Giustizia, così abbiamo ridotto i tempi di Cosimo Ferri (Sottosegretario alla Giustizia) Il Tempo, 6 marzo 2016 Incentivate le procedure stragiudiziali, favorito quelle telematiche, aggrediti gli arretrati. Il settore giustizia è colonna portante del tessuto produttivo del Paese e dalla sua efficienza o inefficienza dipendono competitività, crescita economica, fiducia negli investitori, credibilità e stabilità della nostra organizzazione statale, attraendo, tra le altre cose, nuovi investimenti sul piano internazionale. A tal proposito è utile ricordare che l’Ocse ha stimato che la sola giustizia civile può pesare per l’1% del Pil nazionale. Il dualismo tra giustizia e mondo delle imprese lega quindi questi due settori in un rapporto interdipendente che ha portato Governo e Ministero ad assumere provvedimenti finalizzati a facilitare l’attività degli imprenditori, spaventati dall’eccesso di burocrazia, dalla lentezza dei processi, dalla difficoltà di vedersi riconosciuti in brevi tempi i propri crediti e dalla disomogeneità delle norme del diritto fallimentare. In primis, abbiamo agito sulla velocità dei processi, incentivando l’utilizzo di procedure stragiudiziali, favorendo l’utilizzo delle procedure telematiche e avviando un percorso di riduzione del carico di arretrato. I primi risultati dei nostri interventi hanno prodotto un significativo miglioramento dei tempi della giustizia. Nel corso del 2015 abbiamo avviato una riorganizzazione della disciplina delle procedure concorsuali al fine di rispondere con celerità ed efficacia alle crisi aziendali, velocizzare i tempi di attuazione delle misure, semplificare le procedure e garantire una sempre maggiore specializzazione sia dei magistrati, con il riconoscimento dell’importanza delle Sezioni Specializzazione in materia di imprese, sia degli avvocati, nell’ottica di una crescente attenzione nei confronti delle controversie fallimentari derivanti dalla crisi economica e finanziaria. Con il DL 83/2015, convertito in legge 132/2015, si è operato una necessaria contestualizzazone della normativa, adeguando gli strumenti giuridici alla realtà economica del Paese. Proprio nelle scorse settimane è stato presentato il disegno di legge scaturito dal lavoro della commissione di esperti guidata dal Presidente Rordorf, istituita dal Ministro della Giustizia lo scorso anno, con il compito di creare una disciplina organica in materia di crisi di impresa e di insolvenza e di fornire gli strumenti più adeguati ai tempi ristretti dell’economia moderna. Uno strumento molto importante che viene proposto è quello dell’allerta, ossia dell’adozione di misure finalizzate ad incentivare l’emersione anticipata delle situazioni di difficoltà aziendali, che permetterà di valutare alcune possibili soluzioni per aiutare l’impresa a sopravvivere ed evitare la propagazione degli effetti negativi sul mercato e per imprenditori, risparmiatori e consumatori. (LexFest, 5 marzo 2016) --------------- LexFest è una kermesse dedicata alla giustizia e agli operatori del diritto che si sta svolgendo a Cividale del Friuli. La manifestazione nasce da un’idea di Andrea Camaiora e ha per soggetto promotore la città di Cividale e per soggetto organizzatore il team di comunicazione strategica "Spin". L’iniziativa vede tra gli altri il coinvolgimento di: Università di Udine, ordine degli avvocati di Udine, convitto nazionale "Paolo Diacono" (liceo scientifico, classico, linguistico, scienze umane) e Radio Radicale. LexFest si rivolge a studenti degli istituti superiori, in vista di una loro più completa formazione nel campo socio economico e culturale, a giornalisti, magistrati, avvocati e studiosi di giurisprudenza. Il format prevede il confronto da posizioni diverse su cinque temi: la condizione carceraria, comunicare la giustizia, il rapporto tra accusa e difesa di fronte all’opinione pubblica, giustizia-ambiente-imprese, tempi della giustizia e tempi delle imprese. Partita il 4 marzo, la manifestazione (che ha visto tra gli ospiti anche il direttore del quotidiano Il Tempo Gianmarco Chiocci) si chiude oggi. Informatizzazione al Dap, spesi 2 milioni e il software è in un cassetto di Andrea Ossino Il Tempo, 6 marzo 2016 "L’acquisizione da parte dell’amministrazione penitenziaria di un prodotto del tutto inidoneo alle esigenze operative e non conforme ai requisiti contrattuali". Il procuratore regionale della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, illustra con parole amare il progetto fantasma che avrebbe dovuto permettere al Dap di dotarsi di un sistema informatico avanzato. Già, perché nonostante l’esorbitante costo (2 milioni di euro), e il tempo trascorso (16 anni), quel software è ancora riposto in un cassetto. La vicenda è narrata tra le pagine che compongono la relazione relativa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei magistrati contabili laziali e nei documenti a disposizione della Corte dei Conti. "Trattasi di un’ipotesi di danno erariale - si legge negli atti - derivante dall’inutile realizzazione e mancata utilizzazione di un sistema informatico, oggetto di due distinti progetti". Una storia che inizia nel dicembre del 2000, quando viene siglato un contratto con la società Finsiel per l’informatizzazione del Dap. In particolare il software commissionato sarebbe dovuto essere rivolto al settore che cura l’esecuzione penale esterna, ovvero tutto ciò che concerne le misure alternative alla detenzione. Il tempo passa, i soldi vengono stanziati, ma il prototipo risulta inadeguato. Così la società fa un secondo tentativo. Anche in questo caso "il nuovo prototipo, visionato nel corso del 2004, presentava le medesime criticità riscontrate nella realizzazione del primo progetto". Un risultato scadente sul quale, già dal 2011, si erano accesi i riflettori dei pm, anche in seguito alle segnalazioni del Direttore dell’Ufficio per l’attività Ispettiva del Dap. La corte dei Conti sottolinea così i "gravissimi errori nel coordinamento del progetto". Nel mirino dei magistrati ci sono i "palesi errori metodologici e di governance della fornitura, che ne hanno causato l’inidoneità, la mancata accettazione ed il conseguente inutilizzo totale", e il dirigente che "ha omesso di imporre all’impresa l’osservanza scrupolosa degli adempimenti contrattuali, nonché di attenersi alle numerosissime osservazioni dei Gruppi di lavoro succedutisi nel corso degli anni". Vicende che possono accadere se "il collaudo vero e proprio dei due sistemi non risulta essere mai avvenuto" e "il Documento di Specifica dei Requisiti non è stato approvato dall’amministrazione, causando una rischiosa fluidità e incertezza delle specifiche funzionali da realizzare". "Concorso esterno", quel reato per tutte le occasioni che ha decimato politici e divise di Luca Rocca Il Tempo, 6 marzo 2016 Quel reato che un giorno c’è e quello dopo sparisce, che per un giudice è chiaro e per l’altro non esiste, che nei processi regge oppure barcolla. È il concorso esterno in associazione mafiosa, contestato a chi non fa parte di Cosa Nostra ma ad essa "contribuisce" da fuori. Per una scuola di pensiero si tratta di un reato "normato" in quanto prodotto dal combinato disposto fra l’articolo 416 bis del 1982 (associazione mafiosa) e il 110 (concorso nel reato); per un’altra è tutt’ora solo un’emanazione giurisprudenziale sancita dalle sezioni unite della Cassazione (sentenza Demitry) nel 1994 e poi avallata da altre. Pochi mesi fa la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’ex agente del Sisde Bruno Contrada, accusato di reati commessi fra il 1979 e il 1988, non poteva essere condannato perché, prima di quella data, il concorso esterno non era chiaro. Nella stessa situazione si trova l’ex senatore Marcello Dell’Utri, in carcere per reati commessi sempre prima del 1994. Dopo la sentenza della Cedu, Contrada ha chiesto la revisione del processo, respinta, e i legali di Dell’Utri la revoca della condanna, anch’essa rispedita al mittente. Ma a rendere tutto ancora più aleatorio è stato, pochi giorni fa, il gup di Catania Gaetana Bernabò Distefano, che nel prosciogliere Mario Ciancio Sanfilippo, editore del quotidiano La Sicilia accusato proprio di concorso esterno, ha affermato che il concorso esterno "non è previsto dalla legge come reato". Eppure, anche se le cose stanno così, decine di politici, imprenditori, amministratori pubblici, magistrati e forze dell’ordine sono stati indagati, processati e condannati (alcuni poi assolti dopo il purgatorio giudiziario) per una legge che tale non è. "Concorso" politico - Il concorso esterno ha fatto fuori l’ex deputato regionale siciliano Franz Gorgone, i suoi omologhi calabresi Domenico Crea e Francesco Morelli, l’ex senatore democristiano Enzo Inzerillo e l’ex deputato del Psdi Gianfranco Occhipinti. Condannato in via definitiva pure l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena e in primo grado l’ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo. Puniti dai giudici anche gli ex sindaci di Campobello di Mazara Ciro Caravà, di Taranto Giancarlo Cito, di Villa Literno Enrico Fabozzi, di Leini Nevio Coral, di San Cirpiano d’Aversa Enrico Martinelli, e di Castrofilippo Salvatore Ippolito. Condannato anche Nicola Ferraro, esponente dell’Udeur. Dodici gli anni inflitti all’ex deputato regionale siciliano Fausto Fagone e sei all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli. Anche il consigliere regionale della Campania, Roberto Conte, ha subìto una condanna a due anni, e sei sono toccati a Nicolò Notaro, ex responsabile del Cdu di Villabate. In carcere è finito l’ex parlamentare Francesco Patriarca, mentre condannato è stato pure l’ex vicesindaco Psi di Caltanissetta Giovanni Orlando. Tre gli anni inflitti, da consigliere comunale di Reggio Calabria, a Leo Pangallo, e 5 all’ex sottosegretario alla Marina Mercantile Giuseppe Demitri. "Divise" e imprenditori - L’ex numero tre del Sisde, Ignazio D’Antone, ha scontato otto anni di galera, mentre a 10 anni è stato condannato il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Tomarchio. Punito anche Daniele Argenziano, il carabiniere "talpa" accusato di aver favorito i clan. Concorso esterno contestato, poi, agli imprenditori Cristiano Sala e Ferdinando Bonanno, che deteneva quote di una nota catena di supermercati. Dieci anni per gli imprenditori Francesco Cammarata, Gandolfo David e Santo David. Sentenza di colpevolezza anche per i loro colleghi Giovanni Malinconico, Vincenzo Giammanco, Benny D’Agostino e Giuseppe Montalbano. Stesso reato per l’ex banchiere di Marsala Baldassare Scimemi. Toghe colluse? - Il concorso esterno, infine, è stato fatale anche per Giuseppe Prinzivalli, ex presidente della Corte d’Assise di Palermo (poi prescritto), per il magistrato napoletano Vito Masi e per Salvatore Sanfilippo, già magistrato alla Corte d’appello di Palermo. Condannato per lo stesso reato anche l’avvocato Girolamo Casella, ex difensore del boss dei casalesi Giuseppe Setola, l’ex cancelliere dell’ufficio Gip di Caltanissetta, Massimo Chiarelli, e infine il notaio Pietro Ferraro. Omicidio stradale ad armi spuntate di Guido Camera e Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2016 Nonostante le pene maggiorate, le porte del carcere si apriranno solo in un caso su 5. Non più di uno su cinque. Nonostante la versione definitiva della legge sull’omicidio stradale (in corso di pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale") preveda pene aggravate per una casistica più ampia rispetto a quella originaria, i conducenti che rischiano davvero di scontare in carcere la condanna per aver causato un incidente mortale restano abbastanza pochi; gli altri, pur colpevoli, non risultano aver commesso infrazioni sufficientemente gravi da rientrare nelle aggravanti necessarie per far scattare la reclusione definitiva (anche se qualcuno potrebbe scontare un periodo di custodia cautelare, si veda Il Sole 24 Ore dell’altro ieri). Tradotto in termini di infrazioni commesse, questo vuol dire che il rischio effettivo di andare in prigione sia alto solo nei pochi casi che s’intendeva colpire originariamente e per le quali la pena prevista dalla legge sarà compresa tra otto e 12 anni: ebbrezza grave (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro) e - per i soli conducenti di mezzi pesanti - media (da 0,81 a 1,5 g/l) e droga, oltre che quando le vittime sono più di una. Si aggiungono le infrazioni sono quelle aggiunte alla nuova legge negli ultimi mesi di discussione, la pena teorica andrà da cinque a 10 anni. Queste infrazioni sono l’ebbrezza media per i conducenti di mezzi non pesanti, la velocità "spropositata" (doppia rispetto al limite in città ed eccessiva per oltre 50 km/h fuori città), il passaggio col rosso, il contromano, l’inversione vicino a curve, dossi o incroci e il sorpasso con striscia continua o strisce pedonali. In tutti questi casi, il carcere potrebbe esserci solo nelle situazioni più gravi. Dunque, c’è un divario rispetto agli scopi di deterrenza e certezza della pena dichiarati dalla politica nel proporre a approvare la legge. Queste stime sono state fatte dal Sole 24 Ore sulla base delle statistiche degli incidenti stradali del 2014, le ultime che l’Istat dà in modo completo. Sono stati considerati i sinistri mortali in cui le forze dell’ordine hanno riscontrato la responsabilità di un conducente, indicando il comportamento illecito che è stato ritenuto alla base dell’incidente. Sono stati così individuati i comportamenti che con la nuova legge saranno puniti con reclusione superiore a quattro anni, soglia approssimativa oltre cui si può ritenere si possa effettivamente trascorrere in carcere almeno parte della condanna. Infatti, fino ai quattro anni c’è l’affidamento in prova al servizio sociale, che può essere concesso (legge 10/2014), se l’osservazione della personalità dimostra che il condannato si sia rieducato e non presenti forme di pericolosità. I calcoli, riassunti nella tabella a destra, non possono essere precisi, per varie ragioni. Tra esse, il fatto che i comportamenti censiti dalle statistiche non sono esattamente sovrapponibili alle infrazioni che danno luogo alle aggravanti previste dalla nuova legge, i cui effetti sulle condanne effettive risentono poi delle molte variabili tipiche del sistema penale italiano. Inoltre, le cifre non possono tenere conto delle modalità con cui è stata commessa l’infrazione e sulla figura del responsabile (che pesano sulla quantificazione della pena) e sono riferite alle vittime e non agli incidenti (in alcuni c’è più di una vittima). In ogni caso, tutto ruota attorno al fatto che la pena effettivamente da scontare è molto inferiore rispetto a quella stabilita dalla nuova legge. Una caratteristica tipicamente italiana, dovuta a varie particolarità del nostro sistema penale. Non solo perché è previsto l’affidamento al servizio sociale. La discrezionalità che il Codice penale (articoli 132 e 133) dà al giudice nella graduazione della pena e i riti alternativi premiali (che concedono lo sconto di un terzo secco nel giudizio abbreviato e fino a un terzo nel patteggiamento) abbattono la pena effettiva, spesso facendola andare sotto il limite dei due anni, che fa scattare la sospensione condizionale. La nuova legge vieta di concedere le attenuanti prevalenti o equivalenti, ma non vale in una serie di casi tra cui quello della minore età. Considerando le forme deflattive del rito minorile, il carcere resta per i ragazzi un rischio remotissimo anche in gravi incidenti. Anche chi finirà in carcere potrà poi restarci per molto meno tempo rispetto al la condanna. La legge, infatti, non prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione, quindi il condannato - con pena fino a 4 anni definitiva - potrebbe attendere in libertà il procedimento di sorveglianza. Ci sono anche i benefici collegati alla liberazione anticipata (45 giorni per semestre, al netto di ulteriori sconti futuri che sembrano probabili data l’emergenza- carceri). Così anche una condanna di 10 anni inflitta da giudici severi potrebbe scendere ai quattro che danno diritto all’affidamento al servizio sociale. Omicidio stradale, i penalisti insorgono ma non dicono tutta la verità di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2016 Due giorni di silenzio, poi l’attacco. Secondo i penalisti, la legge sull’omicidio stradale approvata l’altro ieri è "vera e propria mistificazione", un "arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale, frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della "grammatica" del diritto penale". Sono parole della giunta dell’Unione delle Camere penali (Ucpi), secondo cui della nuova legge non ci sarebbe nemmeno bisogno. Perché non è vero che i responsabili di gravi incidenti finora sono rimasti impuniti. Accuse molto forti, che hanno un fondamento di verità, anche se appaiono criticabili sulla questione dell’impunità. Fanno bene i penalisti a ricordare che già prima in caso d’incidente mortale non c’era il semplice reato di omicidio colposo (pena da sei mesi a cinque anni), ma la sua versione con aggravante specifica legata proprio alla violazione di norme stradali (pena da due a sette anni, che diventavano da tre a 10 anni se il colpevole era risultato in stato di ebbrezza grave o di alterazione da droga). Però non si può negare che in non pochi casi i giudici tendevano a preferire i minimi di pena e, considerando i vari "sconti" previsti dalle regole generali (come quello di un terzo per chi accetta il rito abbreviato) le condanne effettive si mantengono entro i due anni. Cioè sotto la soglia che dà diritto a non andare in carcere perché c’è la sospensione condizionale della pena. L’Ucpi non concorda, tanto che afferma che "non è assolutamente vero che prima non ci fossero gli strumenti per scoraggiare, mediante la minaccia di severe sanzioni, un fatto certamente molto grave e socialmente intollerabile, né, almeno nella maggioranza dei casi, si può dire che le decisioni dei giudici fossero ispirate a criteri di particolare clemenza, anzi". Non esistono statistiche precise che dimostrino dove sia la verità, ma di certo la cronaca si è spesso occupata di casi di sostanziale impunità. Secondo l’Ucpi, poi, spesso la giurisprudenza "certo con eccessi assolutamente non condivisibili aveva ricondotto il fatto alla previsione dell’omicidio doloso, con dolo eventuale (pena da ventuno a ventiquattro anni)". Vero, ma solo per pochi casi particolarmente gravi e, soprattutto, finiti sempre con una condanna per omicidio colposo perché la Cassazione ha sempre bocciato le sentenze d’appello che riconoscevano il dolo eventuale. Piuttosto, andrebbe detto che in questi casi l’omicidio colposo aggravato dalla violazione del Codice della strada e da effetti di alcol e droga veniva punito col massimo della pena o poco meno, quindi sui 10 anni. Certo, anche qui gli "sconti" rendono meno pesante la pena effettiva. Ma in questi casi l’imputato in prigione ci va davvero. E comunque le pene che sono state in vigore finora sembrano più proporzionate al contesto: altri reati che suscitano allarme sociale non sono puniti diversamente, per cui i 12 anni (o addirittura 18 nei casi più gravi in cui c’è più di una vittima) che la nuova legge sull’omicidio stradale prevede come massimo possono sembrare esagerati. Questo, tra l’altro, porta al rischio concreto che la Consulta dichiari l’incostituzionalità della nuova legge per il trattamento diseguale riservato a situazioni di pari gravità: prima le pene erano uguali a quelle previste in caso di infortuni mortali sul lavoro, ora sono superiori. Ma appare poco credibile che un datore di lavoro che trascura di proteggere i dipendenti sia da trattare meglio rispetto a un guidatore molto spericolato. Omicidio stradale, perché sarà difficile ottenere il risarcimento dei danni di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2016 Ci si chiede se il nuovo reato di omicidio stradale potrà effettivamente tutelare le giuste aspettative delle vittime di un reato stradale. Ma finora la domanda è stata posta solo in termini di punizione per il colpevole, mentre esiste anche la necessità di garantire un risarcimento dei danni esauriente e veloce. E le premesse non sembrano le migliori. Senza contare che, anche limitandosi alle punizioni, le criticità non sono poche e vari passaggi della legge lasciano ipotizzare che, paradossalmente, i soggetti più penalizzati dalla sua severità saranno proprio le famiglie delle vittime. Le assicurazioni hanno un ruolo fondamentale, facendosi carico della difesa dell’assicurato e garantendo ai danneggiati il risarcimento dei danni. Che sono spesso ingenti e che, altrettanto spesso, il condannato non può pagare senza il loro supporto. Ma l’aumento significativo delle pene comporterà processi sempre più impegnativi. E sembra scontato che l’imputato e le assicurazioni preferiranno a una transazione rapida l’investimento di risorse per preparare una difesa agguerrita - con fisiologico aumento di animosità tra vittime e autori del reato - tesa a dimostrare un concorso di colpa o la non sussistenza di uno stato di ebbrezza o alterazione da sostanze stupefacenti. Infatti, basta pensare alla formidabile efficacia attenuante (pena ridotta "fino alla metà") che riveste il concorso di colpa. O ai sensibili aumenti di pena per chi guida in condizioni di ebbrezza o sotto effetto di droghe: il minimo edittale balza da due a otto anni. Così un ruolo da protagonista lo avrà la tossicologia. E c’è, in generale, la necessità di indagini sempre più accurate, con espansione del ricorso a scienza e tecnologia. Che offrono un apporto fondamentale nella ricostruzione della dinamica dell’incidente e della attribuzione delle responsabilità delle singole condotte, ma che vanno gestite con grande professionalità. Non va infatti dimenticato che la responsabilità in relazione a un reato va giustamente provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma non è tutto. Il rigido meccanismo di computazione delle circostanze del reato, imposto al giudice nelle ipotesi aggravate di lesioni od omicidio stradale dall’articolo 590-quater del Codice penale, non invoglierà il ricorso a riti alternativi quali il patteggiamento, la cui caratteristica è proprio un accordo sulla pena tra accusa e difesa e che, quale indiretta ammissione di responsabilità, rende generalmente più rapidi anche i tempi del risarcimento dei danni da parte delle assicurazioni. Inoltre, l’attenuante per l’avvenuta riparazione del danno col suo risarcimento prima dell’inizio del processo non potrà essere concessa in tutti i casi "aggravati" di omicidio o lesioni stradali. Il che pare paradossale, oltre che non corrispondente ai princìpi del diritto penale moderno, che della riconciliazione dell’autore con la vittima del reato - che passa anche per il risarcimento - fa uno dei propri cardini. Eppure difficilmente il legislatore avrebbe potuto essere demonizzato se avesse licenziato norme volte a incentivare un epilogo di un omicidio stradale, che - favorendo in tempi brevi il risarcimento dei danni e il successivo ricorso da parte dell’imputato a riti alternativi - privilegiasse la tutela patrimoniale delle famiglie delle vittime. Risparmiando loro anche il dolore inevitabilmente dovuto al rivivere in tribunale il ricordo di un incidente in cui ha perso la vita una persona cara. Carceri: il sovraffollamento non c’è più? di Rita Bernardini (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2016 Puntualmente sul sito giustizia.it sono usciti i dati delle presenze dei detenuti nei 195 istituti penitenziari italiani al 29 febbraio 2016. Come spesso mi capita, mi sembra doveroso analizzarli anche perché il Ministro della Giustizia continua a ripetere che il sovraffollamento nelle carceri è definitivamente superato. Dei 195 istituti penitenziari (intanto, non si comprende perché si continuino a conteggiare pure 5 OPG che dovrebbero essere stati da tempo chiusi: forse perché illegalmente vi sono ancora sequestrate 316 persone?) ben 91 hanno un sovraffollamento che va dal 110% al 192%, il che vuol dire che in 100 posti regolamentari quando va bene ci "azzeccano" 110 detenuti e quando va male ce ne accalcano fino a 192. In sintesi: 18 istituti hanno un sovraffollamento che va dal 151% al 192%; 15 istituti hanno un sovraffollamento che va dal 141% al 150%; 19 istituti hanno un sovraffollamento che va dal 131% al 140%; 17 istituti hanno un sovraffollamento che va dal 121% al 130%; 22 istituti hanno un sovraffollamento che va dal 110% al 120%. Nei giorni scorsi, inaugurando il nuovo carcere di Rovigo (che però aprirà nell’estate 2017), il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha affermato 1) "Quando ci siamo insediati c’erano 64mila detenuti e 45mila posti disponibili" 2) "Dal mio insediamento ad oggi abbiamo realizzato 4.000 posti in più senza inaugurare un nuovo carcere, semplicemente facendo manutenzione sui raggi dei penitenziari non utilizzati". Non è così. Orlando si è insediato il 22 febbraio 2014 praticamente in concomitanza con la sentenza della Consulta (decisa il 12 febbraio e pubblicata in Gazzetta il 5 marzo 2014) che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, sentenza che ha fatto uscire molta gente dalle galere oltre ad impedire migliaia di nuovi ingressi. Al 31 marzo 2014 i detenuti erano 60.197 (non 64.000 come dice Orlando) mentre i posti disponibili erano 48.309 (non 45.000 come dice Orlando). Quanto ai 4.000 posti in più realizzati dal suo insediamento, che dire? Erano 48.309 allora e sono 49.504 oggi: quindi, 1.195 posti in più non 4.000. Inoltre, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) al 29/2/2016 c’erano 316 persone illegalmente detenute. I 1.032 posti degli Opg secondo il Ministero della Giustizia fanno parte della capienza "regolamentare", solo che nei 716 posti disponibili (tolti i 316 sequestrati) non ci può andare giustamente nessuno, visto che gli Opg dovrebbero essere stati chiusi già da tempo. Quindi dai 49.504 andrebbero tolti i 1.032 posti degli Opg ed ecco che arriviamo ad una cifra pressoché identica a quella dell’insediamento del Ministro della Giustizia. L’Oms lancia l’allarme "tossicodipendenti in carcere a rischio di infezione" Corriere della Sera, 6 marzo 2016 Non si chiamano più drug users (cioè utilizzatori di droghe o drogati), ma Pwid (People who inject drugs, persone che si iniettano droghe) nel linguaggio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Ma il problema rimane lo stesso. "Queste persone sono quelle a maggior pericolo di infettarsi con il virus dell’epatite C, oltre che con quello dell’Aids, l’Hiv - ha ricordato in un incontro a Bruxelles Alexis Goosdeel dell’European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addictions. Non si sottopongono a test, non sono consapevoli della possibilità di essere infetti, non riescono ad accedere ai trattamenti per i costi troppo elevati e anche se trattati, corrono rischi di reinfezione". Si tratta di una popolazione che è presente soprattutto nelle carceri, dove il tasso di pazienti infetti con Hcv può raggiungere anche il 30% e la probabilità di reinfezione dopo trattamento il 22%. "Io, soldato malato per colpa dell’uranio. E ora lo Stato mi dà ragione" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 6 marzo 2016 Per la prima volta una sentenza riconosce la causa di servizio a un militare. Lorenzo Motta racconta la sua esperienza: "Un calvario, chiederò i danni". "Avevo 24 anni quando mi hanno diagnosticato il linfoma, oggi che ne ho dieci di più e sono ancora vivo. L’unica cosa che mi sta a cuore è garantire il futuro dei miei quattro figli. Perché oggi, grazie a Dio sto benino, ma non so cosa potrà accadere domani. E questa sentenza, finalmente, rende giustizia a me e ai tanti che come me si sono ammalati per servire la patria". Lorenzo Motta, ex sottocapo della Marina militare, oggi transitato nei ruoli civili del ministero della Difesa a causa della sua malattia, stringe nelle mani la sentenza emessa dalla quarta sezione del Consiglio di Stato che, per la prima volta in Italia, riconosce la "causa di servizio" a un militare ammalatosi dopo l’esposizione ripetuta a polveri di uranio impoverito nei teatri di guerra. Lorenzo, ci racconti la sua storia. Innanzitutto, come sta? "In questo momento abbastanza bene, per quanto possa stare bene chi ha avuto diagnosticato un linfoma di Hodgkin. Nel mio corpo, come ha stabilito in maniera incontrovertibile la biopsia sul mio midollo osseo e su un linfonodo che mi è stato tolto, circolano ancora particelle di svariati metalli, bario, acciaio, oro, rame, che la sentenza dei giudici amministrativi hanno definito "frammenti di particelle micrometriche da polverizzazione di uranio impoverito"". E dove l’ha respirato questo uranio impoverito? "Per tre anni ho partecipato a tutte le più importanti missioni all’estero della Marina, Grecia, Turchia, Gibilterra, Golfo Persico, Marocco, Afghanistan, operazioni antiterrorismo e antipirateria, dove - come abbiamo purtroppo scoperto solo dopo e come ha accertato la sentenza - si faceva uso di uranio impoverito nelle munizioni anticarro e nelle corazzature di alcuni sistemi di armamenti". E poi cos’è successo? Quando si è accorto di essersi ammalato? "A luglio 2005, sentii una pallina nel collo, nessuno capiva cos’era fino a quando a dicembre mi operarono d’urgenza e dai controlli venne fuori che la malattia si era propagata già fino al torace e all’addome. E lì è cominciato il mio calvario: 16 cicli di chemioterapia e 35 di radioterapia, proprio nel momento in cui mia moglie era rimasta incinta. Tutto potevo pensare tranne che la Marina nel giro di tre mesi mi lasciasse senza stipendio. E invece è successo proprio questo. Improvvisamente mi sono ritrovato sfrattato da casa e nell’impossibilità di pagare persino le visite per la gravidanza di mia moglie". Questo perché non le riconoscevano la causa di servizio della malattia, evidentemente. "Certo, pretendevano che fossi io a provare il nesso di causa-effetto. Ma io so solo che fino al 2002, subito prima di partire per la mia prima missione, ero un ferro. Al comando incursori della Marina a La Spezia mi hanno rivoltato come un calzino sottoponendomi ad ogni tipo di analisi e visita medica. Se avessi avuto anche uno solo di questi maledetti metalli che mi girano dentro lo avrebbero rilevato". Per quanto tempo è rimasto senza stipendio? "Per un anno esatto. Appena ho potuto, il 15 ottobre 2006, esattamente il giorno in cui nasceva la mia prima figlia, sono dovuto partire per Taranto per un corso che mi avrebbe reinserito in servizio. Da lì mi mandarono ad Augusta dove i medici mi hanno ritenuto non idoneo al servizio, facendomi transitare nei ruoli civili del ministero della Difesa. Per sopravvivere e pagare i debiti ho dovuto trasferirmi a casa di mio padre a Torino. E ho deciso, assistito dai miei avvocati Pietro Gambino ed Ezio Bonanni, di dare battaglia. Il Tar mi ha dato ragione e finalmente ora il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso dei ministeri aprendo la strada al dovuto riconoscimento dei diritti dei tanti che, come me, si sono ammalati perché lo Stato che serviamo ci ha esposto a rischi che non avremmo dovuto correre. Ora spero in un risarcimento". La via delle riforme per colmare la distanza tra politica e cittadini di Maria Elena Boschi Corriere della Sera, 6 marzo 2016 Il ministri delle Riforme risponde all’editoriale di Ferruccio de Bortoli "Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini". Caro direttore, al fondo degli interrogativi posti, con puntualità e passione civile, da Ferruccio de Bortoli sulCorriere di sabato ("Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini") c’è una domanda radicale che merita, secondo me, un approfondimento ulteriore: non se, ma quanto gli strumenti della democrazia rappresentativa, e dunque le sue stesse forme, siano efficaci, riescano a colmare il divario - crescente? - tra elettori ed eletti, tra demos e decisori. Prendendo in parola i timori sul pericolo di una "irrilevanza", una "distanza" che richiama "disaffezione" e "disagio" il governo ha messo in campo una serie di riforme di sistema. Quella costituzionale, che troverà a ottobre con il referendum, un momento di coinvolgimento e di partecipazione più ampia, dopo il lungo lavoro parlamentare, peraltro non ancora concluso. E che renderà più leggibile e comprensibile il nostro disegno istituzionale, più chiara la nostra democrazia. La disaffezione alla politica si combatte anche con una politica più chiara e semplice e soprattutto decidente, come fa la nostra riforma. E non sarà solo una semplificazione, una doverosa razionalizzazione, ma uno sforzo di rendere la architettura delle istituzioni più lineare e coerente, anche con la sua ispirazione costituente. Perché io penso che, anche di fronte alla nuove sfide che ci vengono poste dal disagio di cui parla de Bortoli, dalla Rete, dall’ampliamento delle sfere di cittadinanza, abbiamo una via maestra per trovare soluzioni intelligenti: la nostra Costituzione. Per questo, nella riforma, abbiamo pensato al rafforzamento dell’istituto referendario, tra l’altro introducendo per la prima volta anche referendum propositivi e di indirizzo, non semplicemente come bilanciamento, ma come stress test, come prova da sforzo che ha bisogno di una maggiore responsabilità per evitare che si trasformi, come purtroppo è accaduto troppe volte, in un esercizio velleitario e ininfluente. Inoltre, se da un lato abbiamo alzato il numero delle firme da raccogliere per le proposte di legge di iniziativa popolare, dall’altro, abbiamo reso obbligatoria la discussione e deliberazione in Parlamento, proprio per evitare che restassero a prendere polvere nei cassetti. Quando parlano i cittadini, se messi in condizione di far udire chiara e forte la propria voce, non ci sono guru e blog che tengano. Io stessa, e svesto i panni di ministro per parlare come militante del Partito Democratico, non so quanti saranno gli italiani che affolleranno i gazebo oggi per le primarie a Roma, Trieste, Napoli (ma anche Bolzano, Grosseto, Benevento). Ma penso, con orgoglio, che questa sia non la, ma una risposta, la nostra risposta - non solo numerica, quantitativa, ma qualitativa - a quel senso di spossessamento che De Bortoli lamenta. Non la panacea, ma un tentativo, democratico dunque perfettibile, di aprire, includere, partecipare, condividere, scegliere. Non sarà un voto contro quello di oggi alle primarie, non sarà un voto contro quello al referendum di ottobre, ma per, aperto al cambiamento, se è solo se saremo in grado di rendere il meno accidentato possibile questo percorso di decisione, di definizione di Lebenschancen per dirla con Dahrendorf, questa assunzione di responsabilità da parte dei cittadini che siamo. Per questo crediamo alla Rete e alle opportunità aperte dal web, ma non pensiamo che sia una surroga, una delega in bianco. Anche il ricorso al débat publique valorizzato dal nostro governo (non solo nel codice appalti ma anche per esempio nella riforma della Rai) non può esonerare la classe politica dalla assunzione delle proprie responsabilità e dalla necessità di decidere. Essere cittadini informati ci impone di essere esigenti, critici, senza sconti per nessuno. Lo scrutinio deve valere per ognuno di noi, anche per chi si nasconde dietro gli algoritmi. In questo senso, invito a non banalizzare anche un’altra riforma di sistema che abbiamo messo in campo, quella della legge elettorale. Che finalmente restituirà ai cittadini il diritto di sapere il giorno stesso del voto chi avrà vinto le elezioni. La riforma costituzionale e la legge elettorale insieme daranno la possibilità ai cittadini di scegliere non solo i parlamentari, ma la maggioranza di governo. Il popolo sceglie di più non di meno quando ha la possibilità di individuare la maggioranza di governo, come già aveva evidenziato anche Mortati. Un risultato tanto più apprezzabile se si guarda quanto sta succedendo in questi giorni in Europa, dalla Spagna all’Irlanda, con sistemi elettorali che favoriscono, quelli sì, ammucchiate e trasformismi, incertezza e instabilità. Per la prima volta siamo un esempio positivo su questo terreno, grazie all’Italicum che permette di scegliere le maggioranze di governo ai cittadini al momento del voto e non ai partiti dopo il voto, mettendoci in condizione non solo di contarci, ma di contare. Per questo è non solo opportuno, ma urgente che si dibatta e si discuta ancora di proposte - come quella sulla rappresentanza sindacale, ad esempio - per colmare il fossato e non scoraggiare l’impegno, che c’è eccome, di chi chiede voce e conto agli eletti. In questa capacità di adattamento, nella spinta a non schivare i problemi, ma ad affrontarli con soluzioni condivise, credibili, sempre migliorabili, risiede la forza mite della democrazia. Non saranno sufficienti, certo, ma le riforme che stiamo portando avanti, caro direttore, non sono e non devono essere considerate un punto di arrivo, ma di partenza, per fare dell’Italia, come ci siamo impegnati a fare, un Paese più semplice e più giusto. Imperia: sovraffollamento in carcere, 94 detenuti su una capienza di 69 primocanale.it, 6 marzo 2016 Sovraffollamento nel carcere di Imperia: arriva un nuovo allarme. A lanciarlo è Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari, che sottolinea le difficoltà con cui convive l’istituto penitenziario del capoluogo del Ponente ligure. "Nonostante la settimana passata, siano stati trasferiti dieci detenuti per sfollamento, la conta di oggi risulta essere di 94 detenuti complessivi su una capienza di 69", afferma Pagani, che ricorda: "ultimamente la media di arresti-ricezione è di due-tre detenuti al giorno". Qualche segnale positivo tuttavia c’è. A breve infatti Imperia avrà un direttore in pianta stabile e cinque unità di polizia penitenziaria, provenienti dal carcere dismesso di Savona. Ma il segretario regionale Uil-Pa non è soddisfatto: "Non si comprende - dichiara - per quale motivo l’Amministrazione si ostini a non voler dedicare la Casa Circondariale di Imperia esclusivamente alla ricezione dei nuovi giunti, sino al momento della convalida, evitando questi numeri e, soprattutto, garantendo ai presenti un trattamento ed un percorso dignitoso e rieducativo e alla polizia penitenziaria una miglior condizione lavorativa", conclude Pagani. Catanzaro: morte detenuto. I Radicali: istituire Garante. La direttrice: nessuna epidemia catanzaroinforma.it, 6 marzo 2016 "In Calabria urge istituire (e subito nominare) il garante regionale dei detenuti. Il consiglio regionale non aspetti oltre. La morte di Michele Rotella nell’ospedale di Catanzaro dove era stato trasportato d’urgenza il 27 febbraio dal carcere Ugo Caridi rende palese la gravità delle condizioni in cui versano le carceri calabresi dove, oltre ad essere privati della libertà, viene meno anche il diritto alla salute". Così i due militanti del Partito Radicale Candido e Ruffa che durante le festività natalizie hanno effettuato visite in tutte le dodici carceri calabresi. "Da quando, nel 2008, la sanità in carcere è passata di competenza alle Regioni le cose sono assai peggiorate. La situazione igienico sanitaria riscontrata durante l’ultima visita fatta il 29 dicembre scorso, era assai precaria. Oltre ai letti a castello a tre piani che, in alcune celle, erano pure occupati, ed oltre alle docce multiple con relativa muffa sul soffitto, la problematica che più emergeva evidente per le oltre 570 persone detenute a Siano erano proprio le precarie condizioni igienico sanitarie: 45 detenuti tossicodipendenti di cui otto in terapia con metadone, 125 casi psichiatrici di cui 45 in terapia con ansiolitici, 39 detenuti affetti da epatite C e quattro sieropositivi. Ora, dalla stampa locale, apprendiamo che negli ultimi giorni il Rotella accusava malori "tipici delle enteriti" e che la gravità del problema sarebbe stata sottovalutata. Pare infatti che il Rotella sia morto per un’infezione da batterio clostridium difficilis il cui sviluppo è associato all’esposizione eccessiva ad antibiotici e si trasmette facilmente da persona a persona per via fecale-orale. Per Pasqua - come delegazione del Partito Radicale - chiederemo ancora di poter verificare le condizioni. Nell’attesa che nella terra di Tommaso Campanella si approvi la proposta di legge regionale che istituisce il garante regionale dei diritti dei detenuti," - chiosano Candido e Ruffa - "viene da chiedersi se la Regione Calabria stia aspettando che scoppi un’epidemia per mettere in sicurezza sanitaria il "labirinto" delle proprie carceri". Intanto il direttore della casa circondariale Paravati ribadisce: non c’è epidemia. Crotone: "siamo pochi", agenti rifiutano i pasti giornaledicalabria.it, 6 marzo 2016 Il personale della polizia penitenziaria in servizio a Crotone ha protestato nei giorni scorsi rifiutando il pasto servito nella mensa di servizio, a causa delle gravi difficoltà operative, derivanti dalla carenza di organico. Alla protesta ha aderito tutto il personale compreso quello non appartenente alla polizia penitenziaria. A rendere nota la notizia è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe). "La segreteria generale del Sappe - è scritto in una nota esprime la massima solidarietà e condivisione verso l’iniziativa del personale di Crotone; iniziativa che giunge dopo tante segnalazioni fatte all’amministrazione centrale e soprattutto regionale, il cui immobilismo ci preoccupa per il futuro del buon andamento della struttura di Crotone e di tuttI gli istituti calabresi". Infatti - afferma Capece - negli ultimi anni, a fronte di una continua riduzione del personale sono state attivate nuove sezioni detentive e nuovi istituti penitenziari, senza procedere all’adeguamento dell’organico della polizia penitenziaria". "Con le 1.478 unità previste dal decreto ministeriale del 2013 - prosegue - si è proceduto all’attivazione di nuove strutture come Laureana di Borrello, Arghillà a Reggio Calabria, il nuovo padiglione detentivo di Catanzaro, nonché le nuove sezioni detentive di Vibo Valentia, di Paola, di Rossano Calabro che ospita anche i detenuti accusati di terrorismo internazionale e di Reggio Calabria. Tutto questo ha determinato la riduzione del personale in quasi tutti gli istituti della regione, dai quali si è attinto per attivare le suddette strutture. Infatti, oltre a Crotone che, come detto, ha subito una riduzione del 51% rispetto all’organico determinato nel 2001, anche altri reparti hanno subito una consistente riduzione di organico: Vibo Valentia 30%, Cosenza 16%, Catanzaro, nonostante l’apertura del nuovo padiglione, ha subito una riduzione del 10% e la stessa sorte è toccata al Reparto di Locri per una percentuale del 10%. Non sono messi meglio gli altri Istituti della provincia di Reggio Calabria, dove si è reso necessario il continuo invio di personale distaccato, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, in particolare per la nuova struttura di Arghillà a Reggio Calabria, dove a distanza di anni dall’attivazione non si riesce a stabilizzare il personale". "A seguito di ciò - conclude - si è determinato un notevole accumulo di congedo nei vari istituti. A Palmi, per esempio, il personale di polizia penitenziaria deve fruire di10000 giornate di congedo. Le carenze di personale causano anche un n notevole accumulo di lavoro straordinario, tant’è che negli anni passati è stato necessario stanziare circa 380.000 ore. Da rilevare, infine, che la carenza di uomini e donne della polizia penitenziaria causa un notevole abbassamento dei livelli di sicurezza, in una regione dove sono presenti molti detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza. Per queste ragioni risulta necessario e indispensabile un consistente aumento del personale di polizia penitenziaria nella regione Calabria che non dovrà essere inferiore alle 300 unità". Roma: "Il mio campo libero", formaggi "Dol" (di origine laziale) a Rebibbia femminile di Francesca Cusumano (A Roma Insieme Onlus) Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2016 Proprio nel giorno dell’anniversario della nascita del grande Lucio Battisti , il 5 di marzo è stato presentata a Roma al mercato di Campagna Amica della Coldiretti al Circo Massimo l’iniziativa avviata nel carcere femminile di Rebibbia da Vincenzo Mancino, titolare del ristorante Proloco Dol nel quartiere romano di Centocelle, che rievoca il titolo di uno dei brani più noti del cantautore di Poggio Bustone. Alla presentazione, introdotta dal presidente di Fondazione Campagna Amica, Toni De Amicis, hanno partecipato oltre allo stesso Mancino, la direttrice del carcere di Rebibbia, Ida Del Grosso, l’assessore all’Agricoltura della Regione Lazio, Carlo Haussman, il direttore della Coldiretti, Aldo Mattia e per A Roma Insieme, Francesca Cusumano. Un’iniziativa particolarmente importante quella avviata da Mancino, che ha realizzato un vero e proprio caseificio nel rispetto di tutte le normative per la lavorazione del latte crudo, che dà lavoro, per ora, a 4 detenute della Casa Circondariale le quali producono 20 chili al giorno di 4 tipi diversi di formaggi e una ricotta con 200 litri di latte biologico provenienti da una cooperativa di Poggio Mirteto in Sabina. Di proposito ai formaggi non sono stati dati nomi: "all’interno del carcere - ha detto Mancino - tutto, dalle celle alle stesse detenute, viene identificato con un numero, allo stesso modo c’è il formaggio n.1 il n. 2 ecc. La produzione è immediatamente riconoscibile dal marchio: Cibo Agricolo Libero". Per ora i formaggi sono venduti nello spaccio del carcere e serviti nei ristoranti che fanno capo al marchio D.O.L. presto saranno presenti nel mercato della Coldiretti al Tiburtino. Mancino ha avvicinato per la prima volta la realtà del carcere di Rebibbia partecipando a una gara di cucina tra le donne detenute organizzata da A Roma Insieme all’interno della Casa Circondariale. "Mi sono subito reso conto - ha raccontato questa mattina - che potevo contribuire a creare un’opportunità di lavoro serio per quelle donne che avevano voglia e meritavano di poter riscattare la propria difficile situazione". Detto fatto, grazie a un investimento totalmente privato e a fondo perduto e con l’aiuto della direttrice di Rebibbia, Ida Del Grosso e degli agronomi Giulia, Michele e Luigi, Mancino ha dato avvio alla creazione del caseificio: Cibo Agricolo Libero nell’area della pulcinaia, appena sgomberata dai pulcini per farli crescere all’aperto. Le candidate "casare" tra le detenute inizialmente erano 10, poi ne sono state selezionate solo 4 per frequentare un corso di formazione tenuto da maestri del settore. "La solidarietà è stata solo la benzina che ha messo in moto l’intero ingranaggio - ha spiegato Mancino - ma non deve assolutamente essere il motivo per cui un consumatore è spinto a comprare questi prodotti. Che non possono che essere buoni, visto e considerato anche la materia prima di partenza. Poi è inutile negare che alle detenute coinvolte è cambiata la vita. Noi ci crediamo. Così come crediamo a questo progetto che si aggiunge alle altre iniziative che, in Italia, uniscono il mondo della detenzione a quello della produzione di cibo di qualità". "Un modello di produzione sociale da parte di un’azienda privata, da emulare e da sostenere - ha commentato l’assessore Haussman - laddove l’agricoltura funziona da contenitore di una serie di valori positivi come la qualità del prodotto, la formazione di manodopera all’interno del carcere, il coinvolgimento della società civile attraverso l’impegno di una Onlus come A Roma Insieme da una parte e quello della Coldiretti come rete di distribuzione dall’altra". Convinto il sostegno anche da parte della Coldiretti: "è un onore per Coldiretti - ha detto il direttore Mattia - sostenere progetti come questo che sono ispirati all’idea di recupero di persone che hanno sbagliato, alle quali offrire l’opportunità di imparare un lavoro con il quale tornare a inserirsi nella società civile, una volta uscite dal carcere. Il nostro sostegno - ha aggiunto il direttore - è di tipo molto pragmatico e consiste fin da ora nella disponibilità di uno spazio per la vendita dei formaggi del caseificio "Cibo libero" all’interno del nostro mercato al Tiburtino vicino al carcere". La direttrice di Rebibbia, Del Grosso ha ricordato come da tempo all’interno del carcere esiste un’azienda agricola certificata bio dove, su circa 2 ettari di terreno (destinati a raddoppiarsi), oltre all’allevamento di polli, conigli, tacchini e ovini, vengono coltivati ortaggi, legumi, e insalate. La Del Grosso ha anche annunciato che presto verrà aperto un chiosco all’esterno del carcere per la vendita diretta al pubblico dove potranno anche essere venduti i formaggi di Cibo Libero. Si tratta di opportunità di grande importanza per le detenute - ha concluso - che possono dimostrare a se stesse in primo luogo e poi alle loro famiglie di essere diventate autonome e di poter contare sulla propria capacità lavorativa. Spesso si tratta di donne - ha continuato la direttrice - che nella loro vita "normale" hanno subito violenze di ogni tipo e che proprio attraverso l’esperienza del carcere riescono a ritrovare se stesse, grazie anche alle attività svolte all’interno della struttura dalle associazioni di volontariato come A Roma Insieme". Bari: delegazione radicale in visita al carcere, il report radicali.it, 6 marzo 2016 Il 29 febbraio 2016, una delegazione di Radicali delle Associazione Radicale di Foggia "Mariateresa Di Lascia" e Radicali Bari, guidata dai due Segretari, rispettivamente, Norberto Guerriero e Michele Macelletti, si è recata nella Casa circondariale di Bari, per una visita resasi necessaria in seguito all’ultimo suicidio avvenuto nel carcere il 16 Febbraio scorso. I Radicali, accolti con grande disponibilità dalla Direttrice Dott.ssa Lidia De Leonardis, e dalla Comandante del reparto di polizia penitenziaria, hanno avuto modo di visitare la struttura in particolare la sezione femminile e la seconda sezione maschile, unica ad essere stata oggetto di un intervento di ristrutturazione. Dalla visita effettuata emergono almeno tre rilevanti criticità delle quali i Radicali investiranno le autorità competenti e preposte. In primo luogo, la Casa circondariale di Bari è un edificio vetusto, costruito quasi un secolo fa, ormai assolutamente obsoleto e strutturalmente inadeguato ad assolvere la sua funzione di accoglienza, rieducazione e reinserimento sociale della popolazione carceraria. Nelle sezioni maschili, le celle sono generalmente piccolissime con letti a castello che occupano da soli la gran parte dello spazio a disposizione e meglio non và nella sezione seconda unica ad essere stata ristrutturata. Attualmente la casa circondariale di Bari, a fronte di un capienza regolamentare di 301 posti, ospita 348 detenuti, dei quali ben 267 in attesa di giudizio. L’amministrazione carceraria riesce a rispettare l’insufficiente parametro dei 3 metri quadri per detenuto, imposti dopo la sentenza Torregiani del 2013, solamente facendo ricorso a continui trasferimenti di detenuti presso altre strutture detentive. Le sezioni sono generalmente prive di aree idonee per lo svolgimento delle attività rieducative e per la socializzazione, le poche presenti sono state faticosamente ricavate in una struttura, che costruita secondo filosofie detentive ormai vetuste, non consente di averne in numero e dimensioni sufficienti. Mancano aree verdi e le zone destinate all’ "ora d’aria" sono insufficienti. Un discorso a parte merita la sezione femminile, che non essendo stata oggetto di lavori di ristrutturazione, si presenta ancora oggi, come un incubo penitenziario, celle con water a vista e niente acqua calda, pavimenti sconnessi e muri scrostati. Una condizione di precarietà che non può certo essere modificata con i semplici e colorati disegni che le detenute hanno realizzato sulla pareti. La notizia buona però è quella, comunicata dalla Direttrice, dell’arrivo di un finanziamento per i lavori di ristrutturazione della sezione femminile. Ovvio che gli stessi difficilmente potranno incidere così profondamente da rendere davvero funzionale una struttura così obsoleta. La Casa circondariale di Bari, andrebbe dismessa, sia per la vetustà dell’edificio, sia per la sua collocazione all’interno della città consolidata, incapace per limiti insuperabili a poter garantire ai detenuti gli spazi aperti regolamentari che la legge prevede. Alle criticità strutturali si aggiunge l’emergenza dei detenuti con patologie psichiatriche. Oltre 80 detenuti presentano patologie accertate rispetto alle quali il personale medico è insufficiente non essendo presente nel carcere barese un’equipe completa d’intervento. Ciò si è tradotto in oltre 320 atti di autolesionismo negli ultimi 24 mesi sintomo di una situazione insostenibile. Il tutto è reso ancor più grave dai colpevoli inadempimenti della Regione Puglia nell’attuazione della normativa nazionale per il superamento degli Opg. Delle 3 Rems che dovevano essere realizzate in Puglia solo quella di Spinazzola è stata inaugurata, ma i 20 posti letto previsti sono assolutamente insufficienti. I Radicali auspicano che il Dott. Corleone, appena nominato commissario ad acta dal Governo nazionale, possa prontamente intervenire dinanzi a tali assenza del nostro governo regionale. A questo stato di cose si aggiungono le carenze del personale della polizia penitenziaria e degli educatori. Secondo la pianta organica ministeriale gli agenti dovrebbero essere 340, attualmente sono soltanto 317, dei quali 78 destinati al nucleo traduzioni, numeri destinati a calare nei prossimi mesi oltre la soglia critica delle 300 unità. Non va meglio per gli educatori, ne sono presenti solo 6, oltre un terzo in meno rispetto al numero previsto dal ministero. Si chiedono i Radicali come sia possibile assicurare la funzione di rieducazione e reinserimento sociale che la costituzione affida alla sanzione penale della reclusione. Un capitolo a parte riguarda la presenza all’interno del carcere di Bari del SAI, struttura assistenza integrata, , una delle solo 8 presenti in tutta Italia, un vero e proprio mini-ospedale con la presenza di figure professionali, medico e farmacista interne alla pianta organica, affiancate da altri medici specialisti in regime di consulenza e personale infermieristico Una struttura alla quale spesso però si chiede di fare veri e propri miracoli, anche da parte di magistrati, che nel tempo si sono fatti latori di richieste impossibili da soddisfare, come il sottoporre il detenuto oncologico alla chemioterapia in carcere. I Radicai sono purtroppo consapevoli di quanto il carcere italiano sia non solo criminogeno, ma spesso diventi anche assassino, lungo è l’elenco delle morti per suicidio e ancor più lunga la serie dei tentativi di suicidio per fortuna falliti. Le carceri Italiane, ma oramai lo ripetiamo da tempo e purtroppo sempre più come "voce sola nel deserto" assolvono molte funzioni, meno quella che assegna loro la Carta costituzionale, cioè il recupero del detenuto ed il suo reinserimento nella società. Prato: Rachid Assarag assolto "ora il suo caso alla Corte Europea dei diritti umani" La Repubblica, 6 marzo 2016 Assarag crede nella giustizia - aveva detto il suo avvocato, Fabio Anselmo - e fa quello che tanti italiani non fanno: denuncia". Questa volta anche la giustizia ha creduto in lui. Ieri il giudice Francesco Coletta lo ha assolto dalle accuse di danneggiamento di una porta blindata del carcere di Sollicciano e di resistenza nei confronti di un agente di Polizia penitenziaria. Rachid Assarag, marocchino, 41 anni, era in aula, scortato, in sedia a rotelle, cui è costretto - denuncia il suo avvocato - per il lungo sciopero della fame intrapreso nel carcere di Biella e per le violenze subìte in alcuni dei numerosi istituti in cui è stato detenuto. Dopo la lettura della sentenza, commosso, ha ringraziato tutti augurando ogni bene al giudice. I fatti di cui era accusato risalgono al 29 agosto 2014. Rachid voleva denunciare il fatto che un suo compagno di prigionia morto suicida si era ucciso perché gli era stato impedito di comunicare con la famiglia e cercò di superare il cancello semiaperto della sezione per andare a fare la sua denuncia. Rachid sta scontando una condanna per violenza sessuale a 9 anni e 4 mesi, che si concluderà nel 2017. In più circostanze è riuscito a registrare di nascosto inquietanti conversazioni con agenti, medici e operatori delle carceri. Come questa: "Con i detenuti ci vogliono il bastone e la carota", un giorno di pugni e l’altro no, "così si ottengono risultati ottimi". Oppure la frase registrata nel carcere di Prato: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera, questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni". Poiché protesta e si ribella, fa collezione di denunce e di trasferimenti. L’avvocato Anselmo vuole portare il caso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e nei prossimi giorni sarà ascoltato al Parlamento europeo a Bruxelles, dove parlerà anche dei casi di Stefano Cucchi e di Riccardo Magherini, con Ilaria Cucchi e Andrea Magherini. "Avevamo ragione quando dicevamo che le accuse mosse nei confronti di Rachid Assarag erano totalmente infondate", ha dichiarato il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani: "Invero pare incredibile che si sia potuto celebrare un processo in cui l’uomo era accusato di aver forzato una porta blindata, rompendola. Avete presente le porte delle celle? Quelle spesse molti centimetri, con sbarre e serrature…? Ecco, quello è il tipo di porta che un uomo alto 1 metro e 60 per 50 chili di peso avrebbe danneggiato. Ora questo fatto non è incredibile solo per noi ma anche per un tribunale della Repubblica, fortunatamente". "Con questa sentenza di assoluzione il mio augurio - conclude il senatore - è che finalmente si interrompa l’accanimento contro Assarag". Pisa: raccolta di quaderni, matite, libri e palloni per i detenuti La Nazione, 6 marzo 2016 Ecco i diritti d’autore per "Favolare": presentati in Consiglio comunale. Alcuni detenuti e autori, la lettrice, le autorità (presidente e vice del Consiglio comunale, il presidente del Tribunale, presidente della Camera penale e segretario), i curatori, l’illustratore, l’editore e il garante dei detenuti. Alcuni detenuti e autori, la lettrice, le autorità (presidente e vice del Consiglio comunale, il presidente del Tribunale, presidente della Camera penale e segretario), i curatori, l’illustratore, l’editore e il garante dei detenuti. Penne, quaderni e materiale per continuare i laboratori di scrittura creativa. I diritti d’autore di "Favolare", il libro scritto da e con i detenuti del "Don Bosco" di Pisa, saranno impiegati per l’acquisto di cancelleria che servirà agli allievi dell’istituto penitenziario a esercitarsi nella redazione di testi e opere di vario genere. Lo ha reso noto la Mds editore, che ha messo a disposizione dei detenuti anche due tavoli da ping pong, accolta nella sede Regia dove si tiene il consiglio comunale di Palazzo Gambacorti per festeggiare il successo del testo pubblicato nel maggio 2015 e ora giunto alla seconda edizione. Il presidente e il vicepresidente del consiglio comunale, Ranieri Del Torto e Riccardo Buscemi, hanno introdotto la cerimonia ricordando l’importanza sociale dell’iniziativa. All’appuntamento era presente anche il garante dei detenuti del comune di Pisa, Alberto Di Martino, intervenuto sul valore rieducativo della pena e sull’attenzione al mondo carcerario. Hanno partecipato, oltre ad alcuni ospiti del Don Bosco e a un’educatrice in rappresentanza dell’area degli educatori, anche Salvatore Laganà, presidente del tribunale di Pisa, Mario Di Giorgio, al vertice della Camera penale e Serena Caputo della segreteria. Al termine della manifestazione, i curatori, Antonia Casini e Giovanni Vannozzi, l’illustratore, Michele Bulzomì, e l’editore, Fabio Della Tommasina, hanno annunciato ufficialmente un nuovo progetto che coinvolgerà ancora una volta i detenuti del "Don Bosco": "Gabbie" sarà l’inedito prodotto letterario di prossima pubblicazione. Il pomeriggio è stato ‘raccontatò dalla voce di Daniela Bertini che ha letto alcuni brani tratti da "Favolare". Milano: A Bollate è nato "In Galera", il primo ristorante all’interno di un carcere di Rita Piras fidelityhouse.eu, 6 marzo 2016 Sta riscuotendo molto successo il primo ristorante italiano all’interno di un carcere: è a Milano, tra le mura della Case circondariale di Bollate, dove i detenuti lavorano come camerieri e cuochi. Scegliereste mai di andare a cena in un carcere? Se l’idea dovesse interessarvi, a Milano è stato aperto un ristorante all’interno della Case circondariale di Bollate, dove i detenuti lavorano come camerieri e cuochi. Il locale è diventato uno dei più popolari del capoluogo lombardo, fino al punto che riuscire a prenotare un tavolo per cenare è un’impresa davvero difficile. La clientela del ristorante, che non poteva che chiamarsi "In Galera", è composta da giovani, anziani, coppie e dirigenti, e l’unica condizione per poter pranzare o cenare tra le mura del carcere milanese è aver riservato il tavolo per telefono. Nella sala d’attesa per i famigliari dei detenuti, gli steward del centro di formazione Scuola Paolo Frisi aspettano i clienti per condurli al ristorante: ma non verrà chiesto loro di mostrare il documento d’identità né di sottoporsi a nessun tipo di controllo di sicurezza. All’interno il locale è molto accogliente: le pareti dipinte con tinte calde e il pavimento in legno; i camerieri indossano una camicia bianca e eleganti pantaloni neri, e si mostrano molto attenti e affabili nel servire gli ospiti. Insomma non si ha proprio l’impressione di essere all’interno di un carcere e i dipendenti non sembrano dei detenuti. Silvia Polleri, presidente della cooperativa sociale Abc La Sapienza in tavola, che dal 2004 si occupa di formazione dei detenuti di Bollate, afferma che l’obiettivo è che il ristorante acquisisca una reputazione tale che i detenuti che vi lavorano possano ottenere un lavoro con maggiore facilità quando usciranno dal penitenziario. Al In Galera lavorano otto persone: quattro camerieri e quattro in cucina. Ci sono anche uno chef ed un maître di professione esterni al carcere. La signora Polleri assicura che non c’è pericolo di fuga; i detenuti che vi lavorano non possono usare il cellulare, devono superare un controllo di sicurezza prima di accedere al ristorante e non è permesso ai loro famigliari di presentarsi come commensali. Illusione libica di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 6 marzo 2016 Italia in guerra?. Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. Ma stavolta si è infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume. E difficile credere che l’ambasciatore Usa Philips abbia parlato a vanvera, quando ha detto di aspettarsi 5000 uomini dall’Italia per l’intervento in Libia. Non sorprende perciò che Matteo Renzi, di solito oratore inarrestabile e sfiancante, taccia da giorni sulla questione, preferendo occuparsi dei sindacati della reggia di Caserta. Ma allora, che vuol fare Palazzo Chigi? Andare in Libia o no? Tutto dipende, naturalmente, dal significato di "andare in Libia". Per chiarire la questione dobbiamo tornare al decreto del 15 novembre 2015, con cui si ponevano i corpi speciali delle forze armate sotto il comando dell’Aise (servizi di sicurezza esterna), cioè di Renzi. Un decreto passato incredibilmente con 395 voti a favore, 5 contrari e 26 astenuti (tra cui Sel e M5S, che sarebbero gli "oppositori" di Renzi). Un decreto formalmente legale, come vuole il Quirinale, ma che sottrae al parlamento, con il suo consenso supino e preventivo, il controllo delle operazioni militari. Una carta in bianco al governo, insomma, per qualsiasi guerra presente o futura. Successivamente, la parte attuativa del decreto è stata secretata in modo così maldestro, che tutti ne sono venuti a conoscenza. Di fatto, il solo D’Alema (che di guerra s’intende, avendone fatta una extraparlamentare nel 1999) ha parlato a suo tempo contro il decreto, sapendo come agiscono i nostri servizi, tra intrighi e inefficienza. La nebbia che circonda la morte dei due ostaggi di Sabrata e il ritorno degli altri due sembra proprio dargli ragione. È chiaro ormai che Renzi vuole intervenire in Libia, ma senza che si sappia in giro. D’altronde, non è lo stesso "pacifista" che fa rifinanziare le missioni italiane all’estero e manda 500 uomini in Iraq a proteggere un’azienda italiana? Si direbbe però che questa volta si sia infilato in un gioco ben più complesso e pericoloso di quelli che ama giocare a colpi di alleanze variabili e discorsi fiume. Un conto è promettere ossessivamente un destino roseo a un paese prostrato dalla povertà e giocare sui decimali del Pil. Altra questione, ben più seria, è promettere agli Usa di intervenire e poi non mantenere le promesse, perché i sondaggi gli dicono che la stragrande maggioranza del paese non vuole nessuna guerra, e chiunque, da Berlusconi a Prodi, gli intima di non pensarci nemmeno. Gli americani, si sa, non si accontentano delle chiacchiere quando c’è da andare al sodo. La verità è che la guerra in Libia c’è già e che americani, inglesi e francesi, senza avvertire nessuno, si stanno dando da fare da mesi tra il confine tunisino e quello egiziano. Appoggiando in sostanza il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto ma odiato dal governo di Tripoli, che in sostanza è dei Fratelli musulmani. In queste condizioni, pensare che in Libia possa nascere un governo di unità nazionale, come vorrebbero le anime belle dell’Onu, e che l’Italia possa guidare la coalizione anti-Isis è una pia illusione, anzi fa francamente ridere. L’Italia non guiderà nessuna coalizione diplomatico-militare, perché Usa, Francia e Inghilterra si fanno i fatti propri, oggi come nel 2011, e l’Italia ha ben poco peso nella faccenda, a onta degli squilli di tromba degli editorialisti con l’elmetto. D’altra parte, Renzi ha ben pochi alleati in Europa, non si può mettere contro Hollande e quindi dovrà ingoiare il rospo e accettare, al di là delle sparate propagandistiche, un ruolo subordinato, esattamente come Berlusconi nel 2011. Così, quello che farà l’Italia sarà mandare qualche decina di uomini a difendere i suoi interessi energetici, incrociando le dita e sperando che nessuno si faccia ammazzare. D’altronde il famoso decreto garantisce la necessaria riservatezza sulla faccenda. Ma la guerra c’è, in un contesto in cui centinaia di bande e milizie, che fanno capo oggi a Tripoli e domani all’Isis, o viceversa, si sparano addosso senza tregua. E quindi le conseguenze si faranno sentire eccome, anche se l’Italia si nasconderà dietro il paravento della legalità internazionale o invierà un po’ di soldati alla volta. Sperando che l’Isis non se ne accorga. E sperando anche che con il tempo nessuno si ricordi più di Giulio Regeni, visto che l’Egitto è un nostro caro alleato. Ormai, non è retorica dire che tutto il Sahara è in fiamme, dall’Algeria all’Egitto, grazie al genio politico di Sarkozy e Cameron, di Bush e di Blair (i comandanti dell’Isis in Libia vengono dall’Iraq). In questa situazione, l’abilità politica che funziona con Verdini e Alfano, o per tenere a bada la sinistra Pd, serve a ben poco. Giorno dopo giorno, scivoliamo in una guerra senza strategia e che gli altri hanno deciso per noi. L’unica consolazione, ma è ben poca cosa, è che questa volta, diversamente dal 2011, nessun sessantottino pentito vuole la guerra in nome dei diritti umani. La missione in Libia e i pericoli per l’Italia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 6 marzo 2016 Un’operazione di guerra deve essere definita come tale. Rinunciamo a quei neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari. Chiamare le cose per nome è una assunzione di responsabilità. Per una sola azione, nei suoi due anni di governo, Matteo Renzi ha ricevuto consensi pressoché unanimi, anche dai suoi più aspri oppositori: l’indugio prima dell’intervento militare in Libia. La preparazione di questo passo è stata paziente, circospetta, prudente, addirittura flemmatica. E adesso si dovrà, nel caso, procedere passando per un dibattito con annesso voto in Parlamento. Brucia ancora il ricordo di come fummo trascinati nella campagna - imposta da Francia e Gran Bretagna - iniziata il 19 marzo del 2011 per l’abbattimento del regime di Gheddafi. Un’azione condotta sotto le insegne delle Nazioni Unite e Tzvetan Todorov fu il primo a mettere in guardia sul fatto che da quelle parti la legittimità onusiana non sarebbe stata "sinonimo di legalità". Aveva ragione. Il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Martinelli, denunciò immediatamente che i bombardamenti Nato sulla capitale libica provocavano dozzine di morti tra i civili e una quantità impressionante di aborti da traumi per le esplosioni. Poi fummo costretti a registrare che il consenso al tiranno era più forte di quel che avevamo pensato talché le sue milizie combattevano con una imprevista determinazione. Nei sette mesi che intercorsero tra l’inizio dell’intervento armato (marzo 2011) e l’ uccisione di Gheddafi (ottobre di quello stesso anno) abbiamo dovuto prendere atto del fatto che, come aveva avvertito lo studioso dell’Atlantic Council Karim Mezran, in Libia non ci sono angeli ma "differenti tipi di diavoli". I miliziani di Gheddafi erano spietati. Ma anche i "buoni" non scherzavano. In estate l’Onu dovette emettere un comunicato ufficiale in cui si affermava che i rivoltosi di Bengasi avevano commesso crimini di guerra e violato ripetutamente i diritti umani. Amnesty International stilò un rapporto di ventuno pagine sugli "abusi dei ribelli". I quali ribelli, sconvolti dalle faide intestine, giunsero a uccidere il loro generale Abdel Fattah Younes, peraltro ex ministro di Gheddafi. Poi quando i "nostri" in agosto finalmente entrarono a Tripoli si scatenò un’imbarazzante "caccia ai neri" che i "liberatori" sostenevano essere mercenari al soldo del despota. Fu quindi una lunga serie di linciaggi e uccisioni a freddo. Talvolta stragi. Tutto questo, ripetiamo, prima che Gheddafi fosse scovato e venisse ucciso in un modo barbaro e mai del tutto chiarito. In seguito le cose andarono anche peggio. Attacchi di brigate salafite a chiese di Bengasi, persecuzione di copti, attentati contro chiunque cercasse di riportare il Paese alla normalità, persino all’indirizzo di Hossam El-Badry, l’allenatore della più importante squadra di calcio. Nel settembre del 2012 a Bengasi venne ucciso da ultras islamici l’ambasciatore statunitense Chris Stevens nel clima surriscaldato da manifestazioni contro il film Innocence of Muslim. Iniziò poi la stagione dei rapimenti che, come abbiamo avuto occasione di constatare con amarezza, non si è ancora conclusa. Il Paese implose. Una fazione affiliata ai Fratelli musulmani si impossessò di Tripoli. Ma c’erano islamisti che scavalcavano questi "fratelli" in radicalità. Un commando di jihadisti attaccò l’hotel Corinthia dove risiedeva il primo ministro musulmano Omar al-Hasi provocando morti e feriti. Il governo legittimato dalle elezioni del 2014 fu costretto a riparare a Tobruk. Islamisti che si richiamano al califfo al Baghdadi si insediarono a Sirte e successivamente sono giunti a Sabrata ai confini con la Tunisia dove nei giorni scorsi sono stati uccisi i due nostri connazionali Piano e Failla. L’uomo forte del governo di Tobruk, il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, assai benvoluto dall’Egitto di al Sisi, tentò dapprima di resistere prendendo in ostaggio il Parlamento di Tripoli e sequestrando venti deputati; poi fece bombardare una nave turca sospettata di trasportare razzi per le milizie del califfato. Altre tribù (centoquaranta!) presero possesso della parte del Paese, soprattutto il Fezzan, che sfuggiva al controllo delle fazioni di maggior rilievo. "La Libia ci esploderà in faccia", fu la previsione del presidente del Ciad, Idriss Déby. Per evitare che si realizzasse la profezia di Déby, noi occidentali abbiamo faticosamente elaborato un piano che prevede la formazione di un governo di unità nazionale (escluso Haftar) che dia una patente di legittimità a un nostro intervento contro l’Isis. Un piano che - come ci ha rinfacciato Ali Ramadan Abuzaakouk ministro dei Fratelli Musulmani a Tripoli in una minacciosa intervista concessa al Corriere - è stato messo a punto dall’inviato dell’Onu Bernardino León il quale non ha dato prova di imparzialità accettando un’offerta di lavoro degli Emirati Arabi con un compenso per cui non patirà la fame: cinquantamila dollari al mese. Tale progetto è stato successivamente ridefinito dal nuovo delegato delle Nazioni Unite, Martin Kobler, ispirato, secondo Abuzaakouk, da una visione non dissimile - nella sua perniciosità - da quella del predecessore. Sotto la guida di Kobler, le compagini di Tobruk e di Tripoli sono adesso impegnate a dar vita ad un unico governo che nella sua prima versione ha provocato ironie per il suo essere pletorico. Governo che non si sa dove avrà sede (in una fase iniziale a Tripoli) e che al termine di una laboriosissima gestazione dovrebbe limitarsi a schiacciare il pulsante della luce verde al nostro intervento. Un intervento che, peraltro, in forme appena dissimulate e in proporzioni modeste, è già in atto. Già questo è un modo di procedere che desta perplessità … In ogni caso, prima di imbarcarci in questa impresa, è bene fermarci a riflettere ancora su due o tre punti. Primo: dalla caduta del muro di Berlino (1989) sono trascorsi ventisette anni nel corso dei quali l’Occidente ha combattuto numerose guerre che, eccezion fatta per quella balcanica, non hanno dato i risultati sperati. Nella maggior parte dei casi, anzi, hanno provocato autentiche catastrofi. E la Libia, come abbiamo provato a tratteggiare in estrema sintesi, è il peggior rovaio tra quelli in cui potremmo andarci ad infilare. Si può fare qualcosa di diverso perché la storia non si ripeta? Secondo: andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto; il che non farà che peggiorare i nostri rapporti con il Cairo già resi molto difficili dopo l’uccisione di Giulio Regeni. Un obiettivo intralcio alla nostra politica delle alleanze. Terzo: nessuno di noi ha fin qui reso pubblica un’idea condivisa di quale debba essere la meta di questo tragitto da compiere in armi. La divisione della Libia in tre o quattro Stati? Perfetto, ma allora perché non coinvolgere il nascituro governo libico in questo in modo che se ne possano conoscere da subito eventuali obiezioni? Da ultimo: all’Italia, a quanto si apprende, sarà assegnato il comando dell’operazione. È un grande onore. Anche se non guasterebbe un certo understatement nell’accogliere questo prestigioso incarico. E una coraggiosa valutazione delle conseguenze che esso porta con sé. Auspicheremmo infine che la missione di guerra venisse definita come tale. Rinunciamo per una volta a quei neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari. Chiamare le cose con il loro nome è una forma di assunzione di responsabilità. La prima. Forse la più importante. Immigrazione. Idomeni, il governatore chiede lo stato d’emergenza di Bledar Hasko Il Manifesto, 6 marzo 2016 Il campo è sovraffollato: 10.500 le persone in attesa di passare il confine con la Macedonia, il 34% sono bambini. Tra le tende e il fango, si aggravano le condizioni sotto la pioggia incessante. Verso le nove e trenta di mattina, nel campo profughi vicino al confine greco-macedone un’autoambulanza dell’ospedale di Policastro, villaggio a pochi chilometri da Idomeni, ha portato via un ragazzo ventenne che aveva tentato di scavalcare di notte il filo spinato che divide la frontiera. Respinto con forza dalla polizia macedone, il giovane tremante dalla febbre era in un tale stato di shock che non si reggeva in piedi. Ha piovuto incessantemente per tutta la notte sopra questo minuscolo paese al confine con la Macedonia. "Qui - ci ha spiegato Bakar Baloch portavoce dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) - il 34% dei rifugiati sono bambini. L’altra notte anche una semplice pioggia è diventata una crisi difficile da superare". Il governatore della regione, Apostolos Tzitzikostas, ha chiesto ad Atene di dichiarare lo stato d’emergenza, questa situazione "non può andare avanti per molto", ha dichiarato durante la sua visita al campo. Camminiamo con difficoltà tra le tende che ormai conservano il loro colore solo nella parte superiore, il resto è immerso nel fango. I bambini giocano tra i binari e i campi dove il grano è ancora verde. Tutto è precario, tutto è improvvisato, anche la procedura per ottenere i documenti, sia dalla parte greca che da quella macedone, lascia molto a desiderare. La polizia greca ha allestito due punti per sbrigare le pratiche: uno vicino all’ingresso del campo quasi a ridosso della ferrovia e un altro proprio a due metri dal cancello macedone "decorato" di filo spinato. Alcuni ragazzi siriani in gruppo raccontano che la data di nascita, sopra il foglio di registrazione che ricevono una volta sbarcati nelle isole greche e che dovrebbe essere conforme con i loro documenti originali, a volte viene scritta a mano ingenerando non pochi equivoci tra la polizia greca e quella macedone. Mohamed, un ragazzo siriano di 36 anni, esausto dopo quattro giorni di fila, deve ricominciare tutto da capo. Ma i problemi ci sono anche per chi sul documento ha la data scritta al computer. Un minore di Fallah sul documento originale è nato nel 2005 ma sul documento di registrazione risulta nato nel 2007. Tutto questo viene aggravato dall’incomprensione linguistica. La polizia greca ci ha informato che fino al pomeriggio di ieri sono state nemmeno un centinaio le persone che sono riuscite a superare il confine e proseguire il viaggio lungo la rotta balcanica. La Macedonia consente un numero limitato di passaggi sul suo territorio dalla Grecia, tanti quanti ne autorizza la vicina Serbia dalla Macedonia. "La maggior parte dei profughi nel campo sono siriani e iracheni, c’è un numero effimero di afghani e pachistani", spiega Vicky Markolefa, responsabile della comunicazione per Medici senza frontiere (Msf). Questi ultimi, poiché alla frontiera macedone passano solo migranti di nazionalità siriana e irachena, bruciano i documenti originali. Al di là della frontiera oltre il filo spinato lucido, nuovo di zecca, oltre alle uniformi macedoni si vedono anche forze speciali slovene, della Repubblica ceca e serbe. Energumeni super addestrati che dovrebbero contrastare persone sfinite dal lungo viaggio. Come Ahmed, 27 anni di Kobane. Laureato in giurisprudenza, ha impiegato ventiquattro ore di cammino per arrivare al campo di Idomeni, è qui da dieci giorni con le sue tre sorelle e i suoi due fratelli. Dice che lui non proverà proprio a passare il confine di notte, non perché sia stanco e sofferente, ma per via delle sue sorelle. "Non siamo più persone ma numeri", considera allontanandosi con la sua sigaretta dal sapore amaro e forte. "Abbiamo superato di gran lunga le capacità del campo profughi. Attualmente ci sono circa 10.500 persone - prosegue Markolefa - ma resistiamo, ogni giorno aumentano le tende e la richiesta di cibo, senza contare gli articoli di prima necessità soprattutto per i più piccoli. Fortunatamente fino ad ora non abbiamo avuto casi di malati gravi, solo raffreddore e febbre soprattutto per quanto riguarda gli anziani e i più piccoli, ma questo è dovuto anche alle condizioni del tempo". Nel campo affollato e caotico si vedono giovani volontari, quasi tutti greci, che corrono per aiutare da una parte all’altra. La lunga fila interminabile per ricevere i pasti ha un ordine che viene mantenuto dagli stessi abitanti di questo disperato angolo del mondo. "Speriamo che l’Unione europea faccia qualcosa al più presto - aggiunge Markolefa - perché abbiamo superato il limite già da tempo e non possiamo andare avanti ancora per molto. Ogni arrivo crea emergenza". Oltre ai giovani, ieri pomeriggio, una dozzina di abitanti di Idomeni ha portato viveri e vestiti, tra loro Jani e Maria, due signori anziani che hanno distribuito pasta e dolci per i più piccoli. Cosi come le sei signore che da Salonicco si sono messe in marcia a bordo di tre utilitarie e hanno portato al campo vestiti, pannolini, articoli di prima necessità per le donne con bimbi molto piccoli. Voto agli immigrati nelle primarie, il passo indietro del Pd di Massimo Rebotti Corriere della Sera, 6 marzo 2016 Si parla di rimedi per assicurare la regolarità. Ma, rispetto al problema posto dieci anni fa - e cioè la partecipazione consapevole degli stranieri che vivono nelle città italiane - sembra un mesto ritorno alla casella di partenza. Era il 2005 quando Romano Prodi annunciò che alle primarie avrebbero votato anche gli immigrati residenti in Italia e tanti, nel centrosinistra di allora, fecero notare il forte valore simbolico della decisione. Un atto politico, si disse, e un primo passo che di lì a breve - "se vinceremo le elezioni del 2006" - avrebbe portato al diritto di voto per gli immigrati alle Amministrative: "Io non ho paura - dichiarò Prodi - abbiamo gente che contribuisce alla ricchezza del Paese, ha famiglia, un lavoro, ha fatto le scuole in Italia. Che ragione c’è perché non siano cittadini? Il problema va posto". Sono passati dieci anni, sul voto alle Amministrative per gli immigrati non sono stati fatti passi in avanti e, viceversa, il centrosinistra ne ha fatti alcuni indietro rispetto a quella speranzosa apertura del 2005. Da allora la coalizione ha svolto decine e decine di primarie in tutta Italia aperte agli immigrati. Il loro voto, però, da premessa per una futura cittadinanza è diventato, via via, un problema. Sospetti, accuse, candidati di sinistra che si rinfacciano a vicenda le "truppe cammellate" di cinesi o rom, albanesi o filippini. In questi anni i casi imbarazzanti sono stati diversi, da Napoli a Reggio Emilia: stranieri portati in gruppo ai gazebo, pranzi pagati in cambio del voto, biglietti con il nome da scegliere che passano di mano in mano fin sulla soglia del seggio. In pratica, voti non consapevoli. Con le primarie di oggi nella Capitale il Pd ha annunciato un cambio di rotta: per gli immigrati c’è stato un obbligo di registrazione preventivo per evitare file "sospette" dell’ultimo minuto. A Savona sono andati oltre e alle prossime consultazioni voteranno solo gli iscritti alle liste elettorali "vere", quindi niente immigrati e niente sedicenni. Il Pd parla di rimedi per assicurare la regolarità del voto ma, rispetto al problema posto dieci anni fa - e cioè il voto consapevole degli stranieri che vivono nelle città italiane - sembra un mesto ritorno alla casella di partenza. Hiv: in Italia il virus silenzioso contagia 11 persone al giorno di Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo La Stampa, 6 marzo 2016 Quattro sieropositivi su dieci lo nascondono ai familiari, il 5% al partner. Quasi uno su tre è immigrato. E adesso arriva il primo piano nazionale anti-Aids. Le risorse per comunicazione su Aids e sesso sicuro sono crollate: il ministero della Salute nell’ultimo anno ha stanziato solo 80 mila euro. Ogni giorno, in Italia, 11 persone scoprono di essere sieropositive. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità le nuove diagnosi di infezione da Hiv sono 4 mila l’anno. Siamo il secondo Paese in Europa per incidenza di Aids, dopo il Portogallo. Nel passaggio dall’infezione alla malattia ci sono ancora drammi nascosti come quello di un uomo e una donna, residenti ad Anzio e a Civitavecchia, entrambi sieropositivi. Barricati in casa, si fanno identificare con un numero. Neanche chi li assiste a domicilio conosce il loro nome. Ogni volta che l’équipe della Caritas va a prendere le loro medicine in farmacia usa un codice fornito dall’istituto Spallanzani di Roma. Perché queste due persone vogliono restare fantasmi. "I pazienti ci chiedono che la nostra macchina non sia riconoscibile e di non far indossare alle suore abiti religiosi" racconta al centro Caritas di via Casilina Massimo Pasquo, responsabile delle terapie a domicilio per malati gravi di Aids. Accanto a lui siede Mario Guerra, una vita a contatto di un male dimenticato che condanna ancora all’isolamento: "Le famiglie sono impreparate, li chiudono in una stanza e chiedono se per disinfettare gli ambienti serva la varecchina". Infezione silenziosa - L’ignoranza e la sottovalutazione fanno dilagare il virus dell’Hiv anche per l’errata convinzione che in Occidente sia un flagello ormai debellato e relegato nei Paesi più poveri. Sono morti oltre 40 mila italiani per l’Aids, un’epidemia che si è depotenziata a metà Anni Novanta. La peste del nuovo secolo sembrava passata, ma il ventennio trascorso senza più paura ha però fatto dimenticare che l’Hiv continuava a diffondersi. Una cappa di silenzio infranta qualche mese fa dal clamore di una vicenda con al centro un trentenne romano di nome Valentino T. e le numerose ragazze da lui infettate. Nella semplificazione mediatica il ritorno dell’"untore" ha riaperto uno squarcio di luce su una malattia che per molti è confinata nell’immaginario degli Anni Ottanta ma che invece è ancora attualissima. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità la percentuale di infezione in Europa non è molto inferiore a quella di trenta anni fa. "Dal 2005 le nuove diagnosi sono più che raddoppiate in molti Paesi Ue, segno che la risposta al virus non è stata efficace nell’ultimo decennio" ammette Andrea Ammon, direttore del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc). Cosa è mancato? Le campagne di comunicazione e di prevenzione sono scomparse. Ma il problema sarebbe ancor più a monte. In Italia, in particolare, le strategie di contrasto all’Aids hanno una falla alla radice: i numeri. Se si osservano i diagrammi delle nuove diagnosi si nota una stabilizzazione sospetta dal 2010 che fa dire a tutti, associazioni dei malati e autorità sanitarie, che i 4 mila casi annui sono "sottostimati". Le diagnosi registrano contagi che possono risalire fino a 15 anni prima, per la lunga incubazione dell’Hiv. Diverso è il discorso sulle "nuove infezioni", cioè chi ha preso il virus di recente, che permetterebbe un’analisi più precisa del fenomeno: qui però c’è una stima che, secondo l’Istituto superiore di sanità, si avvicina al numero delle diagnosi per il fatto che questo è rimasto costante negli anni. Carenza di dati certi - Da tempo la Lega italiana per la lotta all’Aids (Lila) ha posto la questione della carenza di dati, prima al Comitato tecnico del ministero della Salute, poi all’Iss, infine al Capo dello Stato Sergio Mattarella, con una lettera inviata lo scorso dicembre. "Innanzitutto non si sa quanti siano i test effettuati in Italia - spiega Massimo Oldrini, presidente Lila -. L’Ecdc ci chiede che venga resa nota la base sulla quale vengono calcolati i 4 mila casi annui. Perché l’Italia non la comunica?". Abbiamo girato la domanda al direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss Gianni Rezza e a Maria Grazia Pompa, direttrice della Prevenzione sanitaria al ministero della Salute. Una risposta chiara non arriva. Vengono riconosciute le difficoltà di trasmissione dalla periferia (ospedali, Asl) al centro (l’Iss) mentre Pompa parla di "incongruenza" in quanto molti potrebbero ripetere più volte il test. "Ma senza numeri certi non si possono mettere in campo azioni concrete ed efficaci - continua Oldrini -. Manca pure una cabina di regia istituzionale". Pronto il piano sanitario - Dal ministero finalmente sta per arrivare una risposta che però dà anche la dimensione della nuova emergenza: è quasi pronto il primo piano nazionale Aids che farà il tagliando di tutta una serie di misure arrugginite dagli anni, puntando a migliorare il flusso di informazioni, a monitorare i finanziamenti alle Regioni, che intanto dirottano i fondi per l’Hiv su altre voci, a incoraggiare l’accesso ai test in forma gratuita e anonima. E soprattutto ad assicurare il cosiddetto "trattamento preventivo" che mette in sicurezza chi è infettato e si pone l’obiettivo di azzerare i contagi. È una corsa contro il tempo: diagnosticare il prima possibile l’infezione significa rendere più efficace la cura della persona ammalata, diminuire la sua carica virale e ridurre le possibilità di trasmissione. Proprio quello che non è successo a Marco, 46 anni, tecnico di reti informatiche: "La mia fidanzata aveva l’Hiv ma non lo sapeva, e ciò le ha impedito di essere curata. La sua carica infettiva, così, è rimasta elevata e mi ha contagiato". Prevenzione e trattamento permetterebbero di abbattere anche la spesa dello Stato appesantita dal costo altissimo dei sette farmaci antiretrovirali, fra i trenta più cari per la sanità pubblica. Anche perché ogni diagnosi salva una vita ma comporta in media 40 anni di terapie. In Italia si calcolano poco meno di 130 mila sieropositivi, cui va aggiunto circa un 20% di "inconsapevoli" che non sanno di avere il virus. E il 60% delle diagnosi avviene con malattia in stato avanzato. Tradotto, circolano persone infette che possono trasmettere l’Hiv senza saperlo, accrescendo il numero dei contagiati. "Il fatto che siamo fermi sempre a 4 mila diagnosi l’anno è preoccupante" concorda Rezza. Calata l’attenzione per l’Aids, l’effetto è quello di un progressivo oblio che crea lacune nella comunicazione. Sopravvivono solo pregiudizi: l’Aids ancora oggi è una malattia ricondotta a quelle che venivano chiamate "categorie a rischio": gay e drogati. La realtà invece è questa: dal 1985 al 2014 la proporzione dei tossicodipendenti per ago è passata dal 76,2% al 3,8%, mentre l’84,1% delle nuove diagnosi è attribuibile a rapporti sessuali senza preservativo: 43,2% etero e 40,9% Msm (rapporti omosessuali maschili). È il sesso quindi, di gran lunga, il principale veicolo di trasmissione del virus tra persone lontane da mitologie trasgressive. 25-29 anni la fascia più colpita nell’ultimo biennio: i costumi tornano disinibiti anche per effetto delle nuove droghe sintetiche e l’Hiv si conferma una malattia metropolitana, diffusa soprattutto a Roma, Milano e in Emilia. Boom tra gli immigrati - Ovviamente la società è cambiata e un fattore che non può essere sottovalutato è l’incidenza dell’immigrazione, soprattutto dall’Africa: in Italia il 27% degli Hiv positivi è straniero, quasi 1 su 3. In generale, il fatto che la percezione del rischio sia crollata dopo la metà degli Anni Novanta ha portato di nuovo a minori cautele nei comportamenti sessuali. Lo dimostra l’aumento di casi di gonorrea e sifilide, considerati dagli esperti indicatori indiretti per la sieropositività. Purtroppo la disinformazione non risparmia neanche i camici bianchi, come ci dice Laura Rancilio del comitato ministeriale, in prima linea a Milano: "Ci sono medici convinti che l’Aids sia ancora la malattia di trans, gay, prostitute e tossici. E molte volte si vergognano di prescrivere il test a pazienti che hanno comportamenti socialmente accettabili". Vanessa è un avvocato, di Roma, 33 anni, figlia di due medici che non sanno nulla della malattia della figlia: nel 2013 ha contratto l’Hiv con un rapporto non protetto: "Il ginecologo mi fece domande su di me e sul mio partner, chiese se ci drogavamo, e quando gli dissi che ero un avvocato mi guardò stupito quasi a dirmi "Una professionista come lei?". Ma i medici sono impreparati anche di fronte a casi più esposti visto che il 70% dei tossici non viene sottoposto al test-Hiv. L’incognita dei test - Il piano nazionale Aids dovrà riportare sotto controllo la situazione. E la grande sfida della sanità pubblica parte proprio dai test: se più persone lo facessero la catena infettiva si interromperebbe. Invece più di un italiano su 3 (il 37%) non lo ha mai fatto. Spesso la causa è da ricercarsi nelle difficoltà di accesso o nelle mancate garanzie su anonimato e gratuità dei test, requisiti previsti dalla legge 135 del 1990. Ci sono zone di Italia, anche nella ricca Lombardia, dove si paga il ticket: per questo motivo il ministero ha affidato alla Rancilio un progetto per uniformare l’accesso gratuito. Chi va allo Spallanzani invece non paga e può restare anonimo se lo vuole. Deve chiedere della "Stanza 13", l’ambulatorio che si trova al piano terra di un reparto con un lungo corridoio sempre affollato. Le stanze dei test vanno dalla 16 alla 18, ma si usa il numero 13 per una scaramanzia condivisa dai medici con un loro storico paziente. Qui lavora la squadra di Vincenzo Puro, Gabriella De Carli e Nicoletta Orchi, che hanno impressi negli occhi trent’anni di volti, terrorizzati quando l’Aids era un’epidemia, spaesati oggi quando scoprono che l’Hiv è ancora una minaccia. Ci sono giovanissimi come Martina e Claudia, 24 anni, che hanno trovato sesso non protetto in chat e sono corse allo Spallanzani pentite ma sollevate alla notizia che sarebbe rimasto tutto anonimo: "Abbiamo scoperto questo centro cliccando su Google. Avevamo paura di andare dal nostro medico". Per lo stesso motivo a Roma arriva tanta gente dal Sud, dove l’acceso ai test è più difficile e prevale la paura di essere scoperti. La discriminazione - L’Hiv è ancora una lettera scarlatta cucita addosso ai malati. "Ho visto buttare carte di cioccolatini toccate da persone infette" racconta Pompa. Secondo uno studio dell’Università di Bologna il 32% delle persone con Hiv è stato vittima di episodi discriminatori. La vergogna fa il resto: il 40% non lo rivela ai familiari; il 74% non lo dice a lavoro, ma a inquietare è che il 5% lo nasconde al proprio partner. Per venire incontro a queste precauzioni test rapidi salivari vengono sperimentati anche da unità mobili in zone di prostituzione, mentre trova totale opposizione da parte del ministero la vendita in farmacia, come avviene in Francia. La perdita di memoria generazionale aggrava la situazione. Le autorità sanitarie e le associazioni chiedono di far ripartire le campagne informative, adattandole ai social network e centrandole di più sull’uso del preservativo. Certo non aiuta che al ministero della Salute il budget per la comunicazione sia appena di 80 mila euro e che nelle scuole siano stati abbandonati i progetti di educazione sessuale. Servirebbero ad abbattere antichi pregiudizi e a convincere gli italiani che il virus incombe su chiunque. Gli ammalati vengono ancora trattati da appestati, la Caritas soffre l’assenza di volontari per assistere chi ha l’Aids. In diverse parti d’Italia non ci sono strutture per l’accoglienza e dove ci sono, sono sovraffollate. Come a Villa Glori, a Roma, gestita da Massimo Raimondi, dove si sono conosciuti Vincenzo e Alessia. Lui in cura nella casa famiglia, lei assistente sociale. Entrambi sieropositivi. Si sono sposati, sono andati a vivere fuori e hanno avuto un figlio. "Poi, Vincenzo si è aggravato - racconta Raimondi - e ha chiesto di venire a morire qui, perché altroché se di Aids non si muore ancora. L’ultima sera ha chiamato il suo bambino e ha trovato la forza di giocare con lui". Libia: trattative costanti, oggi tornano i due italiani rapiti e poi liberati di Simone Pieranni Il Manifesto, 6 marzo 2016 Non c’è ancora chiarezza sulle dinamiche della liberazione. Nella mattina di ieri sembrava certo il ritorno in giornata di Filippo Calcagno e Gino Pollicardo, gli ex ostaggi italiani liberati in Libia. Era rpevisto che i due tecnici italiani atterrassero in serata all’aeroporto romano di Ciampino. La situazione a Sabrata, però, è parsa ben presto poco definita e tutto pare sia rimandato ad oggi. un segnale molto chiaro di quanto poco chiara sia la situazione sul campo e in particolare a Sabratha dove chi ha in custodia gli italiani, le autorità di Sabratha, non sembrano particolarmente affidabili. Le trattative, dopo l’interrogatorio dei due italiani, sarebbero stati in corso per tutta la giornata. Ieri poi la notizia attesa: oggi i due dovrebbero essere trasferiti a Tripoli e da lì in Italia. Sarebbe stato proprio il governo di Tripoli a rendere nota la cosa, annunciando anche una conferenza stampa che dovrebbe servire a "fornire dettagli sulla liberazione dei due italiani", secondo quanto riferito all’Ansa dal Direttore del dipartimento media stranieri del governo Tripoli, Jamal Zubia. A questo proposito è bene ricordare due cose importanti. Ieri la famiglia di Failla, uno dei due italiani rimasti uccisi il giorno precedente la scoperta della liberazione degli altri due tecnici della Bonatti, è tornata a criticare il governo italiano: "Lo Stato italiano ha fallito, la liberazione degli altri due tecnici della Bonatti è stata pagata con il sangue di mio marito e di Fausto Piano" ha detto Rosalba Failla, moglie di Salvatore, uno dei due tecnici italiani rapiti e uccisi in Libia. "Se lo Stato non è stato capace di portarmelo vivo - ha proseguito -, almeno adesso non lo faccia toccare in Libia, non voglio che l’autopsia venga fatta lì. Stanno trattando Salvatore come carne da macello. Nessuno, fra coloro che stanno esultando per la liberazione degli altri - ha concluso la donna -, ha avuto il coraggio di telefonarmi. Voglio che il corpo rientri integro e che l’autopsia venga fatta in Italia". Ricordando che il boss del Copasir Stucchi qualche giorno fa aveva annunciato come imminente il ritorno dei corpi in Italia, queste parole evidenziano il secondo problema di tutta questa vicenda, ovvero il mistero circa la morte e la liberazione degli italiani. I dubbi su come siano avvenute le cose, infatti, sono tanti, troppi. E su questo ad ora da parte delle autorità italiane non c’è stata alcuna chiarezza. Bisogna capire - ad esempio - dove e quando sono stati uccisi Fausto Piano e Salvatore Failla. Le ricostruzioni sono state varie. Secondo alcune fonti i due sarebbero stati giustiziati con un colpo alla nuca poco prima che il convoglio dei rapitori si scontrasse con le forze di sicurezza libica. Altre fonti parlano di Failla e Piano utilizzati come scudi umani e finiti sotto il fuoco "amico" dei miliziani che li avevano scambiati per uomini dell’Isis. Infine non è chiaro se i due italiani liberati, invece, siano stati liberati con un blitz oppure siano stati semplicemente abbandonati dai sequestratori in fuga. Narcotraffico dal Marocco a Tobruk: così l’Is finanzia il suo arsenale di Salvo Palazzolo La Repubblica, 6 marzo 2016 Il Canale di Sicilia in mano ai mercanti di droga. Negli ultimi due anni bloccate 120 tonnellate di hashish per 1,2 miliardi. Un informatore ha appena comunicato che nel porto di Nador, nord-est del Marocco, ci sono strani movimenti, probabilmente entro 48 ore partirà un mercantile carico di hashish. "La fonte è attendibile", dice l’ufficiale di un servizio segreto straniero, che telefona da una capitale del nord Europa. Nella sala intercettazioni del Gruppo operativo antidroga c’è già parecchio fermento: due giorni fa, i finanzieri hanno saputo dai colleghi turchi che uno dei loro indagati ha inviato un bonifico ad Amsterdam per reclutare l’equipaggio di una nave in Marocco. Forse, è la stessa segnalata dai Servizi. Forse, è un’altra. L’ennesima. È così ormai da due anni. Due anni di un’indagine segretissima. In questa stanza che si affaccia sul porto di Palermo, fra mappe, computer e foto satellitari, si sta conducendo una battaglia silenziosa. Contro i nuovi signori della droga, che sembrano aver spianato un’autostrada a due passi da casa nostra, nel Canale di Sicilia. Una battaglia diversa da tutte le altre messe in campo contro il narcotraffico. Perché questi signori della droga sono di nazionalità libica, sono gli stessi che caricano migliaia di uomini sui barconi diretti in Sicilia. È il passaggio più delicato dell’inchiesta. Con i soldi della tratta comprano carichi di hashish. E il sospetto pesante di chi indaga è che questi affari servano a finanziare il terrorismo internazionale. Una brutta storia che tre misteriosi ras di Tripoli stanno gestendo di fronte alle coste della Sicilia. Quintali di hashish partono da Casablanca o tra Nador e Orano, due città fra Marocco e Algeria, per arrivare al largo di Tobruk, in Libia. Sempre la stessa tratta. Percorsa su navi, pescherecci, yacht. Impossibile intercettarli tutti. Ma negli ultimi due anni sono stati bloccati al largo di Pantelleria sette carichi di droga, i più grossi. In totale, 120 tonnellate di hashish, che valgono 1,2 miliardi di euro, una mini-finanziaria. Di alcuni sequestri è stata data notizia (senza alcun riferimento alla Libia, per non pregiudicare l’inchiesta), altri sono stati tenuti segreti. Adesso è possibile raccontarla questa indagine sulla nuova rotta del narcotraffico che attraversa il Canale di Sicilia. Anche se molti particolari restano ancora riservati. "Quella droga arriva poi in Europa attraverso la rotta balcanica", spiega il tenente colonnello Giuseppe Campobasso, il comandante del Goa di Palermo, che è un’articolazione del Gico, il gruppo antimafia: "Per i trafficanti libici è un affare molto proficuo, dalla vendita di quella droga viene ricavato un vero e proprio tesoro che sospettiamo venga utilizzato per comprare armi e tutto ciò che serve all’Is". Ecco perché non è più, da mesi, solo la lotta al narcotraffico. E da qualche tempo si è stretta un’inedita collaborazione internazionale attorno all’indagine di Palermo coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Teresa Principato. Nome in codice dell’operazione segreta, "Libeccio". I nostri investigatori sono in stretto contatto con i colleghi di Francia, Grecia e Spagna. "Basta una telefonata o una mail, senza troppe formalità", spiega il colonnello Francesco Mazzotta, il comandante del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Un salto non da poco nell’Europa che spesso fa ancora tanta fatica a dialogare sulle indagini: qualche mese fa, i pubblici ministeri di Palermo che indagavano su alcuni foreign figthers si sono visti rispondere dal Belgio che era necessaria una rogatoria per conoscere l’intestatario di una targa. Ora, invece, in questa stanza che guarda il porto di Palermo arrivano segnalazioni da tutta Europa. Perché la rete dei trafficanti libici è fitta, tra siriani ed egiziani che si occupano di reclutare navi commerciali ed equipaggi. Per bloccare la rete dei complici, gli investigatori italiani hanno organizzato incontri anche a Rabat, al Cairo, ad Ankara, a Tirana. Alla ricerca di altri alleati, con il sostegno della Direzione centrale dei servizi antidroga, dell’Europol e persino della Dea, l’agenzia federale che fa capo al dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. "Si sta combattendo una battaglia cruciale nel Mediterraneo", ripete il colonnello Mazzotta, che cita il motto caro al giudice Giovanni Falcone, "bisogna seguire i soldi". E i soldi portano negli Emirati Arabi. Lì, i trafficanti libici fanno arrivare i bonifici per la droga venduta in Europa. Negli Emirati Arabi arrivano anche i soldi della tratta dei migranti. Una cassaforte che ancora nessuno ha espugnato. La caccia in mare prosegue. Un’informazione preziosa è stata girata all’ufficio antidroga dell’Egitto: al porto di Damietta è stato sequestrato un peschereccio che nella stiva nascondeva settecentomila pasticche di Captagon, un’anfetamina che allontana sonno, fame, paura e freni inibitori. È la droga dei terroristi dell’Is. Turchia: la polizia entra con la forza in sede giornale anti-Erdogan La Repubblica, 6 marzo 2016 Zaman, il quotidiano più diffuso del Paese, è stato posto sotto amministrazione controllata con l’accusa di complottare contro il presidente. Davanti alla redazione si sono radunati centinaia di manifestanti che le forze di sicurezza hanno disperso con gas lacrimogeni e idranti. Licenziati direttore e un giornalista. L’Ue avvisa: "Ankara rispetti libertà di stampa". Tensione di nuovo alle stelle a Istanbul, dove va in scena l’ennesimo braccio di ferro tra il presidente Recep Tayyip Erdogan e la stampa di opposizione, accusata di complottare contro gli organi dello stato. La polizia ha usato gas lacrimogeni e idranti per entrare nella sede del quotidiano Zaman, il più diffuso del Paese, davanti alla quale centinaia di manifestanti protestavano contro la decisione del tribunale di porre sotto amministrazione controllata il gruppo Feza cui fa capo il giornale. Le forze di sicurezza hanno disperso i dimostranti, hanno abbattuto un cancello e hanno scortato all’interno i manager nominati dalla corte. Cacciati i dipendenti che lavoravano a un ultimo numero indipendente del giornale, dopo che il direttore Abdulhamit Bilici aveva parlato di "giorno nero per la democrazia". Stamattina, il primo atto formale dei commissari di nomina giudiziaria è stato inviare la lettera di licenziamento al direttore del giornale e al giornalista Bulent Kenes. Il secondo atto è stato l’oscuramento del sito Web dell’agenzia di informazione Cihan, che fa parte del gruppo. Attualmente chi prova ad accedere alle pagine in turco o in inglese dell’agenzia trova solo una schermata bianca con un messaggio di errore. La protesta di lettori e cittadini è ripartita nel corso della giornata e anche stavolta è stata stroncata dall’intervento della polizia in assetto antisommossa. Diversi manifestanti sono rimasti feriti. Duro il commento di Sevgi Akarcesme, top editor dell’edizione inglese Today: "È un giorno buio per la democrazia turca ed è una flagrante violazione della Costituzione", ha dichiarato sottolineando che molti media del suo Paese non stanno dando copertura completa alle notizie sul commissariamento del quotidiano, per il timore di subire rappresaglie simili. Il gruppo Feza è stato commissariato ieri dal tribunale di Istanbul per presunto sostegno al cosiddetto ‘Stato parallelò, vale a dire l’apparato di potere legato all’imam Fethullah Gulen, miliardario e nemico acerrimo del presidente Recep Tayyip Erdogan, da anni espatriato negli stati Uniti. La mossa ha provocato lo sdegno e la protesta dell’opposizione turca e di molte ong internazionali. Quello su Zaman è l’ultimo intervento di questo tipo nei confronti della stampa turca. Negli ultimi tempi ci sono state molte azioni giudiziarie contro i media critici verso Erdogan e le preoccupazioni per lo stato dei diritti umani e civili in Turchia, in particolare per quanto riguarda la libertà di informazione, sono via via aumentate. Ma negli ultimi anni la stampa di opposizione turca ha subito diversi attacchi. Nel 2014 la polizia aveva arrestato un altro direttore di Zaman, Ekrem Dumanli, considerato vicino a Fethullah Gulen, acerrimo nemico del premier. Nell’ottobre del 2015, la polizia aveva preso il controllo - in diretta televisiva - della regia di due emittenti vicine all’opposizione, Bugun tv e Kanalturk, di proprietà del gruppo Koza-Ipek. Il gruppo editoriale Feza, che controlla Zaman (Il Tempo) e la sua edizione inglese, Today’s Zaman, oltre all’agenzia di stampa Cihan, è stato commissariato per "propaganda terroristica" a favore del presunto "stato parallelo" creato dal magnate e imam Fethullah Gulen, ex alleato diventato nemico giurato di Erdogan. La decisione della corte coincide con l’intensificazione della campagna del governo contro il movimento islamico moderato creato da Gulen, che ha sede negli Stati Uniti. Colosso da 650mila copie distribuite ogni giorno, la maggior parte attraverso abbonamenti, Zaman ha vissuto negli ultimi due anni un’inversione a U parallela al destino di Gulen, auto-esiliatosi negli Usa nel 1999. Se all’inizio del 2012 Erdogan e l’attuale premier Ahmet Davutoglu erano in prima fila alle celebrazioni per i suoi 25 anni, dopo la Tangentopoli turca del dicembre 2013 - orchestrata, secondo Erdogan, proprio da Gulen per rovesciarlo - tutto è cambiato. Zaman è diventata una delle maggiori voci di opposizione in Turchia e i suoi responsabili sono finiti sempre più nel mirino del potere politico. I ripetuti attacchi ai mezzi di informazione e a chi vi lavora destano grande preoccupazione a livello internazionale. Uno spiraglio sembrava essersi aperto la settimana scorsa con la decisione di un tribunale di scarcerare dopo tre mesi due giornalisti di Cumhuriyet sotto processo per lo scoop sulle armi in Siria (i due rischiano comunque una condanna all’ergastolo), una decisione avversata da Erdogan. Ora, con il commissariamento di Zaman, un altro duro colpo alla stampa di opposizione. Non a caso il Consiglio d’Europa parla di "interferenza molto grave nella libertà dei media, che non dovrebbe avere luogo in una società democratica" e il Committee to Protect Journalists si dice "allarmato" per il tentativo di "soffocare i residui di giornalismo critico in Turchia", mentre Human Rights Watch denuncia una "censura scandalosa". Critiche da Mosca a Washington - "In Turchia non solo viene soppressa la libertà di stampa per nascondere l’assistenza data ai terroristi ma si disprezza anche il sistema giudiziario": lo ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, che ha chiesto anche "un esame imparziale e minuzioso da parte del Consiglio d’Europa e dell’Osce". Preoccupazione per il caso Zaman è stata espressa anche dalla Casa Bianca, che ha chiesto con urgenza ad Ankara il rispetto della libertà di stampa. "In una società democratica il pensiero critico va incoraggiato, non messo a tacere". L’avviso dell’Ue - Il Commissario europeo per la Politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento, Johannes Hahn, si è dichiarato "estremamente preoccupato" per il commissariamento del giornale d’opposizione Zaman, dicendo che "mette in pericolo i progressi fatti dalla Turchia in altri ambiti". "Seguiremo questo caso da vicino. La Turchia, come Paese candidato, deve rispettare la libertà dei mezzi di comunicazione", ha scritto Hahn su Twitter. Il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, affermano in una nota che "servono azioni incisive e mirate sul premier turco Erdogan che non può continuare a reprimere impunemente la libertà di stampa nel suo Paese". Le accuse del governo - In serata, è intervenuto il premier turco Ahmet Davutoglu: "C’è un processo giudiziario per esaminare le accuse di operazioni politiche, incluso il finanziamento illegale. Non abbiamo mai interferito nel processo giudiziario - ha detto Davutoglu - . La Turchia ha il diritto di interrogare quanti prendono parte a un chiaro tentativo di colpo di Stato, sia esso economico o giornalistico, contro un governo eletto". Zaman in sostanza è accusato di far parte del presunto complotto contro Erdogan ordito da Fetullah Gülen e portato avanti attraverso l’infiltrazione di fedelissimi nella polizia, nella magistratura, nei media e nell’apparato burocratico. Erdogan, il nuovo sultano che uccide la libertà in Turchia di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 6 marzo 2016 Non è possibile chiudere gli occhi davanti agli attentati contro la democrazia: Se si accetta silenziosamente lo scempio in nome della realpolitik si commette un atto di inaccettabile complicità. In Turchia stanno venendo meno le libertà fondamentali, e soprattutto quelle di cui il Paese andava fiero. Basterebbe un impietoso paragone. Persino durante l’ultimo colpo di Stato militare vi era maggiore libertà di oggi. Almeno nel mondo dell’informazione. Anche nei giornali di sinistra, a cominciare dallo storico Cumhuriyet, i giornalisti godevano di una certa autonomia. Oggi, per contro, ogni critica è un reato. Il quotidiano Zaman, che riflette le posizioni di Fethullah Gülen, predicatore sunnita che vive in esilio negli Stati Uniti, non è più tollerato, va chiuso. Gülen, che un tempo era amico e sodale del presidente Recep Tayyip Erdogan, oggi è il suo più acerrimo nemico. Gli scontri, l’assedio della polizia, i lacrimogeni, le violenze contro i giornalisti sono vergognose. Non vi sono altri termini per definirle. Dopo attacchi, denunce, intimidazioni e arresti, siamo dunque arrivati alla più brutale esecuzione della volontà del capo, del nuovo sultano, che non ha neppure idea di quanto fossero ben più tolleranti i sultani veri, quelli che fecero grande l’impero ottomano. Prima delle ultime elezioni, Erdogan aveva zittito o fatto occupare i media che lo criticavano. Contro Cumhuriyet, che aveva svelato con un video non smentibile i traffici di armi, con tanto di scorta dei servizi segreti, diretti ai ribelli siriani ma soprattutto all’Isis, la scure del potere è stata spietata. La Turchia è un importante alleato della Nato. La Germania, dove vivono quasi 3 milioni di turchi fa l’impossibile per ottenerne la collaborazione sul problema dei profughi. L’Italia ha quasi mille imprese nel Paese. Ma tutto questo non può consentire di chiudere gli occhi davanti agli attentati contro la democrazia. Se si accetta silenziosamente lo scempio, in nome della realpolitik, si commette un atto di inaccettabile complicità.