Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 5 marzo 2016 Un rafforzamento del governo, nell’Italia dei troppi poteri contrapposti, era ed è assolutamente necessario. Ma se l’elettore matura la convinzione che il proprio voto serva a poco, la conseguenza sarà solo un senso crescente di estraneità. Dopo esserci occupati a lungo degli eletti, ora dovremmo pensare un po’ alla salute democratica degli elettori. E interrogarci sulle ragioni di una certa disaffezione al voto. La sensazione di irrilevanza non si traduce soltanto nell’astensione dalle urne, di qualsiasi tipo, ma anche nell’uso della scheda per sfogare disagio se non rabbia. Non per scegliere, ma per contrastare. Non a favore ma contro. Non è il caso di tornare su alcuni aspetti della riforma costituzionale che si avvia a essere completata con l’ultimo voto alla Camera e il referendum autunnale. Il quadro istituzionale, con un Senato delle Regioni non più direttamente elettivo, si semplifica e diventa più efficiente, ma non si avvicina al cittadino, non lo rende protagonista. La distanza aumenta. L’Italicum darà stabilità ai governi - e ce n’era bisogno - ma con il premio di maggioranza, i capilista bloccati e le candidature plurime non si può dire che sia un caposaldo della democrazia rappresentativa, peraltro in crisi un po’ ovunque. Gustavo Zagrebelsky definisce le riforme del governo Renzi, con efficacia caustica, il "carapace, la corazza della tartaruga, del potere". Stefano Petrucciani nel suo libro (Democrazia, Einaudi) parla più in generale di una "regressione oligarchica" e intravede "uno spossessamento dei cittadini rispetto agli eletti, della base del partito rispetto ai leader, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto al premier". Forse, c’è un po’ di esagerazione. Ma, al di là delle posizioni che le parti avranno sul prossimo referendum, una discussione aperta sul disagio degli elettori appare opportuna. Un rafforzamento del governo, nell’Italia dei troppi poteri contrapposti, dei veti e degli interessi corporativi, era ed è assolutamente necessario per attuare politiche di riforme a vantaggio di tutti. Ma se il cittadino matura la convinzione che il proprio voto serva a poco e la sua opinione sia indifferente, la conseguenza sarà solo un senso crescente di estraneità delle istituzioni. "Uno spostamento verso l’alto del centro delle decisioni", per usare le parole di Petrucciani, ancora più pronunciato nei confronti dell’Europa, che genera frustrazioni e alimenta sfiducia. Ovvero, riempie il bacino di coltura del populismo. La riforma Boschi prevede alcuni necessari contrappesi nelle norme sui referendum (più firme ma quorum abbassato) e sulle leggi di iniziativa popolare (più firme). Ma troppi sono stati i referendum il cui esito è rimasto lettera morta. Le leggi di iniziativa popolare poi sono sempre state ostacolate, soprattutto dai partiti. Non ne è passata mai una. Vedremo se, rianimandosi, questo strumento darà più voce ai cittadini. La Rete è una straordinaria piazza democratica. Ma non è la risposta. Ridurre gli eletti a portavoce di movimenti erratici e indefiniti sul Web ha aspetti caricaturali. Si scambiano le posizioni di minoranze attive - e generalmente agli estremi - per quelle mediane dell’elettorato. In realtà, come dimostrano le consultazioni dei Cinquestelle, si tratta al massimo di poche migliaia di persone. Vedremo se le primarie per i candidati sindaci, a Roma, a Napoli e a Trieste coinvolgeranno porzioni significative di cittadinanza. Se sono vere (come a Milano) appassionano. Se sono finte contribuiscono solo a svalutare il voto e a irritare i partecipanti (i gazebo di Salvini a Roma). L’affievolirsi di una democrazia rappresentativa accentua anche il fenomeno del trasformismo. I cambi di casacca nell’attuale legislatura sono già 342. Si allenta così, fino a spezzarsi del tutto, il legame con gli elettori. In un sistema a collegi uninominali, i transfughi potrebbero essere puniti con il cosiddetto recall, il richiamo, che da noi è improponibile. La semplice misura di impedire la costituzione di gruppi parlamentari quando le formazioni non siano state elette in precedenza, avrebbe quantomeno una funzione deterrente. Tralasciamo le considerazioni morali. Il trasformismo, con il populismo, è la malattia contemporanea. Il seggio lo si deve al capo che decide la lista, non ai votanti che vanno ai seggi. Aggrapparsi all’articolo 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo è ridicolo. Non si può dire che i Fregoli del Parlamento inseguano in questo modo l’interesse generale. Discutere, senza pregiudiziali, di proposte dirette a irrobustire l’elettorato attivo non è una perdita di tempo. Il voto ai sedicenni appare a molti costituzionalisti un azzardo. Secondo Valerio Onida sarebbe necessario dibattere, senza venature ideologiche, l’opportunità di concedere il voto alle Amministrative agli immigrati regolari e stabili che già vanno ai gazebo delle primarie. Lo prevede una convenzione del Consiglio d’Europa in vigore dal ‘97. Efficaci leggi sulla rappresentanza sindacale e sulla vita democratica interna dei partiti (articolo 49 della Costituzione, mai regolamentato) possono contribuire a dare senso e prospettiva all’impegno dei cittadini, avvicinandoli alle istituzioni. "È necessario - dice Carlo Galli (autore de Il disagio della democrazia, Einaudi) - che si colmi il fossato ormai aperto fra cittadini e istituzioni e tra cittadini e partiti". La formula francese del débat public, prevista dalla nostra legge delega sugli appalti, consulta i cittadini prima delle decisioni di costruire grandi opere e li responsabilizza su utilità e costi. Un’idea che potrebbe essere estesa - nel giudizio della costituzionalista Ida Nicotra - ad altri processi legislativi. "Un modo per uscire dall’attuale deriva di una democrazia per contrasto e negazione". Pierre Rosanvallon (Le Bon Gouvernement, Seuil) sostiene che un governo, per dirsi democratico, debba accettare momenti di valutazione del suo operato anche diversi dal giorno delle urne. Le nuove tecnologie lo consentono. Ma occorrono cittadini informati, responsabili e convinti che la loro opinione conti davvero. Il ministro Orlando "terrorismo, l’Italia dice no al coprifuoco" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2016 "Non siamo in guerra, non ci sono stati strappi costituzionali e la missione in Libia non prefigura misure eccezionali contro il terrorismo". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando assicura che, nonostante l’innalzamento del livello di allerta, "la strada scelta dall’Italia non è il coprifuoco" ma "il rispetto delle garanzie e dei diritti fondamentali". Continua pagina 23 "Non si tratta di tatticismo", in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi, spiega in questa intervista, ma di una scelta precisa, diversa dal "presunto pragmatismo" imboccato da altri Paesi, "destinato al fallimento". Signor ministro, la missione italiana in Libia significa che siamo in guerra? In queste ore c’è chi denuncia uno strappo alle regole in nome dell’emergenza, sia per la mancanza di un preliminare passaggio parlamentare sia per aver previsto che la missione sarà diretta dall’Aise, il servizio segreto della sicurezza interna che risponde al premier e non alla Difesa... "Non siamo un Paese in guerra. Per la guerra ci sono le procedure previste dalla Costituzione. Il decreto presidenziale sulla missione in Libia non configura un’azione militare e i poteri del premier sono quelli contenuti in una legge approvata dal Parlamento. Quella prevista è un’attività di sicurezza e prevenzione. Un nostro impegno diretto è possibile solo nel quadro di una decisione della comunità internazionale. Peraltro, dobbiamo sapere di essere entrati in una fase storica in cui le categorie di guerra e di pace sono più sfumate. Abbiamo una dimensione che unisce il fenomeno della guerra all’attività di terrorismo internazionale e questo fa sì che l’attività di intelligence sia sempre più legata al monitoraggio di ciò che avviene sui teatri di guerra veri e propri". L’incipit dell’articolo 2 del decreto presidenziale fa riferimento a "situazioni di crisi e di emergenza che richiedono l’attuazione di provvedimenti eccezionali e urgenti". È la premessa anche per eventuali leggi speciali contro il terrorismo, visto il contemporaneo innalzamento dell’allerta? "No. L’Italia ha agito in modo tempestivo, ben prima dei fatti di Parigi, con un decreto che ha superato i punti di debolezza del sistema, ampliando i poteri della Procura antiterrorismo, individuando alcuni reati funzionali alla repressione del terrorismo di matrice jihadista ed estendendo alcune attribuzioni dell’intelligence. Credo che le contromisure giurisdizionali siano già state prese tutte. Semmai, si tratta di portare a compimento alcune azioni di carattere amministrativo, come lo scambio di informazioni, e di monitorare il fenomeno della radicalizzazione in alcuni contesti, a partire dal carcere. Dico subito, però, che una normativa assunta solo in una dimensione nazionale avrà il respiro corto". I migranti fuggono da Paesi che negano i diritti fondamentali ma si ritrovano in un’Europa che nega anch’essa quei diritti. Sullo sfondo c’è anche la paura del terrorismo... "Credo si debba riconoscere che l’Italia è sulla strada giusta, e ci si è messa prima di altri Paesi, perché tutte le altre strade sono percorse sulla base del presunto pragmatismo ma sono destinate al fallimento. L’idea dei muri mette in moto meccanismi destabilizzanti anche per i Paesi che pensano di essersi messi al riparo. La vera domanda è: quando arriveremo a una politica comune? Tutte le altre strade si sono rivelate e si stanno rivelando fallimentari. Ci sono Paesi che rischiano di far esplodere di nuovo un’area stabilizzata da pochi anni come quella dei Balcani". La Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha scelto la via di un socialismo pragmatico, appunto, più attento alla sicurezza interna che alla tutela dei diritti. "Ne faisons pas de juridisme" ha detto il primo ministro al Parlamento, riducendo a legalismo il rispetto delle regole giuridiche, contrapponendole alle esigenze di sicurezza dei cittadini. Possibile che le due cose siano in antitesi? "Bisogna trovarsi nella situazione che hanno vissuto i francesi per rispondere... anche se non mi convince molto la distinzione, penso utilizzata per fare i conti con un’opinione pubblica comprensibilmente terrorizzata". Quindi, se noi fossimo attaccati, sarebbe tutta un’altra storia? "Non dico questo, anche perché noi non siamo in una situazione di tranquillità. Dico che dobbiamo rispettare le loro decisioni, augurandoci di non trovarci nella stessa situazione di fortissima tensione e lacerazione. Dalla nostra abbiamo il passaggio storico della lotta al terrorismo interno e quella guerra è stata vinta restando nel perimetro della Costituzione. Ed anzi, continuando a promuovere la sua attuazione legislativa". "Resistere a volte vuol dire restare, altre volte andar via. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto" ha detto l’ex guardasigilli Christiane Taubira, dimettendosi in polemica con le scelte di Holland, tra cui il tentativo di rendere permanenti le misure eccezionali. Taubira era una che aveva le idee ben chiare sui diritti. Lei farebbe lo stesso? "Non lo so. Non credo sia semplice né opportuno giudicare le vicende interne di un Paese con cui cooperiamo nel contrasto al terrorismo. Detto questo, ho apprezzato molto il lavoro della Taubira e in questi due anni mi è capitato di trovarmi spesso su posizioni comuni in contrasto con quelle influenzate da populismo e xenofobia entrate anche nel dibattito dell’Unione europea". Il filoso Ronald Dworkin diceva che il rispetto dei diritti umani non è un impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma è "la briscola", la carta vincente in ogni partita, anche quella sulla sicurezza. Il governo, tutto, si rispecchia, secondo lei, in questa metafora? "Il governo ha sensibilità diverse. Parlare di un’adesione collettiva a una visione filosofica è un azzardo. Però questa è la strada seguita fin qui. E l’abbiamo seguita fino in fondo". Non è tatticismo, in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi? "Non credo che la posizione di Renzi si limiti alla prudenza. La sua è stata l’unica voce fuori dal coro quando ha detto, dopo Parigi, "Per ogni euro speso per la sicurezza, un euro va speso per la cultura". Il messaggio è chiaro: non solo repressione ma svuotamento dei bacini in cui si nutre l’odio. E così ci siamo mossi e in parallelo ha preso vigore una stagione di rafforzamento delle garanzie. Mi piace contrapporre la nostra azione, che tiene insieme sicurezza, rafforzamento delle garanzie e estensione dei diritti, a quella di altri Paesi: noi abbiamo chiuso gli Opg, abbiamo fatto la riforma della custodia cautelare, stiamo approvando quella sulle unioni civili ed è in atto la discussione sulla tortura". È una strada impopolare. Lega docet... "Non lo so. Ma so che rinunciare a una cifra di libertà significa rinunciare alla libertà di tutti e che non bisogna piegarsi a una destra che ha imposto per anni un pensiero diverso. Non si tratta di essere impopolari o provocatori ma di rovesciare un’impostazione, perché può essere più conveniente per tutti. Se il prezzo per una presunta sicurezza totale è avere città come quelle che controlla l’Isis, abbiamo regalato la vittoria all’Isis. Non credo che gli italiani apprezzerebbero una vita regolata dal coprifuoco". La tenuta di questa identità garantista del governo si misura anche su altri fronti, per esempio sul carcere. Gli Stati generali da lei indetti sono una grande sfida culturale per ridurre lo scarto tra diritti fondamentali e senso comune. Sempre che la montagna non partorisca un topolino... "Intanto arriviamo a questo grande appuntamento avendo fatto una serie di cose che lo giustificano, e cioè, progressi significativi sul sovraffollamento e sviluppo altrettanto significativo delle misure alternative. Ma, anche qui, non si tratta di sfidare l’impopolarità bensì di dire la verità, perché quando si parla di carcere non si va oltre gli slogan. Ricordo sempre che spendiamo 3 miliardi per il carcere ma abbiamo il più alto tasso di recidiva d’Europa. Il tema non è "carcere sì, carcere no" ma "quale carcere", qual è la pena che fa uscire da un circuito nocivo per la tutela della sicurezza collettiva. È bene che si sappia che se le carceri sono un’università del crimine, il contribuente paga la formazione dei criminali". Prima lei accennava alla radicalizzazione dei terroristi in alcuni contesti, a cominciare dal carcere. Il carcere dei diritti avrebbe gli anticorpi contro la radicalizzazione? E quali? "Il binomio è semplice: scrupoloso rispetto delle garanzie previste dalla legge, il che necessita di un costante controllo, e monitoraggio sui fenomeni. Sono due elementi da tenere insieme. Nessun eccezionalismo ma un controllo più stringente soprattutto nei bacini dove si ritiene sia più facile la radicalizzazione. Che non sono solo quelli che hanno matrice nel fondamentalismo religioso". Ministro, due domane fuori tema imposte da un’altra attualità: il nuovo falso in bilancio ha spaccato la Cassazione e andrà alle sezioni unite dopo appena sette mesi di vita. Colpa dei giudici o della qualità scadente della riforma? "Premesso che risolvere contrasti è il mestiere della Cassazione, la stagione delle norme nitide è finita. Le norme penali sono sempre più spesso frutto di mediazioni estenuanti, in particolar modo in un governo in cui le posizioni di partenza sono molto distanti. Non bisogna quindi stupirsi della ricerca di un punto di equilibrio, anche se non privo di difetti, ma, semmai, di avercela fatta". Così, però, si scarica costantemente sui giudici. "Credo sia un dato strutturale delle società post moderne, caratterizzate dalla frammentazione politica e, quindi, dall’esigenza di mediazioni. Questo lascia alle nostre spalle le grandi codificazioni e scarica sui giudici un ruolo sempre più importante, per cui il tema del "diritto vivente" diventa cruciale. Perciò condivido il grido d’allarme lanciato dal primo presidente della Cassazione Gianni Canzio". Il 15 e 16 marzo lei presiederà a Parigi la Conferenza Ocse sulla corruzione. Ci andrà con una serie di misure adottate ma senza la riforma della prescrizione, in passato considerata dall’Ocse una priorità. Come si giustificherà? "Vado a Parigi con una posizione solida perché, dopo gli inasprimenti di pena introdotti dalla Severino e poi da noi, credo che in Italia sia diventato improbabile far prescrivere i reati di prescrizione". Quindi la riforma è archiviata? No, ma rispetto alla corruzione si può dire che il numero di processi prescritti dopo i nuovi aumenti tendono allo zero. Giorgio Pieri (Comunità Giovanni XXIII): "il carcere come è adesso è una barbarie" di Chiara Santomiero aleteia.org, 5 marzo 2016 I percorsi alternativi per il reinserimento sociale. "È penoso un sistema carcerario che non recupera le persone". Lo ha detto con chiarezza papa Francesco nell’incontro con i detenuti a Philadelphia, durante il viaggio negli Stati Uniti; solo una delle tante occasioni in cui ha espresso la sua attenzione verso il mondo del carcere, dal gesto della Lavanda dei piedi nell’istituto di Casal del Marmo nel primo Giovedì Santo da pontefice, all’ultimo incontro con i detenuti di Ciudad Juarez in occasione del viaggio in Messico. L’essere in carcere, ha aggiunto Francesco a Philadelphia, ha l’unico scopo di "tendere la mano che aiuti al reinserimento sociale" che "tutti siamo chiamati a stimolare, accompagnare, realizzare", un reinserimento che "benefica ed eleva il livello morale di tutta la comunità e società". La Costituzione italiana è d’accordo con il papa: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. È in questa tensione tra la giustizia e la necessità di dare ai detenuti la possibilità effettiva di reinserirsi nella comunità che si inserisce il percorso rieducativo "Cec - Comunità educante con i carcerati" messo a punto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Il progetto ha coinvolto oltre 250 detenuti e si è dimostrato un’efficace alternativa al carcere abbassando il grado di recidiva - cioè la percentuale di ex detenuti che uscendo dal carcere commettono nuovi reati - dal 75 al 10%. Un progetto pensato con il coinvolgimento del territorio e senza dimenticare le ragioni delle vittime, come spiega il responsabile del Cec, Giorgio Pieri. Cos’è il Cec-Comunità educante con i carcerati? Pieri: È un progetto educativo che si fonda su una formazione umana e una formazione valoriale religiosa. Nella formazione umana cerchiamo di curare le ferite che troviamo nel cuore dell’uomo: quando andiamo a vedere la storia di queste persone che sono state carnefici e hanno fatto tanto male alla società, scopriamo che prima di farlo, il male lo hanno subito. I germi del male - perché il male è un grande mistero - li troviamo nelle ferite del cuore dell’uomo. Non si può pensare che una persona non compia più il male se non curiamo quelle ferite. Il carcere, come è concepito oggi è una barbarie, un sistema vendicativo. Noi dobbiamo passare da una giustizia vendicativa a una giustizia educativa, dove al centro c’è l’uomo. Per questo, al posto del carcere, vorremmo sviluppare comunità educanti nel territorio nazionale per 15-20 mila persone. C’è il rischio che, aiutando a venir fuori dal carcere delle persone che hanno commesso dei reati, le vittime possano sentire ignorate o non considerate abbastanza le offese ricevute? Pieri: C’è un cammino di perdono e di riconciliazione che si deve fare sia per chi commette reati, che per chi li subisce. Noi ci stiamo impegnando molto più sul fronte del recupero delle persone che delinquono, ma queste poi, con le possibilità che hanno, devono incontrare le vittime dei loro reati. Per questo abbiamo favorito incontri con tossicodipendenti che sono venuti a parlare alle persone accolte nelle nostre strutture perché condannate per spaccio di droga; abbiamo fatto parlare i genitori dei tossicodipendenti e le persone che hanno subito dei furti, così come le vittime di altri tipi di reato. È un tema molto delicato, ma la domanda più importante è: questa società vuole davvero investire nell’uomo? Per farlo non c’è altra via della relazione tra uomini che si devono incontrare. Il territorio che accoglie le strutture della Cec con i detenuti come risponde? Ci sono delle resistenze? Pieri: Nella casa "Madre del perdono", nella provincia di Rimini, che è la prima realtà e in cui al momento ci sono 18 detenuti, abbiamo più volontari rispetto alle persone accolte. Il territorio risponde bene quando vede che c’è la possibilità di fare del bene perché è nel cuore dell’uomo fare del bene. E quando si mettono fianco a fianco queste persone scoprono che nel loro reato c’è anche il peccato dell’altro. Nel cammino fatto insieme non c’è chi salva e chi è salvato, ma davvero ci si salva insieme. Questa disponibilità parla anche di una società che è ancora viva e che è capace ancora di dare il meglio di sé. Le toghe al voto, scontente Il Manifesto, 5 marzo 2016 Giustizia. Da domani i magistrati dell’Associazione nazionale vanno alle urne per rinnovare il loro parlamentino. La giunta uscente di centro-sinistra è accusata di eccessiva prudenza con il governo. Destra in rimonta, ma la sorpresa può essere la corrente di Davigo. Secondo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, le riforme legislative che negli ultimi mesi sono state spinte dal governo, anche nel campo della giustizia, rischiano di pagare lo scotto della "prevalenza di spinte demagogiche e appetiti populisti". L’Uscita forte di Sabelli, un magistrato della corrente moderata di Unità per la costituzione (Unicost), eri a Messina durante un convegno, racconta del clima da campagna elettorale che circonda per questo fine settimana la magistratura associata. Domani, lunedì e martedì si rinnova, a quattro anni di distanza, il Comitato direttivo centrale delle toghe, il "parlamentino" dove siederanno 36 rappresentanti delle correnti: i candidati sono 141. L’attuale giunta esecutiva dell’Anm è guidata da un accordo tra Unicost e la macro corrente nata dall’alleanza tra le due correnti di sinistra, la storica Magistratura democratica e il più recente Movimento per la giustizia / articolo 3. Anche se nel 2012 le urne avevano in realtà premiato un altro schieramento, quello delle toghe conservatrici di Magistratura indipendente, rimasto però escluso dall’accordo di governo del sindacato magistrati (ma, si potrebbe dire, Mi è andata direttamente al governo del paese con il suo leader storico Cosimo Ferri che è sottosegretario alla giustizia del governo Renzi dopo esserlo già stato del governo Letta su indicazione di Forza Italia). Al centro della campagna elettorale c’è naturalmente il rapporto con il governo, quello che l’accorto ministro della giustizia Andrea Orlando è riuscito a tenere sui binari del confronto, solo a tratti teso, senza passare dallo sciopero di protesta. Malgrado siano state approvate leggi assai poco gradite dai magistrati, prima fra tutte la riforma della responsabilità civile e la riduzione delle ferie (giunta al termine di una polemica condotta da Renzi sulla produttività dei magistrati italiani). Su questi punti Magistratura indipendente è all’attacco della giunta uscente, guidata da Sabelli e dal segretario Maurizio Carbone di Area. La richiesta, già in campagna elettorale, è quella di un pacchetto di sette giorni di sciopero. Ma a far leva sugli scontenti per l’eccessiva timidezza nel rapporto con l’esecutivo c’è anche la corrente ultima arrivata, quella di Autonomia e indipendenza nata proprio da una scissione di Mi. Il leader di Ai in predicato per la guida della prossima giunta è Piercamillo Davigo, l’ex componente del pool Mani Pulite oggi consigliere di Cassazione. Gli altri candidati alla presidenza sono Edoardo Cilenti, giudice del lavoro alla Corte d’appello di Napoli per Unicost, Antonio Sangermano, sostituto procuratore a Prato per Mi ed Eugenio Abamonte, sostituto dell procura di Roma, per Area. Il Senatore Manconi "oggi assolto Rashid Assarag, vittima di violenze in carcere" Agi, 5 marzo 2016 "Avevamo ragione, quindi, quando dicevamo che le accuse mosse nei confronti di Rachid Assarag - il detenuto marocchino diventato noto suo malgrado per aver registrato delle inquietanti conversazioni con agenti, medici e operatori in varie carceri italiane - erano totalmente infondate". È quanto afferma il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani a Palazzo Madama. "Rachid Assarag oggi è stato assolto perché il fatto non sussiste - sottolinea Manconi - e invero pare incredibile che si sia potuto celebrare un processo in cui l’uomo era accusato di aver forzato l’apertura di una porta blindata, rompendola. Avete presente le porte delle celle? Quelle spesse molti centimetri, con sbarre e serrature che consentono un numero incredibile di mandate? Ecco, quello è il tipo di porta che un uomo alto un metro e sessanta per cinquanta chili di peso avrebbe danneggiato. Incredibile. E da stamattina questo fatto non è incredibile solo per noi, ma anche per un tribunale della Repubblica, fortunatamente". "Nello stesso processo Assarag è stato assolto dall’accusa di resistenza perché, nonostante la denuncia dell’agente, i lividi dopo quello "scontro" li aveva addosso il detenuto. Con questa sentenza di assoluzione il mio augurio è che finalmente si interrompa l’accanimento nei confronti di Assarag, consistente in numerose intimidazioni, ostilità verbali e denunce tutt’ora pendenti. Atti che, a mio avviso, sembrano avere tutto il sapore di una ritorsione per quanto da lui denunciato" conclude l’esponente Pd. Verona, Pietro Maso ricoverato in clinica psichiatrica di Laura Tedesco Corriere della Sera, 5 marzo 2016 Problemi di droga e debiti per l’assassino dei genitori. Don Mazzi: "Pronto ad aiutarlo. È la cosa migliore per tutti, per le sorelle che ha minacciato così pesantemente". Voleva "ricominciare altrove". Viveva a Milano, sognava la Spagna. Invece, venticinque anni dopo, Pietro Maso è tornato nella sua terra. Da giovedì sera, infatti, il veronese che nel 1991 ammazzò i genitori per l’eredità si trova ricoverato nella clinica psichiatrica Santa Giuliana, sulle colline della città. "Pietro ha finalmente accettato di farsi curare, si è reso conto di aver bisogno di una mano. È la cosa migliore per tutti, per le sorelle che ha minacciato così pesantemente e che ho sentito al telefono terrorizzate, ma soprattutto è la situazione più adatta per lui - dichiara don Antonio Mazzi. Adesso la priorità è curarlo, so che già domenica verrà visitato da uno psichiatra. Quando Pietro verrà dimesso sono disposto a farmene carico e, se lui sarà d’accordo, a ospitarlo nella nostra comunità Exodus. L’importante è che non venga più lasciato solo, perché i fatti hanno dimostrato che non è in grado di andare avanti con le proprie gambe". Da sempre in prima linea per il recupero dei tossicodipendenti, il sacerdote conosce Maso da quando, il 15 aprile 2013, ha lasciato definitivamente il carcere dopo aver scontato 22 dei 30 anni di reclusione a cui fu condannato in primo grado. Tornato in libertà, Pietro sembrava pronto alla sua seconda vita. "Una persona nuova, diversa". Il rapporto riallacciato con le sorelle Nadia e Laura, il matrimonio con Stefania Occhipinti, il lavoro negli studi di Telepace sotto la supervisione della sua guida spirituale, don Guido Todeschini. A 44 anni (ne compirà 45 a luglio), Maso pareva "rinato". Qualcosa si spezza - Ma qualcosa, nella seconda metà del 2015, si spezza. E quell’equilibrio che pareva ristabilito improvvisamente va in frantumi. Prima la separazione dalla donna che aveva conosciuto ai tempi della semilibertà, poi il licenziamento dall’emittente tv. A dicembre la sorella Nadia lo incontra fuori dagli studi di Telepace e lo trova "alterato, irriconoscibile, in preda a uno stato euforico". Nei suoi occhi rivede "quelli del ragazzo che 25 anni fa uccise i nostri genitori". Si allarma subito, chiama l’ex moglie e don Todeschini. "Adesso fai quello che ti dico" - Gli avvenimenti precipitano quando Nadia riceve per errore dal telefonino del fratello un sms indirizzato a un amico di Pietro: "Adesso fai quello che ti dico, altrimenti ti taglio quella testa di c... che hai". Maso pretendeva soldi, altri soldi. È l’8 gennaio 2016 quando le sorelle lo denunciano ai carabinieri: "Bisogna fare qualcosa, va aiutato", è l’appello che lanciano con il loro avvocato Agostino Rigoli. E mentre su Maso la procura apre un’inchiesta per tentata estorsione ai danni dell’amico, Nadia e Laura vengono poste sotto sorveglianza dai carabinieri perché Maso le ha minacciate di morte perché lo avevano denunciato. "Su di loro devo finire quel lavoro di 25 anni fa...", ha detto al telefono all’ex moglie e a don Guido. E proprio don Todeschini, ieri mattina, ha chiamato don Mazzi: "Mi ha spiegato che finalmente Pietro è disposto a farsi curare, non si poteva andare avanti così - racconta don Antonio -. Ora lasciamo che di lui si occupino i medici, ma l’importante è non lasciarlo di nuovo solo quando verrà dimesso. Non possiamo lasciare in mezzo a una strada una persona che dipende dalla droga e che per questo è piena di debiti. Altrimenti precipiterà nel baratro". Ancora una volta. Fra Beppe: "caso Maso, la via del pentimento è lunga, dava frutti, poi si è inceppata" di Paolo Berizzi La Repubblica, 5 marzo 2016 Parla il consigliere spirituale dell’uomo che 25 anni fa uccise i genitori e ora, uscito di galera, minaccia le sorelle. "Qualcosa si deve essere incrinato... ". Fra Beppe Prioli, detto "Frate Lupo" per la sua pluriennale attività pastorale nelle celle dei "lupi"- ossia i detenuti accusati di omicidi efferati -, è stato per anni il padre spirituale di Pietro Maso. Come si spiega queste notizie? "Non voglio e non posso giudicare. Ma certo qualcosa in lui deve essere successo". Cosa? "Non so, bisognerebbe chiederlo, anche per correttezza, a chi lo segue adesso". Don Guido Todeschini di TelePace. Lo abbiamo contattato: non vuole dire nulla... "Beh, su Maso in effetti si è detto fin troppo". Sì ma adesso ha minacciato le sorelle: sono finite sotto protezione. "È una storia dolorosa. Penso alla sofferenza di quelle due donne. Nel loro animo è un ritorno al passato". Lei è stato il primo a accompagnare Maso nel cammino di avvicinamento alla fede e al pentimento. "Un cammino lungo, lungo, lungo... Ci vuole molto tempo". A volte può non bastare... "Forse ha corso troppo in fretta. Il percorso stava dando i suoi frutti. Poi forse c’è stata qualche scelta che andava ponderata meglio: sia da parte sua sia da parte di chi lo ha consigliato". Tipo? "Il matrimonio. Non l’avrei fatto. Né in carcere né fuori". La recente intervista patinata a un settimanale. "Grande errore". E adesso? "Prego per lui. E per le sorelle". La verità di Bossetti: "Non ho mai conosciuto Yara" di Paolo Colonnello e Stefano Rizzato La Stampa, 5 marzo 2016 "Non ho mai visto né conosciuto Yara Gambirasio". Massimo Bossetti racconta in aula la sua verità. Il muratore chiarisce di non aver mai conosciuto nessun componente della famiglia Gambirasio, a parte il padre, ma soltanto di vista. Bossetti ripete più volte di non ricordare esattamente quel 26 novembre 2010, giorno in cui Yara sparì dalla palestra di Brembate di Sopra: "Una giornata banale, come tante altre. Non ricordo nulla di particolare". Le bugie degli altri - "Presidente, non sto mentendo mi creda. Non sto mentendo come altri che si sono seduti su questa sedia. Hanno mentito tutti, tranne i miei consulenti". Così Bossetti parlando del suo abituale tragitto serale attraverso Brembate Sopra. E riferendosi soprattutto agli edicolanti che dicevano di non conoscerlo. "Tutte le sere mi fermavo in una delle tre edicole, a Barzana, Brembate o Locate, per prendere figurine o braccialetti per i miei figli. Ci litigavo con mia moglie, che diceva che li vizio". Aula piena - Bossetti "il favola", come lo chiamavano i suoi compagni di cantiere, nel corso delle precedenti udienze, ha già chiesto e ottenuto di parlare in un paio di occasioni, per brevi dichiarazioni spontanee. A Bergamo come al solito la piccola aula del processo si è riempita fin dal primo mattino, tanti i "fans" del muratore che contendono spazi e seggiole ai giornalisti. Vietate le riprese e ogni tipo di registrazione. Le ricerche "pedo-pornografiche" - Ma la giornata di Bossetti è iniziata con il controesame della difesa sui consulenti informatici dei Carabinieri: il tenente Giuseppe Specchio e il maresciallo Rudi D’Aguanno del Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche di Roma (Racis). Si torna sulle numerose ricerche a sfondo pedo-pornografico individuate nel notebook usato da Bossetti. "Ragazzine rosse tredicenni per sesso". "Ragazze rosse vergini". "Ragazzine vagina rasata". E persino "Teen con topa rossa piena di lentiggini e pelle bianca". Le chiavi di ricerca come questa riempiono tre pagine della relazione del Racis. Il 25 febbraio la moglie di Bossetti, Marita Comi, ha detto in aula di essere responsabile delle ricerche online a sfondo sessuale. Ma ha anche precisato: "Mai fatto ricerche su tredicenni". Hacking Team entra nel processo - L’esame dei consulenti informatici ha poi preso una piega tecnica e inaspettata. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini arrivano fino a chiamare in causa il caso Hacking Team. E a sorpresa leggono in aula una delle email - svelate da WikiLeaks a luglio 2015 - spedite da David Vincenzetti, capo della ditta milanese che forniva software "spia" ai governi di mezzo mondo. La mattina del 17 giugno 2014, cioè un giorno dopo l’arresto di Bossetti, Vincenzetti scrive ai suoi soci un’email che s’intitola "Il caso Yara". E recita: "Il merito del successo di questa indagine va a una certa tecnologia investigativa informatica prodotta da un’azienda a noi molto nota. Insomma: ci hanno appena chiamato i Ros di Roma. Per complimentarsi e ringraziarci". "Tesi improbabile" - Che il software "Galileo" prodotto da Hacking Team fosse utilizzato anche in Italia è cosa ormai chiarita, proprio grazie alle email svelate da WikiLeaks. Ma i legali di Bossetti si spingono oltre. Parlano - in modo assai spericolato - di "dna artificiale". E arrivano a suggerire l’utilizzo del software per produrre prove fasulle a carico del carpentiere. Un’ipotesi che i consulenti del Racis hanno smentito con forza. E che la pm Letizia Ruggeri ha subito definito "esilarante". Del resto la stessa Hacking Team ha sempre negato che Galileo fosse in grado, oltre che a spiare un dispositivo, anche di alterare i materiali che contiene. Gli antivirus - Un dettaglio importante arriva invece da altre parole dei due periti informatici del Racis. Che hanno chiarito come il notebook usato dal muratore di Mapello avesse in azione un antivirus e due anti-malware. Tutti installati tra il marzo e il 21 maggio 2014. Parecchio a ridosso della sua cattura da parte degli inquirenti. Non c’è traccia invece, in quel computer, dell’uso di Tor o di altri sistemi per schermare l’identità o le attività fatte su internet. Carceri, una buona legge c’era, ma… di Paola Severini Melograni Corriere della Sera, 5 marzo 2016 Nel caso delle carceri italiane, dopo la condanna dell’Europa nei nostri confronti perché la funzione rieducatrice della pena era stata oscurata dalle condizioni degradanti nelle quali i detenuti vivevano, le cose cominciano a cambiare… oppure no? Le carceri sono meno sovraffollate, ma il calo delle persone detenute, che c’è stato (8 mila unità), è dovuto alla bocciatura della legge Fini-Giovanardi da parte della Consulta che ha determinato in effetti la dimissione di tanti. Se si visitano oggi gli istituti di pena, si vedono topi e scarafaggi. E l’ozio forzato al quale la maggior parte dei detenuti è costretto. Poi celle sovraffollate, senza acqua potabile e senza riscaldamento. Dobbiamo fare un’apertura di credito - a tempo però - agli "Stati generali" organizzati dal ministro della Giustizia e dare la possibilità a questi 18 tavoli di studio di redigere, velocemente, le loro soluzioni. Il contrasto in questo campo tra impegno appassionato e mala gestione è sottolineato anche da iniziative speciali, come il progetto Co2 in quattro istituti di pena, realizzato dal musicista Franco Mussida. Un mese fa è morto Alberto Simeone, autore insieme a Luigi Saraceni di una buona legge risalente al 1998, la 165, sull’accesso alle misure alternative e che in ogni caso è stata applicata in minima parte: Simeone era una persona specchiata e un politico integerrimo, per questa sua legge di civiltà e di umanità non è stato più ricandidato dalla suo partito di allora (An) e non è stato "recuperato" da nessun altro schieramento politico: chiediamoci il perché. (Riccardo Arena, art. 3 dei Diritti paradossali: "Il diritto a una rieducazione umana". Manuale dei Diritti fondamentali e desiderabili, Oscar Mondadori). Caro Renzi, una parola sola: giustizia di Carlo Nordio* Il Foglio, 5 marzo 2016 Come una buona ragione - secondo l’insegnamento di William Shakespeare - deve sempre cedere a una ragione migliore, così una priorità deve sempre cedere a una priorità più prioritaria. Di conseguenza, quantunque il governo abbia sempre indicato come urgente e indifferibile la riforma della giustizia, di fronte alle urgenze più urgenti come il terrorismo, il salvataggio delle banche, i dissidi con la Merkel e le unioni civili, anche la giustizia può aspettare. "So let it be". Dunque, aspettiamo. Due problemi da segnalare senza indugi sono l’inefficienza dell’apparato e la sua vetustà culturale. L’inefficienza, cioè la lentezza dei processi, è notoriamente la malattia endemica del sistema. Da essa dipendono quasi tutte le altre patologie, come l’abuso della carcerazione preventiva, l’incertezza della pena, e più in generale l’esasperata sfiducia del cittadino nella giustizia: una sentenza che costringa il debitore a pagare con dieci anni di ritardo è comunque una sentenza sbagliata. La risposta governativa a questa emergenza è stata la rottamazione di centinaia di magistrati ultrasettantenni, con la conseguente temporanea paralisi degli uffici giudiziari. Per di più il provvedimento è stato adottato oltre un anno fa con un decreto legge, necessario e urgente, che tanto urgente non doveva essere, visto che la sua operatività è stata prorogata due volte. Questa, e altre incongruenze, lo hanno esposto a una solenne bocciatura del Consiglio di Stato, e probabilmente lo esporranno a quella, più radicale e devastante, della Corte Costituzionale. La vetustà culturale. Il nostro codice penale è datato 1930, e reca la firma di Mussolini e di Vittorio Emanuele. È ovvio che su certi princìpi, come la disponibilità del diritto alla vita, la legittima difesa ecc. è incompatibile con una moderna visione liberale. Per di più è appesantito da centinaia di norme speciali, spesso assurde, inutili e incomprensibili, che rendono l’intero sistema un indovinello dentro un enigma avvolto in un mistero. Malgrado la quasi totalità degli operatori - magistrati, docenti universitari, avvocati - siano concordi nella necessità di una semplificazione e di un’armonizzazione sistematica, si continua a intervenire con leggine ad hoc, generalmente ispirate dall’emotività di eventi contingenti, come il femminicidio, l’omicidio stradale o i vari reati economici. Quanto al codice di procedura penale, esso sta anche peggio. Benché firmato da una medaglia d’oro della Resistenza, è già stato snaturato e demolito più del suo fratello firmato da Mussolini. Basta sfogliarne il testo per notare un’inquietante preponderanza degli articoli in corsivo, che rappresentano interpretazioni, soppressioni, integrazioni, modificazioni e sostituzioni intervenute in questi 25 anni. Con due codici così non c’è da stupirsi che la giustizia sia impantanata. Legittima difesa e Codice penale Torniamo al Codice penale. Dopo quasi 70 anni di Costituzione repubblicana questo può sembrare un paradosso, eppure è così: il codice del 1930 è ancora pienamente in vigore. E dall’ideologia fascista, che ne costituisce il connotato culturale, derivano conseguenze pratiche importanti: per esempio che chi si difende in casa da un’aggressione ingiusta è sempre e comunque sottoposto a un’indagine. Questo naturalmente non significa che venga arrestato, processato e condannato. Al contrario, la stragrande maggioranza dei casi si conclude con un’archiviazione. Ma nel frattempo l’aggredito ha perso soldi, tempo e tranquillità, e forse anche fiducia nello Stato. La ragione per la quale l’indagine è obbligatoria è la seguente: nell’impostazione sistematica del codice mussoliniano l’aggredito che si difenda commette materialmente un reato. Tuttavia non è punibile se rispetta due limiti: la proporzione (non si può sparare a chi ruba una gallina) e l’attualità del pericolo (non si può andare a cercare il ladro a casa sua). Compito del magistrato è verificare il rispetto di questi limiti, e per far questo deve iscrivere la vittima dell’aggressione nel registro degli indagati. Un atto dovuto a garanzia della sua difesa, che però, nello sfacelo del nostro sistema processuale, è diventato un famigerato libello di condanna anticipata. Messa così, la legge non è del tutto irragionevole: è ovvio che non si può sparare alle spalle di chi scappa con un pennuto, né tantomeno farsi in seguito giustizia da sé. Il fatto è che lo sfortunato che si trovi di notte un intruso in casa non può sapere se costui miri alla biancheria o a rapirgli il bambino. E se, reagendo per paura, spara e ammazza il ladro, non lo fa per sostituirsi al giudice come un eroe del Far-West, ma per evitare un danno che potrebbe essere irreparabile e doloroso. Un danno, si noti, che lo Stato non ha saputo impedire. L’impostazione fascista del codice impone di inquisire chi si difende perché pone la questione così: fin dove l’aggredito ha diritto di reagire? E risponde come sopra: nei limiti della proporzione e dell’attualità, da accertarsi nell’indagine penale. Di conseguenza, finché questa impostazione rimarrà, le cose resteranno come sono: infatti l’articolo 52 sulla legittima difesa era stato cambiato nel 2006 dal governo di centrodestra, senza il risultato sperato: non si può cambiare un edificio mutandone un mattone. L’impostazione liberale di un codice nuovo dovrebbe invece essere diversa. Lo Stato è un contraente paritario con il cittadino, che gli cede l’autodifesa dei propri diritti naturali (l’incolumità e la proprietà) pretendendone in cambio la tutela. Questa devoluzione non è incondizionata e irreversibile. Non è una cambiale in bianco. E se lo Stato è inadempiente, la persona ha il diritto di riprenderseli. Così inquadrato il problema, l’intero procedere logico cambia registro. Non più i limiti imposti dallo Stato all’individuo, ma quelli imposti dal cittadino allo Stato. Non più il quesito iniziale, "fin dove l’aggredito può reagire?", ma quello simmetrico: "Fin dove lo Stato può sanzionare?". Per essere ancora più chiari: che diritto ha lo Stato di punire la reazione a un crimine che lui stesso, lo Stato, non è riuscito a impedire? La scelta della soluzione è solo politica e soprattutto culturale. Responsabilità civile Da molti anni un altro tema largamente dibattuto è quello della responsabilità civile dei magistrati. Il problema è serio perché l’Italia è l’unico paese al mondo in cui esista un potere senza responsabilità. Prendiamo il pubblico ministero. È il capo della polizia giudiziaria, quindi dirige le indagini con una discrezionalità che può sconfinare nell’arbitrio, conferendogli attribuzioni impensabili. Ad esempio, solo spedendo un’informazione di garanzia, può condizionare la vita politica di un parlamentare, di un governo e magari di una legislatura. Una simile forza dovrebbe essere bilanciata da una responsabilità equivalente; negli Stati Uniti, ad esempio, è controllata dalla volontà popolare, perché il District Attorney viene eletto dai cittadini. Invece da noi il Pm gode delle stesse garanzie di indipendenza e autonomia del giudice, e quindi non risponde a nessuno. Può imbastire processi lunghi, costosi e fantasiosi. Alla fine dirà che l’azione penale è obbligatoria, e che ha solo fatto il suo dovere. Se dal pubblico ministero passiamo al giudice, il problema è anche più serio. L’Italia è l’unico paese con un processo accusatorio dove un cittadino assolto possa essere riprocessato e condannato in una sequenza infinita. I casi sono noti, e sarebbe doloroso farne i nomi. Questa è una follia logica, perché se la condanna può intervenire solo quando le prove a carico resistono a ogni ragionevole dubbio, bisognerebbe ammettere che i magistrati che avevano assolto erano degli imbecilli. A parte questo, in una simile catena di sentenze, che negli anni hanno coinvolto decine di magistrati, chi avrà sbagliato e chi no? Difficile dirlo. Ancor più difficile distinguere tra responsabilità dei giudici togati e di quelli popolari, che, in corte d’assise, hanno gli stessi poteri dei primi. Faremo causa anche a loro? Chissà. Di fronte a problemi così complessi, governo e parlamento hanno risposto in modo emotivo. Condizionati dallo slogan del "chi sbaglia paga", invece di incidere sulle cause degli errori giudiziari - come ad esempio l’irresponsabile potere dei pubblici ministeri - hanno preferito agire sull’effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie. Scelta inutile, perché ci penserà l’assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita. L’aspetto più singolare di questa vicenda è stata tuttavia la reazione dei magistrati. Alcuni hanno minacciato lo sciopero, altri forme più blande di protesta, tutti hanno, apparentemente, mugugnato. Alla fine non è successo nulla, salvo il rinvio alla Consulta della parte più ambigua della legge: quella che appunto consente, o pare consentire, di far causa allo Stato (e quindi al giudice) prima che la causa sia definitivamente conclusa, con l’effetto automatico di paralizzare i processi. Perché il magistrato denunciato si potrà astenere, passando il fascicolo al collega, e questo a un altro, e così per l’eternità. (…) Intercettazioni - Nell’ultimo ventennio, si è più volte tentata la modifica della disciplina sulle intercettazioni telefoniche, in conseguenza di indebite pubblicazioni di intercettazioni private non rilevanti ai fini delle indagini. All’inizio di quest’anno, alcune Procure hanno definito alcune linee guida nella gestione delle intercettazioni e questa può sembrare, e in parte è, una buona notizia. Perché finalmente si è capito che l’articolo 15 della "Costituzione più bella del mondo", che santifica il precetto di inviolabilità delle conversazioni private, era andato, da tempo, a farsi benedire. Ma la buona notizia si ferma qui, per i seguenti motivi. Primo. Se siamo arrivati a questo saccheggio del diritto alla privacy, la colpa non è tanto del legislatore, quanto della stessa magistratura. La legge c’è, ed è chiarissima. L’art. 268 6° comma del codice di procedura penale dispone infatti che le registrazioni e le comunicazioni possono essere utilizzate dopo la loro trascrizione nella forma della perizia, sentite le parti, se ne fanno richiesta. E invece, con una discutibile propensione accusatoria, la nostra giurisprudenza si è compiaciuta di interpretare la norma in modo opposto, e i brogliacci della polizia sono finiti, transitando attraverso le richieste del Pm e le ordinanze del Gip, su tutti i giornali. Così è stata vulnerata non solo la tutela della riservatezza, ma anche l’affidabilità della prova. (…) Secondo. Queste direttive non sono solo disomogenee ma valgono, ammesso che valgano, per i soli uffici di appartenenza. Quindi basterà varcare il ruscello di confine tra una provincia e un’altra per avere discipline differenti su una materia così delicata. (…).Tale incertezza del diritto confonderà ancor di più il povero cittadino, già convinto che la giustizia sia una sorta di aleatoria superstizione. Terzo. Tecnicamente, è irragionevole devolvere alla sola Polizia, o al solo procuratore, la decisione di quanto in una conversazione è rilevante o no. Educato dal salutare precetto di Richelieu - "datemi una lettera e una forbice e farò impiccare l’autore" - il legislatore dovrà pur consentire ai difensori l’ascolto delle conversazioni nella loro integralità. Perché se parlo di polvere bianca, e poi aggiungo che mi ha attenuato l’acidità gastrica, l’ambiguità della prima frase è eliminata dalla spiegazione della seconda, e quella che poteva sembrare cocaina si è rivelata bicarbonato. Ma così le persone che avranno accesso alle registrazioni resteranno numerose, come resteranno le possibilità di divulgazioni illecite e le difficoltà di individuarne l’autore. Esattamente come accade ora. Infine, e più grave, questa pur meritoria uscita dei procuratori è sintomatica dell’incapacità della politica di portare a buon fine le sue stesse iniziative, ogniqualvolta si deve riformare questa sgangheratissima giustizia. (…) Ogni buon proposito della politica si è mitigato, e alla fine si è spento come la candela di Macbeth, davanti alle critiche di una magistratura rigorosa. Magari la stessa che oggi, finalmente, si sostituisce alla sua inerzia colpevole. *Pubblichiamo ampi stralci di alcune riflessioni che oggi il Procuratore aggiunto di Venezia presenterà nella sua lectio magistralis ("Una parola sola: giustizia") in occasione di Lex Fest, kermesse sul diritto che si tiene a Cividale del Friuli (Ud), organizzata dal team di comunicazione strategica "Spin". Guarda che pene di Filippo Facci Libero, 5 marzo 2016 Qualsiasi cosa succeda, un imbecille vi dirà: "Inaspriremo le pene". Se risuccedesse, un altro imbecille vi dirà: "Però abbiamo inasprito le pene". L’esito di questa demagogia securitaria - cara alla destra e quindi, ora, anche a Renzi - l’hanno ben riassunta i satiri di "Spinoza.it" a proposito del nuovo reato di omicidio stradale: "18 anni di carcere a chi fugge, a questo punto conviene sparare ai testimoni". È una battuta sino a un certo punto: la celeberrima coppia dell’acido, per esempio, ha preso meno di quanto potrebbe beccare un coglione alla guida. A furia di legislazioni forzate dai tamburi mediatici (stupri, omicidi, femminicidi, allarmi numericamente falsi) si rischia che un assassinio colposo sia punito più gravemente di uno volontario. Un furto con destrezza - diceva l’altro giorno l’ex magistrato Bruno Tinti - è punito più severamente di un falso in bilancio. Nel guazzabuglio manca una proporzionalità che oltretutto faccia capire che cosa un Paese ritenga più o meno grave: non dico una "scala di valori" (per carità) ma insomma qualcosa di più solido di un sondaggio umorale. Ovvio che non stiamo neppure più a menzionare l’art. 27 della Costituzione e i principi rieducativi della pena (ah ah) e neppure quella punizione o impedimento fisico a delinquere che la pena, ormai, rappresenta nell’opinione comune. Da noi la funzione della pena è un ‘altra ancora. Non rieducare, non punire: solo calmierare la gente per un paio di giorni. Sardegna: incontro tra Sindacati della Polizia penitenziaria e Provveditore regionale di Alessandro Congia castedduonline.it, 5 marzo 2016 Un vertice tra sindacati e Provveditore regionale della Sardegna per le problematiche nelle carceri dell’Isola. Carenze di organico, strutture fatiscenti tra i disagi della Polizia Penitenziaria. Un faccia a faccia tra i sindacati Uil-Pa ed il nuovo Provveditore Regionale della Sardegna, Maurizio Veneziano, per una prima conoscenza ed una breve analisi delle problematiche del distretto. Il suo, un mandato che durerà 3 anni, con la volontà di affrontare e cercare di risolvere le problematiche che attanagliano la Regione. Nodo centrale le carceri sarde, il problema della carenza degli organici, le problematiche che deve affrontare la Polizia Penitenziaria, la carenza delle varie figure professionali ma ha anche constatato che il personale in alcuni Istituti è distribuito in maniera irrazionale a discapito delle esigue unità che svolgono servizio nelle sezioni detentive. "Ci ha riferito - aggiunge Michele Cireddu (Uil-Pa) - di avere iniziato le visite negli Istituti per capire le reali esigenze della periferia ed ha incaricato un gruppo di lavoro per verificare la gestione dei servizi e del calcolo delle competenze accessorie. Ha inoltre comunicato di aver siglato un accordo di massima con la Coldiretti per incrementare la produzione nelle colonie agricole con immissione dei fondi nel sistema penitenziario". La UIL nel dare il benvenuto nella regione Sardegna, non ha potuto esimersi dall’auspicare che il suo avvento possa significare un rilancio/avvio delle relazioni sindacali. La Sardegna è sprofondata in una situazione forse tra le peggiori degli ultimi decenni. Si registrano anomalie oggettive, come la carenza di Direttori, (emblematico il fatto che in 5 devono dirigere 12 Istituti), la carenza di fondi da utilizzare nei vari capitoli ma, a queste difficoltà oggettive, purtroppo, si uniscono delle anomalie dovute a nostro avviso ad una gestione non proprio oculata delle risorse umane. La UIL su diverse altre questioni ha inviato numerose missive e tutte hanno un denominatore comune la denuncia del mancato rispetto delle regole concordate. I distacchi nella Regione sinora sembravano gestiti con criterio quantomeno irrazionale poiché’ non sono disciplinati, è doveroso citare i casi recenti delle assegnazioni ad personam di unità al PRAP, senza prevedere nessun interpello. È stata anche l’occasione per ricordare che rimangono in sospeso le richieste alla Commissione arbitrale per il mancato inserimento della vincitrice dell’interpello presso il NTP di Sassari, e dell’ ‘interpello per il responsabile degli automezzi dello stesso Istituto dove sono stati inseriti dei vincoli non previsti dal PIR. A proposito del PIR, crediamo sia quanto mai necessario una rivisitazione per renderlo attuale alle reali esigenze degli Istituti, abbiamo chiesto quindi anche attraverso l’Istituzione di un tavolo tecnico di voler apportare delle modifiche allo stesso. Certamente la UIL chiederà di prevedere gli interpelli con i dovuti criteri anche per il Provveditorato e le altre sedi extra Penitenziarie. IN tendenza con la linea della segreteria Nazionale abbiamo chiesto che i riscontri alle vertenze vengano forniti direttamente dall’organo a cui sono state avanzate. Attualmente se un O.S. intraprende una vertenza con la Direzione e si rivolge al Provveditore, quest’ultimo chiede riscontro alla Direzione che non fa altro che confermare la posizione genesi della controversia. In conclusione, viene girato il riscontro della Direzione all’O.S che ha chiesto un intervento del Provveditore. Questo crediamo sia antieconomico e non risolve le questioni, si sminuisce così anche il valore delle relazioni sindacali a livello regionale e si crea il meccanismo del "gatto che si morde la coda". Inoltre in questo modo, non si fa altro che dare alle Direzioni degli input che vanno inevitabilmente a dare un senso di immunità dall’inosservanza degli accordi e delle normative. Ci sono tante, troppe questioni da analizzare e risolvere, abbiamo pertanto chiesto ed ottenuto di calendarizzare gli argomenti e creare se necessario dei gruppi di lavoro comprendendo ovviamente la parte sindacale. Lo stesso Provveditore ha garantito una prossima convocazione per iniziare ad affrontare le questioni e concludere l’iter per il nuovo modello organizzativo degli NN.TT.PP. della Sardegna. La UIL ovviamente nel fornire il proprio contributo nell’interesse del personale, rimarrà vigile affinché alle promesse ed alla buona impressione avuta nella odierna riunione susseguano i fatti concreti. Belluno: 80 detenuti su 95 concentrati sul 10% della struttura, un solo educatore per tutti Nessuno tocchi Caino, 5 marzo 2016 Trattamento e riabilitazione o mera custodia?. 80 persone su 95 detenute al carcere di Belluno risiedono nel 10% dello spazio della struttura: tre piani in cui le celle del primo e secondo si affacciano su uno stretto ballatoio, 80 cm di corridoio a disposizione per la circolazione durante la "vigilanza dinamica", l’apertura delle celle per otto ore al giorno. Una misura adottata a seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha dichiarato la violazione da parte del nostro Paese dell’articolo 3 della Convenzione che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti. Di fatto, la vecchia struttura del Baldenich costringe 80 uomini a concentrarsi al piano terra della sezione e stazionare in ozio per buona parte della giornata, sovraffollando l’unico spazio disponibile. Le celle ospitano 5 persone alloggiate in 20 metri quadrati compreso 2/3 letti a castello e il mobilio. In un metro quadrato c’è il bagno con la turca e un piccolo lavello di 25 cm in cui si lavano anche le stoviglie e gli utensili del pasto. Non c’è bidè e non è erogata l’acqua calda. Un’unica stanza al piano terra dispone di sei piatti doccia al servizio di 80 persone: non ci sono panchine per appoggiare gli indumenti e appendini per gli accappatoi. Un solo educatore segue 95 detenuti, contro i tre previsti dalla pianta organica, per la figura centrale che ha il ruolo di osservazione e trattamento della persona che dovrebbe essere nelle sezioni a fianco degli operatori di polizia. È la fotografia della visita fatta all’istituto nei giorni scorsi da una delegazione del Partito Radicale coordinata dall’ex On. Rita Bernardini e composta da Maria Grazia Lucchiari, Fiorenzo Donadello, Giovanni Patriarca. Alla visita si è unito Sergio Marchese, consigliere comunale di Belluno per il Movimento 5 Stelle. Sono 93 gli agenti di polizia penitenziaria in servizio. La capienza regolamentare per i detenuti dell’istituto è di 87 posti. La nota positiva riguarda il lavoro, che impegna 30 persone in attività di assemblaggio al servizio di due cooperative e 12 persone nella pulizia dell’istituto. L’età media dei reclusi è tra i 30/40 anni. Il 64% sono stranieri, 11 transgender per lo più brasiliani e colombiani, il 29% tossicodipendenti, 7 i sieropositivi, 12 affetti da epatite C, 1 con malattie infettive, 12 i casi psichiatrici. Nel 70% dei reclusi si riscontrano patologie che richiedono la terapia farmacologica. Accompagnati nella visita dalla direttrice dell’istituto Tiziana Paolini e dal commissario capo Domenico Panatta i reclusi ci presentano i loro problemi. Mohamade è quasi a fine pena e vorrebbe chiedere gli arresti domiciliari ma attende l’educatore da tre mesi. El Argoubi da tre mesi e mezzo non vede l’educatore. Costin chiede il trasferimento in Romania, ha i documenti necessari per ottenerlo e attende l’educatore da mesi. Berisha è in istituto da tre mesi, ha chiesto l’espulsione ma l’educatore non lo chiama. Cumali proviene dal carcere di Trieste dove poteva telefonare ogni settimana, mentre ora può farlo solo due volte al mese e da due mesi chiede inutilmente di incontrare l’educatore. Amarildo da tre mesi attende la risposta alla domanda di poter fare una telefonata in più, oltre alle 2 concesse in un mese. Un ragazzo serbo ci mostra la sua cella senza riscaldamento da 20 giorni: è umida e fredda, una finestra è rotta, la perdita d’acqua dal tubo della condotta ha ammuffito il soffitto, il suo compagno di cella si è ammalato di sinusite ed è in cura antibiotica. Nel 2015 in istituto si sono consumati 30 atti di autolesionismo, e chi frequenta le carceri non può fare a meno di intravvedere nelle braccia di tanti detenuti, sui loro stomaci, sul collo i tagli sulla pelle, il linguaggio estremo per attirare l’attenzione dell’amministrazione penitenziaria. I colloqui che i ristretti hanno con i famigliari, 6 ore al mese, devono sottostare ad una disposizione della direzione dell’istituto: il tempo impiegato per la conversazione con il garante dei diritti delle persone private della libertà del comune di Belluno viene sottratto a quello dedicato all’incontro con i famigliari. È evidente che per superare il concetto di sicurezza come mera custodia del detenuto e passare ad un effettivo trattamento e risocializzazione occorrerebbe ripensare spazi e organizzazione, migliorare le condizioni di vita e le relazioni con l’esterno valorizzando quanto di meglio ciascun istituto può dare. Catanzaro: Asp; nessuna epidemia, la morte del detenuto è stato un caso isolato zmedia.it, 5 marzo 2016 In riferimento alle notizie apparse su alcuni mezzi di informazione, riferite a una presunta epidemia nella Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro, interviene il Direttore generale dell’ASP di Catanzaro, dott. Giuseppe Perri, che precisa quanto segue: "L’allarme lanciato dall’associazione Yairaiha Onlus è certamente eccessivo. Nella Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro non è, infatti, in atto alcuna epidemia. La morte del paziente, per "arresto cardiocircolatorio e shock settico da Clostridium difficile", avvenuta dopo il ricovero nell’ospedale "Pugliese", non ha provocato nessuna preoccupazione all’interno della Casa Circondariale, non essendosi verificata tra gli attuali ospiti alcuna condizione clinica che faccia pensare ad una diffusione dell’infezione. Il caso rimane pertanto isolato. Pur tuttavia l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro nel momento in cui è venuta a conoscenza del decesso, ha subito attivato tutte le misure preventive che i casi del genere richiedono, attraverso il nostro Dipartimento di Prevenzione. L’area sanitaria della Casa Circondariale, comunque, continuerà a vigilare con particolare attenzione, così come ha sempre fatto, per garantire la tutela della salute dei detenuti". Bari: Si.P.Pe.; occorre personale qualificato per detenuti con disturbi psichiatrici baritoday.it, 5 marzo 2016 Preoccupazione nel carcere di Bari, un detenuto straniero inveisce contro la polizia penitenziaria. carceri, si.p.pe. dopo chiusura opg, occorre personale qualificato per la gestione di detenuti con disturbi psichiatrici. Nella giornata del 3 marzo u.s., un detenuto straniero ha scatenato il panico, andando in collera per futili motivi, creando forte preoccupazione e pregiudizio all’ordine e alla sicurezza di un reparto detentivo del carcere di Bari. A denunciare il caso è il Segretario Generale del Sippe Carmine Olanda . "Il detenuto - commenta il sindacalista - pare fosse un soggetto con problemi di natura psichiatrica. Grazie al tempestivo intervento del personale di polizia penitenziaria e del comandante del Carcere - continua Olanda - si è evitato il peggio. Il detenuto è stato sottoposto a T.S.O. (Trattamento sanitario obbligatorio) e ricoverato presso la sezione detenuti del Policlinico di Bari. Purtroppo - conclude il sindacalista - a distanza di circa un anno dalla chiusura degli OPG, molti istituti penitenziari non hanno ancora adeguati strumenti, reparti e personale con competenze specifiche per la gestione di detenuti che presentano disturbi di natura psichiatrica e ciò potrebbe ripercuotersi negativamente nella gestione degli eventuali eventi critici". Brescia: ampliamento del carcere di Verziano, inizio lavori entro il 2016 quibrescia.it, 5 marzo 2016 Entro l’estate la stesura del progetto definitivo ed esecutivo e l’affidamento dei lavori prima che si chiuda il 2016. Al centro c’è l’ampliamento del carcere di Verziano, a Brescia, che sostituirà l’ormai fatiscente Canton Mombello. Venerdì 4 marzo sono giunti in città i tecnici del ministero delle Infrastrutture, accompagnati dal sindaco Emilio Del Bono per valutare le condizioni dell’istituto di pena a sud della città e studiare i dettagli dell’operazione di allargamento. L’edificio dovrebbe ospitare 400 detenuti (attualmente sono 120, nonostante il limite di 71), in parte tra quelli già presenti e il resto in arrivo da Canton Mombello che sarà chiuso. Per quanto riguarda il progetto, al posto del campo di calcio e pallavolo per i detenuti in Verziano, saranno costruiti i nuovi edifici per le celle. Saranno una sorta di piccoli appartamenti dotati di aree di lavoro e spazi comuni. Il carcere, quindi, si allargherà all’interno del terreno di proprietà dello Stato, senza dover acquisire nuove aree private. Per queste, potrebbe pensarci il Comune di Brescia dando a chi viene espropriato nuovi volumi da costruire a Sanpolino. Nelle zone intorno a Verziano troverebbero spazio i campi sportivi per i detenuti e un’azienda agricola che sarebbe gestita proprio da loro. I lavori prevedono una spesa di circa 15 milioni di euro da parte del Governo, nell’ambito del piano nazionale delle carceri. Per Canton Mombello, invece, sarà cambiata la destinazione d’uso per procedere alla vendita. Potrebbe diventare una palazzina residenziale, una struttura ricettiva o dare spazio a uffici. Alessandria: carcere San Michele, detenuto incendia cella e aggredisce poliziotto alessandrianews.it, 5 marzo 2016 A fare la denuncia di quanto avvenuto nel carcere di San Michele è il sindacato di Polizia Penitenziaria, Sappe. "Ha prima dato fuoco ad alcuni effetti personali nella sua cella creando una intensa coltre di nube che ha creato il panico nel Reparto e ha poi aggredito l’Agente di Polizia Penitenziaria intervenuto per spegnere le fiamme". Giornata da incubo, giovedì scorso, per il Reparto di Polizia Penitenziaria della Casa di reclusione S. Michele di Alessandria. A dare notizia di quanto accaduto è il Sappe, sindacato di Polizia Penitenziaria. "Giovedì un detenuto straniero, già protagonista nel recente passato di un analogo grave evento critico in carcere, ha prima dato fuoco ad alcuni effetti personali nella sua cella creando una intensa coltre di nube che ha creato il panico nel Reparto detentivo ed ha poi aggredito l’Agente di Polizia Penitenziaria in servizio intervenuto per spegnere le fiamme", spiega Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari". Il Segretario Regionale Sappe del Piemonte esprime al poliziotto ferito e aggredito ad Alessandria nel carcere di S. Michele "la solidarietà e la vicinanza" ed evidenzia come l’incendio sventato e l’aggressione subìta sono "sintomatici del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Da Roma, il Segretario Generale del Sappe Donato Capece aggiunge: "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati". Capece conclude sostenendo che "la Polizia Penitenziaria continua a ‘tenere bottà, nonostante le quotidiane aggressioni. Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità, altro che le reazioni stizzite delle Camere Penali ai nostri costanti allarmi sulla critica quotidianità delle carceri italiane. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto per i detenuti", aggiunge il leader del Sappe. "Quelli del carcere non sono problemi da nascondere come la polvere sotto gli zerbini , ma criticità reali da risolvere. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti, i tentati suicidi e purtroppo anche le morti per cause naturali si verificano costantemente, spesso a tutto danno delle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria che in carcere lavora 24 ore al giorno. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori. Come dimostra quel che è accaduto ieri sera nella Casa di reclusione S. Michele di Alessandria". Napoli: a Poggioreale 30 palestre per i detenuti, ma il cammino è ancora lungo di Chiara Cepollaro vesuviolive.it, 5 marzo 2016 Una giornata importante per i detenuti del Carcere di Poggioreale. Un accenno di cambiamento, laddove il giusto cambiamento renderebbe quelle celle, per molto tempo sporche e sovraffollate, funzionali al loro scopo, che non è la reclusione promiscua o il maltrattamento gratuito, ma la ri-educazione. Tuttavia, l’evoluzione è lenta e bisogna aspettare. Anche se ci sono degli attori sociali che non restano a guardare, come l’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, la quale ha adoperato i fondi dell’Otto per mille di cui beneficia per la creazione di 30 palestre multifunzione destinate ai detenuti, più numerosi attrezzi correlati che potranno usare anche gli agenti. "Il carcere è un luogo di sfida - afferma il pastore Jens Hansen, membro della Tavola valdese - Sappiamo bene che molti pensano al carcere solo come un luogo di reclusione, uno spazio in cui confinare un colpevole in una cella chiusa a chiave, che poi va buttata via. Per noi credenti non è così: partendo dalle Scritture sappiamo che c’è la pena per un’azione malvagia compiuta, ma anche il perdono e la possibilità che una persona possa cambiare". Come riporta l’Eco delle Valli Valdesi, Antonio Fullone, il Direttore della casa circondariale, ha accolto con molta disponibilità la piccola delegazione formata da rappresentanti della chiesa Valdese e altre associazioni, come Alba Chiara, nel giorno della presentazione del progetto, che ha preso il nome di "Poggioreale in-forma". In effetti con la sostituzione di quasi tutti i vertici alla direzione del carcere, avvenuta nel 2014, molte cose stanno cambiando. Migliorando. Come il numero dei detenuti, che si è ridotto di almeno mille unità. Con l’arrivo del Direttore Fullone, inoltre, si è anche introdotto il "regime aperto", ossia le celle aperte per 8 ore al giorno, con la possibilità di dialogare e incontrarsi con gli altri detenuti. Mentre nel rapporto Antigone, risalente al 2013, si leggeva: "I detenuti trascorrono 22 ore al giorno in cella, avendo un’ora d’aria la mattina e una al pomeriggio che trascorrono in un cortile di dimensioni inadeguate per un così gran numero di persone. Alcuni passano ventiquattr’ore al giorno in cella senza uscirne mai. Inoltre la struttura non dispone di spazi comuni da utilizzare al di fuori delle celle". Le condizioni di Poggioreale, per decenni, sono state altamente discutibili. E i cambiamenti che stanno avvenendo sono necessari, ma non bastano. Le celle sono ancora sovraffollate. La situazione che emerge da un documentario su Poggioreale (L’inferno in una stanza) del 2013 a cura di Marco Piscitelli non è tra le migliori: celle che potevano contenere 5 detenuti, ne contenevano anche 12; la promiscuità tra i detenuti comportava la trasmissione di patologie mal curate a causa di un carente sistema sanitario; i reclusi erano costretti a cucinarsi con dei fornelli appoggiati sui sanitari. "Entrano nel carcere colpevoli di un reato che hanno commesso. Escono dal carcere vittime di un reato che hanno subito." Queste sono le parole che il Cappellano del carcere di Poggioreale pronuncia all’interno del documentario in questione, sottolineando che l’assenza di un minimo percorso riabilitativo recinta i detenuti nelle vite precedenti, senza stimoli per andare avanti. I tossici, spiega, parlano solo delle esperienze passate perché null’altro c’è. Secondo il rapporto Antigone risultano 614 i tossici sotto trattamento di metadone e subitex e 35 i sieropositivi. I cambiamenti ai vertici del 2014, pertanto, sono stati inevitabili dopo la focalizzazione mediatica e istituzionale sulle condizioni di Poggioreale. Tuttavia, i cambiamenti da effettuare sono ancora molteplici e riguardano, prima di tutto la concezione del sistema carcerario, anche nelle coscienze comuni. La rabbia, la frenesia e le sete di giustizia provoca reazioni istintive nel popolo, che dimentica la funzione primordiale del carcere, ossia quella riabilitativa. Quella di ri-generare il senso civico e umano del malfattore, per riportarlo in società dopo profonde auto-analisi. Questo per dire, che i cambiamenti importanti partono dalla radice, ossia dal pensiero collettivo, prima di quello governativo. Mai più guerra fredda, c’è una pace rovente sulla scena mondiale di Ian Bremmer Corriere della Sera, 5 marzo 2016 Tutti i recenti avvenimenti, dal dilagare dell’Isis all’aggravarsi della crisi dei profughi, dimostrano chiaramente che le grandi potenze non hanno la minima intenzione di fare gli sforzi necessari per garantire la stabilità globale. Il primo ministro russo, Dimitri Medvedev, ha suscitato molto scalpore il mese scorso quando ha dichiarato che il mondo si stava avviando verso una nuova "guerra fredda". Ma si sbaglia. Quella che vediamo oggi non è una guerra fredda, ma piuttosto una pace rovente. Mentre assistiamo a una nuova era di frammentazione globale, è importante afferrare le differenze tra questi due concetti. Innanzitutto, è difficile ingaggiare una guerra fredda con l’Occidente, nel momento stesso in cui l’Occidente si sta spaccando. I rapporti tra Stati Uniti e Europa toccano il punto più basso da settant’anni a questa parte. L’Europa è pietrificata dal terrore che la Gran Bretagna decida di uscire dall’Unione, che la Grecia ripiombi in una nuova crisi finanziaria e che l’accordo di Schengen venga abolito sotto la spinta inarrestabile della marea di rifugiati. A questo punto, a nessuno passa per la mente di reintrodurre la guerra fredda con la Russia. Anzi, molti leader europei si aggrappano alla speranza che l’intervento russo in Siria riesca ad arginare il flusso dei profughi. Gli europei si dimostrano molto più inclini degli americani a lasciar decadere le sanzioni contro la Russia. Le guerre fredde hanno bisogno di schieramenti precisi. E l’Occidente a cui si riferisce Medvedev non coincide affatto con la realtà. Dal canto suo, la Russia non può più fare affidamento alla rete di alleanze di cui disponeva l’Unione Sovietica. A Mosca piacerebbe intensificare i rapporti strategici con la Cina, ma Pechino non si dimostra granché interessata. La Cina in questo momento pensa a come gestire oculatamente il rischio Europa e Medio Oriente, per poter concentrarsi sui suoi investimenti strategici in Asia, Africa e America Latina. Al di là delle ovvie ambizioni, la Cina ha anche i suoi grattacapi, come il progressivo rallentamento della sua economia. Il Paese mira a potenziare gli scambi commerciali con il mondo intero e ha bisogno di un ambiente globale all’insegna della stabilità, non dell’incertezza. Per questo motivo, è lecito ipotizzare che la Cina sia piuttosto irritata dalle inutili provocazioni lanciate dalla Russia ai Paesi occidentali, e non pensi affatto a cercare coalizioni in una qualche alleanza contro l’Occidente. La Russia non è più il Paese di dieci anni fa, tantomeno quello che era al culmine della vera guerra fredda. Alla Russia interessa far risalire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile per far quadrare i conti, ma questa tendenza non si intravede ancora all’orizzonte. Del comunismo si può dire quel che si vuole, ma almeno era una vasta ideologia che attirava seguaci devoti. Il culto della personalità instaurato invece da Vladimir Putin, sebbene molto efficace nel rafforzare il suo potere sulla Russia, non basta a entusiasmare le masse e avviarle alla lotta contro i nemici di Mosca. Ma ammettendo pure che la Russia sia in cerca di pretesti per scatenare un conflitto, dal lato opposto troviamo un’America del tutto indifferente. In questo momento, le difficoltà che attraversa l’economia globale, il dilagare dell’Isis, e la minaccia economica cinese sono argomenti di scottante priorità per gli americani. Ma c’è dell’altro. L’ascesa di candidati presidenziali quali Donald Trump e Bernie Sanders ha messo a nudo profonde spaccature in seno all’elettorato. L’America si dibatte tra mille dubbi e la guerra fredda presuppone un avversario che incarni una visione concreta: in questo momento, non ci siamo proprio. Per la cronaca, Medvedev aveva proclamato che il mondo marciava verso una nuova guerra fredda anche nel 2014. Ma l’annessione di una bella fetta dell’Ucraina non è bastata a far allungare la mano del presidente americano verso il bottone rosso nucleare, e non sarà così nemmeno per la Siria. Eppure, se questa non è guerra, non si può chiamare nemmeno pace. Tutte le grandi potenze mondiali intrattengono tra di loro rapporti cordiali, per lo meno in apparenza. Ma nel perseguire i propri interessi, queste potenze innescano forti tensioni tra di loro, benché nessuna sia disposta a vederle sfociare in un conflitto diretto. La Turchia ha abbattuto un caccia russo, ma l’episodio, benché controverso, è rimasto circoscritto. Ma non è solo la questione della Siria. Tutti i recenti avvenimenti, dal dilagare dell’Isis all’aggravarsi della crisi dei profughi, fino all’instabilità politica di molti Paesi del Medio Oriente, dimostrano chiaramente che le grandi potenze mondiali non hanno la minima intenzione di fare gli sforzi necessari per garantire la stabilità globale. E più si protrae la riluttanza a prendere impegni concreti per la sicurezza globale, più questi conflitti regionali continueranno a tracimare dall’esterno verso i Paesi occidentali. Prendiamo pure la dichiarazione di Medvedev con una buona dose di scetticismo, e se la vostra visione del mondo si affaccia dalle finestre del Cremlino, avrete ragione nel credere a una nuova era storica di conflitto mondiale. Certamente vi farà sembrare più accettabile lo spietato intervento russo in Siria. Ma ricordatevi che non siamo più nel 1962, anche se a Mosca farebbe molto comodo. Il fronte libico e i Signori del caos, l’establishment occidentale ha fallito di Marco Revelli Il Manifesto, 5 marzo 2016 A passi felpati e a occhi bendati l’Italia si avvia alla guerra. Per certi versi, a contare i caduti sul terreno, c’è già dentro. E la fortunata soluzione per i due altri lavoratori che hanno avuto il coraggio di liberarsi e sono vivi, comunque fa capire che a Sabratha di un "assaggio di guerra" si è trattato, vale a dire del caos e della ambiguità nel quale rischieremmo di precipitare se solo l’Italia intervenisse in armi in Libia. Ma purtroppo, come in altri momenti oscuri della storia, ci si avvia a una nuova avventura coloniale che ha tutte le caratteristiche per annunciarsi disastrosa, e lo si fa nelle condizioni peggiori. Con poche idee (forse nessuna). In un quadro di collaborazione sgangherato (mentre a Roma si chiede la "guida delle operazioni", americani inglesi e francesi già operano per conto loro). Con i peggiori alleati che ci si possa immaginare: Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, i foraggiatori di quell’Isis che si dice di andare a combattere. E come riferimento l’orrendo generale Haftar in quella Cirenaica in cui, nella prima metà del secolo scorso, noi italiani - con generali che si chiamavano Badoglio e Graziani - abbiamo perpetrato una vera e propria pulizia etnica, deportandone la popolazione e facendo oltre centomila morti in operazioni di repressione e quarantamila nei lager messi su lungo quella costa da cui oggi partono i barconi. Così a sud. Mentre a nord, sulle spiagge di Calais, il socialista Hollande attacca a colpi di ruspa la città dolente dei profughi di altre guerre, in combutta col conservatore Cameron il quale annuncia che, di quella moltitudine di fuggiaschi, non ne accetterà più di 5000 all’anno ma in compenso donerà 20 milioni di euro al governo francese, per compensarne la complicità. E a est nuovi fascismi crescono, a murare la Grecia di Alexis Tsipras, unico paese capace di una cosmopolitica umanitaria, già prosciugato dalle vessazioni economiche di un’Europa a sua volta murata nel proprio egoismo e ora condannato a divenire un enorme campo profughi a cielo aperto. L’immagine che ne emerge è quella di una classe dirigente disastrosa. Spaventosamente al di sotto delle sfide che è chiamata ad affrontare. Uomini, in prevalenza, ma anche donne - poche, ma potenti - dai volti ingessati, di circostanza. (Si pensi alle foto di gruppo dei summit europei), che si riempiono la bocca promettendo Ordine, Sicurezza, Responsabilità, Rispetto delle Regole, e sono in realtà i Signori del Caos. Incapaci di immaginare le condizioni elementari della convivenza civile e di un sistema di relazioni tra persone, gruppi sociali, popolazioni razionalmente e umanamente sostenibile. Non è solo Matteo Renzi - che pure quanto a faciloneria e demagogia non scherza - con il suo giglio magico, incerto tra la grande catastrofe dell’intervento armato aperto e la piccola catastrofe dell’azione coperta, anche agli occhi del Parlamento, ma comunque incapace di pensare un’alternativa alla guerra. È tutto l’establishment politico e finanziario occidentale che ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti. È quanto Luciano Gallino, nel suo ultimo libro-testamento, ha descritto parlando della sconfitta del "pensiero critico" e del "trionfo della stupidità" su scala globale (gara nella quale l’Oscar spetterebbe probabilmente di diritto ai vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, che come ha scritto Piero Bevilacqua "si ritirano dai valori della propria storia"). Pesa dunque, in uno dei momenti più difficili e pericolosi del passaggio di secolo, il vuoto lasciato aperto dalle vecchie sinistre, tutte, quale più quale meno, in dissoluzione, mentre le nuove crescono a macchia di leopardo, impetuose in alcuni Paesi - non per nulla bersaglio di oligarchie politiche e finanziarie europee e globali -, fragili e stentate in altri (il nostro in primis). Su questo scenario, e questi compiti, dovrebbe concentrarsi l’impegno delle nostre frastagliate e disperse forze, fuori da tatticismi, competizioni intraspecifiche, piccole rivalità, grandi vuoti mentali. Prima che siano la guerra e i disumani populismi a dettare le regole del gioco. Renzi: "nessuna azione in Libia, per ora solo diplomazia" di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 marzo 2016 Il governo diviso tra opinione pubblica ostile alla guerra e gli interessi economici del paese sul campo. Trovare i due nemici che si sono affrontati nei decenni della seconda Repubblica a dire più o meno la stessa cosa è un fatto più unico che raro. Invece Romano Prodi e Silvio Berlusconi bocciano in tandem la missione militare in Libia. "Spero che il governo non commetta l’errore di intervenire", dichiara da Roma l’ex Cavaliere, e non allude solo alle truppe sul terreno: "I bombardamenti sono il peggio. Portano vittime civili, migrazioni e i migranti non tornerebbero più indietro perché ci troverebbero solo macerie". Parole che, incidentalmente, mettono una seria ipoteca sul miraggio di un voto azzurro per la guerra, ove mai si arrivasse a discutere di una tanto secondaria faccenda in Parlamento. Fi sarebbe all’opposizione, come Sel, come l’M5S, come la Lega e naturalmente a differenza dei verdiniani. "La guerra è l’ultima cosa da fare", concorda da Genova il Professore: "O c’è un unità vera che ti chiama, e allora vai a ricostruire, oppure chiunque vada è nemico di tutto il popolo libico". I due ex rivali sono in ottima compagnia. La pensa come loro, stando ai sondaggi, la stragrande maggioranza del popolo italiano. Ed ecco spiegata la quasi incontenibile irritazione che si sarebbe impadronita del premier ieri, a fronte di una stampa che parlava unanime di guerra imminente. Renzi deve fronteggiare una situazione che presenta diversi aspetti, tutti incerti e spesso in contraddizione tra loro. È obbligato a compiere miracoli d’equilibrismo, e l’ultima cosa di cui ha bisogno sono strattoni che rischiano di farlo precipitare. Renzi deve tener conto di un’opinione pubblica massicciamente ostile alla guerra. Conosce le minacciose conseguenze di un eventuale conflitto: impennata della migrazione e alto rischio di rappresaglie terroristiche. Però sa anche che per gli interessi italiani in Libia, già bastonati di brutta dalla precedente guerra, quella imposta da Napolitano a un Berlusconi giustamente contrario, sbagliare i tempi e permettere ad altri di sbarcare per primi sarebbe esiziale. Non dimentica il fronte europeo: da un lato una guerra oscurerebbe i risultati che immagina più che soddisfacenti del braccio di ferro sulla flessibilità, ma dall’altro la disponibilità italiana ad assumersi la pesante e pericolosa responsabilità di guidare l’intervento potrebbe rivelarsi un’ottima moneta di scambio con la comunità internazionale, euroburocrati inclusi. Dunque il premier italiano da un lato fa il possibile per non impegnarsi in un’avventura che in realtà spera ancora di evitare, trincerandosi, come da saggio dettato prodiano, dietro la necessità che prima di tutto la Libia si riunifichi. Eventualità purtroppo remota. Allo stesso tempo chiarisce agli eventuali futuri alleati in armi che, nel malaugurato caso, l’Italia non sarebbe di rincalzo ma alla testa della spedizione. Incaricato di illustrare la magica quadratura del cerchio, smentendo i media felloni e bugiardi, è già a metà mattinata il presidente della commissione Difesa al Senato Nicola Latorre, uno dei pochi ex dalemiani sopravvissuti al repulisti renziano: "Sembra annunciarsi un nuovo "sbarco in Normandia": rappresentazione del tutto priva di fondamento, sia nell’immediato che in un secondo momento. Il fatto che le forze armate siano pronte non significa che l’ipotesi di un intervento militare sia all’ordine del giorno". E che fanno, presidente? Si addestrano? Ingannano il tempo? Preparano la parata del 2 giugno? Dopo Latorre arriva nel pomeriggio una "nota informale" di palazzo Chigi, dettata da Renzi: "Nessun interesse e nessuna possibilità di azione militare. Casomai interessati a successo opzione diplomatica". Stesse cose dirà in Parlamento Gentiloni, mercoledì prossimo. Il punto dolente è che i soldati italiani in Libia, se ancora non ci sono, ci arriveranno presto: quei 50 militari della Folgore che, grazie a un emendamento folle al decreto sulle missioni militari approvato alla cieca dal Parlamento sull’onda del dopo Bataclan e contrastato da Sel in una sorta di distrazione generale, il capo del governo può spedire chi vuole senza regole di ingaggio, senza limiti d’azione, senza ruolo del ministero della Difesa e senza dover consultare il Parlamento. Di guerra dunque non si parlerà. Si dovrà invece parlare della liberazione dei due ostaggi superstiti, ancora più misteriosa del solito. È stato un blitz? Si sono liberati da soli? Trattativa? E come mai la liberazione proprio subito dopo l’uccisione dei loro due compagni di prigionia? Era davvero impossibile salvare Salvatore Failla e Fausto Piano? Se lo chiedono i parenti delle due vittime. Se lo chiedono i rappresentanti di tutte le forze politiche e molti reclamano che il governo riferisca subito, "anche aprendo il Parlamento domenica", insiste il capo dei deputati Sel Arturo Scotto. Non saranno accontentati. Rifugiati: Francia e Germania cercano un fronte comune di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 5 marzo 2016 Crisi europea. Hollande e Merkel cercano l’unità di fronte alla Turchia, per il vertice di lunedì. La Francia manda una nave per l’operazione Nato di controllo dei flussi e conferma l’accoglienza di 30mila migranti. Tensione con Berlino sulla centrale nucleare di Fessenheim. Francia e Germania cercano di ricostruire una parvenza di fronte comune, a pochi giorni dal vertice - una volta di più giudicato "decisivo" - tra la Ue e la Turchia lunedì a Bruxelles, per trovare una risposta alla crisi dei rifugiati, che minaccia di affossare l’Europa nelle divisioni tra paesi e nella vergogna della chiusura umanitaria. François Hollande ha ricevuto ieri all’Eliseo Angela Merkel. "Francia e Germania lavorano con uno stesso spirito e un’eguale volontà" di fronte alla crisi dei rifugiati, ha affermato il presidente francese. La cancelliera tedesca ha insistito su una soluzione europea: "siamo convinti che le soluzioni unilaterali non ci aiuteranno perché non portano a una riduzione del numero dei rifugiati". Hollande ha dovuto correggere la posizione manifestata da Manuele Valls, lo scorso 13 febbraio a Monaco di Baviera: il primo ministro aveva apertamente criticato le scelte tedesche di accoglienza, accusando Merkel di aver attirato un numero considerevole di rifugiati, che l’Europa non può accettare. Hollande ha confermato che la Francia rispetterà gli impegni presi ai tempi della "ripartizione" proposta dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e che accoglierà i 30mila rifugiati che le spettano. Per il momento, quell’impegno è stato disatteso dalla Francia, che ha accolto non più di 300 persone (il discorso ufficiale afferma che i migranti non vogliono venire in Francia). Merkel e Hollande hanno preparato un minimo denominatore di fronte comune da presentare a Erdogan lunedì. In cambio di finanziamenti (per il momento, la promessa è di 3,3 miliardi di euro) chiederanno alla Turchia un migliore controllo dei flussi di migranti che cercano di raggiungere l’Ue attraverso la Grecia e l’impegno di riammissione delle persone che non otterranno l’asilo in Europa (i migranti economici). Parigi e Berlino chiedono congiuntamente ad Ankara di usare i finanziamenti Ue anche per migliorare le strutture di accoglienza dei migranti. In più, Hollande ha affermato che la Francia invierà una "nave" al largo della Turchia, nell’ambito dell’operazione Nato, per il controllo dei flussi e il rafforzamento delle frontiere esterne. La visita di Merkel a Parigi segue quella di David Cameron, la vigilia. Giovedì, la Francia non ha ottenuto nulla da Londra per la crisi di Calais. C’è solo un vago impegno ad esaminare "caso per caso" la situazione dei circa 300 minorenni isolati espulsi dalla zona sud della "giungla", che è da lunedì in via di smantellamento. L’intervento dei bulldozer potrebbe protrarsi per un mese. Le associazioni mettono in guardia sulle derive, già in corso, ma che sono destinate ad aggravarsi: le persone sloggiate dalla zona sud, che non sono state sistemate nei containers (perché non c’è posto per tutti e perché molti rifiutano la schedatura preventiva) si intasano nelle aree ancora occupate, ma ad un certo punto potrebbe esserci un’esplosione di rabbia per il sovraffollamento. Tra Francia e Germania si è aperto un nuovo fronte di divisione: Berlino chiede la chiusura della centrale nucleare di Fessenheim in Alsazia, la più vecchia di Francia. Parigi esclude ogni rischio e pensa addirittura di allungare di 10 anni la vita delle 19 centrali del paese (58 reattori). Questa settimana c’è stata una denuncia a Ginera contro un’altra centrale nucleare francese. Brasile: corruzione, fermato l’ex presidente Lula da Silva di Geraldina Colotti Il Manifesto, 5 marzo 2016 Nell’ambito della maxi inchiesta per tangenti e lavaggio di denaro sporco detta Lava Jato, che coinvolge l’impresa petrolifera di stato Petrobras, altre grandi aziende e politici di ogni schieramento, l’ex presidente è stato fermato ieri. Portato via come un delinquente e rilasciato dopo ore di interrogatorio. La mattinata di eri è cominciata male per l’ex presidente brasiliano Lula da Silva. La polizia federale ha fatto irruzione all’alba nella sua casa di Sao Bernardo de Campo, nei pressi di San Paolo e se l’è portato via, fino al commissariato dell’aeroporto di Congonhas. Poi è stata perquisita la sede della Fondazione Lula e altre abitazioni appartenenti a persone vicine all’ex sindacalista. Anche due suoi figli sono stati fermati. L’operazione, ordinata dal giudice federale Sergio Moro su richiesta del Pubblico Ministero, è quella dello scandalo Lava Jato. Un grande intreccio di tangenti, contratti miliardari e favori politici che vedono al centro l’impresa petrolifera di stato Petrobras e riguardano una ventina di altre imprese, fra cui la più grande costruttrice dell’America latina, la Odebrecht, e una cinquantina di uomini politici di diversi schieramenti. Il presidente della Odebrecht è in carcere. E ieri sono stati perquisiti anche diversi uffici della impresa che porta il suo nome. Secondo il Pm, Lula avrebbe intascato fondi neri a fini personali, investiti in alcune proprietà immobiliari intestate ad altri e avrebbe finanziato con denaro illecito le sue campagne elettorali e il suo Partido de los Trabajadores (Pt). Avrebbe ricevuto "molti favori" dalle imprese inquisite per Lava Jato e si sarebbe adoperato per la compravendita di voti a favore dei governi Pt. Secondo il magistrato, "i favori sono molti e difficilmente quantificabili, ma calcolabili in 30 milioni di reales ( circa 8 milioni di dollari, ndr ), tra conferenze e donazioni che i grandi costruttori gli hanno messo a disposizione". Accuse che Lula nega, così come negano ogni coinvolgimento alla Fondazione che porta il suo nome e che mesi fa ha anche subito un attentato. Secondo gli inquirenti, la posizione di Lula si sarebbe aggravata a seguito delle dichiarazioni di un pentito, un senatore del suo stesso partito, Delcidio Amaral, delatore nell’inchiesta Petrobras. Questi ha sostenuto che l’ex presidente avrebbe tentato di comprare i testimoni per evitare di essere coinvolto. Dichiarazioni rilasciate in forza della "legge premiata", che consente di avere sconti di pena qualora si avalli il teorema dei giudici, che in Brasile è definito "lo schema". Uno "schema" tutto politico, che sbatte in prima pagina (dei potenti giornali avversi al governo) soprattutto i politici del Pt e che entra potentemente in campo per sostenere le forze conservatrici che hanno maldigerito la seconda vittoria - di misura - della presidente Dilma Rousseff. E così, a colpi di sondaggi e di previsioni catastrofiche, si è tentato di disarcionare la presidente da ogni lato: sia da quello finanziario che da quello politico, premendo sui deboli equilibri di cui gode a livello istituzionale. Il vento che spira nel continente è cambiato. In Argentina hanno vinto i conservatori, che scalpitano per sfilare il gigante brasiliano dal campo progressista. E le destre venezuelane, sempre molto ben accolte al senato brasiliano, sono andate ad annunciare in quella sede che presto indiranno un referendum revocatorio contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro. Nel Mercosur, dopo il passaggio di consegne tra il più deciso presidente uruguayano Pepe Mujica e il ben più moderato Tabaré Vazquez, sono rimasti solo Venezuela e Bolivia a opporsi alla firma di un accordo di libero commercio con l’Europa che seguirebbe i medesimi indirizzi del grande Accordo Transpacifico (Tpp), realizzato dagli Usa. Ad alimentare la furia emergenzialista, in Brasile, vi sono anche personaggi che non potrebbero permettersi di lanciare la prima pietra, come il presidente della Camera, Eduardo Cunha, in prima fila nel chiedere l’impeachment della presidente. La Corte Suprema (l’unica che può giudicare i deputati) ha deciso di processarlo per corruzione e lavaggio di denaro sporco. Cunha è accusato di aver accettato 5 milioni di tangenti tra il 2006 e il 2012, legate alla costruzione di petroliere della Petrobras. Il politico, che controlla le potenti chiese evangeliche, nega ogni addebito e cerca di farla franca, com’è già accaduto in precedenti e analoghe occasioni. La decisione della Corte potrebbe però forzarlo a lasciare il Congresso, facendo cadere nel vuoto i suoi sforzi per far cadere la presidente Rousseff, che Cunha vorrebbe portare a processo per presunte irregolarità fiscali commesse l’anno scorso. La domanda di impeachment sostiene che la presidente ha truccato il deficit fiscale e ha speso più del consentito durante il 2014. Al contempo, il documento accusa il governo per lo scandalo per corruzione della Petrobras. Ma anche il Comitato etico della Camera ha approvato l’apertura di un’inchiesta a carico di Cunha per determinare se deve lasciare l’incarico per aver mentito durante un’audizione parlamentare. In quel contesto, il presidente della Camera ha infatti negato di avere conti all’estero, come invece ha stabilito un’indagine di periti svizzeri. Ieri, dopo il fermo di Lula, Rousseff ha convocato una riunione d’urgenza, denunciando l’uso politico delle inchieste giudiziarie e il rincorrersi delle "fughe di notizie che non contribuiscono alla stabilità del paese". E ha chiesto che venga divulgato per intero il contenuto delle accuse dei delatori. Il suo avversario alle ultime presidenziali, il conservatore Aecio Neves, ha ribattuto che per aver fatto quelle dichiarazioni Dilma dovrebbe dimettersi. Il Pt ha invitato i militanti a mobilitarsi per Lula e a respingere "lo spettacolo mediatico montato contro di lui e la sua famiglia". Secondo il presidente del Pt, Rui Falcao, "è il momento di riflettere, di mobilitarsi e di vigilare in tutte le sedi di partito". E ieri ci sono stati scontri e feriti a San Paolo di fronte alla casa di Lula e la polizia è intervenuta. I militanti Pt cantavano "Lula guerriero, il popolo brasilero" per sostenere l’ex operaio che ha governato il paese tra il 2003 e il 2010. Ma il 13 le destre hanno convocato una grande manifestazione per chiedere l’impeachment di Dilma. Kazakhstan: quelle torture impunite di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 marzo 2016 Del Kazakhstan si è parlato molto, in Italia, a proposito della vicenda della "consegna" alle autorità locali di Alma Shalabayeva, moglie dell’oppositore politico Mukhtar Ablyazov. Un sequestro di persona, come lo ha definito la procura di Perugia. Sulle indagini è progressivamente calato il silenzio, quel silenzio che accompagna sin dall’indipendenza dall’ex Unione sovietica le violazioni dei diritti umani nel paese centro-asiatico. Il 3 marzo Amnesty International ha pubblicato un rapporto dal titolo "Giustizia a un punto morto. L’impunità per la tortura in Kazakhstan". L’organizzazione riceve ogni anno centinaia di denunce di tortura, accompagnate dal timore di ritorsioni e dalla rassegnazione a non vedersi riconosciuti giustizia e risarcimento. Nel gennaio 2015, con l’entrata in vigore di un nuovo codice di procedura penale e l’estensione dei poteri delle "procure speciali" alle indagini su casi di tortura, si era sperato in un’inversione di tendenza. Purtroppo non è andata così. L’anno scorso sono arrivate a processo solo 10 indagini su casi di tortura e nella metà dei casi il giudizio è stato di assoluzione. Uno dei casi più drammatici illustrati nel rapporto di Amnesty International, e che dà l’idea di quanto le autorità siano poco serie quando proclamano il loro impegno a sradicare la tortura, è quello di Iskander Tugelbaev: in prigione, è stato torturato così duramente da rimanere in coma per tre giorni. Eppure le indagini si sono fermate quasi subito, per "mancanza di prove".