Amnesty International: "ecco come in Italia si violano i diritti umani" di Luciana Grosso L’Espresso, 4 marzo 2016 Antonio Marchesi, il presidente dell’associazione, fa il punto su tutte le lacune del nostro Paese. Dalle carceri ai centri di accoglienza, dai campi rom alle famiglie, dove si consumano molti episodi di violenza. Mentre manca ancora, nel nostro ordinamento, il reato di tortura. È "lacune" la parola che ripete più spesso Antonio Marchesi, presidente italiano di Amnesty International Italia, quando parla del nostro Paese. ?"Nel sistema Italia ci sono, ancora oggi, violazioni aperte e plateali dei diritti umani.Succede di continuo. Nelle carceri, nei centri di accoglienza per stranieri, nelle periferie dei campi rom, persino in famiglia dove si consumano molti degli episodi di violenza sulle donne". Il presidente Marchesi snocciola veloce le mancanze del nostro Paese, che non solo si volta dall’altra parte quando i diritti delle persone vengono violati, ma che in alcuni casi non ha neppure una legge adatta a imporne il rispetto. "Tra le lacune più vistose che l’Italia da tempo non risolve c’è l’assenza del reato di tortura, una fattispecie che ancora oggi non esiste nel nostro ordinamento" spiega Marchesi "da mesi in Parlamento è ferma una legge che dovrebbe introdurlo. Anche se venisse approvata il quadro non cambierebbe perché la legge in questione è comunque pessima e addirittura rischia di porre l’Italia al di fuori degli standard della Convenzione di Ginevra: dice che per essere riconosciuta tale, la tortura deve essere reiterata. Ma cosa significa? Che una volta sola si può fare?". Una questione, quella della tortura, che ad Amnesty Italia sta particolarmente a cuore anche sulla scia dei fatti legati alla morte di Giulio Regeni e che sono al centro della campagna Verità per Giulio Regeni di cui Amnesty è attiva animatrice. "Il fatto che in Italia non esista il reato di tortura non solo fa sì che chi se ne è macchiato, in genere, se la cavi con una semplice accusa di abuso di ufficio che poi, quasi sempre, viene prescritta, ma fa anche sì che un torturatore straniero non appena mette piede su suolo italiano non sia più estradabile". Sul piatto del mancato rispetto dei diritti umani in Italia non c’è solo la tortura: ci sono anche questioni legate a donne, rifugiati politici, rom, carcerati, omosessuali e rispetto dell’ambiente e quindi della salute delle persone. Il rapporto annuale di Amnesty, uscito da pochi giorni (edizioni Castelvecchi) comprende un elenco di cose da fare subito: proteggere le donne, i rifugiati e i Rom; assicurare condizioni dignitose di vita nelle carceri; combattere l’omofobia e la transfobia; creare da subito un’istituzione nazionale per la protezione dei diritti umani; imporre alle aziende il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente (con riferimento particolare ai casi di Eni e di Ilva); lottare contro la pena di morte nel mondo e rispettare gli standard internazionali sul commercio delle armi (in particolare, interrompendo quello con l’Arabia Saudita)". "In Italia" spiega il rapporto "la violenza domestica non viene quasi mai denunciata e il numero di donne uccise non accenna a scendere. Allo stesso modo sono pure precari i diritti di omosessuali e transessuali per i quali è tempo non solo di introdurre il matrimonio paritario, ma anche una legge che inserisca l’omofobia tra i moventi di reati d’odio". E poi c’è la grande questione stranieri, per la gestione dei quali il sistema degli hotspot si sta dimostrando, secondo Amnesty, inefficace: "Da un lato siamo al fianco del Governo Italiano nel chiedere il superamento del Trattato di Dublino e l’avvio di un sistema comune europeo di accoglienza: dall’altro constatiamo il fallimento del sistema degli hotspot, nei quali mancano regole, garanzie e informazione ai migranti". L’Italia ritratta nel rapporto di Amnesty è dunque un Paese che non si applica e che, come a scuola, ‘potrebbe fare di più’; un paese che non viene bocciato del tutto, perché al mondo c’è di peggio, ma che non viene nemmeno del tutto promosso, perché al mondo c’è d meglio; un Paese che, tanto per dirne una, ancora non ha creato una sua Istituzione nazionale per i diritti umani, con buona pace di quanto raccomandato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993; un Paese che, ancora, deve fare i compiti. Proposta di legge sulla riforma della legittima difesa, la Lega pronta alle barricate di Francesca Pizzolante Il Tempo, 4 marzo 2016 I leghisti: "siamo pronti a contrastare questo abominio anche con metodi che non sono convenzionali". "Siamo tutti Stacchio. La sinistra cede sulla sicurezza". Il Carroccio sul piede di guerra. Dopo l’affossamento del Pd sul riconoscimento della proposta di legge sulla legittima difesa, il plotone leghista suona la carica: "Siamo pronti a contrastare questo abominio anche con metodi non convenzionali", ha detto l’onorevole Massimiliano Fedriga. Il testo, inserito nella quota spettante all’opposizione che le Camere sono tenute a esaminare, è stato letteralmente riscritto dai dem in commissione Giustizia a Montecitorio. La proposta di legge del Carroccio intendeva allargare le tutele previste dall’articolo 52 del codice penale introducendo l’ipotesi di legittima difesa "esercitata per respingere l’ingresso in un’abitazione privata o in luogo ove si eserciti un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale" effettuata tramite effrazione o contro la volontà del proprietario "con violenza o minaccia di uso di armi e da parte di una persona travisata o di più persone riunite". Insomma, la presunzione legale di legittima difesa sarebbe stata così applicabile a tutti coloro che cercano di difendersi, evitando casi come quella del benzinaio vicentino Stacchio che rischiò l’incriminazione per aver sventato una rapina. Il responsabile Giustizia del Pd, il renziano David Ermini, ha però presentato un emendamento che introduce il principio secondo cui la difesa non è sempre legittima, come chiedeva la Lega, ma che chi abbia, ad esempio, agito contro un ladro disarmato, possa provare davanti al giudice di essere stato indotto in errore dalla paura. Insomma, non si viene puniti se è provato che si sia agito per errore in stato di "grave turbamento psichico". Troppo poco per Lega e Fdi che aveva sostenuto la battaglia del Carroccio. "È una vergogna. Siamo di fronte a cittadini, imprenditori, finiti sotto processo per aver difeso la propria vita e la propria incolumità rispetto ad atti di violenza da parte di criminali. Non introduciamo il far west o l’incentivo alle armi. Vogliamo soltanto che ci sia una norma estremamente chiara: una presunzione legale di legittima difesa che consente al cittadino di difendersi rispetto ad un atto criminale". È insorto il leghista Nicola Molteni Lega, estensore del testo che potrebbe rinunciare al mandato di relatore. In conferenza stampa, convocata nella sala della Camera dei Deputati, è intervenuto anche il leader Matteo Salvini, non risparmiando stoccate all’esecutivo: "Renzi tifa e libera i delinquenti. Siamo allucinati. Noi qui faremo le barricate. Fra indulti, illegittima difesa e svuota carceri, non mi resta che dire che questo è un governo o di matti o di complici". Finalmente un giudice scrive: "il concorso esterno mafioso non esiste" di Filippo Facci Libero, 4 marzo 2016 Una sola paginetta scarna, datata 21 dicembre 2015, per dire banalmente che "il fatto non è previsto dalla legge come reato": il processo quindi non si deve fare. Non sembra, ma è un’ovvietà rivoluzionaria: in pratica un giudice di Catania ha prosciolto l’editore Mario Ciancio Sanfilippo dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa semplicemente perché questo reato, in effetti, nel Codice non c’è. E noi lo sapevamo che non c’è, lo sanno meglio di noi molti giuristi e avvocati, dunque molti magistrati: ma non capita spesso di vederlo stampigliato con tanto candore. Mentre capita, più spesso, di vedere gente che per quel reato medita in galera: e non soltanto i soliti Marcello Dell’Utri e Bruno Contrada, come racconterà uno Speciale Tg5 curato da Andrea Pamparana in onda domenica alle 23.40. Il concorso esterno in associazione mafiosa (416 bis) è un’invenzione giurisprudenziale che nel Nuovo Codice del 1989 non compariva e non compare: infatti è la libera somma di due ipotesi di reato (il "concorso" previsto dall’art. 110 e "l’associazione mafiosa" prevista dall’art. 416 bis) a mezzo del quale una magistratura onnipotente ha ritenuto di colmare una lacuna legislativa: col risultato, noto, di aver creato una configurazione molto generica le cui applicazioni sono continuamente reinventate e stilizzate dalle sentenze appunto della Cassazione, e questo ben fregandosene dei supposti "principi molto rigorosi" con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo. Niente di strano, dunque, che ogni tanto spunti un giudice assolutamente normale - nel caso Gaetana Bernabò Distefano, Gup di Catania - e ricordi che il reato a dire il vero non esiste. Questo mostriciattolo giuridico - si perdoni la parentesi tecnica, ma è necessaria - dovrebbe realizzarsi quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione che sia utile a questa struttura; le sezioni unite della Cassazione, il 5 ottobre 1994, dapprima la misero giù così: il concorso doveva riguardare "quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita". Ergo, il concorrente esterno doveva aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. Poi ci fu l’importante sentenza Mannino del 2005, che fece giurisprudenza anche se molti ancor oggi fingono che non esista: si stabiliva che il "partecipe" fosse colui che risultasse inserito organicamente in un’associazione mafiosa, "da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status", ma con un "concreto, specifico, consapevole, volontario contributo". Ne consegue che le ricostruzioni di molti pm palermitani in molti processi, talvolta, potrebbero anche essere vere: ma in molti casi non costituiscono reato, tutto qui. L’opposizione a questo non-reato, oltretutto, è sempre stata politicamente trasversale da destra a sinistra. Piace ricordare che il sindaco meneghino Giuliano Pisapia, da presidente della Commissione giustizia della Camera, fece una proposta di legge "volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita "concorso esterno in associazione mafiosa"... una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto". Una norma aberrante - aggiungiamo noi - che poteva essere contestata anche a medici che avevano curato persone ritenute mafiose, a sacerdoti che le avevano confessate, a vittime di estorsioni che avevano pagato. L’abolizione di questo non-reato fu riproposta dalle commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio: ma niente da fare, il leitmotiv che risuonava era sempre che cancellare quel "reato" significava fare il gioco della mafia. E dove c’è la mafia c’è sempre una certa antimafia, e dove c’è quest’antimafia c’è sempre una citazione a sproposito di Giovanni Falcone: il quale pure, a proposito dell’applicazione del 416bis, ammise che "non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta". Tanto che la definizione specifica del reato, in mano ai presunti epigoni di Falcone, è diventata indefinibile, creta nelle mani del magistrato: negli anni il 416bis è stato imbracciato per cercar di sanzionare ogni presunto e opinabile collaborazionismo della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni e della stessa magistratura. La vicenda penale di Mario Ciancio Sanfilippo, per tornare al punto di partenza, qui non interessa molto: interessa che per incarcerare chicchessia non si inventino reati che non esistono in nessun paese del mondo. Lo sanno anche i magistrati più furbi: in occasione dell’inchiesta su Salvatore Cuffaro, per esempio, il pm Antonio Ingroia voleva imputare il 41 bis, e però Pietro Grasso, allora capo della Procura, propose il favoreggiamento come arma vincente. Ebbe ragione lui. Altri, però, restano in galera per qualcosa che, secondo le lune, può esistere oppure no. Non è molto digeribile, da dietro le barre. Neanche da fuori, a dirla tutta. Mezzo passo per la riforma della magistratura onoraria, una questione di giustizia di Danilo Paolini Avvenire, 4 marzo 2016 Se ne parla da anni e ieri ha compiuto il suo primo mezzo passo nell’aula del Senato, la riforma della magistratura onoraria. Mezzo, abbiamo detto, perché l’esame del disegno di legge delega presentato dal governo è stato rinviato a martedì prossimo subito dopo la discussione generale, su richiesta del relatore Giuseppe Cucca (Pd). Una richiesta dettata dall’esigenza di non passare all’esame degli emendamenti senza aver trovato "quelle soluzioni che migliorino il testo e consentire che venga approvato con la maggioranza più ampia possibile". Già, perché il ddl ha sollevato e solleva più di qualche perplessità anche tra i parlamentari, oltre che da parte delle associazioni dei cosiddetti "precari in toga". Anche e soprattutto rispetto alle prospettive intraviste durante la lunga fase preparatoria, quando il ministro della Giustizia Andrea Orlando (al quale va comunque dato atto di aver messo mano alla materia, dopo anni di immobilismo e sterili proroghe) aveva più volte incontrato le rappresentarne degli addetti ai lavori. Soprattutto ai giudici onorari di tribunale e ai viceprocuratori onorari, che in genere sono più giovani dei giudici di pace e non hanno precedenti esperienze lavorative e altre fonti di reddito, era sembrato quasi un miraggio poter raggiungere la sospirata stabilizzazione: una retribuzione fissa, i contributi previdenziali, l’indennità di malattia e di maternità. E in effetti lo era, un miraggio, perché nel testo depositato a Palazzo Madama questi tre diritti hanno contorni quanto meno sfumati. Si prevede infatti che il lavoro dei magistrati onorari sia organizzato in modo "da assicurare la compatibilità dell’incarico onorario con lo svolgimento di altre attività lavorative". E che il "regime previdenziale e assistenziale" sia "senza oneri per la finanza pubblica" e garantito da "misure incidenti sull’indennità" degli stessi "giudici onorari di pace" (così dovrebbero chiamarsi in futuro, in seguito all’accorpamento delle due categorie oggi esistenti). Insomma, il governo dice a queste persone: trovatevi un lavoro "vero" e pagatevi da soli la pensione, la malattia, la maternità. L’incarico, poi, non potrà durare più di dodici anni, inclusi quelli già svolti: chi arriva a questo limite tra i 50 e i 60 anni di età rischia seriamente di trasformarsi in un "esodato" in toga. Non solo: dopo la sforbiciata al budget complessivo già operata con l’ultima legge di stabilità, con il ddl delega l’entità dei compensi sarebbe suddivisa in una porzione fissa e in una variabile, in funzione "incentivante". Almeno in parte, resterebbe un lavoro "a cottimo", come è oggi. Eppure al ministero, a Palazzo Chigi e in Parlamento sanno benissimo che i tribunali, già lenti, si fermerebbero una volta per tutte senza il contributo degli onorari. I quali sono impiegati in misura così intensiva da rendere molto difficile, se non impraticabile, l’esercizio e perfino la ricerca di una seconda occupazione. Ora c’è la possibilità di migliorare la riforma. Si tratta, in tutti i sensi, di una questione di giustizia. I suicidi in carcere e la strumentalizzazione del Sappe camerepenali.it, 4 marzo 2016 L’Unione delle Camere Penali Italiane condanna le ingiustificate prese di posizione di chi rema contro il miglioramento dell’Esecuzione Penale. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, stigmatizza la presa di posizione del Segretario Generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), Donato Capece, apparsa su alcuni organi di stampa, all’indomani di un suicidio avvenuto all’interno della casa circondariale di Verona, che segue in ordine cronologico analoghi tragici eventi verificatisi a Bari, Bologna, Porto Azzurro e Genova Marassi. Un altro suicidio si è verificato, pochi giorni fa, a Reggio Emilia, dove un detenuto di venticinque anni si è impiccato. È del tutto infondato e strumentale utilizzare le tragedie umane che si consumano quotidianamente all’interno delle carceri italiane per chiedere nuovamente al Ministro della Giustizia Andrea Orlando di sospendere "celle aperte e vigilanza dinamica", soluzioni definite da Donato Capece come "inutili e pericolose". Che relazione ci può mai essere tra un suicidio, peraltro di un detenuto che in quel momento si trovava in regime chiuso(!), con modalità di esecuzione della pena, previste dal nostro Ordinamento ed imposte dalla Corte Europea del Diritti dell’Uomo, per rendere umana e dignitosa la vita in carcere dei detenuti? Per il Sappe ogni occasione, anche la più tragica, va utilizzata strumentalmente per invocare misure e regimi che non sono più in vigore in nessun Paese d’Europa e che hanno già visto l’Italia condannata per il trattamento inumano e degradante riservato ai propri detenuti. Sarebbe forse più utile e costruttivo che gli organismi di rappresentanza sindacale della Polizia Penitenziaria cogliessero l’occasione per riflettere sull’opportunità di una rivoluzione culturale in tema di esecuzione della Pena, nel senso indicato per altro dallo stesso Ministro della Giustizia all’indomani degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. L’emergenza-carcere continua drammaticamente a persistere, come dimostrano i recenti suicidi. L’inversione di tendenza, rispetto al passato, è ancora in fase embrionale e le dichiarazioni corporative dei sindacati di polizia penitenziaria non aiutano a realizzare quello che l’Ordinamento Penitenziario prevede da 40 anni e che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha indicato come imprescindibile atto per non incorrere in ulteriori sanzioni. La Giunta dell’Unione Camere Penali L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Il giudice di merito rivede la pena di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 8839/2016. Nel caso di una condanna per due reati dei quali uno è stato cancellato dal Codice per effetto della depenalizzazione il giudice spetta al giudice del rinvio ricalibrare la pena. Con due sentenze, entrambe depositate ieri, la Cassazione fa le prime applicazioni concrete di quanto previsto dal Dlgs 7/2016 in vigore dal 6 febbraio scorso. Con la prima pronuncia (sentenza 8839) i giudici della Seconda sezione accolgono il ricorso in merito alla condanna per il reato di danneggiamento (articolo 635 del Codice penale) superato dall’intervenuta depenalizzazione. La fattispecie, infatti, non è più punibile come reato a meno che a questa non si unisca la violenza o la minaccia alla persona. L’imputato aveva però a suo carico un’altra sentenza di condanna per maltrattamenti, inflitta nel primo grado di giudizio. Per la Cassazione l’abrogazione del reato di danneggiamento comporta l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio. Infatti in prima istanza e senza alcuna modifica in appello, la pena base era stata fissata ritenendo più grave proprio il reato ormai depenalizzato. Stabilire una nuova "punizione" richiede però valutazioni discrezionali di merito che non possono essere adottate in sede di legittimità. Non comporta nessuna necessità di rinviare al giudice di merito, invece, il caso esaminato con la sentenza 8831. Nello specifico il giudice di pace aveva assolto l’imputato da tre reati: ingiuria, minaccia e danneggiamento. Un verdetto contro il quale aveva fatto un ricorso, giudicato inammissibile, l’avvocato di parte civile. La Corte di cassazione ricorda che l’articolo 1 del Dlgs 7/2016 ha abrogato tout court il reato di ingiuria (articolo 594 del Codice penale) e tutte le disposizioni a questo collegate, come l’articolo 599 che al comma 2 prevede la non punibilità in caso di stato d’ira determinato da un fatto ingiusto. Colpo di spugna anche per il danneggiamento quando mancano le aggravanti o la minaccia. E quest’ultima era stata esclusa da una testimone la quale aveva negato che nei toni forti usati si potesse ravvisare una minaccia alla persona. La parte civile è condannata a pagare le spese processuali, unite al versamento di mille euro in favore della cassa delle Ammende. Sospensione delle cautelari solo con cauzione e confisca di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 8854/2016. Stretta della Cassazione sulle aziende colpite da misure cautelari del Dlgs 231/2001. Per ottenere la sospensione dei provvedimenti del Tribunale, l’ente deve aver riparato le conseguenze del danno - con risarcimento integrale - ed eliminato le carenze organizzative interne, oltre ad aver messo a disposizione il profitto ai fini della confisca. È la Seconda sezione penale (sentenza 8854/16, depositata ieri) a intervenire per la terza volta su un procedimento aperto a Pistoia contro un’impresa indagata per corruzione e turbata libertà degli incanti. Per due volte il Gip aveva disposto i provvedimenti cautelari previsti dall’articolo 49 della 231, in entrambe le circostanze il Tribunale li aveva poi caducati e in tutte le occasioni la Corte ha infine annullato con rinvio il colpo di spugna dei giudici dell’impugnazione, La questione verte sui provvedimenti adottati dall’azienda sotto processo per divincolarsi dalle misure cautelari firmate dal Gip (interdizione a contrattare con la Pa per sei mesi). Secondo il Tribunale toscano, l’accantonamento a bilancio di una somma (120mila euro) finalizzata a garantire l’eliminazione del danno, insieme alle misure di ridisegno del board - sostituzione dell’amministratore con il fratello e il figlio dell’indagato - e a un secondo stanziamento a bilancio per la futura confisca, sarebbero idonee a soddisfare le condizioni di legge per la revoca della sospensione cautelare. Tuttavia per la seconda volta la Suprema corte ha confutato questo approccio "light", riportando la questione nei binari dell’articolo 17 del Dlgs 231/2001. Di fatto, sottolinea il relatore Beltrani (presidente Davigo), l’accantonamento a bilancio è cosa diversa e non equivalente al versamento di una cauzione alla Cassa delle ammende - adempimento richiesto dalla norma - ma soprattutto il Tribunale aveva sviato gli accertamenti sui punti controversi inerpicandosi invece in una disquisizione sulla "valenza sintomatica in ordine all’attuale pericolosità dell’ente". In sostanza, al posto di "occuparsi della conformità al modello legale degli adempimenti riparatori posti in essere dalla società", il giudice del rinvio per due volte si era spostato in un ambito valutativo/prognostico non previsto dalle norme applicabili. E quanto ai poteri cognitivi del predetto giudice, la Seconda sezione sottolinea che sono "ampi" e tali da legittimarlo a "prendere in considerazione fatti nuovi emersi dopo l’emissione (o il diniego di emissione) della misura cautelare". Il nodo valutazione nel nuovo falso in bilancio finisce alle Sezioni unite di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, informazione provvisoria n. 4 del 2016. L’insanabile (finora) spaccatura dei giudici della Suprema corte è testimoniata dalle tre pronunce che, da luglio 2015 a febbraio 2016, hanno prima attribuito alla riforma del falso in bilancio un effetto parzialmente abrogativo (n. 33774/15) poi lo hanno impedito (n. 890/16) e infine lo hanno ribadito (6916/16). A luglio e a febbraio, infatti, la V sezione penale ha escluso la rilevanza penale, e quindi la punibilità, dei falsi estimativi, basati appunto su una valutazione, e quindi sull’attribuzione di un dato numerico a una realtà sottostante; a gennaio, invece, sempre la V sezione penale ha fatto rientrare nel perimetro della punibilità anche le valutazioni, almeno quando non si uniformino a criteri determinati dalla disciplina civilistica, comunitaria, dagli standard internazionali e da prassi contabili generalmente accettate. Nell’udienza di ieri, la presidente del collegio Maria Vessichelli ha ritenuto di fermare le lancette e di far risolvere il contrasto alle Sezioni unite. Vista l’urgenza di superare questa grave situazione di incertezza giuridica, l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite sarà depositata già oggi e con ogni probabilità i tempi tecnici per la fissazione dell’udienza saranno ridotti, in modo da affrontare la questione il 31 marzo (il collegio sarà presieduto dal primo presidente Gianni Canzio e ne farà parte anche il presidente della V sezione Maurizio Fumo). Tutto nasce dalla modifica dell’articolo 2611 del Codice civile, introdotta dalla legge 69/2015, là dove, a proposito delle "false comunicazioni sociali", dà rilevanza penale ai "fatti materiali" ma non richiama più l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni". In discontinuità normativa, quindi, con la precedente formulazione. L’amputazione dell’inciso è nata da un emendamento governativo mai discusso in Parlamento e, quindi, per certi versi misterioso. A luglio 2015 la Cassazione ne trasse conseguenze drastiche, sostenendo che la nuova norma fosse più favorevole di quella del 2002 e quindi applicabile retroattivamente, con effetti parzialmente abrogativi (Il Sole 24 Ore del 31 luglio 2015). Conclusioni poi sconfessate a novembre dello stesso anno (Il sole 24 ore del 14 novembre 2015) ma riproposte a febbraio 2016 (Il Sole 24 ore del 23 febbraio 2016). Un andirivieni destinato a continuare poiché i giudici della V sezione restano divisi tra un’interpretazione letterale, restrittiva, della riforma Renzi e un’interpretazione logica, elastica, preoccupata di evitare gli effetti "dirompenti" di un colpo di spugna sui processi in corso, per effetto delle nuove norme. Spetterà dunque alle Sezioni unite stabilire - si legge nell’"informazione provvisoria" depositata ieri al termine dell’udienza - se l’amputazione dell’"inciso "ancorché oggetto di valutazioni" abbia determinato o meno un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie". Fin d’ora si può anticipare quale sarà la posizione della Procura generale della Cassazione che, a differenza dei giudici di legittimità, in giudizio ha sempre sostenuto l’inclusione dei falsi valutativi nel perimetro della punibilità. Una posizione unanime, confermata anche in una riunione dell’Ufficio. Sulla stessa linea anche il Massimario della Cassazione, come risulta da una relazione sulla dottrina e della giurisprudenza. Il contrasto giurisprudenziale sul falso in bilancio fa il paio con quello verificatosi (sempre in un breve arco temporale) sullo spacchettamento del reato di concussione. Anche allora, l’impossibilità di trovare una linea univoca all’interno della VI Sezione, con il rischio di un colpo di spugna sui processi in corso, impose il rapido ricorso alle Sezioni unite per fare un minimo di chiarezza. Il piano di risanamento (strumentale) non evita la bancarotta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di cassazione - Quinta sezione penale - Sentenza 3 marzo 2016 n. 8926. Il piano di risanamento, sia pure attestato da un professionista qualificato, non basta a evitare la contestazione della bancarotta e le relative misure cautelari. Che, nel caso esaminato, hanno condotto al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di un complesso aziendale. Lo stabilisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 8926 che ha confermato il giudizio del tribunale del riesame che aveva messo in evidenza come gli amministratori di una srl avevano distratto, prima della pubblicazione della sentenza di fallimento, i beni che componevano il complesso aziendale della società. La Cassazione mette in evidenza come, stando alla ricostruzione dei giudici di merito, la dismissione di tutti gli asset aziendali da parte della srl era stata effettuata dopo che il tribunale aveva convocato il debitore per chiudere la procedura di concordato preventivo avviata dallo stesso e procedere eventualmente alla dichiarazione di fallimento. Una "finestra" di tempo nella quale il debitore non aveva facoltà, sottolinea la Corte, di vendere i beni approfittando del fatto che non venne pubblicata immediatamente la sentenza di fallimento. Neppure contando sulla redazione di un piano di risanamento aziendale redatto sulla base di quanto stabilito dall’articolo 67, comma 3, lettera d) della legge fallimentare. Il piano infatti era stato predisposto "in fretta e furia" dopo che il debitore era comparso davanti al tribunale. Il piano infatti, sottolinea la Cassazione, deve almeno apparire idoneo a permettere il risanamento dell’esposizione debitoria dell’azienda e assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria. È questa la ragione che conduce a escludere da revocatoria i pagamenti effettuati in esecuzione del piano. Un piano che, tanto più per l’attestazione del professionista, deve essere finalizzato alla prosecuzione dell’attività e non alla liquidazione della società, magari dopo averla spolpata di ogni valore. La redazione del piano quindi non è di per sé stessa sufficiente a escludere una valutazione di congruenza e fattibilità, quando è strumentalmente destinato "a proteggere attività negoziali che, per essere svolte in un momento di crisi dell’impresa, si appalesano idonee a distogliere il patrimonio dalla sua finalità tipica (la garanzia per i creditori)". Datore non responsabile dell’infortunio se il dipendente cade per propria colpa di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 3 marzo 2016 n. 8883. Il lavoratore deve diventare sempre più auto-responsabile e il datore non è tenuto a rispondere sempre e comunque per gli infortuni avvenuti sul luogo del lavoro. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 8883/16. I fatti - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui un lavoratore nel posizionare dei fari sull’esterno di un edificio era caduto da un’altezza di circa sei metri riportando lesioni personali clinicamente refertate in trauma cranico, toracico e degli arti dalle quali derivava una malattia della durata superiore a giorni quaranta. I fatti esposti in maniera così generica potrebbero far pensare anche a una corresponsabilità del datore, ma la Cassazione lo ha escluso nel modo più categorico analizzando la dinamica dell’incidente. Il dipendente-elettricista, infatti, doveva posizionare dei faretti e i relativi fili per portare la corrente utilizzando esclusivamente un elevatore guidato da apposita persona. Il prestatore, però invece, di seguire queste modalità concordate nei giorni precedenti con i superiori aveva deciso autonomamente di salire sul tetto di eternit dell’edificio che, non reggendo, aveva finito per far cadere rovinosamente l’uomo. Di qui i Supremi giudici hanno concluso che se il dipendente avesse agito con diligenza e prudenza senza avventurarsi in una situazione pericolosa probabilmente non sarebbe accaduto nulla. Il tutto - si legge nella decisione - deve essere letto come una sorta di revisione della responsabilità a 360 gradi del datore per andare verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (cosiddetto "principio di auto-responsabilità del lavoratore"). In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni per esaminare il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale. Responsabilità limitata del datore - Al datore di lavoro, pertanto, non deve essere chiesto l’obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come accadeva in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione e ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore. Truffa aggravata per la vigilessa che timbra il cartellino nella sede vicina a casa di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Corte di Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 3 marzo 2016 n. 8840. Ennesimo caso di dipendente pubblico che fa il furbo con la timbratura del cartellino. Arriva da Taranto la vicenda di cui si è occupata la Cassazione, nella sentenza n. 8840/16 depositata ieri, e ha come protagonista una vigilessa che timbrava il cartellino in un ufficio vicino alla propria abitazione anziché nell’orologio marcatempo del posto di lavoro - a ben 10 km di distanza - dove arrivava con tutto comodo. Una condotta tenuta per ben 21 volte nell’arco di due mesi. La Corte di appello di Lecce ha condannato la donna per truffa aggravata ai danni della pubblica amministrazione il che le è costato 10 mesi di reclusione e una multa. Ora la Cassazione respinge il ricorso dell’imputata evidenziando la natura netta di raggiro del comportamento che non lascia dubbi sull’integrazione del reato di truffa aggravata ai danni della Pa sotto il profilo soggettivo e oggettivo. La donna, infatti, non consentiva all’ufficio di appartenenza di rilevare l’esatto momento di inizio della giornata lavorativa: il comandante della polizia municipale non era in grado di identificare presso quale marcatempo avvenisse la marcatura. Luogo e tempo della timbratura erano informazioni accessibili solo all’ufficio del personale e a pochi altri impiegati. La Corte ha respinto anche il motivo di ricorso con cui si lamentava difetto del dolo. È parso evidente che la donna avesse agito con piena coscienza e volontà e, se ciò non bastasse, la mancanza di buona fede era comprovata dalla mancata restituzione delle somme percepite in eccesso. Peculato al tabaccaio che versa con ritardo le tasse auto riscosse di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Cassazione n. 8888. Risponde di peculato il tabaccaio che versa con ritardo le somme riscosse a titolo di tasse automobilistiche. La sua attività è riconducibile, infatti, al pubblico servizio. E l’aver trattenuto denaro "pubblico" configura una vera e propria appropriazione indebita. L’uomo, infatti, era stato ritenuto responsabile di essersi appropriato delle somme per aver tardato nel riversarle all’Erario. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 8888/16 depositata ieri, conferma quanto detto dal tribunale di Cagliari e gli riconosce di aver correttamente qualificato come pubblico servizio l’attività svolta dal privato delegato alla riscossione delle tasse, ritenendo integrata l’ipotesi di peculato. La Corte ribadisce un principio ampiamente consolidato. I titolari di tabaccheria autorizzati all’esercizio di intermediazione e alla riscossione vanno qualificati come incaricati di pubblico servizio poiché essi "per le incombenze loro affidate" subentrano nella posizione della Pa e svolgono mansioni che "ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione medesima". Non si tratta, dunque - come sostenuto dal ricorrente - di una mera attività esecutiva e quindi priva di discrezionalità e di autonomia decisionale. Inoltre aver trattenuto del denaro ricevuto per conto della Pa vuol dire sottrarre quel denaro pubblico alla disponibilità della Pa stessa che ne è legittima proprietaria. Le somme consegnate al concessionario entrano, infatti, subito a far parte del patrimonio della Pa. Lombardia: assistenza ai detenuti, in 10 anni scenario profondamente cambiato Adnkronos, 4 marzo 2016 Reinserire nella società chi sta scontando una pena: è l’obiettivo degli strumenti messi in campo dal welfare penale nella Regione Lombardia attraverso la legge regionale del 2005 che ha coinvolto circa 6mila detenuti con iniziative per l’housing sociale, i tirocini e le borse lavoro. Secondo i dati di una missione valutativa svolta da Eupolis Lombardia, presentati oggi dalla commissione speciale Carceri presieduta da Fabio Fanetti, consigliere della Lista Maroni, e dal comitato paritetico di controllo e valutazione/Cpcv presieduto da Riccardo De Corato di FdI, la legge regionale ha rappresentato un punto di svolta importante e innovativo dal punto di vista sociale. Questo, evidenzia la ricerca, grazie anche ai 18 milioni di euro stanziati tra il 2009 e il 2015 dalla Regione e agli 11 milioni del fondo sociale europeo destinati, tramite le doti, sistema introdotto da Regione Lombardia, a interventi di formazione e inserimento lavorativo. La programmazione regionale, attuata da organizzazioni del privato sociale e da cooperative sociali, in questi anni è alle prese con i notevoli cambiamenti che hanno portato dell’organizzazione penitenziaria. Tra gli strumenti messi in campo dalla Regione, anche un’apposita linea d’intervento per la ‘vulnerabilità socialè che fatica, però, a raggiungere con continuità i casi di fragilità. La ricerca riconosce, inoltre, l’importanza degli agenti di rete, che supportano le relazioni tra detenuti e famiglie per favorire il reinserimento. Purtroppo nell’ultimo biennio gli agenti di rete si sono ridotti della metà, passando da 30 a 15. Alcune criticità riguardano anche il sistema dell’accoglienza, soprattutto per quanto riguarda le soluzioni ponte verso l’autonomia abitativa. In tutto l’offerta abitativa per i detenuti in Lombardia può contare su 150 posti letto. Per il futuro, sono numerose le sfide che attendono il welfare penale e riguardano l’esigenza di una più equilibrata distribuzione delle risorse e la necessità di una maggiore attenzione a realizzare progetti specifici per ogni persona. Lo scenario carcerario sta cambiando: se fino al 2014 il problema era il sovraffollamento, ora invece si assiste a una costante decrescita dei detenuti in esecuzione interna (circa 7.800) che si avvicina sempre più alla quota di quelli in esecuzione esterna (oltre 6.000.). "La ricerca - sottolinea Fanetti - è importante perché evidenzia che le politiche per ridurre il sovraffollamento delle carceri potrebbero essere più efficaci se lo Stato mantenesse i suoi impegni sui rimpatri dei detenuti stranieri". "Molti dei detenuti stranieri, quasi la metà - aggiunge - sarebbero disposti e vorrebbero scontare la pena nei loro Paesi, ma gli strumenti per i rimpatri ancora non sono stati messi a regime nonostante le tante dichiarazioni arrivate da Roma". Per De Corato, gli interventi di supporto alle persone colpite da provvedimenti dell’autorità giudiziaria "devono oggi tenere conto che un numero sempre crescente di detenuti usufruisce di misure alternative. Ciò comporta anche un impegno crescente da parte delle Forze dell’ordine nell’attività di controllo, sottraendo risorse ad altri interventi per la sicurezza". In Lombardia si trovano 19 istituti penitenziari per adulti, 7 uffici territoriali di esecuzione penale esterna (UEPE) mentre la popolazione carceraria conta quasi 7.600 adulti (al 30 settembre 2015) a fronte di una capienza di 6.133 posti (indice di sovraffollamento al 124 %, nel 2010 era del 168%). Si tratta per lo più maschi di età compresa tra i 25 e i 45 anni. Di questi, 6 su 10 stanno scontando condanne definitive. Il 46% dei detenuti è costituito da stranieri e di questi il 19% è ancora in attesa del primo grado di giudizio. Pd: regione sostenga progetti per reinserimento detenuti "La Regione non rinunci a rilanciare il sostegno agli inserimenti lavorativi e che si faccia un’effettiva revisione degli strumenti oggi a disposizione per non disperdere energie". Lo auspicano Carlo Borghetti e Fabio Pizzul, consiglieri del Pd alla Regione Lombardia, commentando la fotografia scattata dalla missione valutativa effettuata da Eupolis Lombardia e presentati oggi in Commissione Speciale Carceri in seduta congiunta con il Comitato Paritetico di Controllo e Valutazione che ha promosso lo studio. Tra gli strumenti messi in campo dalla Regione e analizzati nello studio, c’è, infatti, un’apposita linea d’intervento dedicata alla vulnerabilità sociale che fatica a raggiungere con continuità i casi di fragilità. Inoltre la ricerca ha rilevato anche la sostanziale riduzione del numero di agenti di rete (praticamente dimezzato negli ultimi due anni), figure chiave nel reinserimento dei detenuti. "Serve pensare ad una più adeguata distribuzione delle risorse rispetto ai vari progetti e occorre più attenzione ad una maggiore personalizzazione degli stessi, oltre ad una razionalizzazione dei numerosi strumenti in campo che sappiano rispondere al cambiamento di scenario che vede un numero sempre più alto di detenuti usufruire di misure alternative" dicono i consiglieri Pd. Padova: detenuto ucciso, in manette l’amico di Luca Ingegneri Il Gazzettino, 4 marzo 2016 Arrestato a Udine Santino Macaluso, sospettato di aver massacrato a colpi di spranga Antonio Floris a Padova È stato arrestato l’assassino di Antonio Floris, il 61enne detenuto sardo massacrato a colpi di spranga la sera del 6 novembre scorso nel buio della legnaia dell’Oasi dei Padri mercedari di Chiesanuova. Gli investigatori della Squadra mobile hanno stretto le manette ai polsi di Santino Macaluso, 54 anni, originario di Agrigento. L’uomo si trovava a Reana del Rojale, in provincia di Udine, nell’abitazione della convivente. È accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Ex detenuto, Macaluso aveva finito di scontare nel luglio scorso una condanna a 26 anni di reclusione per un duplice omicidio avvenuto in Sicilia nel 1993 per questioni di cuore. Il 54enne aveva ucciso due volte per vendicare un parente. Stavolta Macaluso era stato punto nell’orgoglio. Antonio Floris l’aveva accusato di avergli rubato soldi in più occasioni. E gliel’aveva rinfacciato senza peli sulla lingua. Non aveva prove il 61enne di Desulo. Ma era convinto che fosse stato lui, tra agosto e settembre, a mettere le mani nel suo portafogli e a sottrargli circa 300 euro. Fino a quel momento Floris si era ciecamente fidato di Macaluso. Ne faceva una questione di lealtà. Era l’unico frequentatore della comunità ad avere una copia delle chiavi della sua stanza. Era l’unico autorizzato ad utilizzare la cucina in sua assenza. Si era sentito tradito. E non gliele aveva risparmiate. Tra i due c’era stata una vivace discussione. Poi più nulla. Ma Macaluso aveva covato tanta rabbia. Al punto da pianificare la vendetta. Floris era un abitudinario. Tutte le sere lasciava l’Oasi dei padri mercedari tra le 20.15 e le 20.30 in sella alla sua bicicletta. Doveva rientrare al Due Palazzi entro le 21.30. Era abituato a parcheggiare la bici sotto la tettoia della legnaia. Quella sera non ha fatto in tempo ad aprire il lucchetto. È stato aggredito alle spalle e finito a colpi di spranga. Cinque colpi, l’ultimo dei quali gli ha sfondato la teca cranica. Floris non ha avuto il tempo di difendersi. È stramazzato al suolo senza lanciare neppure un grido. L’assassino ne ha trascinato il cadavere per una decina di metri, in maniera da nasconderlo sotto la catasta di legna. Macaluso era finito subito tra i sospettati. Gli investigatori del dottor Giorgio Di Munno l’avevano sentito più volte. Macaluso aveva fornito un alibi preciso. Sono stati necessari una serie di accertamenti di natura tecnica e di acquisizioni testimoniali per smontare le sue dichiarazioni. Due gli elementi che hanno finito per incastrarlo. In primis il suo cappello, recuperato dagli investigatori sul luogo del delitto. All’interno sono stati repertati cinque capelli, su cui è stato isolato il profilo genotipico del 54enne di Agrigento. Messo alle strette dalla polizia, aveva dichiarato di essere salito sull’autobus numero 10 e di essersi recato in stazione. Avrebbe dovuto salire su un treno diretto in Friuli ma l’aveva perso. A quel punto aveva fatto tappa in centro. Si era fermato a bere un bicchiere in piazza dei Signori. E aveva fatto rientro in comunità attorno alle 23, quando era appena scattato l’allarme per la scomparsa di Floris. Oltre alle celle del suo cellulare, sono state le telecamere della videosorveglianza cittadina a smentirlo clamorosamente: Macaluso non è mai transitato alla fermata del 10 in via Emanuele Filiberto e non compare neppure nelle sequenze filmate nell’atrio della stazione ferroviaria e nel vicino piazzale. Firenze: chiude oggi la Sezione "Casa di cura e custodia" del carcere di Sollicciano Ansa, 4 marzo 2016 Chiude la Sezione Casa di cura e custodia del carcere fiorentino di Sollicciano. Lo ha annunciato il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. "Il trasferimento delle tre detenute presenti nella sezione di Casa di cura e custodia della casa circondariale di Firenze Sollicciano, annunciato dal capo del dipartimento nel corso della visita effettuata il 10 febbraio presso l’istituto fiorentino - si legge in una nota del Dap - avverrà domani, 4 marzo 2016". Le tre detenute, due minorate psichiche e una la cui infermità psichica è sopravvenuta durante l’esecuzione della pena "raggiungeranno la casa circondariale di Bologna - spiega ancora il Dap - nel rispetto del principio della territorialità della pena (due sono residenti a Bologna, una è senza fissa dimora), per essere ospitate presso l’apposita sezione femminile dedicata alla tutela della salute mentale dove proseguiranno le terapie riabilitative individualizzate". "Il trasferimento delle tre detenute - conclude il Dap - comporterà la definitiva chiusura della sezione femminile della casa di cura e custodia di Firenze Sollicciano, che sarà pertanto dismessa e, previo decreto a firma del Ministro della Giustizia, riconvertita in sezione detentiva femminile a custodia aperta. La chiusura della sezione conferma l’impegno assunto dal capo Dipartimento nel corso della sua visita presso la struttura penitenziaria toscana". Porto Azzurro (Li): il direttore "così renderemo il carcere più umano e accogliente" Il Tirreno, 4 marzo 2016 I progetti per Forte San Giacomo annunciati dal direttore all’inaugurazione della sala colloqui appena ristrutturata. Inaugurata ieri mattina la nuova sala colloqui dell’istituto carcerario di Forte San Giacomo. Alla cerimonia hanno preso parte il direttore Francesco D’Anselmo, il comandante del corpo della polizia carceraria Giuliana Perrini, l’ispettore Paolo D’Ascenzo, i funzionari del trattamento dei detenuti (ex educatori) Barbara Radice e Paolo Maddonni, il garante dei detenuti Nunzio Marotti, una rappresentativa del corpo di polizia, funzionari amministrativi e una delegazione di ristretti. A fare gli onori di casa lo stesso direttore. "È poco più di sei mesi che dirigo questo istituto - ha detto D’Anselmo - è già si vedono i primi importanti segnali di cambiamento e di novità. Ma cogliere i primi significativi frutti della nostra conduzione bisognerà attendere almeno tre anni. Ma quello che è certo vogliamo cambiare in meglio l’istituto rendendolo più umano e accogliente". E il primo tassello è rappresentato da questo locale, rinnovato e ristrutturato in maniera conveniente, un ampio spazio destinato a ricevere le famiglie e un angolo anche per i bambini che accompagnato le madri in visita. C’è un angolo attrezzato per loro con libri, giochi e così via. Due servizi igienici, uno per le famiglie, l’altro per i ristretti. Non solo. Alle pareti ed esposti sui banchi i lavori eseguiti dai detenuti. Un quadro realizzato per ricordare il detenuto che recentemente si è tolto la vita in cella. Poi modellini di due piazze d’Italia più famose, la Basilica in piazza San Pietro a Roma e piazza dei Miracoli a Pisa. "La nostra maggiore aspirazione - ha detto il garante dei detenuti, Nunzio Marotti - sarebbe quella di vedere accolta la richiesta di esporre questi lavori dei detenuti in una bacheca nella sala centrale della stazione ferroviaria di Pisa. Abbiamo inviato la domanda, ora aspettiamo una risposta". Presente anche il detenuto autore della composizione delle opere. Sono stati impiegati oltre 400mila stuzzicadenti per completare il tutto, quattro mesi di lavoro dedicando all’esecuzione del complesso monumentale sette/otto ore al giorno. "Ora è bello - ha continuato il garante - dare visibilità a questi lavori e condividerli all’esterno". Un altro importante tassello a favore del recupero del carcerato è la Carta del detenuto, un importante vademecum dove è registrata giorno per giorno la vita che si conduce all’interno di Forte San Giacomo, insieme alle nuove normative di legge e disposizioni carcerarie. È in diverse lingue e ne sono stati consegnati alcune copie in arabo, cinese, albanese e naturalmente italiano. "Abbiamo molti progetti in cantiere - ha continuato il direttore - per rendere il carcere più umano. Pensiamo ad aprire una falegnameria anche fosse a disposizione delle esigenze della comunità elbana; poi un laboratorio di ciabattino, insomma ripristinare una serie di attività di artigianato cadute in disuso ma che oggi tornano di moda. Il nostro obiettivo principale - ha concluso D’Anselmo - è quello di non togliere la speranza al detenuto di uscire, una volta scontata la pena". Bollate (Mi): uccise un ragazzo, rinasce sul palco "voglio meritare questa nuova vita" di Bruna Bianchi Il Giorno, 4 marzo 2016 Metamorfosi di un bandito incallito. Grazie al carcere di Bollate. Dieci anni di teatro con i detenuti di Bollate. Il carcere "modello" d’Italia, dove il lavoro è parte integrante del programma di riabilitazione, ha permesso a trecento detenuti di diventare attori e farsi applaudire sul palcoscenico di Bollate dal pubblico, come in un qualsiasi teatro. È la cooperativa Estia ad essere riuscita a rendere stabile un progetto artistico che, da quando è nato ad oggi, ha impegnato una cinquantina di persone e ha insegnato, nel decennio, la validità di un’esperienza che per alcuni detenuti è diventata anche un lavoro. Il sodalizio con la Regione e il Comune di Milano, e ultimamente con il teatro dell’Elfo-Puccini, ha fatto sì che a Bollate entrasse anche il teatro come terapia di riflessione sul male con la settimana dedicata a Brecht e la visione dell’Anima buona di Mariangela Melato. Per festeggiare il decennale la cooperativa, sapientemente diretta da Michelina Capato Sartore, porta in scena a Bollate (dal 10 marzo al 13 maggio) 7 spettacoli. Si comincia da Pinocchio e si conclude con i Camerieri della vita, un omaggio al nuovo ristorante gestito e voluto dai detenuti. Tra gli attori c’è Vincenzo D’Alfonso, oggi 43 anni, che sta finendo di scontare la sua pena per l’omicidio di Eugenio Milani, un ragazzo di soli 17 anni che nel 1996 a Crenna, in provincia di Varese, aveva cercato di difendere la madre opponendosi alla rapina messa in atto da D’Alfonso e dal suo complice. Rimase ucciso con un colpo alla testa. Milano, 4 marzo 2016 - La mobile di Varese è riuscita a prenderlo sei anni dopo. Nella sua casa di Legnano Vincenzo D’Alfonso, originario di Melfi, in Basilicata, che da balordo con piccoli precedenti per furto a 29 anni aveva fatto il salto grosso compiendo una rapina in tabaccheria finita in tragedia, ha evitato l’ergastolo chiesto dal pm grazie al rito abbreviato e sta finendo di scontare vent’anni. Ha usufruito dell’indulto e dell’articolo 21 (regime di semilibertà per lavoro esterno). Attualmente è in affidamento all’esterno del carcere e sarà definitivamente libero a ottobre del 2017. "Quando sono venuti a casa mia per arrestarmi - racconta oggi - mi sono sentito, se posso dirlo, liberato. Ho detto: è ora che paghi, portatemi dentro. È stato il primo giorno che non mi sono ubriacato". Dopo 14 anni come rivedi l’uomo di allora? "Mi vedo come uno stupido che non ascoltava la sua sensibilità. Io ero sempre stato il più buono, ma non dovevo dimostrarlo. Vengo da una famiglia di ladri, ho sempre fatto il ladro. Non sono più la stessa persona". Hai ucciso un ragazzo. "Cosa credi che si possa dimenticare? Il prete del carcere di Busto Arsizio dove sono stato i primi quattro anni, mi aveva detto di scrivere una lettera per chiedere perdono a suoi genitori e io ho detto di no. Non era il momento, che è venuto più tardi. Tanto, guarda, l’espiazione non finisce mai. Quando uccidi qualcuno convivi sempre con quello che hai fatto". Come è entrato il teatro nella tua vita di detenuto? "Mi è sempre piaciuto fare teatro. Da bambino, a Melfi, organizzavo con mia sorella e le sue amiche delle recite nel sottoscala di casa. A Busto ho cominciato con uno spettacolo in carcere e poi a Bollate ho chiesto di entrare alla Scuola degli attori che era finanziata dalla Regione". Che tipo di attore sei? "Dipende dalla parte. Nel primo spettacolo ho avuto una parte comica. Ma mi dicono che sono molto espressivo e perciò posso ricoprire diversi ruoli". Cosa ti ha dato il teatro? "Tantissimo. Emozioni e obbligo di guardarsi dentro, di capire chi sei e perché sei finito in carcere". Hai una bambina di 5 anni e una compagna. Che padre sei? "Ho conosciuto la mia attuale compagna durante la semilibertà a Terre di Mezzo, dove lavoravo e tuttora lavoro come magazziniere. Mia figlia è stata una gioia enorme, ma nello stesso tempo mi ha rimesso coi piedi per terra, mi ha costretto a guardarmi dentro perché devo meritarla, devo essere un padre di cui deve andare fiera". Eri spavaldo quando sei arrivato a uccidere. A casa hanno trovato una foto mentre impugnavi l’arma usata per uccidere quel ragazzo. "Avevo molta rabbia, usavo la droga e ho preso cocaina anche il giorno per l’assalto. Il teatro non me l’ha tolta, la rabbia, però mi ha aiutato a gestirla". Avellino: la Dignity Therapy, ecco il progetto terapeutico per le carceri irpinianews.it, 4 marzo 2016 A Milano in occasione del 20esimo Congresso Nazionale della Società Italiana di psicopatologia, l’irpina Mariangela Perito (psicologa/psicoterapeuta in formazione), ha presentato una nuova sperimentazione, di grande interesse scientifico ed etico "La Dignity Therapy: un progetto terapeutico in una Casa circondariale". La Dignity Therapy (DT) è un nuovo intervento psicoterapeutico multi-dimensionale breve e individuale, incentrato sul paziente che mira alla cura dello stress psicosociale ed esistenziale dei pazienti terminali o dei pazienti che sono affetti da grave patologia. In questa terapia i pazienti producono attraverso un’intervista guidata un documento da consegnare alle persone care, documento che contiene gli aspetti principali della vita del paziente, gli insegnamenti di vita che si vogliono trasmettere e le dichiarazioni di affetto ai loro cari. Gli operatori della salute che li assistono li aiuteranno a creare tali documenti, registrando la storia del paziente così come emerge dall’intervista e, infine a trascrivere e stampare le parole del paziente. Gli obiettivi storicamente principali della Dignity Therapy sono stati sempre i malati terminali, i malati oncologici, ma alcune ricerche iniziano ad evidenziarne l’importanza in popolazioni di pazienti non affetti da cancro, in pazienti psichiatrici e sugli anziani. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di avviare questa sperimentazione, nella realtà penitenziaria Irpina, per stimare e valutare in maniera qualitativa il cambiamento della qualità di vita, in persone sottoposte ad una condizione particolare, che è quella detentiva che comporta la privazione della libertà. Gli obiettivi sono stati quelli di arrivare ad un cambiamento nella percezione di sé da parte del detenuto, quindi ad un aumento della capacità di self-efficacy, di coping, migliori capacità relazionali, e soprattutto accrescere il senso di speranza, dimensione esistenziale importantissima per la futura capacità di affrontare anche il mondo esterno. L’equipe di lavoro che si è occupata di somministrare tutto il protocollo della dignity, di trascrivere personalmente le interviste e di supervisionare il lavoro è composto dalle dottoresse Mariangela Perito (Psicologa/psicoterapeuta in formazione), Ada Orrico (psichiatra/psicoterapeuta), Raffaella Napolitano (Psicologa), Tiziana Tropeano (psicologa/psicoterapeuta), coordinate dalla Dott.ssa Anna Gabriella Pugliese (Responsabile U.O.S.D. tutela della salute in carcere dell’ASL di Avellino), e dalle dottoresse Serena De Gugliemo (Psicologa/Psicoterapeuta) e Barbara Solomita (psicoterapeuta in formazione) della Casa di Cura Neuropsichiatrica Villa dei Pini. Ha supervisionato e coordinato tutto il gruppo di ricerca il Dott. Francesco Franza Primario della Casa di Cura Neuropsichiatrica Villa Dei Pini di Avellino e Presidente dell’Associazione Neamente. Dallo studio sperimentale effettuato è emerso che grazie a questa nuova forma di psicoterapia, la narrazione e la rielaborazione del loro vissuto personale i detenuti prima di tutto si sono sentiti riconosciuti e ascoltati in quanto persone, infatti attraverso la rievocazione di accadimenti personali i detenuti hanno potuto dare un senso ed un significato alla loro storia, inoltre per i pazienti riflettere sui temi legati alla speranza e al futuro proprio e delle persone care, ha provocato un miglioramento del tono umore e soprattutto delle capacità relazionali. Dati gli esiti e i risultati raggiunti, si spera che la sperimentazione possa avere applicazione futura anche in altre esperienze penitenziarie e consolidarsi nella realtà Irpina. Caserta: dalle carceri un calendario e "l’evasione" con le poesie Il Mattino, 4 marzo 2016 L’arte messa in campo tra le mura delle carceri come forma di "liberazione" ed "evasione" con la poesia o con il disegno, in particolare vignette raccolte in un calendario con didascalie che raccontano, con amara ironia, i momenti di vita dei reclusi. Accade in due penitenziari della provincia di Caserta, ovvero a Santa Maria Capua Vetere ed Arienzo, dove i reclusi (ma anche le recluse della sezione femminile) sono protagonisti di due distinte iniziative tese far emergere le identità artistiche ed espressive degli stessi ospiti, come stimolo di ripensamento e riflessione. A Santa Maria Capua Vetere, il prossimo 8 marzo, in occasione della festa della donna, 15 detenute declameranno alcune poesie sul palco del teatro del penitenziario sammaritano, alla presenza delle altre compagne di detenzione, di una rappresentanza maschile e del personale della casa circondariale. "Abbiamo voluto cogliere l’occasione di questa ricorrenza per dare voce alle detenute di questo istituto, facendo una riflessione a voce alta sull’essenza della femminilità" spiega la dottoressa Carlotta Giaquinto, direttrice dell’istituto penitenziario. Le protagoniste useranno lo strumento che da sempre aiuta a comunicare le più profonde espressioni del proprio animo: l’arte. Invitati all’evento, numerosi ospiti illustri tra i quali, diverse donne. Sono previsti gli interventi del Capo e del vice del Dipartimento, del vice Capo del Dipartimento, del Provveditore regionale egli altri dirigenti del dipartimento, dei magistrati di Sorveglianza, del dirigente del Comitato Pari Opportunità del Dipartimento, il dirigente della divisione anticrimine della Questura, i parlamentari della provincia di Caserta, alcuni rappresentanti della Regione Campania, il Garante dei detenuti, il responsabile della Comunità di Sant’Egidio, la vedova dell’ex direttore del carcere Uccella, che dà il nome alla struttura, il Commissario prefettizio di Santa Maria Capua Vetere, dirigenti scolastici e docenti delle scuole che collaborano con l’istituto. Intanto, nel penitenziario di Arienzo, diretto dalle dottoresse Maria Rosaria Casaburo e Marianna Adanti, lo scorso 29 febbraio è stato presentato, anche se con un po’ di ritardo rispetto all’inizio dell’anno, un calendario realizzato interamente dai detenuti della locale casa circondariale nell’ambito dei progetti educativi. Una delle tante iniziative con le quali vengono spesso a galla i talenti artistici di molti detenuti o che motivano gli stessi reclusi nel percorrere una strada per il cambiamento. Il calendario è stato stampato con il consenso dei reclusi i quali hanno realizzato delle simpatiche vignette attraverso la rappresentazione di didascalie sulla giustizia tratte da un’intervista di Agnese Moro, studiosa impegnata nel sociale e figlia di Aldo Moro assassinato dalle Br. Catanzaro: Dieni (M5S) "le istituzioni verifichino il rischio epidemia nel carcere" zoomsud.it, 4 marzo 2016 "Ho chiesto al Governo di accertare con la massima urgenza il rischio di epidemia al carcere di Siano." Così la deputata del Movimento 5 Stelle annuncia la propria interrogazione sul pericolo denunciato dall’associazione Yairaiha che potrebbe riguardare la Casa circondariale di Catanzaro. "L’emergenza segnalata - continua la parlamentare - è grave e, anche se non sono noti altri casi di contaminazione, non va preso alla leggera. La logica suggerisce di procedere col principio di precauzione. Le notizie, che sono cominciate a filtrare sulla stampa e che parlano del decesso di un detenuto che i medici hanno attribuito al batterio clostridium difficilis, dovrebbero indurre le autorità a effettuare un attento screening ed una disinfezione della struttura per evitare la diffusione della malattia all’interno della popolazione carceraria. Il clostridium difficilis è infatti un batterio molto pericoloso e resistente che, stando alle fonti mediche consultate, negli ultimi anni sta registrando "un aumento della frequenza, oltre che della gravità. Non sono solo i detenuti ad essere esposti al rischio, ma anche gli operatori e la polizia penitenziaria. Tutti questi fattori mi spingono a sostenere l’appello dell’associazione Yairaiha Onlus che ho già tradotto in un’interrogazione parlamentare ai ministri della giustizia e della salute". "La salute - termina la parlamentare - è un diritto costituzionalmente garantito. Non importa se si è in libertà o se si è in carcere. Ed è bene che venga garantito scrupolosamente anche nel carcere di Siano. Da oggi nessuno può dire di non sapere." Velletri (Rm): droga e cellulari ai detenuti, 14 arresti nel Lazio Corriere Quotidiano, 4 marzo 2016 Riuscivano a rifornire i reclusi di sostanze stupefacenti e mezzi di comunicazione. Coinvolti, tra gli altri, un agente di polizia penitenziaria e un infermiere, entrambi in servizio nel carcere di Velletri. Quattordici arresti nelle province di Roma e Latina, nei confronti di persone ritenute responsabili, a vario titolo, di condotte illecite che permettevano l’introduzione all’interno del carcere di Velletri di sostanze stupefacenti, telefoni cellulari e schede telefoniche in uso ai detenuti, eludendo i controlli. Al lavoro i carabinieri del comando provinciale di Roma, in collaborazione con il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, che stanno perquisendo alcune celle ubicate negli istituti di pena di Civitavecchia, Frosinone, Rebibbia, Regina Coeli, Campobasso, Viterbo e Spoleto. Nelle indagini, dirette dalla procura della repubblica di Velletri, sono coinvolti un agente di polizia penitenziaria e un infermiere entrambi in servizio nel carcere di Velletri. Ulteriori particolari saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle ore 11 presso la sede del comando provinciale di Roma, piazza S. Lorenzo in Lucina 6. Catanzaro: sequestrata droga nell’istituto penale minorile giornaledicalabria.it, 4 marzo 2016 Un involucro contenente circa 10 grammi di hashish, è stato sequestrato nel carcere minorile di Catanzaro da agenti della Polizia Penitenziaria. Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di categoria Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale. Gli agenti della polizia penitenziaria, insospettiti dall’arrivo di un pacco destinato ad un detenuto, dopo un’attenta perquisizione, hanno rinvenuto, occultato all’interno dei vestiti, la droga. "Il fenomeno della droga in carcere - si legge in una nota del Sappe - è sempre ricorrente, considerato che i tossicodipendenti sono tanti e tentano, con ogni mezzo, di introdurre la droga all’interno degli istituti. È per questo motivo che sosteniamo da sempre che non bisogna mai abbassare la guardia e dotarsi di ogni utile strumento per combattere tale fenomeno. Quello più adeguato è senz’altro l’utilizzo delle unità cinofile ma, nonostante ciò sia previsto da anni, non in tutte le regioni l’amministrazione penitenziaria si è dotata dei cani antidroga. La Calabria è una delle regioni che ancora non ha le unità cinofile. È del tutto evidente - scrive il Sappe - che gli strumenti di repressione e prevenzione non devono essere gli unici, ma è necessario agire attraverso il recupero dei tossicodipendenti. C’è bisogno di progetti seri ed efficaci, rispetto ai quali bisogna necessariamente collaborare con la società esterna, con associazioni e comunità terapeutiche". Napoli: divisi da un muro, uniti da un pallone… i detenuti di Poggioreale e gli studenti di Francesca Leva ilnapolista.it, 4 marzo 2016 Si è da poco concluso il quadrangolare di calcio "Una partita per avvicinare, un incontro per raccontare" che ha visto sfidarsi due formazioni di studenti del Liceo Jacopo Sannazaro e due di detenuti dell’Istituto penitenziario di Poggioreale del padiglione Firenze. 28 ragazzi in campo, ciascuno con la propria storia, la propria famiglia, la propria esperienza, con i propri piccoli segreti, brutti voti e colpe da scontare. A vederli con le loro divise da calcetto non li distingueresti eppure tra poco torneranno ad essere separati da un muro, un muro fatto non solo di mattoni, ma di pregiudizi, immagini distorte, voci che si tramandano, paure alimentate dall’ignoranza e dal disinteresse. Durante le partite si sono dati battaglia, hanno urlato, incitato i compagni e tirato qualche calcio agli avversari, tutto con rispetto e sportività. "Abbiamo giocato leggero - spiega Antonio, uno dei detenuti - sapevamo che con i ragazzi delle scuole non potevamo giocare come facciamo tra di noi. Sono davvero felice di poter partecipare a questo incontro. Sono qui da 14 mesi, ma adesso che esco non ci torno più. Ho figli e qui si perde tutto, meglio mangiare aglio e olio che rischiare di tornare qui". Appena uscito dal campo, anche Gennaro racconta la sua storia: "Tutto dipende come la prendi, quando arrivi a Poggioreale non è facile. Neanche per le nostre famiglie che stanno fuori è facile. A volte penso che se i giudici si mettessero nei panni delle famiglie, se conoscessero le nostre storie e sapessero quante bocche da sfamare lasciamo fuori, forse non darebbero queste condanne". Tra una patatina e una coca cola, ci si asciuga il sudore e si stringe amicizia, qualcuno ha ancora in mano il Vesuvio di cioccolata che la garante per i detenuti Adriana Tocco ha regalato; si interessa dei ragazzi come fossero figli, è lei ad aver avuto l’idea della manifestazione. "Talvolta mi scoraggio - confessa - perché è davvero difficile organizzare queste cose, ma non mi lascio fermare". Si alza Federico, uno degli studenti del Sannazaro: "È stata una bellissima esperienza che spero di poter ripetere, perché da fuori non abbiamo idea di cosa significhi stare qui ed è facile avere un’idea sbagliata di voi che siete dentro". "Anche noi spesso ci chiediamo cosa pensate di noi da fuori - risponde Luigi, un detenuto del padiglione Firenze - In campo eravamo tutti uguali e ce le siamo dati di santa ragione, ma da dove veniamo noi c’è una mentalità completamente diversa dalla vostra. Anche se non fossimo stati da questo lato del muro probabilmente non ci saremo mai incontrati, invece conoscere questi ragazzi che vengono da posti altri rispetto ai nostri ci fa bene". Sono seduti in cerchio tutti col fiato corto e il sudore che scende copioso, ragazzi di dentro e ragazzi di fuori, perché in fondo ciò che li rende diversi è solo l’essere ai due lati opposti di quel muro. A guardarli bene non si sono mischiati davvero, sono seduti quelli del Sannazaro da una parte e quelli di Poggioreale dall’altro. Una volta fuori dal campo, senza più pallone contrasti e agonismo, hanno perso l’innocenza dello sport e si sono ritrovati nei ruoli che società, legge, consuetudini ritaglia loro. "Quando ho visto il muro stamattina - racconta Giosuè, uno studente - e siamo passati sotto il portone avevo un po’ d’ansia ma il calcio è come una linea orizzontale che attraversa tutti e quello che abbiamo fatto noi qui stamattina è il vero calcio, mentre ci accanivamo sulle caviglie dell’avversario, ci tiravamo le maglie, ci bombardavamo di tiri, abbiamo condiviso una passione". Ciro salta in piedi, sorride: "Siamo persone anche noi qui dentro - dice - ma a volte le persone lo dimenticano" "A volte ci sono muri tra gli stessi quartieri della città - interviene l’assessora all’Istruzione Annamaria Palmieri che è seduta tra gli studenti - ci sono molti ragazzi che non sono mai stati in alcuni quartieri, che li temono senza averli mai visti né vissuti" Sono tutti stanchi, è stata una lunga mattinata, e "tra poco trasmettono "Uomini e donne"" precisano alcuni del padiglione Firenze, fans della trasmissione della De Filippi, ma non è ancora tempo di salutarsi, non è ancora tempo di tornare ognuno al proprio lato del muro. Sono talmente simili anche nella spontaneità: "Avevamo sei ore a scuola oggi - afferma senza troppi giri di parole Grumetto - meglio una partita di pallone! Però i ragazzi di qui sono fantastici, molto diversi da come li immaginavo, dicono perfino meno parolacce di noi" "Noi siamo fortunati rispetto ad altri compagni, - racconta ancora Luigi - perché noi abbiamo sbagliato e siamo qui, ma almeno siamo vivi e usciti da qui avremo la possibilità di cambiare. Molti dei nostri amici hanno fatto una brutta fine e nessuno potrà mai dare loro la possibilità di conoscere una strada diversa". L’ultima riflessione viene da Alberto, uno dei volontari della Uisp, che ha offerto il supporto tecnico e i palloni: "Credo che la partita di oggi sia stato un vero spot per il calcio perché si è giocato nel rispetto delle regole e nella condivisione della partita, come non avviene spesso nei campi di calcio. Penso che sarebbe bello abbattere questo muro non solo per un giorno, ma nella quotidianità". Il direttore di Poggioreale Antonio Fullone, prende la parola per salutare e ringraziare tutti, lo lasciano parlare nonostante tifi Taranto perché giura di simpatizzare Napoli: "A Verona organizzavamo un torneo a cui partecipavano 58 scuole, questo è quello che vorremmo riuscire a realizzare anche qui. Sono arrivato da poco e c’è tanto lavoro da fare, ma c’è la volontà da parte di tutti per far si che questo posto non sia più un posto di pena, ma faccia parte di un vero progetto di recupero e reinserimento" Libia: la guerra è più vicina di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 marzo 2016 L’uccisione dei due tecnici italiani Fausto Piano e Salvatore Failla rapiti lo scorso luglio, avvicina i tempi dell’intervento militare a guida italiana, ufficialmente contro l’Isis. Il Sabratha Media Center ieri per tutto il giorno ha continuato a diffondere particolari dell’uccisione e del ritrovamento dei corpi di Fausto Piano e Salvatore Failla. Impossibile accertarne la credibilità. Ad un certo punto ha riferito che i due tecnici della Bonatti sarebbero stati trovati con delle armi in pugno. In serata il resoconto più chiaro sullo scontro a fuoco con gli uomini dell’Isis fatto del presidente del Consiglio militare di Sabrata, Taher El-Gharably, che comunque non è stato in grado di confermare oltre ogni dubbio l’uccisione dei due italiani. In un primo momento, ha spiegato, i miliziani autori dell’attacco al covo dello Stato islamico nel sobborgo di Sorman, hanno pensato che due degli uccisi fossero siriani a causa della carnagione chiara. Poi hanno capito che potevano essere due degli italiani rapiti. La morte di Failla e Piano sta fornendo nuove munizioni a chi in Italia spinge con forza per l’avvio di quell’intervento internazionale in Libia, ufficialmente contro l’Isis, di cui si parla da mesi e che vede in prima linea proprio il nostro Paese. Tra i politici che hanno già indossato l’elmetto c’è il presidente dei senatori di Forza Italia, Paolo Romani. "Quest’altro episodio - ha detto ieri commentando le notizie che arrivavano da Sabratha - riconferma l’assoluta gravità della situazione e la necessità ed urgenza di un intervento in quell’area del mondo per ristabilire le minime condizioni di convivenza civile, senza dimenticare ovviamente la difesa dei nostri importanti interessi economici". Più chiaro di così. L’attesa di Romani comunque si annuncia breve perché la portaerei francese "Charles De Gaulle" è passata ieri per il Canale di Suez. Proveniente dal Golfo, il fiore all’occhiello delle forze armate francesi punta al largo del litorale libico e imbarca gruppi combattenti. La Marina francese in ogni caso già partecipa ad operazioni mirate in Libia. Il settimanale satirico Canard Enchainé, sempre ben informato, scrive che la Fregata Surcouf qualche settimana fa ha trasportato uomini delle forze speciali, che ha fatto sbarcare in mare, a un chilometro dalla costa libica. La missione, sempre secondo il settimanale francese, avrebbe avuto lo scopo di sostenere le truppe dell’Esercito nazionale libico, agli ordini del generale Khalifa Haftar, impegnate in combattimenti contro miliziani legati all’Isis e altre formazioni jihadiste. Qualche giorno fa era stato Le Monde a svelare la "guerra segreta di Parigi in Libia", mentre fonti libiche avevano parlato di forze speciali francesi schierate a Bengasi. E pronta a scendere in campo è l’Italia, in qualsiasi momento, anche se Renzi continua a ripetere che prima serve la nascita di un esecutivo nazionale libico e la fine della frattura tra il governo di Tripoli e quello di Tobruk. Una delegazione del Parlamento di Tobruk ha raggiunto la capitale libica per avviare colloqui per la riconciliazione ma restano modeste le possibilità di arrivare in tempi stretti alla formazione di governo di unità nazionale presieduto dal premier Fayez al Sarraj. Diversi attori continuano ad opporsi, a cominciare dall’uomo forte, il generale Khalifa Haftar, uomo della Cia per molti anni e ora alleato di ferro dell’Egitto. Al Cairo sarebbero in corso negoziati informali tra le parti libiche per arrivare ad una soluzione di compromesso che permetterà a Haftar di restare a capo dell’Esercito senza avere incarichi di governo. A limitare le aspirazioni di Haftar è la battaglia ancora in corso a Bengasi tra i suoi uomini e i miliziani dell’Isis. Il generale aveva promesso di chiuderla vittoriosamente in poco tempo. Comunque si andrà alla guerra, con o senza la foglia di fico del consenso di un governo libico. L’Italia è pronta a guidare la "missione in Libia" e, rivelava un paio di giorni fa il Wall Street Journal citando fonti Usa, a Roma già esiste un "centro di coordinamento alleato" che comprende oltre ai comandanti militari americani anche quelli di Francia e Gran Bretagna e, naturalmente, dell’Italia che da mesi, ha detto al Wall Street Journal il generale Donald Bolduc, comandante delle Forze speciali Usa in Africa, preparano un piano per un secondo intervento in Libia. Militari stranieri sarebbero già presenti anche a Tripoli. Mosca per ora osserva da lontano ma nel frattempo lancia un allarme: in Libia è reale il pericolo che gli uomini di Abu Bakr al Baghdadi, il califfo dello Stato islamico, possano ricorrere all’uso di armi chimiche. I jihadisti potrebbero tentare di mettere le mani sulle 700 tonnellate di agenti chimici che l’Opac stima si trovino nel Paese nordafricano. Una Libia senza rete e il copione scritto da altri di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 L’inverno del nostro scontento, della nostra frustrazione di media-piccola potenza, non finisce in Egitto con il caso di Giulio Regeni ma continua drammaticamente in Libia. Alle 18 e 34 di mercoledì 2 marzo, poche ore prima che i due tecnici della Bonatti venissero trucidati a Sabrata, un italiano di Misurata ci scriveva questo messaggio. "Da qui - raccontava il nostro "cane sciolto" - non vedo per niente bene la situazione. Banche ferme, economia in crollo verticale, mercato nero alle stelle e il rischio di rimanere intrappolati in un contesto in cui il sentimento antieuropeo - di pochi ma pesantemente armati e non soggetti ad alcuna legge - potrebbe cambiare il mio status di occidentale. I rischi crescono. Qui a Misurata sono stato trattato come un fratello ma gli stessi amici locali, sebbene dispiaciuti, mi stanno spingendo ad andarmene il prima possibile". Questa è la Libia senza filtri. Qualunque missione militare in Libia è un rischio, fuori e dentro i confini del Paese, e soprattutto non aspettiamoci di essere accolti come "liberatori": ci sarà sempre qualcuno che vedrà la presenza italiana e occidentale come un atto ostile. Ma all’Occidente piace comunque avere una "narrativa" che è quella che ci siamo già bevuti in Afghanistan, con la lotta al terrorismo di George Bush jr. dopo l’11 settembre 2001. Oppure in Iraq, nel 2003, quando per abbattere Saddam un’intera nazione è stata abbandonata a una violenza senza fine. Così come ci siamo inebriati con le "primavere arabe" che, salvo l’eroica Tunisia, sono sprofondate nel caos o nella dittatura. L’Italia ha seguito un copione tragico scritto da altri sperando di limitare i danni. E adesso vogliono persino la nostra partecipazione alla guerra del Siraq per la corsa alla liberazione di Raqqa e Mosul dove manderemo un contingente a difendere una diga: non risulta però che ci siano altri militari occidentali da quelle parti. I motivi di questa politica estera così "ragionevole" ce le hanno spiegate fino alla nausea: prima abbiamo perso la guerra, poi dopo la caduta del Muro nell’89 siamo rimasti da soli seduti al tavolo degli sconfitti e gli Stati Uniti, con l’ombrello Nato, sono i nostri migliori amici perché ci risparmiano qualche bastonata degli altri alleati europei. Chi ha osato alzare la testa come Craxi e Andreotti ci ha rimesso le penne, per non parlare di Mattei, come bene ci spiegò un ex presidente dell’Eni. Abbiamo dovuto regolarmente ingoiare il rospo, al punto di andare contro i nostri stessi interessi. Nei Balcani i nostri aerei hanno bombardato i serbi di Milosevic in Kosovo nel ‘99 ma anche la fabbrica della Zastava che la Fiat aveva costruito negli anni 60. Come migliore alleato degli Stati Uniti li abbiamo seguiti in Afghanistan e poi in Iraq con il sacrificio dei nostri soldati: ci illudevamo di essere ricompensati dai "dividendi della pace". E dove sono? Nella disintegrazione del Medio Oriente e del Mediterraneo? Non solo, in un passato recente siamo sempre stati in prima linea a difendere le sanzioni a Mosca e Teheran: e con quali vantaggi quando gli altri facevano affari miliardari sotto il nostro naso? La Libia per noi è una perdita secca, la maggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Gli alleati ci hanno fatto le scarpe non solo nel momento in cui la Francia, appoggiata da Usa e Gran Bretagna, ha attaccato Gheddafi nel 2011 ma anche dopo, quando la presenza italiana è stata sistematicamente boicottata: per informazioni rivolgersi all’ambasciatore Giuseppe Buccino, l’ultimo diplomatico a lasciare Tripoli. In Libia l’Italia è stata costretta a bombardare un autocrate con cui aveva firmato 7 mesi prima accordi economici e di sicurezza stringenti: è puerile pensare che gli altri non si siano accorti della nostra debolezza. Ecco perché forse non sapremo la verità su Regeni. Adesso se vogliamo salvare gli altri due italiani in mano ai jihadisti e non piegarci agli interessi altrui dobbiamo stabilire che cosa vogliamo, altrimenti stiamo a casa oppure interveniamo soltanto con operazioni limitate. Ma forse ci illudiamo che gli egiziani, il generale libico Khalifa Haftar e soprattutto la Francia, il "guardiano del Sahel", chiederanno il nostro parere su cosa fare in Cirenaica e nel Fezzan? Vogliamo avere una buona politica estera, commisurata ai nostri interessi? Cominciamo dicendoci le cose come stanno, senza aspettare che ce le racconti il nostro "cane sciolto" da Misurata. Ma questa non è una guerra di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2016 Non è facile candidarsi alla guida di una missione internazionale di stabilizzazione come quella che si sta mettendo a punto per la Libia scegliendo come unico punto di riferimento la via politico-diplomatica e tenendo a freno tutte le fughe in avanti e le ambizioni dei nostri alleati sul piano strettamente militare. Per noi la guerra "non è ancora guerra". Ma è proprio questo il sentiero stretto che Matteo Renzi ha scelto di percorrere in queste settimane sulla crisi libica trovando per una volta un consenso non scontato di due ex premier come Romano Prodi e Silvio Berlusconi. I margini concessi alla trattativa politica si vanno facendo, però, sempre più esigui e sempre più concreto è il rischio che la linea della prudenza possa trasformarsi in un pericoloso boomerang anche nei rapporti della politica interna. Lunedì prossimo a Tobruk si giocherà l’ultima chance per un dibattito parlamentare che dia il via libera definitivo al governo di transizione presieduto da Fayez al-Sarraj, passaggio necessario per una richiesta di intervento internazionale sul suolo libico. Se anche quell’occasione andrà persa per le violenze e le intimidazioni di cui è stato teatro finora il Parlamento di Tobruk, l’inviato dell’Onu per la Libia, Martin Kobler ha già pronto un piano B: considerare come già espressa e formalizzata la volontà di quel Parlamento (unico riconosciuto dalla comunità internazionale) con le recenti firme di sostegno al Governo da parte di 101 parlamentari (ossia la maggioranza degli eletti). Si tratterà poi di creare quella cornice di sicurezza per insediare formalmente il Governo nella capitale Tripoli. Impresa tutt’altro che agevole e che richiede un’opera preventiva di accordi con le milizie che controllano quella parte di territorio, lavoro che, con tenacia e determinazione, sta compiendo il consigliere militare di Kobler, il generale italiano Paolo Serra. Un lavoro al quale non è estrano il compito delle forze speciali sul terreno, in primis degli americani ma anche degli inglesi e dei francesi. Senza violare in alcun modo il dettato costituzionale e le prerogative del Parlamento, l’Italia non poteva però, candidandosi alla guida della futura missione, essere completamente assente dalle operazioni "speciali" sul territorio libico. Nasce da questa esigenza di equilibrio tra forze alleate (più che da una smania di accentrare a Palazzo Chigi la catena di comando delle operazioni speciali all’estero) l’estensione ai militari dei corpi speciali italiani delle "garanzie funzionali" di cui godono gli agenti dei servizi segreti prevista nel decreto missioni nel novembre dello scorso le cui modalità operative sono state definite in un successivo Decreto del presidente del Consiglio dei ministri approvato il 10 febbraio dopo il via libera del Consiglio di Stato. È convinzione di Renzi che la leadership italiana sulla Libia si possa esercitare ancora con "prudenza, serietà e affidabilità". D’accordo con il Quirinale Renzi ha invitato quindi tutti i membri del suo Governo a non assecondare troppo la "corsa mediatica" e a non farsi condizionare neppure dai tragici avvenimenti che hanno portato alla morte dei due tecnici della Bonatti rapiti nel luglio del 2015. Ma il tempo orami stringe e la prudenza di Renzi non può durare all’infinito. Nuclei d’assalto e sostegno dal mare, l’Italia pronta alla missione in Libia di Gianluca Di Feo La Repubblica, 4 marzo 2016 Il primo contingente potrebbe muoversi entro 10 giorni, ma restano i dubbi sul quadro legale e sugli obiettivi dell’intervento militare. NEI documenti ufficiali si parla solo di "nota esigenza", ma dietro la definizione burocratica si nasconde il problema più complesso che le nostre forze armate abbiano mai affrontato: la missione in Libia. Ormai c’è la sensazione che sia cominciato il conto alla rovescia per l’intervento militare sull’altra sponda nel Mediterraneo. E che la tragica morte di Salvatore Failla e Fausto Piano stia accelerando la corsa verso la grande spedizione. Ma i dubbi sono moltissimi. A partire dal quadro legale: serve la richiesta formale di un governo libico, che al momento non esiste. C’è poi un altro dilemma: quali saranno gli obiettivi? Spazzare via il Califfato? Contribuire alla nascita di un esercito libico autonomo? E soprattutto, quale è l’interesse nazionale che l’Italia intende difendere? Il timore è che il nostro paese si trovi ancora una volta a entrare in guerra solo per evitare di essere spiazzato dagli alleati. Di sicuro, si prepara un’operazione massiccia, la più grande mai realizzata dal 1943. Da mesi gli stati maggiori stanno elaborando piani su piani, ipotizzando un vertice italiano che gestirà uno schieramento di forze europee. La previsione minima è di 3mila militari, la massima supera i 7mila. I due terzi saranno forniti dal nostro paese. L’allestimento richiede circa un mese. Ma un primo contingente potrebbe muoversi nel giro di dieci giorni per prendere il controllo di un aeroporto. In ogni caso, la fase iniziale sul campo sarà interamente affidata a truppe italiane. L’unico punto certo è la struttura che la guiderà: il comando mobile della divisione Acqui, erede dei "martiri di Cefalonia". È un quartiere generale creato per gestire operazioni internazionali, composto da shelter modulari che possono essere trasportati ovunque nella stiva dei quadrimotori C-130 Hercules. La scorsa settimana nella riunione al Quirinale del Consiglio supremo di Difesa - formato dal capo dello Stato, dai ministri chiave del governo e dai vertici delle forze armate - si è deciso di avviare la "predisposizione" del contingente. Per questo nell’aeroporto di Centocelle si è cominciato ad assemblare il comando operativo della missione. La posizione non è casuale: nella base romana ci sono i bunker sotterranei del "Pentagono italiano" che coordina tutte le nostre operazioni, dall’Afghanistan al Kurdistan. Poi, quando scatterà l’ora X, si deciderà se la Acqui gestirà l’intervento in Libia direttamente dalla capitale oppure se le condizioni di sicurezza ne permetteranno il trasferimento in Tripolitania. Oltre agli italiani, faranno riferimento al comando mobile anche militari di altri paesi. Alcuni partecipano attivamente ai piani, come gli inglesi. Altri stanno definendo contributi e regole di impiego, come i tedeschi e gli spagnoli. Nazioni minori hanno offerto piccoli reparti specializzati. Saranno tutti europei. Gli americani aiuteranno dall’esterno, stabilendo un coordinamento con il loro dispositivo nel Mediterraneo: navi, aerei e forze speciali. Per questo un ruolo chiave spetterà all’aeroporto di Sigonella, dove sono schierati da mesi i Predator statunitensi e quelli italiani. Il contingente sul campo conterà su un sostegno dal mare. Al momento si ipotizza la presenza di almeno una portaelicotteri tipo San Giorgio, che trasporterà un battaglione di "marines" del San Marco con i loro blindati anfibi. I marò saranno una sorta di riserva, per rinforzare i reparti a terra in caso di emergenze. Ci sarà poi una nave carica di rifornimenti e alcune unità di scorta. La copertura aerea invece verrà concentrata sull’aeroporto di Trapani, dove sono già presenti i cacciabombardieri Amx: i piloti sono veterani dell’Afghanistan, dove si sono abituati ai raid di precisione. Fondamentale la base di Pantelleria, con il grande hangar sotterraneo progettato da Pier Luigi Nervi: servirà come scalo per il ponte aereo di elicotteri e cargo. I numeri e le caratteristiche delle truppe dipenderanno dal tipo di missione. Se si arrivasse a un accordo per la nascita di un governo unitario libico, l’operazione sarà a lungo termine con almeno 5mila soldati. Dovrà contribuire alla sicurezza delle infrastrutture - porti, aeroporti, impianti petroliferi - e collaborare alla formazione di un esercito nazionale. Se il compito sarà limitato alla distruzione del Califfato di Sirte, allora il contingente non supererà i 3mila uomini. Con un nucleo d’assalto di circa 200 commando, per metà italiani, e uno squadrone di elicotteri da combattimento Mangusta. In tal caso, la base avanzata potrebbe anche restare in Tunisia. Gli inglesi hanno già avuto da Tunisi il permesso di schierare un’aliquota della Quarta Brigata, i celebri "Topi del Deserto" del maresciallo Montgomery, mentre i tedeschi potrebbero presto trasferire una loro brigata, la prima attiva in Africa dai tempi di Rommel. Nomi che evocano guerre lontane, ma che potrebbero tornare drammaticamente attuali. Il Presidente del Consiglio europeo Tusk ai migranti "non venite in Europa" di Teodoro Andreadis Synghellakis Il Manifesto, 4 marzo 2016 "La Grecia non è più un paese di transito. Non venite in Grecia, non venite in Europa, non date credito ai trafficanti e agli scafisti", è il messaggio che ha mandato a chi vorrebbe abbandonare il proprio paese in cerca di un futuro migliore e più sicuro, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dopo la conclusione del suo incontro con il primo ministro greco Alexis Tsipras, ieri ad Atene. "L’Unione europea non abbandonerà la Grecia, non la lascerà da sola", ha aggiunto Tusk, secondo il quale l’attuazione di quanto pattuito tra l’Unione e la Turchia per il controllo dei flussi di profughi e migranti rimane una assoluta priorità. Nel momento in cui a Idomeni il numero dei profughi accampati sale senza sosta, il presidente del Consiglio Ue ha riconosciuto che la situazione, sulla rotta dei Balcani occidentali è drammatica e che l’Unione deve agire senza alcune esitazione per affrontare la realtà che si è venuta a creare. Da parte sua, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, ha nuovamente posto l’accento sul fatto che al vertice straordinario di Bruxelles della prossima settimana si dovrà parlare, nel dettaglio, di come la Turchia intende limitare i flussi migratori. E nel momento in cui il suo paese sta compiendo ogni possibile sforzo per non abbandonare questa enorme massa di profughi, il leader di Syriza ha ribadito con forza che ciò che viene seriamente messo alla prova, è la coesione stessa dell’ Europa. "La Grecia sta sostenendo un peso enorme, ma ha risposto prontamente alle necessità dell’Unione, tenendo fede alla sua cultura ed ai valori che la contraddistinguono. La cultura di alcuni altri partner nell’Unione, tuttavia, è differente", ha dichiarato Tsipras. Nel pomeriggio di ieri è tornato a riunirsi anche il consiglio dei ministri, nella sede di Palazzo Maximou. Quello a cui mira il governo guidato dalla Coalizione della Sinistra Radicale Ellenica è poter arrivare al vertice della prossima settimana con l’appoggio di una gran parte delle forze dell’opposizione. Ed è proprio a questo scopo che Tsipras, oggi, incontrerà anche i leader dei partiti che non sostengono l’esecutivo. Sul fronte internazionale, Tsipras ha avuto un lungo colloquio telefonico con il suo omologo turco Ahmet Davutoglu, per chiedergli, appunto, che Ankara faccia la sua parte. I due leader si incontreranno lunedì prossimo a Smirne, subito dopo la conclusione del vertice straordinario di Bruxelles. Atene, quindi, continua anche ad attivarsi a livello bilaterale, sul piano politico e diplomatico, per cercare di arrivare il prima possibile ad una soluzione realistica e soprattutto umanamente dignitosa. Secondo quanto filtra da ambienti governativi greci, tuttavia, il summit di Bruxelles potrebbe complicarsi e non rispettare pienamente l’agenda sinora pattuita, visto che la Turchia -con la sua consueta imprevedibilità- sembra voler discutere non solo dell’ emergenza legata a migranti e profughi, ma anche del futuro dei rapporti tra l’Ue e Ankara. Tema quanto mai spinoso, legato a ben note variabili come il rispetto dei diritti umani, delle minoranze e del diritto alla libera informazione. A Idomèni, nel frattempo, scarseggiano coperte e alcuni generi alimentari, malgrado lo sforzo ininterrotto per cercare di assistere nel miglior modo possibile i circa dodicimila disperati che si cercano di lasciarsi alle spalle guerre e miseria. Le tende sono ancora insufficienti e molte persone sono costrette a dormire all’addiaccio. Alcuni responsabili di Medici senza frontiere si sono detti preoccupati per la situazione igienico-sanitaria, visto che i bagni e le docce montate non bastano e con le piogge, che trasportano acqua sporca dai campi vicini, non si può escludere il rischio epidemie. Le varie autorità locali si stanno attivando per poter ospitare in tutte le città greche anche i profughi accampati a Idomèni, al confine con la Macedonia che apre a singhiozzo, e per brevissimo tempo, i propri confini. Sino al pomeriggio di ieri, nell’arco di ventiquattro ore, erano riusciti ad attraversarlo circa 500 persone, provenienti in gran parte dalla Siria. Migranti, così l’Europa rischia di andare in frantumi di Bernard Henri Lévy (traduzione di Daniela Maggioni) Corriere della Sera, 4 marzo 2016 Il ritorno degli egoismi nazionali può portare a una giungla peggiore di quella di Calais. Un Paese dell’Unione europea che richiama il proprio ambasciatore da un altro Paese dell’Unione europea. Un altro, o lo stesso, che, a dispetto di tutte le regole di solidarietà fra Stati membri, diventa un centro-raccolta per migranti rifiutati, un luogo al bando, una banlieue, simile ai lebbrosari giganteschi e isolati del Medio Evo. Lo spazio Schengen che va in frantumi. I vertici ufficiali che si susseguono e le cui decisioni vengono derise, come la settimana scorsa in Austria, da sotto vertici regionali, privi di legittimità, illegali. La legge dell’ognuno per sé, dunque il rischio di anarchia. Il ritorno degli egoismi nazionali, dunque la legge della giungla, quella vera, ben più spaventosa della giungla di Calais. Insomma, è l’Europa in quanto tale che la cosiddetta crisi dei migranti sta facendo esplodere. È lo spirito stesso d’Europa che, abbandonato al solo volere di rappresentanti timorosi e privi di progetti, va in catalessi. Siamo forse davanti a quello che né la crisi greca dell’anno scorso, né la débâcle finanziaria del 2008, e nemmeno le manovre di Vladimir Putin erano riuscite a provocare: la morte del grande e splendido sogno di Dante, Husserl e Robert Schumann. Questo non sorprenderà chi da un certo tempo si preoccupa - come nella mia opera teatrale "Hôtel Europe"... - nel constatare che il governo di Bruxelles diventa una burocrazia immobile e obesa, popolata da "impiegatucci incoronati", di cui già Paul Morand si prendeva gioco nel suo ritratto dell’imperatore Francesco Giuseppe e di cui un altro scrittore, testimone della stessa disgregazione, diceva che erano i prìncipi della "norma", i re dei "pesi e delle misure" e della "statistica", ma che per loro l’idea di confrontarsi con la grande Storia, o anche con la grande Politica, era divenuta inimmaginabile: una nuova Kakania, insomma... un nuovo regno dell’assurdo guastato, come l’altro, dalla routine e sul punto di morire per mancanza di slancio, di progetti, di stelle fisse che guidassero la sua corsa... un secondo "laboratorio del crepuscolo" (Milan Kundera) dove dirigenti sonnambuli ripeterebbero, in un’estasi morbosa e beata, tutti gli errori dei loro predecessori... E la catastrofe, se andasse avanti fino in fondo per forza d’inerzia, rientrerebbe purtroppo nell’ordine del grande errore che alcuni di noi denunciano da decenni: l’Europa non è un’evidenza iscritta nella natura delle cose né tantomeno nel senso della Storia; nemmeno l’Italia, secondo il re di Sardegna nella sua famosa risposta a Lamartine, si farà da sé, anche se non si fa nulla. E se si dimenticasse questa legge, se si cedesse al provvidenzialismo e al progressismo pigri, questa Europa, la nostra, sarebbe come l’Europa romana, come quella di Carlo Magno poi di Carlo V, come il Sacro impero romano germanico, l’impero degli Asburgo o anche l’Europa di Napoleone: tutte queste Europe che erano già Europe, vere e belle Europe, i cui contemporanei avevano creduto, come a nostra volta noi crediamo, che fossero stabili, solide come roccia, incise nel marmo di regni in apparenza eterni, sono tuttavia crollate. Resta il fatto che anche il peggio non è sicuro. C’è ancora tempo, c’è sempre ancora tempo per provocare un balzo in avanti politico e morale che si serva delle lezioni del passato; che parta dal principio secondo cui l’Europa, senza la volontà testarda, contro natura, quasi folle, dei propri dirigenti, ha sempre avuto tutte le ragioni, assolutamente tutte, di sfasciarsi; e che, così, scongiurerebbe l’inevitabile. Delle due l’una. O non facciamo niente; ci lasciamo sopraffare dal si-salvi-chi-può generalizzato e osceno; e la rabbia nazionale prevarrà, definitivamente, su un sogno europeo ridotto soltanto alle conquiste già ottenute di un grande mercato unico che, se soddisfa il mondo globalizzato degli affari, certo non soddisfa i popoli e la loro aspirazione a più democrazia, pace, diritto. Oppure le 28 nazioni europee si ravvedono; si decidono a seguire la linea tracciata da Angela Merkel sulla questione dell’ospitalità, moralmente infinita e politicamente condizionata, che dobbiamo ai "fratelli in umanità" che bussano alla porta della Casa comune; e a seguire quella tracciata da François Hollande sulla questione della Siria e della duplice barbarie che, svuotando il Paese dei suoi abitanti e gettandoli, a milioni, sulle strade dell’esilio, è la vera origine dell’attuale tragedia. I due dirigenti non omettono di ascoltarsi e di apprendere l’uno dall’altro le loro rispettive parti di verità che, solo se unite, potranno rendere anima e corpo all’asse franco-tedesco senza il quale tutto sarà perduto. Allora, soltanto allora, l’Europa, con le spalle al muro, potrà ripartire con nuovo slancio e, con un po’ di coraggio, avrà una possibilità di sopravvivere e anche, chissà, di rimettersi in moto. Infatti, la scelta è più che mai chiara: Europa o barbarie; Europa o caos, miseria dei popoli, regresso politico e sociale; un passo vero in avanti, nel senso di una integrazione politica che è l’unica risposta possibile alle terribili sfide odierne, oppure la garanzia del declino, dell’uscita dalla Storia e forse, un giorno, della guerra. Tocca all’Onu scegliere all’origine chi è un vero profugo da accogliere di Davide Giacalone Libero, 4 marzo 2016 Bisognerebbe bandire "migranti" dal vocabolario politico e civile, restituendolo alla zoologia. È una delle truffe semantiche che ci sono in circolazione. Cambiar nome alle cose per confondere le idee. Così, a forza di parlare di migranti, c’è chi specula sulle paure collettive e chi sulle disgrazie di chi s’è trovato la guerra in casa. Uno spettacolo non solo disdicevole, ma che porta e fa male. Il corridoio umanitario è una gran bella cosa. Basterebbe conoscere la storia di Ruba, una ragazzina di quindici anni, che l’associazione Auxilia sta cercando di portare in Italia: siriana, si trova nell’orfanotrofio di Reyhanli, in Turchia, il padre assassinato perché oppositore di Assad, chiede di potere studiare medicina, vuol fare il medico, dal giorno in cui una bomba russa ha centrato la sua scuola e lei ha visto morire i suoi compagni, senza che nessuno li soccorresse. L’italiana Auxilia è diretta da un medico, Massimiliano Fanni Canelles, ha campi, scuole e ospedali in Siria, Afghanistan, Sri Lanka. Hanno promesso a Ruba che potrà studiare, che verrà in Italia, che se sarà brava potrà coronare il suo sogno. Sono storie che gonfiano il cuore, di pietà e d’orgoglio. Chi non prova un brivido ha a sua volta bisogno di soccorso. Gli ambasciatori d’Italia, nel mondo, non sono solo i diplomatici per mestiere, sono gli imprenditori dei nostri marchi e del nostro sapere fare; i militari impegnati in diversi quadranti; i volontari dei soccorsi umanitari. Che abbiano un corridoi da utilizzare è un bene. Ma bisogna intendersi. I profughi non sono migranti, sono persone in fuga dalla guerra. Perché funzioni un percorso protetto e facilitato, per evitare miserevoli speculazioni, occorre che sia controllato all’imbocco, non allo sbocco. La richiesta d’asilo avviene, formalmente, allo sbarco sul nostro territorio, ma il riconoscimento di profugo deve avvenire alla partenza. E questo non è un lavoro che ciascun Paese possa e debba fare da e per sé, questa è la ragione per cui esiste l’Onu. Tocca a loro organizzare aree di accoglienza, nel luogo più vicino a quello da cui si fugge, in modo da riconoscere e organizzare. Altrimenti che ci stanno a fare i segretariati che si occupano dei profughi, solo a far predicozzi troppo ben pagati? Ruba è stata raccolta da Auxilia in Siria e Turchia, quindi la portano in Italia. Non il contrario. Una volta arrivati da noi non si crei la categoria dei "richiedenti asilo". Basta girare per le zone attorno ai posti dove vengono ospitati: ragazzi che ciondolano l’intero giorno, a passeggio fra un paesino o un bar e l’altro. Nel migliore dei casi è uno spreco, nel peggiore un insulto a chi lavora per vivere. Se all’asilo hai diritto ti deve essere riconosciuto, altrimenti te ne devi andare. Quel che non deve capitare è la lunga e inutile marinatura dell’attesa, propedeutica alla scomparsa prima del rifiuto. Un Paese che accoglie i profughi si fa onore. Un Paese che accoglie Ruba merita rispetto. Ma ha anche un dovere: non accettare che la sorte di queste persone sia mescolata con quella degli emigranti economici. Questi secondi non sono figli del demonio, sono anch’essi umani da rispettare. Ma non hanno il diritto d’entrare, né noi il dovere di accoglierli. Può andare così, se nel reciproco interesse. Ma può andare all’opposto, nel qual caso il respingimento non è un atto d’inciviltà, ma di responsabilità. Mostrarsi indecisi, replicare lo schema dei "richiedenti asilo", vuol dire alimentare la fabbrica della clandestinità, a sua volta funzionale a quella della criminalità. Con il che l’incapacità di affrontare il problema rilascia in giro soggetti capaci di trasformare un popolo accogliente in una massa repellente. Un capolavoro. I governanti che hanno accolto, a Fiumicino, un folto gruppo di profughi siriani hanno parlato di "migranti". È un grosso e pericoloso errore. I due gruppi non vanno confusi, altrimenti si perde la distinzione fra diritti e doveri. Anche se temo che molti di quelli che occupano la scena, tanti di quelli che parlano degli umani come fossero stormi, quella distinzione non l’abbiano mai conosciuta, convinti che i diritti possano esistere senza doveri. La formula migliore per perdere il diritto. Il socialismo europeo non fa argine alla xenofobia di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 4 marzo 2016 Dominati da un ceto politico che aderisce agli umori del momento, i vecchi partiti socialisti e socialdemocratici sull’immigrazione si ritirano dai valori della loro storia. Occorrerà conservare in una cineteca speciale, in un archivio dell’orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere e dei fili spinati, i fotogrammi di una guerra inimmaginabile fino a poco tempo fa e forse unica nella nostra storia. Quella che varie polizie delle vecchie frontiere d’Europa combattono contro donne, bambini, anziani, giovani, scampati alle guerre innescate dall’Occidente nelle periferie del mondo. Occorrerà conservare questi documenti di ottusa e primitiva malvagità alle generazioni che verranno perché - se i Paesi del Vecchio Continente non saranno definitivamente inghiottiti dalla barbarie - possano osservare, in tempi meno oscuri dei nostri, di che cosa sono stati capaci i loro padri e nonni. Ma forse occorre uscire dall’ immagine indefinita che assegna a popolazioni indistinte il marchio di una così ottusa e ostinata ferocia. La notte in cui tutte le vacche sono nere non ha mai fatto comprendere niente a nessuno. Se guardiamo ad alcuni paesi dell’Europa occidentale, come la Francia, l’indistinto di una umanità genericamente ostile e senza misericordia si scioglie. Il grande paese che ha fondato la modernità della politica, innalzando il vessillo della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità, il paese governato dai socialisti del presidente Hollande, muove oggi a Calais una sua abietta guerra contro una massa di disperati, a cui toglie perfino le misere baracche e le tende in cui era da mesi accampata. Com’è possibile, come si sia arrivati fin qui? Questa domanda non ci pone solo davanti a un generico arretramento di civiltà che oggi colpisce indistintamente l’Europa. Essa ci squaderna un fenomeno politico di prima grandezza che già la vicenda greca dello scorso anno ci aveva illustrato con desolante chiarezza. I vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, quello tedesco come quello britannico, sono stati intimamente ripuliti di ogni contenuto ideale e di valore. Le loro dirigenze hanno gettato via come vecchio tutto l’antico bagaglio di solidarietà che ha segnato la loro storia e sono diventati moderni, come vuole il capitalismo attuale e la sua razionalità neoliberista. È una perdita gigantesca alla quale addebitare non poco dell’ arretramento del processo di unificazione dell’Europa. Ma non ci si può fermare alla recriminazione e allo sdegno. Occorre capire con freddezza e lucidità che cosa è accaduto e accade, tentare delle contromisure. Che cosa vuol dire per i partiti politici diventare moderni, come vuole il linguaggio pubblicitario corrente ? Moderni vuol dire essere competitivi nel mercato politico, attenti al mutare degli umori della "gente", vale a dire i cittadini ormai interamente assimilati agli elettori quali meri consumatori di messaggi. Moderni significa cercare di vincere, contro gli avversari competitori, il campionato pluriennale delle elezioni politiche e amministrative. Per questa via una democrazia interpretata come passiva adesione agli umori del momento, diventa una sua perversione perniciosa. È una novità storica rilevantissima. Un tempo i socialisti francesi - come gli altri partiti popolari- avrebbero combattuto a muso duro contro le posizioni xenofobe dei loro avversari, non solo senza cedimenti di fatto alle loro pretese, ma mettendo in atto quella pedagogia di massa che i grandi partiti popolari e di sinistra hanno esercitato per oltre un secolo. I partiti non ancora trasformati in ristretti club dominati dal ceto politico, avrebbero combattuto contro le destre xenofobe rassicurando le popolazioni, disinnescando i meccanismi della paura, mostrando perfino l’utilità economica di un ingresso rilevante di popolazione giovane nei loro vasti territori. La Francia è uno dei paesi a più bassa densità demografica d’Europa. Ma i partiti non sono più portatori e divulgatori di conoscenze dei reali fenomeni sociali e quindi non sono più guide, ispiratori di orientamento, elaboratori di orizzonti più avanzati di civiltà. Essi corrono dietro agli imprenditori della paura, cercano di non farsi battere nella competizione messa in atto dai partiti della destra, cedendo alla loro visione generale non solo perché non hanno più alcuna visione, ma perché è mutato il fine del loro stesso agire. Questo fine - ciò è ormai chiaro sino all’ovvietà - è la loro affermazione, il loro successo e la loro sopravvivenza e riproduzione di ceto. Come può dunque, una sinistra che non vuole arrendersi a questa disfatta storica, porre in atto forme di resistenza, allestire contromisure? Immenso problema, come sappiamo. Ma qualche strada da percorrere è già stata esplorata e occorrerebbe percorrerla con più determinazione. Oggi appare velleitario e ingenuo richiamare i vecchi partiti ai grandi valori del loro passato. La morale non si insuffla con le esortazioni e con le prediche. Ma dove vien meno la sostanza morale, il diritto è capace, se non di surrogarla, di porre qualche argine. E quel che il diritto può fare è impedire (o limitare fortemente) che la militanza politica diventi una carriera. Non potremo mai, almeno in un prevedibile futuro, imporre a chi opera sulla scena politica di rappresentare e promuovere esclusivamente l’interesse generale, se non faremo in modo che egli sia, per legge, impossibilitato a costruire sulla politica le proprie personali fortune. Occorre limitare drasticamente la durata delle cariche pubbliche, separare queste ultime da quelle di partito, sottoporre a trasparente monitoraggio il bilancio dei rappresentanti e quello della formazione politica a cui appartengono. E cosi via. Non c’è altro modo, per sottrarre il ceto politico alla tentazione di cedere alla vie più facili per ottenere consenso e quindi di inseguire i populismi. E costituisce una strada importante per sottrarlo alle sirene del potere economico e finanziario. Occorre spezzare alla radice questo legame, che condanna la politica all’impotenza. Chi fa politica deve rispondere alle domande dei cittadini e ridiventare cittadino dopo pochi anni di impegno pubblico. In Italia la sinistra ha compiuto su tale terreno uno sforzo di elaborazione importante negli ultimi mesi, grazie all’iniziativa di Luigi Ferrajoli e della Fondazione Basso. Occorrerebbe che queste elaborazioni trovassero una più ampia circolazione e visibilità, perché diventino un patrimonio comune, un marchio di innovazione reale del nostro schieramento. Egitto: caso Regeni, il Copasir convoca l’Aise "dubbi anche sull’intelligence italiana" di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 marzo 2016 Le tante, troppe versioni contrastanti che vengono dall’Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni gettano un’ombra anche sull’operato dei servizi segreti italiani. Perciò il Copasir ha deciso all’unanimità di convocare per il 14 marzo il capo dell’Aise, Alberto Manenti, su richiesta del deputato di Sel, Ciccio Ferrara, membro dell’organismo parlamentare di controllo sull’intelligence. "Quello che ci è stato raccontato finora, non ci convince più", riferisce Ferrara al manifesto. L’ultima volta che i responsabili dei servizi esterni sono stati auditi dal Copasir risale ad una decina di giorni fa. "Al di là del giudizio politico, il balletto di versioni provenienti dal Cairo in questi ultimi giorni solleva troppi dubbi - argomenta Ferrara - la nostra intelligence ha lavorato in contatto con quella egiziana fin dal momento della scomparsa di Giulio Regeni, e poi anche dopo il 3 febbraio, quando è stato rinvenuto il cadavere. Ci è stato sempre riferito che, malgrado il massimo degli sforzi, nulla di certo era emerso dalle indagini. Ora però le autorità egiziane diffondono dettagli, e non sempre sono solo ricostruzioni giornalistiche. A questo punto è necessario che i responsabili dei nostri servizi riferiscano quali elementi certi sono stati appurati". La scarsa collaborazione dell’intelligence e delle altre autorità egiziane continua però ad essere additata come un ostacolo insormontabile. Tanto che Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) che ha il compito di vigilare sull’attività dell’Aise e dell’Aisi, ha dichiarato ieri al Tg1: "Quello che sta accadendo non denota una collaborazione piena, o perlomeno soddisfacente; stiamo facendo il possibile perché questa collaborazione sia completa, sollecita e ci consenta di arrivare alla verità su questo drammatico caso". Infatti, i documenti arrivati agli inquirenti italiani tramite il canale diplomatico, senza alcuno scambio tra le procure, che attualmente sono in fase di traduzione, sembrerebbero assolutamente insufficienti ad aggiungere novità al quadro investigativo: si tratta dei tabulati delle telefonate fatte da Giulio Regeni nei tre giorni precedenti la sua scomparsa: il 23, 24 e 25 gennaio, e poco altro. Intanto, il Parlamento europeo si prepara a votare, giovedì prossimo, una risoluzione di urgenza sull’omicidio Regeni e sulle centinaia di casi simili di sparizioni e torture in Egitto, al termine di un dibattito che si terrà in seduta plenaria. L’accordo tra i partiti è stato raggiunto in sede di capigruppo, su richiesta dell’eurodeputato Pd Antonio Panzeri, speaker di riferimento in commissione Diritti umani per il gruppo Socialisti e Democratici. Ciascun gruppo porterà martedì prossimo a Strasburgo una propria proposta di risoluzione per poi elaborare il testo unico da mettere ai voti. Panzeri, membro della commissione Esteri, aveva già scritto, una settimana dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni, un’interrogazione a Mrs. Pesc, Federica Mogherini, per sollecitare l’Ue ad affiancare l’Italia nella richiesta di collaborazione massima alle autorità egiziane per il raggiungimento della verità. Ancora nessuna risposta. Albania: il Consiglio Europa "carceri peggiorate, assicurare cure e medicinali ai detenuti" Ansa, 4 marzo 2016 Maltrattamenti, che in alcuni casi possono essere qualificati come tortura, inferti dai poliziotti alle persone arrestate, anche minori, e un insufficiente accesso dei detenuti alle cure mediche, che nel caso dei condannati dichiarati non penalmente responsabili potrebbe essere qualificato come "abbandono terapeutico". Queste sono due delle critiche che il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa rivolge all’Albania nel rapporto basato sulla visita condotta nel febbraio del 2014. Per quanto attiene ai maltrattamenti subiti dalle persone arrestate, in genere durante gli interrogatori, il Cpt denuncia che "la situazione è peggiorata rispetto alla visita condotta nel 2010". L’organismo afferma che le autorità devono adottare una politica di "tolleranza zero" verso questi comportamenti e introdurre una serie di misure, tra cui l’accesso immediato a un avvocato che servono a salvaguardare la sicurezza delle persone arrestate. Sul fronte della salute dei detenuti il Cpt osserva che "c’è una grave insufficienza di medicinali in tutte le carceri visitate" e che "la maggior parte dei condannati dichiarati non penalmente responsabili continuano a essere tenuti in prigione, in violazione della legge albanese, e che per due terzi di loro le condizioni di detenzione possono essere considerate come abbandono terapeutico". Svizzera: per i criminali pericolosi unificare condizioni di esecuzione delle pene Giornale del Popolo, 4 marzo 2016 I criminali pericolosi dovrebbero scontare la loro pena nelle stesse condizioni su tutto il territorio nazionale. Il Consiglio Nazionale, con 156 voti contro 3, ha approvato una mozione che impone di definire criteri e standard minimi in collaborazione con i cantoni e i concordati inter-cantonali per l’esecuzione delle pene. Esistono notevoli disparità fra cantoni per quanto riguarda la gestione del rischio dei detenuti pericolosi., ha ricordato Rebecca Ruiz (Ps/Vd). Inoltre, un rapporto pubblicato nel 2014 ha messo in luce lacune nella formazione del personale che si occupa di questi detenuti. È necessario quindi adottare standard minimi visto le drammatiche conseguenze umane che possono avere malfunzionamenti del sistema, ha aggiunto facendo allusione ai casi di Marie e Adeline, uccise da due detenuti, uno agli arresti domiciliari e l’altro in "uscita accompagnata". La Consigliera federale Simonetta Sommaruga aveva invitato a respingere la mozione per rispetto del federalismo. "La competenza dell’esecuzione delle pene incombe ai cantoni che hanno preso molto sul serio il problema della valutazione dei criminali pericolosi", ha detto la responsabile del Dipartimento di giustizia e polizia. La Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali di giustizia e polizia (Cddgp) ha già incaricato un gruppo di esperti guidati dall’ex direttore del Centro svizzero per la formazione del personale penitenziario di porre le basi per l’istituzione di un centro di competenza, che avrà un ruolo centrale nella pianificazione strategica nell’ambito dell’esecuzione delle pene e delle misure.