd dove il 40% è contrario alla libertà di movimento, il doppio rispetto ai socialisti spagnoli. Non tira una buona aria in Europa. Sul progetto e sul soggetto europeo. Sulla moneta unica cui vengono attribuiti, da ampi settori di cittadini, tutti i mali dell’economia. La precarietà del lavoro e la disoccupazione, i consumi e l’aumento dei prezzi. Ma il clima d’opinione appare scuro anche e ancor più sul trattato di Schengen, che ha favorito la libertà di movimento fra un Paese e l’altro. Senza fermarsi alle dogane. Senza dover qualificare - e giustificare - la nostra provenienza. Senza doversi dichiarare - e sentire - stranieri. Le frontiere, i confini, infatti, più di ogni altro riferimento, marcano la differenza e l’appartenenza nazionale. Ci "de-finiscono". Cioè, ci de-limitano. Perché il finis è il confine ultimo. Invalicabile. Distingue e distanzia noi dagli altri. Per questo il trattato di Schengen, più di altri patti e di altre convenzioni "comunitarie", ha rafforzato al progetto unitario. Anche se non tutti i paesi della Ue fanno parte dell’area di Schengen. E, d’altra parte, non tutti i paesi dell’area di Schengen sono membri della Ue. Tuttavia, il trattato de-limita il territorio sul quale l’istituzione europea può esercitare la propria autorità. Mentre, parallelamente, presso i cittadini, il trattato di Schengen ha rafforzato la percezione comunitaria. Cioè: di comunità. In quanto ha reso possibile muoversi, all’interno dei confini, con un buon grado di libertà. Ha permesso ai cittadini di sentirsi, dovunque, "a casa propria". Europei. Almeno: "più" europei. Per questo le rivendicazioni dei soggetti politici neo-populisti hanno, come primo bersaglio, l’Europa unita, in nome della difesa degli Stati nazionali. E dei loro confini. Nazionali. Per la stessa ragione, la "grande migrazione" che ha investito l’Europa - dall’Africa e dal Medio-Oriente - ha messo in discussione l’Unione Europea. Perché ha suscitato paure. Paura. In particolare: la paura del mondo che ci invade ed entra a casa nostra. La "grande migrazione": ha amplificato la domanda di frontiere. Di confini. Di muri. Per difenderci dagli altri. In questo modo, però, si sono acuite anche le tensioni interne. Ad esempio, nei confronti della Regno Unito. Che non fa parte dell’area di Schengen. Né d’altronde, dell’Euro. E ha marcato, in questa fase, la propria distanza. Il proprio isolamento. Dall’Europa dell’Euro. E dall’Europa di Schengen. Cioè: dalle migrazioni. Queste tendenze emergono, con particolare evidenza, nel IX Rapporto sulla Sicurezza in Europa (curato da Demos e dall’Osservatorio di Pavia insieme alla Fondazione Unipolis), che verrà presentato a Roma martedì 15 marzo. I sondaggi condotti su campioni rappresentativi di 5 Paesi europei (complessivamente: 5000 interviste) rendono evidente il disagio sollevato dall’Europa senza frontiere. Solo una quota minoritaria della popolazione, in tutti i Paesi "sondati", infatti, continua a credere nel Trattato di Schengen. E si dice convinta a mantenere la libera circolazione delle persone fra gli Stati che vi aderiscono. Senza controlli. Il consenso all’Europa "senza frontiere" viene espresso, comprensibilmente, da una frazione di francesi, di poco inferiore al 10%. D’altronde, l’impatto dei sanguinosi attentati avvenuti nel 2015 ha alimentato il senso di insicurezza. E la domanda di controlli. Anche se la minaccia, spesso, viene "dall’interno". Dell’Europa e della stessa Francia. In Italia, tuttavia, il sostegno al trattato di Schengen appare solo di qualche punto più ampio (13%). Mentre in Germania e in Spagna si allarga, ma non supera il 25%. La maggioranza dei cittadini intervistati, nel corso dell’indagine, la pensa, dunque, in modo molto diverso. Chiede il ritorno della sorveglianza alle frontiere, se non dei muri. In Italia, in particolare, quasi 6 cittadini su 10 approvano l’idea che occorra ripristinare i controlli. Sempre. In Germania, Spagna e, in misura più ridotta, in Francia: solo in determinate occasioni. Nell’insieme, quindi, all’Europa "senza confini" crede solo una minoranza di cittadini. Coerentemente, il consenso per l’Unione Europea si riduce tanto più dove più cresce la domanda di marcare i confini tra gli Stati. Infatti, fra coloro che vorrebbero ripristinare i controlli alle frontiere "nazionali", la fiducia nella UE scende ai minimi livelli. In tutti i Paesi. In particolare in Germania: dal 53 al 44%. Mentre in Italia e in Francia la domanda di tornare ai confini nazionali abbassa la confidenza nella UE di 5-6 punti. Solo in Spagna, il disincanto europeo dei delusi di Schengen aumenta in misura meno elevata (3 punti). D’altronde, rispetto al passato, la Spagna risulta esterna ai principali flussi migratori. Quindi la preoccupazione delle frontiere aperte è meno diffusa, fra i suoi cittadini. Per questi motivi, non sorprende che il trattato di Schengen susciti reazioni particolarmente ostili negli ambienti sociali più vicini ai soggetti politici neo-populisti o, comunque, anti-politici. Che hanno fatto dell’Unione Europea un bersaglio polemico, talora un "nemico". Contro cui "lottare". La richiesta di ripristinare i controlli alle frontiere risulta, dunque, molto estesa fra gli elettori che vedono con favore la Lega di Salvini (ma anche il M5s) in Italia; il Front National di Marine Le Pen in Francia, i Ciudadanos in Spagna. L’Afd in Germania. Ma il ritorno delle frontiere e dei confini riscuote favore anche fra i sostenitori dei partiti di Destra e di Centro-Destra. Perché risponde alla "paura degli altri", degli immigrati. E suscita domanda d’ordine. Questo sentimento è particolarmente esteso nella base di Forza Italia, dell’UMP, del PP, del Cdu-Csu. Per la stessa ragione, nel Regno Unito la fiducia nell’UE risulta molto bassa fra gli elettori dell’Ukip e fra i Conservatori. Tuttavia, alla fine, si ripropone, in modo piuttosto clamoroso, l’eccezionalità - non l’eccezione - italiana. Il Paese d’Europa dove la fiducia nell’Europa - unita - è più bassa. Dove non solo i populisti e la destra, ma perfino il 40% degli elettori vicini al PD vorrebbero ripristinare i controlli alle frontiere. Chiudersi. Quasi il doppio rispetto alla base del PSOE. Comunque, molto più rispetto ai simpatizzanti degli altri partiti socialisti europei. Il "laboratorio politico italiano" (come l’ha definito Marc Lazar) non smette mai di sorprendere. Di sollevare inquietudi. Perché se la costruzione europea, se il futuro dell’Unione si appoggiano sul trattato di Schengen, sulla libertà di circolazione "oltre" i confini nazionali e dentro i confini comuni(tari), allora c’è fondato motivo di temere. Per la costruzione europea. Per il futuro dell’Unione. Ma questa, per quel che mi riguarda, è una buona ragione. Per difendere le buone ragioni del trattato di Schengen. In Italia, più che altrove. L’Europa e le frontiere chiuse: al vertice la sospensione di Schengen di Federico Fubini Corriere della Sera, 7 marzo 2016 In discussione la fine dello spazio aperto, almeno temporaneo (con il calendario per riattivarlo). Ma tornare ai vecchi confini costerà alla Ue 10 miliardi all’anno. Si chiama "Back to Schengen", ritorno a Schengen, il documento con il quale Jean-Claude Juncker si presenterà oggi all’ennesimo Consiglio europeo sull’emergenza rifugiati. Già dal titolo la proposta del presidente della Commissione Ue presuppone che l’accordo di libera circolazione delle persone in Europa sia nei fatti già saltato: poco importa che formalmente lo abbiano "sospeso" solo da sei dei 26 Paesi aderenti. La Commissione, questa volta pienamente in sintonia con l’Italia, guarda oltre. L’obiettivo è pilotare i leader europei verso un percorso a tappe per poter riattivare la libertà di circolazione in Europa già da dicembre. Se suona come un’ambizione timida, non lo è a confronto con il recente passato. Fino a poche settimane fa, quando vari governi del centro-nord accarezzavano l’idea di liberarsi del problema escludendo la Grecia da Schengen e lasciandola da sola a gestire i siriani, a Bruxelles non si escludeva una sospensione biennale. Già oggi Paesi posti su snodi nevralgici come Austria, Svezia, Danimarca o Ungheria hanno formalmente congelato gli accordi; Stati fondatori dell’Unione come Francia, Germania e Belgio hanno riattivato i controlli ai passaggi di frontiera e per almeno nove dei 26 firmatari Schengen è di fatto in archivio. Il piano - Se il piano della Commissione Ue non riesce arrestare lo sgretolamento di Schengen, si conteranno i costi per le imprese e l’occupazione. Le stime di Bruxelles, così come quelle della Fondazione Bertelsmann e del centro studi del governo francese, indicano che il ritorno alle vecchie frontiere del 900 comporterebbe per l’area euro una perdita di reddito di circa dieci miliardi l’anno. Separata dai suoi passi alpini, per l’Italia e il suo export il danno rischia di essere pesante se i tempi per ogni camion si allungano sulle file ai confini e le catene di fornitura con la Germania si allungano. Ma neanche la proposta di Juncker basta da sola a risolvere il problema più intrattabile, quello degli sbarchi in Grecia. Oggi a Bruxelles i leader europei, con il premier di Ankara Ahmet Davutoglu, discuteranno soprattutto come far sì che la Turchia trattenga, o riprenda, i migranti non siriani che non hanno diritto all’asilo politico. Ma per la Grecia già inondata di rifugiati non sarà una soluzione. L’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu calcola che in gennaio e in febbraio le persone sbarcate dalla Turchia alle isole elleniche sono state ventisette volte più numerose rispetto agli stessi mesi del 2015. Ne sono arrivate 123 mila contro le 4.400 di un anno fa. In marzo ne stanno arrivando 1.400 al giorno. L’accordo - Un’ondata di questa intensità fa pensare che l’accordo di oggi con la Turchia non allenterà la pressione sulla Grecia. Non se gli afflussi restano così intensi o aumentano con la stagione calda: secondo l’alto commissariato Onu, circa metà dei nuovi migranti sono siriani, dunque difficilmente il governo dell’Ankara accetterà di riprenderli indietro in numero sufficiente. Ancor più difficilmente questi rifugiati riusciranno però a districarsi dalla Grecia così come erano riusciti a fare coloro che li hanno preceduti l’anno scorso. "La rotta balcanica ora è chiusa", sottolinea a questo proposito la bozza di conclusioni del vertice europeo che discuteranno oggi a Bruxelles i 28 leader dell’Unione. Ciò significa che dalla Macedonia, dalla Serbia e dalla Croazia non si passa più per raggiungere la Germania e la Scandinavia. Quanto all’Albania, che ha un lungo confine con la Grecia e da cui si può arrivare rapidamente in Puglia, la delegazione italiana oggi a Bruxelles insisterà perché venga sostenuta con forza. La bozza - Il vertice di oggi ricorderà anche che la Nato resta impegnata nel Mar Egeo nella lotta ai trafficanti. Non mancherà senz’altro di aggiungere, secondo la bozza di conclusioni, che "sarà a fianco della Grecia e farà tutto il possibile per aiutarla". Ma le parole non bastano a cambiare i fatti sul terreno. Il governo di Atene non riesce ancora a concordare con i creditori dell’Ue e del Fondo monetario sui pesanti tagli alle pensioni richiesti, a luglio prossimo rischia di nuovo il default se non di sbloccheranno i finanziamenti, e nel frattempo rischia di traboccare di rifugiati. Dopotutto, il piano di tagliar fuori la Grecia non sembra poi così accantonato come si dice. Europa al bivio tra Merkel e Orbán di Beatrice Delvaux La Repubblica, 7 marzo 2016 Bloccati alla frontiera tra Grecia e Macedonia, alcune centinaia di migranti hanno tentato con la forza di riprendere il loro cammino in Europa. Dopo aver sfondato il cordone della polizia greca, iracheni e siriani hanno cercato di distruggere la barriera di filo spinato che segna il confine. La polizia macedone ha reagito con lanci di lacrimogeni. Nei filmati si vedono uomini e donne, si sentono le urla dei bambini terrorizzati. È accaduto pochi giorni fa in Europa. Non al di là dei nostri confini ma da noi, sul nostro suolo, all’interno stesso di quel che resta dell’Unione europea, e che alcuni ancora cercano di salvare. Non in molti, e forse non più maggioritari. Si potranno contare domani, al vertice tra Ue e Turchia. Ma anche se la conta risulterà ancora positiva per la coesione europea, sappiamo quanto valgono questi accordi: nulla, dato che a Vienna c’è chi ne ha fatto strame, definendo la propria politica e applicandola ipso facto, per proteggersi dietro nuove barriere di filo spinato. E gli altri? E i greci? Peggio per loro, se ne facciano una ragione. Troppo brutale? Eccessivo? Smettiamola di fare i moralisti. Oggi bisogna avere il coraggio di farsi carico delle conseguenze di quanto si fa o si omette di fare: questo il messaggio inviato alla Grecia da chi ha deciso di chiudere la frontiera macedone, e da tutti coloro che sostengono questa decisione. Ci siamo sempre chiesti cosa avremmo fatto o detto negli anni 1930-40. Ebbene, è proprio a questa domanda - anche se certo in circostanze diverse - che oggi siamo chiamati a rispondere. Non cerchiamo di eluderla. Oggi in Europa non si può stare al tempo stesso con la Merkel o con Orbán: o si sta da una parte, o dall’altra. Bisogna scegliere. Del resto, è ciò che tutti i leader europei stanno facendo, ai vari livelli di potere, costretti dagli avvenimenti. E la via che sceglieranno a questo bivio resterà scritta nella storia. Siamo dunque concordi per fare della Grecia, ormai prossima a piegarsi sotto una pressione insostenibile, "non più un luogo di transito ma un terminal", come ha detto un dirigente nazionalista? O al contrario siamo d’accordo col presidente di un partito liberale che ha ribattuto: "Non si gioca a Stratego sulla pelle delle persone"? Diciamo con Angela Merkel che "quando qualcuno chiude le sue frontiere costringe l’altro a soffrire; e non è la questa mia Europa", o stiamo con Viktor Orbán, che blocca unilateralmente i suoi confini? L’Europa tratta con Ankara per chiudere la rotta balcanica di marco zatterin La Stampa, 7 marzo 2016 E l’Eurogruppo ricorda ai meno virtuosi, fra cui l’Italia, che bisogna correggere il debito. Vertice europeo, straordinario ed informale, sulla questione Rifugiati. Il secondo dell’anno, il primo del mese. Potenzialmente decisivo anche per la presenza dei turchi, alleati necessari con i quali le reazioni non sono mai facili. L’auspicio del presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, è di poter dire stasera "abbiamo chiuso la rotta balcanica", quella su cui sono passati 880 mila migranti nel 2015 e 128 mila nei primi due mesi di quest’anno. Perché questo succeda è necessario che ci sia pieno consenso sulla blindatura delle frontiere esterne, sulla disponibilità a riallocare chi è già arrivato in linea col piano dei 160 mila deciso in autunno, a lanciare la Guardia costiera e di confine comune entro settembre, e a ripristinare la normalità nell’Area Schengen di qui a dicembre. Ce la faranno, i nostri eroi? Possibile che ci arrivino almeno vicini. E che l’intero pacchetto richieda solo un’ulteriore messa a punto nella riunione già il calendario per il 17 e il 18 marzo. Lì sapremo se ci sarà stata davvero una svolta. Aiuta il fatto che il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, è pronto ad annunciare che il personale dell’agenzia Frontex schierato a Kos, come a Lesbo e a Lampedusa, ha informato Bruxelles che greci e italiani "in questi giorni identificano tutti quelli che arrivano". Le registrazioni sono al 100 per cento. È una buona notizia per i Ventotto, perché il controllo totale è divenuto condizione necessaria per far partire davvero la riallocazione dei rifugiati. Lo è per Roma, perché "se la tendenza sarà confermata", presto sarà chiusa la procedura d’infrazione che, in dicembre, ha portato ai minimi le relazioni fra il governo Renzi e l’esecutivo Ue. Bruxelles sarà blindata. Oltre ai capi di stato e di governo dell’Unione, arrivano in città anche i ministri economici e quelli del Lavoro. La vera notizia di cui nessuno parlerà è che, con ogni buon conto, Cipro sarà il quarto paese europeo ad uscire dal programma di salvataggio, dopo Irlanda, Spagna e Portogallo. Resta solo la Grecia ad essere imbrigliata dalla troika o comunque la vogliano chiamare. Vuol dire che la cura ha fatto effetto, comunque ha evitato il peggio. E un giorno potrebbe toccare anche ad Atene. Ci saranno richiami ai paesi coi conti meno sani, come da protocollo. All’Italia sarà ricordato che il debito è davvero troppo altro e che bisogna correggere la situazione. La stessa cosa che nelle prossime ore, come annunciato da La Stampa il 26 febbraio, farà la Commissione. Poi ci sarà il solito negoziato. Per il quale è possibile un lieto fine se tutte e due faranno il loro mestiere. L’Italia cercando di rispettare gli impegni presi. La Commissione capendo che di questi tempi la flessibilità è diventata una ricetta inevitabile. La Libia e i paraocchi dell’Occidente di Fabio Nicolucci Il Mattino, 7 marzo 2016 Se Winston Churchill fosse vissuto fino ad oggi, è probabile avrebbe riservato all’attuale situazione in Libia la sua famosa definizione del 1 ottobre 1939 della Russia come di "indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma". Come allora, anche oggi siamo di nuovo, dopo 70 anni, vicini o dentro una guerra mondiale. Come allora, molta della confusione strategica viene dall’opacità dei diversi interessi nazionali in gioco. Ma diversamente da allora, l’occidente non capisce cosa succede nel teatro di guerra. Perché la visione di ciò che succede nel medio oriente rimane il frutto di analisi non sistemiche - di qui le difficoltà delle nostre intelligence - e di processi decisionali basati su nostre proiezioni -di qui le difficoltà dei politici - più che sulla comprensione di quelli locali. La Libia è in questo senso un caso di scuola. Nel febbraio del 2011 una coalizione improvvisata di alcune tribù, islamisti e gruppi locali iniziò una rivolta contro Gheddafi. Pur nel contesto della cosiddetta "Primavera Araba" appena iniziata nella vicina Tunisia, si trattava di un sommovimento locale. Le cose però cambiarono quando il segretario di Stato Usa Hillary Clinton convinse il presidente Obama a imboccare una strada, verso cui spingevano Francia e Gran Bretagna, che portava inevitabilmente al "cambio di regime". A cui l’Italia del 2011, che aveva qualche mese prima firmato un Trattato con la Libia di Gheddafi, dovette piegarsi. Sia per l’isolamento che scontava in Europa con il crepuscolo del governo Berlusconi, sia per la propria fragilità socio-economica interna di quegli anni di altissimo spread. Fu quell’intervento che aprì il vaso di Pandora dei guai ora giganteschi con cui ci confrontiamo oggi. Non tanto perché si intromise, ma perché lo fece su basi concettuali fragili ed errate. Fragili, perché l’interventismo democratico propugnato dalla Clinton, che pure funzionò in Bosnia, richiede appunto come casus belli una catastrofe umanitaria - che in quel momento in Libia non c’era - come condizione per non diventare un surrogato di sbrigativo tirannicidio senza soluzione politica per il dopo. E dunque per non tramutarsi nel catastrofico "cambio di regime" coniato dai neocon come unica soluzione dei mali del mondo. Errate, perché l’occidente guardò alla Libia con le proprie categorie liberal-democratiche sovrastimando così la forza delle elite anglofone che promettevano una Libia meravigliosa, civile e cosmopolita, se solo l’occidente li avesse sbarazzati del tiranno. Sottostimando il fatto che a combattere erano stati però i thuuàr (i rivoluzionari, in arabo) che quella Libia non immaginavano né forse volevano. Nemmeno l’assassinio dell’ambasciatore Usa Chris Stevens nel settembre del 2012 a Bengazi, produsse la necessaria rivoluzione analitica e la consapevolezza di dover cambiare lenti con cui guardare la Libia. E gli errori continuarono. Si pensò che affrettare le elezioni nel luglio del 2012, appena nove mesi dopo la cattura e l’uccisione senza processo di Gheddafi, potesse essere di per sé salvifico. Del resto non lo sono in ogni democrazia? E la Libia non doveva inevitabilmente andare in quella direzione? L’unico ostacolo che lo impediva si riteneva fosse Gheddafi, oramai tolto di mezzo. Questo meccanicismo positivista produsse però un vuoto politico, non un pieno. Nel quale si è inserito l’Isis. Anche qui, analisi sbagliate sulla natura del nemico invece di riempire questo vuoto, lo allargano. La strategia di contrasto nel biennio 2014 e 2015 viene incentrata infatti su un programma di addestramento delle forze locali basato sull’errata presunzione che in Libia manchino allo scopo combattenti e mezzi adeguati. In realtà ciò che manca è solo la capacità di ricondurli ad un comando unificato, e di indirizzarli nella giusta direzione. Né in Libia mancano le armi per lo scopo, visti i depositi lasciati da Gheddafi. A cui si sono sommati nel frattempo nuovi quantitativi. Perché intanto ogni potenza regionale ed europea si era scelta e ha armato il proprio campione, da far agire a protezione dei propri interessi specifici. A ciò è seguita un’errata analisi della natura dell’Isis e dei suoi piani. L’Isis in Libia nasce esattamente come in Iraq, dalla capacità politica di un piccolo gruppo - anche importato, e non autonomamente - di federarsi con fazioni esistenti e con forze criminali, per scopi locali. Anche qui con il contributo decisivo di forze del regime rimosso manu militari. In Iraq con un nocciolo duro di ex baathisti, in Libia con quello di ex gheddafiani -Sirte è capitale dell’Isis ma anche città natale di Gheddafi e della sua tribù - che invece si è immaginato rimanessero nemici come prima degli islamisti. E fossero per lo più o sbandati o recuperati nella coalizione di Tobruk. E se si sbaglia l’analisi sulla natura del nemico, il dibattito sulla sua reale consistenza diventa parte della definizione degli obiettivi: sovrastimarlo in 6mila tagliagole, come fanno alcune potenze occidentali oggi, giustifica un intervento purchessia. Ma uno degli esiti di tale intervento può essere la tripartizione della Libia. Che guarda caso è proprio il piano riportato in una cartina del Uilayat at-Tara-blus (la branchia libica dell’Isis), dove la Libia è già tripartita in Bar-qa (Cirenaica), Tarablus (Tripolita- nia) e Fezzan. Perché in Libia come in Iraq, l’Isis ha un piano per affermare il Califfato: si chiama "Kasr al-Hudud" ("spaccare i confini" in arabo, ndr). Per evitare che questo piano si realizzi, più per debolezze dell’ordine mondiale che per forza propria, occorre dunque rafforzare l’analisi. E andare poi in direzione contraria, anche in direzione ostinata e contraria. Dalle dichiarazioni rese da Matteo Renzi, sembra che l’Italia del 2016, proprio perché più forte di quella del 2011, possa essere capace di ispirarsi all’autonomia di Sigonella del 1985 più che alla subalternità mostrata ai volenterosi in Iraq nel 2003. C’è da augurarselo. Non solo per motivi di orgoglio nazionale, quanto per la salvaguardia di legittimi interessi economici, sinora vilipesi dagli altri, e per la possibilità ancora aperta di evitare una Somalia alle porte dell’Europa. Che sinistramente potrebbe avere gli stessi effetti dell’annessione dei Sudeti da parte di Hitler nel 1939. Libia: i due ex ostaggi italiani "ci tenevano incappucciati, tra i carcerieri una donna" di Grazia Longo La Stampa, 7 marzo 2016 Il racconto della prigionia di Pollicardo e Calcagno: "Botte e un pasto al giorno. I nostri otto mesi d’inferno prima di riuscire a fuggire". Il volto segnato da quasi otto mesi di prigionia, qualche sporadico e forzato sorriso "perché ancora non ci sembra vero di essere davvero liberi: è come se fossimo tornati indietro dall’inferno". Ma soprattutto la voce provata, rotta dal dolore "perché Salvatore e Fausto non sono qui insieme a noi". Lo hanno scoperto solo una volta messo piede in Italia. È un racconto lungo e sofferto quello che Gino Pollicardo e Filippo Calcagno offrono al pm Sergio Colaiocco (lo stesso che indaga per le torture e la morte di Giulio Regeni in Egitto) e ai carabinieri del Ros. Tre ore di interrogatorio a testa, a partire dalle 11 di ieri, poche ore dopo l’arrivo a Ciampino, giusto il tempo di abbracciare i familiari e mangiare un cornetto sorseggiando un cappuccino. "È una gioia anche questa. Gli ultimi due giorni prima di riuscire a scappare non abbiamo né mangiato, né bevuto. Niente. E per tutto il tempo in cui siamo stati prigionieri abbiamo mangiato solo una volta al giorno e neppure tutti i giorni. Quando provavamo a chiedere qualcosa ci riempivano di botte. Calci, pugni e pure qualche colpo in testa con il Kalashnikov". Le testimonianze vengono fornite in momenti distinti, ma le versioni quasi si sovrappongono. I covi a Sabratha - Due i covi dove Calcagno e Pollicardo sono stati rinchiusi insieme ai due colleghi Fausto Piano e Salvatore Failla. Entrambi alla periferia di Sabratha. Tre i carcerieri, due uomini e una donna. "Lei veniva ogni tanto, i due invece si alternavano di continuo. In loro presenza ci facevano stare sempre incappucciati, tranne in un paio di occasioni in cui ci hanno tolto il cappuccio per fotografarci". Immagini che servivano a provare che fossero in vita durante la trattativa della nostra intelligence con quella libica. Ad occhi scoperti i quattro italiani notano che i sequestratori portano il cappuccio e hanno un abbigliamento diverso dalla "divisa" dei membri dell’Isis. L’ipotesi infatti è che si sia trattato di filo islamisti, esponenti di milizie locali interessate al pagamento di un riscatto. Quest’ultimo resta un mistero, nonostante da diverse fonti filtrino indiscrezioni su un possibile accordo: una richiesta di 12 milioni di euro e un pagamento che oscilla tra i due e i sei milioni, anche se non è chiaro se sia andato o no a buon fine. I quattro ostaggi sarebbero stati separati proprio per gestire meglio il trasferimento verso la libertà, per contenere il rischio di attentati. Purtroppo, come sappiamo, durante quello di giovedì hanno perso la vita Failla e Piano. Mercoledì scorso i quattro tecnici della Bonatti sono stati separati per la prima volta. "Non ci hanno detto chiaramente perché, ma abbiamo avuto la sensazione che la liberazione potesse essere vicina. Fino a quel momento ci avevano dato da vestire abiti occidentali. Quel giorno invece ci hanno dato delle tute. Poi Fausto e Salvatore sono stati portati via". Per due giorni di seguito, nessuno si presenta nella prigione di Calcagno e Pollicardo: "Era la prima volta che succedeva, prima eravamo controllati a intervalli abbastanza regolari. Dopo due giorni di abbandono abbiamo provato a sfondare la porta e così siamo potuti scappare in strada e chiedere aiuto per andare alla polizia". Qualcuno ha favorito la fuga? I sequestratori avevano complici che, pressati dopo la morte degli altri due ostaggi, hanno allentato la presa? Oppure la morte dei sequestratori ha semplicemente favorito l’evasione? I due spostamenti - La libertà raggiunta non basta tuttavia a cancellare l’inferno di quegli otto mesi. "I primi tre mesi li abbiamo trascorsi in una casa, poi ci hanno spostato in una zona poco distante". In mezzo a case con l’intonaco a pezzi, antenne paraboliche sui tetti e tanto rumore per strada. "Ma certo non si può parlare di casa, era una stanza di 4 metri per quattro. Senza bagno e senza letti. Il gabinetto era fuori e ci portavano una volta al giorno. Eravamo costretti a dormire per terra. Non siamo mai usciti". A parte i due spostamenti. Il viaggio più lungo la sera del sequestro. "Era una domenica, il 19 luglio, eravamo entrati in Libia dalla Tunisia. Stavamo andando a Mellitah, dove c’è il compound dell’Eni, ci hanno rapito pochi chilometri prima. Vicino Zuwara". La prima impressione è stata "quella di essere stati venduti dall’autista". Le comunicazioni con i sequestratori sono sempre state ridotte al minimo e in un "francese piuttosto sgrammaticato, ma con cui riuscivano comunque a dirci quel poco che volevano. Tra di loro parlavano in arabo". Una volta rinchiusi, in assenza dei carcerieri, i nostri quattro connazionali potevano rimanere senza cappuccio. "Ma nessun’altra libertà, né cose da fare. Ogni tanto camminavamo per la stanza per non rimanere troppo intorpiditi. E parlavamo sempre tra di noi". I ricordi delle famiglie lontane, tanta ansia e tante sofferenze, sia fisiche sia psicologiche. Proprio questa condivisone ha dato la forza per tirare avanti. "Finché eravamo tutti e quattro insieme ci sentivamo in qualche misura come protetti, ci davamo forza gli uni con gli altri. Da quando ci hanno separati sono iniziati i guai per i nostri colleghi". Solo per Calcagno e Pollicardo si sono aperte le porte della salvezza. "L’emozione è stata talmente forte, che ci siamo pure dimenticati l’anno bisestile e abbiamo sbagliato la data, scrivendo 5 marzo invece che 4". Arabia Saudita: giustiziato un omicida, nel 2016 eseguite già 70 condanne a morte Askanews, 7 marzo 2016 L’Arabia Saudita ha giustiziato un cittadino ritenuto colpevole di omicidio, facendo salire a 70 il numero delle condanne a morte eseguite nel Paese dall’inizio dell’anno. Alaa al-Zahrani era stato condannato per aver ucciso Saudi Abdullah al-Sumairi colpendolo con una pietra in testa, ha reso noto il ministero dell’Interno saudita. È stato giustiziato nella città di Jeddah, sul Mar Rosso. Le 70 esecuzioni includono 47 condannati per "terrorismo", che sono stati giustiziati tutti nel medesimo giorno, il 2 gennaio scorso. Nel 2015 le condanne a morte erano state 153. Iran: il miliardario Babak Zanjani condannato a morte per corruzione di Beatrice Montini Corriere della Sera, 7 marzo 2016 Tra gli uomini più ricchi in Iran, Zanjani è accusato di aver incassato illegalmente quasi 3 miliardi di dollari di proventi pubblici del petrolio. Vicino all’ex presidente Ahmadinejad, il tycoon era finito nella lista nera degli Usa con l’accusa di aiutare Teheran ad eludere le sanzioni petrolifere. Il businessman miliardario Babak Zanjani è stato condannato a morte in Iran per corruzione. Zanjani, 41 anni, è stato arrestato nel dicembre 2013 con l’accusa di avere incassato in 2,8 miliardi di dollari di proventi pubblici del petrolio attraverso le sue società. Il tycoon, che durante il processo ha respinto le accuse di corruzione, aveva riconosciuto di aver utilizzato una rete di società negli Emirati Arabi, Malaysia e Turchia per vendere milioni di barili di petrolio iraniano per conto del governo. Il tycoon vicino all’ex presidente - La sentenza ha messo fine a un processo che gli iraniani hanno seguito con grande interesse e a cui è stata dedicata una insolita copertura mediatica in un Paese in cui di solito i procedimenti giudiziari sono coperti dal silenzio. Tra gli uomini più ricchi in Iran, Zanjani è a capo di un impero del valore di 14 miliardi di dollari con quartier generale a Dubai, che spazia in numerosi settori: cosmetica, servizi finanziari e bancari, turismo, infrastrutture, materiali edili, tecnologia dell’informazione, supermercati, estrazioni petrolifere e interessi immobiliari. Zanjani è anche proprietario di diverse compagnie aeree, di una squadra di calcio, una stazione di autobus, una flotta di taxi in Tagikistan, Paese si sviluppava gran parte dei suoi affari. Era molto vicino all’ex presidente Mahmud Ahmadinejad, per il quale aveva curato gran parte delle vendite di petrolio all’estero e per questa attività era stato inserito nella lista delle personalità sanzionate da Usa e Ue (che ne avevano congelato i conti esteri) dopo l’embargo petrolifero introdotto a luglio del 2012 a causa della disputa sul programma nucleare di Teheran. L’arresto - Fu proprio dopo la caduta di Ahmadinejad che emersero diverse denunce di episodi di corruzione che l vedevano coinvolto Zanjani. In particolare il miliardario fu arrestato dopo la denuncia di un gruppo di deputati ultraconservatori dell’Assemblea degli Esperti che lo accusarono di "corruzione sistematica": in sostanza accusavano il tycoon di aver intascato parte del denaro delle vendite di petrolio iraniano ancora sotto sanzioni, ripulito attraverso le sue società finanziarie. La sentenza, appellabile, è l’ultima di una serie di condanne emesse dai tribunali iraniani contro uomini d’affari e politici legati all’ex presidente. L’ex vice presidente Mohammad Reza Rahimi, condannato a gennaio scorso a 5 anni di carcere per corruzione, era accusato anche di aver fatto affari con Zanjani.