L’omicidio stradale diventa legge di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2016 A sei anni esatti dalla prima proposta presentata in Parlamento, l’omicidio stradale diventa legge e sarà punito con la reclusione da due a 18 anni. Porta con sé pene inasprite anche per chi in un sinistro causa lesioni, arresto in flagranza nei casi più gravi e prelievi coatti per stabilire se il guidatore abbia bevuto alcol o sia sotto l’effetto di droga. È il risultato di modifiche e contro-modifiche introdotte in cinque passaggi parlamentari e due voti di fiducia, l’ultimo dei quali a sorpresa ieri pomeriggio al Senato (149 sì, tre no e 15 astenuti), dopo che in mattinata era mancato il numero legale per le turbolenze politiche di questi giorni. Ciò non toglie che siano continuate anche le polemiche sul contenuto della legge. Che sia perfettibile lo ha ammesso lo stesso relatore al Senato, Giuseppe Luigi Cucca (Pd), impegnato per oltre un anno alla ricerca di soluzioni che conciliassero le ragioni della politica con le tecnicalità del diritto e comunque soddisfatto perché la legge è un "cambio di passo". Cucca indica anche la sede per i perfezionamenti: la riforma del Codice della strada, per la quale c’è una legge delega in discussione da un paio d’anni. "Non è stato facile, ma ce l’abbiamo fatta. Abbiamo mantenuto un impegno preso", ha commentato il viceministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini, l’uomo di governo che più ha seguito il dossier, voluto nel suo programma direttamente dal premier Renzi. Tanti altri commenti dall’area della maggioranza esprimono soddisfazione perché ritengono raggiunti gli obiettivi di certezza e adeguatezza della pena, con uno stop alla sostanziale impunità che ha caratterizzato tanti casi. Le opposizioni, invece, si focalizzano soprattutto sul fatto che sia stata posta ancora una volta la questione di fiducia (peraltro su un testo diverso da quello che aveva ottenuto la prima fiducia) e, soprattutto, sul ruolo del gruppo Ala (i verdiniani) nel puntellare il Governo. Quasi del tutto sopite le polemiche di merito. Tra le poche eccezioni, la vicepresidente del gruppo Misto, Maria Mussini, che parla di "demagogia a buon mercato" perché la norma è "incapace di distinguere i gradi di responsabilità", avallando l’equiparazione tra i casi di alcol e droga e chi invece "è solo vittima di una tragica distrazione". Di conquista civile parla l’Ania, favorevole all’istituzione del nuovo reato fin dal 2010. Soddisfazione e commozione anche tra le associazioni vittime della strada. Con l’istituzione del nuovo reato, causare la morte di un’altra persona in seguito a incidente stradale resta un illecito penale di natura colposa. Però in tutta una serie di situazioni che il legislatore ha scelto di ritenere più gravi (soprattutto perché suscitano maggior allarme sociale) le pene sono superiori a quelle previste finora per l’omicidio colposo, sia pure con l’aggravante della violazione delle norme stradali (aggravante che la nuova legge sopprime per fare posto a una nuova graduazione). L’impianto delle pene (per i dettagli, si veda la scheda qui a destra) è quello uscito dalle modifiche dei mesi scorsi, che hanno un po’ addolcito la versione originaria sotto il profilo della lunghezza del periodo di reclusione, ampliando però il numero di casi che i magistrati dovranno considerare aggravanti. E proprio questi casi faranno scattare le pene superiori a quelle attuali. Questo è il punto più qualificante della nuova legge: finora il minimo di pena è stato di due anni, cioè sufficiente a garantire la condizionale, con la conseguenza che si evitava di andare in carcere (anche perché nella maggior parte dei casi non si veniva arrestati nemmeno dopo l’incidente o comunque si veniva subito rilasciati, in attesa del processo). L’ampliamento dei casi è piuttosto rilevante. Le proposte originarie consideravano esclusivamente le ipotesi più gravi di ebbrezza (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro) e la guida sotto effetto di droga. Lo scorso autunno sono state aggiunte le velocità molto superiori a quelle consentite, il contromano, le inversioni di marcia in punti pericolosi (curve, dossi o incroci) e il sorpasso sulle strisce pedonali o con striscia continua. Le novità si applicheranno agli incidenti avvenuti dal giorno successivo alla pubblicazione della legge sulla Gazzetta ufficiale. Quindi, si presume, nel giro di una decina di giorni. Arresto in flagranza solo per alcol e droga Molte delle modifiche che hanno costellato l’iter parlamentare della legge sull’omicidio stradale riguarda l’arresto in flagranza per chi causa un incidente mortale. È finita che verrà subito portato in carcere solo chi causa un incidente mortale mentre guida dopo aver assunto alcol o sotto l’effetto di droghe; in tutti gli altri casi in cui di omicidio o lesioni stradali, l’arresto in flagranza sarà solo facoltativo e sarà sempre escluso quando ci sono solo feriti (anche se gravissimi) e il conducente responsabile si ferma per prestare soccorso. Si trattava di dare una risposta alla giustificata richiesta di familiari e amici delle vittime, spesso offesi dal fatto che anche autentici pirati della strada restano liberi o vengono subito scarcerati dopo aver causato incidenti terribili. Tuttavia, non sempre è facile distinguere tra casi del genere e le situazioni in cui il guidatore ha responsabilità molto minori. Innanzitutto perché fare differenze tra omicidio e lesioni è giusto in linea di massima, ma va tenuto conto che l’esito di un incidente non dipende solo dal comportamento di chi lo provoca. Per esempio, se la vittima non indossava le cinture o il casco, la giurisprudenza riconosce un concorso di colpa da parte sua. Oppure, se la vittima urta contro un oggetto pericoloso (un palo o un guard-rail non idoneo) che avrebbe dovuto essere messo in sicurezza dal gestore della strada (e anche qui non mancano precedenti giurisprudenziali). Inoltre, ai fini del giudizio diventa importante stabilire se il conducente fosse consapevole delle conseguenze dell’incidente. Molti processi in materia si giocano proprio su questo e sono resi delicati per la difficoltà di accertare come si sono svolti i fatti e valutare se l’imputato fosse o meno in stato di choc lui stesso, cosa che potrebbe aver amplificato l’effetto dell’alcol o della droga e aver causati comportamenti censurabili. Infine, c’è il problema proprio dell’accertamento dello stato alterato da alcol o droga. Dal punto di vista scientifico ci sono già vari dubbi sull’attendibilità dei test e difficoltà di eseguirli sempre a distanza di tempo ragionevole dall’accaduto. Biserni (Asaps): "bisognava fermare il delitto perfetto ma questa norma ha ancora mille difetti" di Raphael Zanotti La Stampa, 3 marzo 2016 Giordano Biserni è pragmatico come ogni romagnolo: "Ragazzi, se alla fine ci sarà da cambiare qualche muro o aprire una finestra in cucina, lo faremo. Ma prima mettiamo le fondamenta e costruiamo l’edificio". Però che la legge appena approvata non sia proprio quella sperata per tanti anni dall’Asaps, l’Associazione degli amici e sostenitori della polizia stradale che presiede, non è un mistero. "Per ora va bene così - dice Biserni - ma noi esperti del settore vediamo delle incongruenze che potrebbero scardinare il principio. Che era quello di mettere mano alla legislazione, perché finora, sulle strade, si era consumato il delitto perfetto: un bollettino di guerra ogni anno e condanne con una media di 2 anni e 8 mesi". Mettere mano, certo. Ma su cosa? Biserni, di esempi, ne potrebbe tirare fuori a decine. La nuova legge prevede condanne da 2 a 5 anni per chi passa con il rosso. Ma una distrazione può capitare. Se invece si salta uno stop sulla provinciale sfrecciando a 90 l’ora, questo rigore non c’è. Oppure: revoca per cinque anni della patente nel caso di lesioni che superano i 40 giorni di prognosi. Ma se sto uscendo dal box a velocità bassissima e tocco una signora anziana che cade e si rompe il femore? Contraddittorietà nate dalla fretta, dall’aspetto mediatico. E forse anche di una certa conflittualità che Biserni non capisce: "Di solito in parlamento il centrodestra è più per l’inasprimento delle pene e il centrosinistra più cauto, nel caso di questa legge è successo il contrario". Eppure, anche così, la legge copre un certo numero di casi. Almeno 220 morti, secondo i calcoli dell’Asaps, avrebbero oggi ricevuto una giustizia diversa considerando che sui 3.905 casi di pirati della strada identificati, il 24% era ubriaco o sotto l’effetto di stupefacenti. C’è un altro aspetto che preoccupa Biserni e l’Asaps: la responsabilità. Con pene così inasprite e una norma che prevede un’identificazione netta del responsabile, un esercito di avvocati, consulenti e assicurazioni è pronto a lavorare di cavillo per non far scattare le sanzioni draconiane. Un esempio emblematico è quello di Gionatan Lasorsa, il bimbo di nemmeno tre anni travolto e ucciso da un pirata della strada la sera del 22 giugno 2014 a Ravenna. L’automobilista è stato individuato. Dichiarato ubriaco solo grazie alle testimonianze di chi lo aveva visto al bar, ha patteggiato 2 anni e 9 mesi. Il risarcimento è stato quantificato in 4 milioni di euro. Problema: l’assicurazione bulgara non ha un euro. La famiglia chiede dunque i soldi all’Uci, l’ufficio nazionale di assicurazione. Ma quest’ultimo risponde picche: non è dimostrata la non responsabilità del piccolo Gionatan. E ci sarebbe una fantomatica auto parcheggiava che copriva la visuale: concorso di colpa e niente soldi. Ora la famiglia ha recuperato, da sola, il filmato dell’ufficio postale vicino al luogo dell’incidente. Proverà a dimostrare che l’auto in questione era dall’altra parte della strada, come si vede nel video. Rapporto dell’Antimafia: "un europeo su quattro fa uso di stupefacenti, valutare la depenalizzazione" di Grazia Longo La Stampa, 3 marzo 2016 La lotta al narcotraffico è "un’emergenza planetaria" - un europeo su quattro fa uso di droghe - da combattere a livello internazionale. Tanto più che la droga è il motore delle mafie. L’allarme è del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, che ieri, durante la presentazione della relazione annuale della Dna al Senato, ha rivelato dati sconvolgenti: "Oggi sono 250 milioni i consumatori, un europeo su 4 ha rapporti con il mondo della droga". Per un giro d’affari gigantesco, che solo nel nostro Paese, arriva a rasentare il guadagno delle aziende manifatturiere. "Nel mondo lo spaccio di droga muove 560 miliardi di dollari, 35-40 miliardi di euro solo in Italia". Un’enormità se si pensa che "il settore manifatturiero italiano frutta poco di più 45 miliardi di euro". Il vantaggio per chi manovra il mondo delle sostanze stupefacenti è, come sottolinea lo stesso Roberti, particolarmente conveniente perché "i soldi della droga sono esentasse e poi vanno a riversarsi nel mercato legale". Con tutte le varie operazioni riciclaggio in attività commerciali di vario genere. Per contrastare il fenomeno "servono operazioni sotto copertura e i gestori di telefonia devono aprire sedi legali in Italia: tutto questo aiuterebbe l’azione di contrasto". E ancora: la droga in circolazione è in aumento, ma crescono anche i sequestri di droga. "Sono in aumento i sequestri di cannabis, mentre sono in flessione quelli della cocaina. Questo vuol dire che è aumentata la circolazione di cannabis in Italia, visto che i sequestri intercettano circa il 10% della droga circolante". Per quanto concerne le strategie per arginare il problema, secondo Roberti "bisogna fare scelte di priorità, anche nel mondo giudiziario. Il problema è di target investigativo: indagare sui finanziatori del traffico di droga non è come indagare sui corrieri. Spesso chi finanzia, la droga non la vede neppure". L’obiettivo? "Dobbiamo resettarci: se si vuole fronteggiare un problema bisogna andare alla fonte. È più importante sequestrare i soldi che lo stupefacente". Come dimostra l’ultima operazione congiunta dei carabinieri, a Napoli, contro i "signori della droga del clan Contini" che ha portato all’arresto di 33 persone e al sequestro di beni per 20 milioni di euro. Il procuratore nazionale antimafia è inoltre convinto dell’importanza di "intensificare le risorse investigative sui grandi trafficanti, non sui ladri di merendine come chiamiamo i piccoli spacciatori". Tra le righe, insomma, sembra di leggere un richiamo antiproibizionista. Ma Roberti precisa che "nessuno ha mai parlato di depenalizzazione". Eppure già un anno fa, sempre in seguito alla presentazione della relazione in Parlamento, era scoppiata una polemica sull’esigenza di depenalizzare le droghe leggere. "Davanti al quadro che evidenzia l’oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo - aveva evidenziato il pool guidato da Roberti - spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro, almeno europeo, sia opportuna una depenalizzazione della materia". Ieri, almeno ufficialmente, la retromarcia. Ma Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, incalza: "Alla luce del quadro tracciato dal procuratore Roberti, due sono gli interventi non più rinviabili, sia a livello nazionale che europeo: la legalizzazione della cannabis, lo stupefacente con la più ampia diffusione e i minori rischi, e la depenalizzazione dell’uso e del possesso per consumo personale di tutte le altre droghe. Tra l’altro proprio su questi due fronti stiamo per lanciare una petizione al Parlamento europeo". L’Associazione di volontariato "A Roma Insieme" sfrattata dal Comune di Roma Ansa, 3 marzo 2016 "A Roma Insieme" si occupa da 25 anni dei figli delle detenute. A Roma Insieme, la Onlus che da 25 anni si occupa dei figli delle detenute che si trovano con le madri nel carcere di Rebibbia, resta senza sede per effetto di una comunicazione ricevuta in questi giorni dal Dipartimento Patrimonio di Roma Capitale. A renderlo noto è la stessa associazione. "In mancanza del perfezionamento del diritto concessorio vengono meno i presupposti che giustificano il versamento ridotto dell’indennità d’uso con conseguente obbligo di riacquisizione del bene. Pertanto codesta associazione in regola con i versamenti, è invitata a rilasciare "bonariamente" il bene entro 10 giorni e al pagamento della rimanenza dovuta dalla data di scadenza a oggi pari a 27 mila e 500 euro, oltre agli interessi legali", fa sapere il Dipartimento. La presidente dell’Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini Onlus", Gioia Passarelli, annuncia la presentazione agli uffici competenti di una memoria difensiva da parte degli avvocati. "La diffida che ci intima di lasciare i locali e di pagare 27 mila euro di "arretrati" - denuncia Gioia Passarelli - è datata 4 febbraio e l’abbiamo ricevuta il 22 febbraio 2016, fino a quel giorno e per tre anni, dal 13 settembre 2013, non c’è stata alcuna risposta. Non solo - prosegue la presidente - nelle more della conferma della concessione, abbiamo continuato a ricevere ogni mese un bollettino di conto corrente precompilato con l’importo mensile da pagare alla società Romeo, che per il Comune gestiva la riscossione degli affitti, importo che è stato puntualmente da noi pagato e da loro riscosso ogni mese. Oggi di punto in bianco i dirigenti comunali comunicano la decisione di non "poter procedere al rinnovo della concessione in base alla deliberazione n. 140 del 2015" con la conseguenza di mettere l’Associazione in mezzo alla strada". Il fatto grave sottolinea la memoria difensiva - è che non si faccia distinzione tra attività di natura commerciale e l’attività dell’associazione svolta senza scopo di lucro e a sostegno dei bambini e della madri detenute e dei soggetti più deboli. La nostra - aggiunge Passarelli - è un’organizzazione di puro volontariato che non ha mezzi per produrre reddito, se non la raccolta fondi per finanziare i nostri progetti. Ma non restano risorse sufficienti a pagare un affitto di mercato, dal momento che siamo già stati privati di qualsiasi forma di contributo pubblico. Questo - conclude Passarelli - se non si riuscirà a trovare un accordo, potrebbe voler dire essere costretti a cessare un’attività sociale riconosciuta come essenziale". Giustizia minorile: riformare sì, ma senza stravolgere un’eredità buona di Renato Balduzzi Avvenire, 3 marzo 2016 Riformare è sempre impresa delicata. Anche quando si arriva a un generalizzato consenso sulla necessità di cambiamenti, anche rilevanti, in una struttura organizzativa, si devono comunque individuare con chiarezza le cause di determinate disfunzioni, così da evitare di modificare regole e assetti che non sono causa di queste, finendo altrimenti per impoverire le strutture ben funzionanti e per lasciare invariate quelle produttrici di inefficienza. È il caso delle iniziative di riforma della giustizia minorile. Quasi nessuno ha dubbi sull’opportunità, nel più generale quadro di razionalizzazione degli uffici giudiziari, di accorpare le competenze e di ampliare la specializzazione dei magistrati, così da realizzare una struttura unica per le controversie in materia di persona, famiglia e minori. Ma è altamente improbabile che l’efficienza e l’efficacia della giustizia minorile (attuativa dell’art. 31 della Costituzione) traggano giovamento dalla soppressione della Procura specializzata per i minori e dal trasferimento delle sue competenze a gruppi specializzati di magistrati presso le Procure ordinarie. Infatti, o questi "gruppi" saranno organizzati in forme analoghe alle attuali Procure minorili (nomina da parte del Csm, esclusività di competenze e autonomia rispetto alle procure della Repubblica) e allora il tutto sarebbe soltanto un cambio di denominazione, del quale peraltro non si avverte l’esigenza. Oppure il cambiamento significherà che i magistrati assegnati a tali "pool" si occuperanno "anche" di giustizia minorile, ma ciò non potrà non comportare una riduzione della loro specializzazione e della loro capacità di azione, che tocca non soltanto l’ambito penale, ma anche quello civile: è noto che la Procura minorile promuove in via pressoché esclusiva l’intervento del giudice a protezione del bambino e dell’adolescente in condizione di grave pregiudizio (maltrattamenti e abusi, tratta di minori, ecc.). Altri profili oggi in discussione richiederebbero qualche sottolineatura, a cominciare dalla necessità di valorizzare, e non di mortificare, il sapere dei giudici onorari-esperti. Ma più di tutto servirebbe riandare a una risalente riflessione di Alfredo Carlo Moro, magistrato e studioso che di questi temi se ne intendeva: quella che va superata è l’atonia (cioè l’incertezza, la mancanza di impegno) del diritto nei confronti dei minori e dei loro bisogni. L’interesse preminente del minore passa anche da qui. L’incarico illecito non affossa l’intera parcella di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2016 Cassazione - Sezione sesta penale - Sentenza 2 marzo 2016 n. 8616. Nel caso in cui un ente pubblico affidi all’esterno i servizi legali in violazione delle procedure di legge, il giudice penale non può disporre la confisca per equivalente dell’intera parcella, ma deve scorporare il valore della quota di prestazione già correttamente eseguita dall’avvocato. Ciò in quanto non si è in presenza di un reato-contratto ma si versa piuttosto in un ambito di reato-in-contratto, in cui l’illiceità colpisce solo una parte del rapporto. Con una lunga e complessa motivazione la Sesta penale della Suprema Corte - sentenza 8616/16, depositata ieri - ha annullato il provvedimento adottato dal Gip di Milano nell’ambito dell’inchiesta su Infrastrutture Lombarde Spa, atto con il quale aveva direttamente confiscato per equivalente in sentenza (di patteggiamento) oltre 250 mila euro a carico del solo direttore amministrativo della società. Secondo il difensore dell’imputato il Gip - oltre a colpire il patrimonio del contraente "che non trasse alcun profitto dall’agire illecito" - aveva sbagliato nella determinazione dell’entità del profitto del reato, non avendolo anzi calcolato per nulla facendolo coincidere con l’intero importo della parcella incamerata dal legale. La Sesta, nell’accogliere le doglianze della difesa, ripercorre il travagliato cammino giurisprudenziale e dottrinale dei concetti di "prezzo", "profitto "e "prodotto" del reato - le cui definizioni mancano, come noto, nel diritto positivo - ma soprattutto va a inquadrare l’affidamento dei servizi esterni in violazione delle procedure di evidenza pubblica nella categoria (a sua volta giurisprudenziale) del reato-in-contratto. Per determinare la parte confiscabile, scrive la Sesta, il giudice del rinvio dovrà calcolare il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte - nella prospettiva dei soli "costi vivi" - e detrarla preventivamente. In sostanza, dall’alveo della confisca dovranno restar fuori i vantaggi economici derivanti dall’esecuzione di un’attività di per sé lecita (nello specifico: quella stragiudiziale svolta dal legale che incassò la parcella). La Corte però non ha accolto il sollecito a procedere con la confisca (che deve comunque essere in prima battuta "diretta" e solo successivamente per equivalente) solo nei confronti dell’avvocato percettore, in quanto "la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti, anche per l’intera entità del profitto accertato". Bocciato l’esproprio che favorisce un privato di Francesco Clemente Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2016 Tar Venezia - Sezione seconda - Sentenza 00170/2016. Poiché la cosiddetta "acquisizione sanante" deve essere usata dalla Pa solo per "attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico" e per rimediare a un atto d’esproprio già emesso, ma in modo non "valido ed efficace", la stessa non può essere usata per creare una servitù di pubblico passaggio su un’area privata se su quest’ultima la Pa non ha mai adottato procedure ablatorie e per di più se soddisfa solo l’interesse privato. Il Tar di Venezia - sentenza 170/2016, seconda sezione, del 16 febbraio scorso - ha annullato così l’"utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico" (articolo 42-bis, Dpr 327/2001, Testo unico espropri) disposta da un Comune per creare un passaggio pubblico su una strada chiusa di proprietà privata e su cui un albergo adiacente aveva aperto un accesso secondario. A contestarla alcuni proprietari residenti secondo cui l’atto era ad esclusivo interesse privato, posto che l’"inidoneità" della strada all’uso pubblico era stata provata da una sentenza esecutiva del giudice civile. Accogliendo il ricorso, il Tar ha spiegato che questo tipo di acquisizione "per giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di carattere necessariamente "rimediale", che presuppone la necessità di ovviare ad una situazione di fatto che contrasta con quella di diritto a causa del pregresso difettoso esercizio del potere ablatorio". Ciò, una volta rispettati gli altri "stringenti" requisiti di legge: che vi siano "attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico", e che queste siano "valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati" in assenza di ragionevoli alternative. Sentenza penale di condanna, pubblicazione online più afflittiva della carta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 2 marzo 2016 n. 8394. La pubblicazione su carta della sentenza di condanna è da considerarsi meno "afflittiva" di quella online in quanto, seppure a pagamento, è meno tempestiva e comunque rivolta ad una platea ridotta rispetto a quella potenzialmente illimitata del web. Per questa ragione il condannato sotto il vecchio regime normativo, che prevedeva la sola pubblicazione su carta, non può chiederne in alternativa la pubblicazione su internet. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 2 marzo 2016 n. 8394, respingendo il ricorso di un extracomunitario condannato ad un anno e due mesi per i reati di ricettazione, auto-riciclaggio, lesioni personali e resistenza al pubblico ufficiale. L’imputato aveva chiesto di riformare la statuizione relativa alla pubblicazione su carta stampata con quella sul sito Internet del Ministero della Giustizia, come previsto dal Dl 98/2011. La Suprema corte ricorda però che i fatti in relazione ai quali è stata disposta la "pena accessoria" risalgono al 2007 e, all’epoca, era prevista unicamente la pubblicazione sulla carta stampata della condanna. Solo dopo è intervenuta la novella di cui l’imputato chiedeva di avvalersi, secondo cui la pubblicazione telematica si aggiungeva a quella cartacea (ridimensionando la portata di quest’ultima da eseguirsi unicamente mediante indicazione degli estremi della sentenza e dell’indirizzo internet del sito del Ministero della Giustizia). Tuttavia, prosegue la Corte, il processo di riforma non è finito qui, dal momento che la legge 111/2011 ha rimodulato il contenuto della pena accessoria, "sostituendo alla tradizionale modalità di esecuzione della pubblicazione, sul supporto cartaceo della stampa periodica, quella telematica abolendo il potere del giudice di selezionare lo strumento della pubblicazione". Ora, come noto, "il principio di legalità della pena e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali, della legge più favorevole, operano anche con riguardo alle pene accessorie". Sul punto peraltro la Cassazione chiarisce che l’ultima riforma "non ha dato luogo ad una nuova sanzione accessoria, ma ne ha diversamente modulato il contenuto, sostituendo alla tradizionale forma di pubblicazione sulla stampa quella via internet, fatto che integra un fenomeno di successione di leggi nel tempo regolato dall’art. 2, comma quarto, c.p., con la conseguenza che non è applicabile ai fatti pregressi la nuova disciplina, in quanto maggiormente afflittiva". In definitiva conclude la Corte la pubblicazione telematica della sentenza di condanna "rafforza il carattere afflittivo della pena accessoria, poiché alla diminuzione o eliminazione della spesa per la pubblicazione corrispondono la capillare diffusione delle informazioni offerta dal sistema telematico in ragione del libero accesso ai documenti pubblicati ed alla loro indicizzazione da parte dei motori di ricerca e la tempestività della pubblicazione che le diverse forme certamente non assicurano". I diritti dei bambini innanzitutto di Luigi Manconi Il Manifesto, 3 marzo 2016 Adozioni. Demandare a un’interpretazione, come tale soggettiva e mutevole, la sorte di un bambino e dei suoi affetti è un’abdicazione del diritto alla sua funzione di tutela dei soggetti più deboli. Non deve stupire che la questione della gestazione per altri susciti - al di là delle strumentalizzazioni più indecenti e delle banalizzazioni più sordide - una così intensa discussione pubblica. Il tema solleva, e non potrebbe essere altrimenti, dilemmi etici che rimandano alla sensibilità più profonda di ognuno. Dunque non sorprende tanta passione nel discuterne: semmai scandalizza un po’ tanta superficialità e assenza di delicatezza e di capacità e volontà di comprendere. Partiamo, ancora, da quello stralcio sull’articolo 5 sulle adozioni che ha reso monca una normativa, pur importante e positiva, quale quella che ha finalmente portato al riconoscimento delle unioni civili. Ciò che abbiamo contestato è che in una legge a vocazione anti-discriminatoria si introducesse un dispositivo di sperequazione. Non solo e non tanto tra persone eterosessuali e persone omosessuali, bensì tra bambini destinati a essere adottati da coppie eterosessuali e bambini destinati a essere adottati da coppie omosessuali. Il loro superiore interesse, che - come afferma la giurisprudenza - non è legato alla forma del gruppo familiare in cui è inserito, ma alla qualità delle relazioni che vi si instaurano dipenderà, in questo modo, dall’orientamento giurisprudenziale che il giudice di volta in volta seguirà. Demandare a un’interpretazione, come tale soggettiva e mutevole, la sorte di un bambino e dei suoi affetti è un’abdicazione del diritto alla sua funzione di tutela dei soggetti più deboli. Che impone, in questi casi, di scegliere l’adottante non in ragione del suo orientamento sessuale, ma dell’idoneità a svolgere la funzione genitoriale; e in funzione della qualità del legame stabilito con il bambino. Per questo trovo paradossale la proposta, avanzata in questi giorni, di vietare l’adozione del figlio nato da gestazione per altri. Se il fine è evitare lo sfruttamento della donna gestante, altre sono le strade da seguire: non certo privare il bambino del suo genitore (sia pur "sociale"), trasformando così un diritto fondamentale nel suo opposto: un divieto e facendo ricadere sui figli "le colpe dei padri". La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia proprio per aver sottratto il bambino alla coppia che lo aveva "concepito" con gestazione per altri, negando che il concetto di ordine pubblico (incompatibile, secondo alcuni, con la maternità surrogata) possa essere interpretato in contrasto con il diritto del bambino a vivere con chi lo abbia voluto come figlio. Ma escludiamo per un attimo ciò che, evidentemente fa più problema (il mercimonio del corpo femminile) e consideriamo l’ipotesi di una gestazione surrogata motivata da ragioni altruistiche. In linea generale, non si potrebbe vietarla in nome del diritto del figlio alla coincidenza tra genitorialità biologica e sociale, dal momento che la Consulta ha già chiarito che l’affinità genetica non costituisce presupposto indefettibile di famiglia. Siamo certi, infatti, che l’interesse alla coincidenza tra genitorialità biologica e sociale meriti una tutela così forte da prevalere sulla possibilità stessa del figlio di esistere? Privare un bambino di questa possibilità, in nome non tanto del suo diritto alla ricostruzione della propria identità (che si può garantire nel rispetto degli altri diritti in gioco), quanto piuttosto della coincidenza tra identità genetica e identità sociale rischia di ridurre - in una concezione meramente biologista - la persona al suo dna. Non è, forse, questa, un’idea della filiazione eccessivamente naturalistica, che dovremmo invece temperare con una concezione della genitorialità come aspirazione a definirsi mediante la sollecitudine e la cura per l’altro? È questa, d’altra parte la sostanza di un’importante sentenza della Corte suprema degli Stati uniti sulle unioni omosessuali. Ma, detto tutto ciò, resta una considerazione di metodo e di merito alla quale tengo in modo particolare: quella che ho appena espresso non è una posizione netta né definitiva. È il mio approccio alla questione e l’inizio di una riflessione, attraversata ancora da perplessità. Chissà perché quando parla di manette e garantismo Renzi ricorda tanto D’Alema di Maurizio Tortorella Tempi, 3 marzo 2016 All’estero, dai più importanti Parlamenti nazionali fino al più piccolo Consiglio comunale, la coerenza è considerata un valore supremo, imprescindibile. Da noi, invece, presidenti del Consiglio, ministri, segretari di partito e compagnia bella sono campioni di zig-zag. Il 28 febbraio, parlando alla scuola di formazione politica del Pd, Matteo Renzi ha affrontato un tema delicato, il garantismo. "Troppo spesso negli ultimi anni - ha detto con sguardo pensoso - è bastato un avviso di garanzia per decretare la condanna di una persona: ma questa è una stortura pazzesca, e il merito del Pd è aver cambiato approccio ed è una cosa di cui vado fiero". Perché "non bisogna accettare una certa deriva della stampa e di una parte dei cittadini, che confonde giustizia con giustizialismo. Se staremo dalla parte del giustizialismo, avrà perso l’Italia e la Costituzione". Poi, per far capire che parlava sul serio, Renzi ha riaperto le porte del Pd a Salvatore Margiotta, uscito da un processo per appalti lucani della Total: "Qualche anno fa - ha ricordato Renzi – Margiotta aveva ricevuto un avviso di garanzia, poi è stato prosciolto in primo grado e condannato in appello. Allora aveva lasciato il grappo Pd. Poi il processo è arrivato in Cassazione e ieri ha ottenuto una assoluzione, piena e totale. Oggi io lo abbraccio e lo aspetto lunedì al gruppo Pd". Verrebbe da dire: bene, bravo, bis. Era ora. Ma qualcuno dovrebbe ricordare a Renzi cosa sosteneva soltanto nell’estate 2013, da sindaco di Firenze, quando scoppiò il caso delle intercettazioni dell’allora ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che al telefono manifestava preoccupazione per il precario stato di salute della figlia di un amico, Salvatore Ligresti, finita in carcere. Bastò che iniziassero a girare voci su un’indagine aperta a Torino sul guardasigilli, e Renzi mostrò la verve di una tricoteuse rivoluzionaria: "Non è vero che bisogna aspettare un avviso di garanzia per dimettersi", dichiarò. "Il nuovo Pd non deve difendere casi di questo genere. Se fossi stato segretario, avrei detto di votare la sfiducia". Certo, la situazione era diversa. Tre anni fa al governo c’era un altro presidente del Consiglio, sia pure del Pd come Renzi: Enrico Letta. Il giovane sindaco era nel pieno della corsa per la segreteria del partito, e l’ultimo impaccio da scalzare per arrivare alla guida del potere era proprio il povero Letta. Ma fa impressione osservare come, specie a sinistra, ci sia chi usa il tema delle garanzie alla stregua di un tram: si sale e si scende a seconda del percorso, del momento, dell’utilità contingente, politica e personale. È vizio antico, patrimonio consolidato di quel serpentone politico della continuità intitolato Pci-Pds-Ds-Pd. Renzi se ne adombrerà, ma in questo assomiglia tanto al "rottamato" Massimo D’Alema. In materia, anche lui ha fatto più di una svolta. Nel dicembre 2009 ammise che Mani pulite era stata uno strumento nelle mani del Pci-Pds-Ds: "Facemmo l’errore d’illuderci che cavalcando l’ondata di antipolitica saremmo andati al potere". Per ricordare l’altalenante fraseggio dalemiano in quegli anni ruggenti, l’uomo si disse solidale "con i magistrati che stanno affondando il bisturi nel marcio della corruzione (...) venuta fuori in nome della democrazia bloccata e dell’anticomunismo". Fino a quando il pool di Milano sfiorò gli ex comunisti: allora D’Alema li bollò come "il soviet". Ma alla fine fu lui a offrire ad Antonio Di Pietro un seggio da senatore nel Mugello. Sardegna: Caligaris (Socialismo Diritti Riforme) "un carcere su due è senza direttore" Dire, 3 marzo 2016 La carenza di direttori negli istituti penitenziari della Sardegna è all’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo ha assicurato lo stesso esponente del governo all’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sabato scorso a margine della premiazione del concorso di pittura "Gramsci visto da dietro le sbarre" sabato ad Ales. "È una questione - ha spiegato Orlando - che stiamo esaminando congiuntamente con il Dipartimento". Una situazione delicata quella delle carceri in Sardegna, dove "a fronte di dieci istituti penitenziari, comprese tre colonie penali, ci sono soltanto cinque direttori e nessun vice - ricorda il presidente di Sdr Maria Grazia Caligaris. L’ultimo concorso per colmare i vuoti dell’amministrazione risale al 1997". La Sardegna è l’unica regione italiana "con questa gravissima carenza che incide pesantemente sulla vita quotidiana dei detenuti, dei loro familiari e degli operatori - continua Caligaris. Tra gli altri adempimenti attribuiti ai direttori, che è responsabile in toto di quanto avviene nel penitenziario, ci sono infatti anche i costanti colloqui con i detenuti. Speriamo quindi di vedere presto nell’isola almeno i titolari stabili di Badu ‘e Carros (Nuoro), Tempio-Nuchis e Mamone (Onanì) - conclude Caligaris - tre realtà attualmente assegnate rispettivamente ai direttori di Sassari-Bancali, di Isili e Lanusei e, l’ultima, di Alghero". Umbria: Osapp e Ugl "a rischio servizio mensa per agenti, iniziano a mancare le derrate" umbria24.it, 3 marzo 2016 Sindacati denunciano serie di mancati pagamenti a ditta appaltatrice: "Il personale non percepisce lo stipendio da dicembre e ha proclamato lo stato di agitazione". "A rischio il servizio mensa per i poliziotti della penitenziaria". Questo l’allarme lanciato dai segretari regionali di Osapp e Ugl, Fabio D’Impegno e Francesco Petrelli, che attraverso una nota stampa rendono noto come "da diversi mesi la ditta appaltatrice non riceva i pagamenti dovuti". Osapp e Ugl: "A rischio servizio mensa per agenti" A rimetterci sono naturalmente anche i dipendenti dell’azienda che "non percepiscono lo stipendio dal mese di dicembre - scrivono i sindacalisti degli agenti - e per questo hanno proclamato lo stato di agitazione". Il caso interesserebbe le quattro case di reclusioni dell’Umbria (Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto) "dove senza alcun preavviso - proseguono D’Imperio e Petrelli - iniziano a verificarsi mancate consegne di derrate alimentari destinate alla mensa dei poliziotti". Mancati pagamenti e lavoratori senza stipendi In questo senso, riferiscono con la nota i sindacalisti, l’azienda appaltatrice ha fatto sapere di essersi già da tempo attivata per ottenere una richiesta di finanziamento, ossia liquidità utile a fronteggiare la crisi generata dai ritardi dei pagamenti da parte del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). "Le direzioni degli istituti sono all’oscuro del caso, mentre la ditta che si occupa della mensa è al lavoro per reperire risorse utili ad assicurarsi gli approvvigionamenti da parte dei fornitori. Tuttavia se non verranno saldati i debiti non c’è la garanzia del proseguimento del servizio per gli agenti, anche perché - concludono D’Imperio e Petrelli - lo stato di agitazione del personale potrebbe sfociare in astensioni dal lavoro". Padova: detenuto ucciso a bastonate, la polizia ha arrestato il responsabile Askanews, 3 marzo 2016 È stato risolto il caso dell’omicidio di Antonio Floris, trovato cadavere, lunedì mattina, nascosto da una pila di legna, in via Righi, a Padova, all’interno del centro Oasi (Opera assistenza scarcerati italiani) dei padri Mercedari, dove da anni lavorava la terra con altri carcerati ammessi al programma di reinserimento. I poliziotti della Squadra Mobile hanno tratto in arresto in provincia di Udine il responsabile della morte dell’uomo. Per ulteriori informazioni si terrà una conferenza stampa alle ore 11.30 alla Questura di Padova. Nei giorni scorsi gli investigatori della squadra Mobile hanno interrogato decine di persone, appartenenti al mondo carcerario e alla struttura. Civitavecchia: detenuto muore a carcere di Borgata Aurelia, probabile problema cardiaco trcgiornale.it, 3 marzo 2016 Un detenuto straniero di 35 anni è morto ieri pomeriggio, probabilmente per un problema cardiaco, nel carcere di Borgata Aurelia dove era appena arrivato dalla struttura detentiva di Roma Rebibbia. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria che coglie l’occasione per sottolineare come la situazione nelle carceri sia veramente allarmante. Il sindacato sottolinea che invece dal punto di vista sanitario la situazione è semplicemente terrificante, considerando che secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti, ovvero per due malati su tre. "Tra le malattie più frequenti - aggiunge il Sappe - le malattie infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)". Velletri (Rm): un caso di meningite in carcere, l’uomo è in coma Il Mattino, 3 marzo 2016 Un caso di meningite nel carcere di Velletri. A denunciarlo è Carmine Olanda, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (Sippe) affiliato all’Ugl, che pochi giorni fa ha visto andare in crisi il Pronto soccorso di Velletri a causa di un detenuto con la meningite. L’uomo, 22 anni, di Anzio, è ora ricoverato allo Spallanzani di Roma in coma. "La cosa grave - commenta Olanda - è che l’Ospedale di Velletri scarseggia di personale e di strutture sanitarie per accogliere e ospitare persone affette da malattie infettive come meningite, tubercolosi, scabbia e alter patologie, così come di apposita struttura operativa per la rianimazione. Solo grazie alla grande professionalità di quel poco personale medico e paramedico presente, il pronto soccorso è riuscito a gestire e garantire l’ assistenza sanitaria al detenuto e a tutte le altre persone in continuo arrivo e con svariati codici. Il detenuto - conclude Olanda - dopo ore di ricerca fatte dall’Ospedale di Velletri per trovare la sistemazione più adatta al caso, è stato trasportato in stato di coma con l’ambulanza ASL Roma H presso l’Ospedale Malattie infettive dello Spallanzani di Roma per essere ricoverato nel reparto rianimazione. Per ovvie ragioni, tutte le persone che hanno avuto stretto contatto con il detenuto sospetto di meningite sono state sottoposte alla profilassi sanitaria per garantire una maggiore sicurezza all’interno della struttura carceraria di via Cisternense". Intanto il Carcere non sta accettando altri detenuti arrestati tra ieri e oggi per consentire i controlli sanitari all’interno delle celle e la cura e la profilassi contro la meningite agli oltre duecento detenuti. Bari: i boss si dividono anche le sezioni del carcere. Il pentito: "ogni clan ne controlla una" di Gabriella De Matteis La Repubblica, 3 marzo 2016 Giuseppe Simeone, che con le sue dichiarazioni ha portato all’arresto di Franco Diomede e di altri quattro estorsori, questa volta svela come i clan cerchino di esercitare il proprio potere anche dietro le sbarre. Racconta di come "il reggente" del clan in carcere venisse scelto in base al grado di affiliazione. Parla della pax mafiosa nelle diverse sezioni. Giuseppe Simeone, il pentito che con le sue dichiarazioni ha portato all’arresto di Franco Diomede e di altri quattro estorsori del quartiere Carrassi, questa volta svela come i clan cerchino di esercitare il proprio potere anche dietro le sbarre, nell’istituto penitenziario di Bari. Il pentito, in carcere da novembre con l’accusa di aver ordinato l’omicidio di Cristian Midio, è considerato uno dei collaboratori di giustizia più attendibili, capace di rendere dichiarazioni non solo sul suo clan, quello dei Diomede, ma anche su altre organizzazioni criminali della città Rispondendo alle domande di Roberto Rossi, pubblico ministero della Dda, e parlando della vita in carcere racconta: "Di regola la prima sezione o la quarta sezione è in mano ai Capriati, se c’è uno dei Capriati oppure in mano ai Diomede... infatti l’ho fatto anche io il responsabile per un periodo a Bari. Avendo gradi molto elevati anche, ti fanno fare il responsabile di sezione, cioè che saresti quello che devi mettere la pace o la tranquillità oppure dire: "Quello è un infame", dare sempre l’ok a ogni situazione che succede e cercare di evitare le discussioni stupide, queste cose qui... prendere i ragazzi se si sono litigati in cella, diciamo devi garantire un ordine generale della sezione". Il referente di ogni sezione, racconta il pentito, veniva scelto sulla base del grado di affiliazione. Simeone racconta anche di come talvolta i clan cerchino "l’unione per non fare discussione". "Per esempio - aggiunge - stava un Capriati al secondo piano e un Diomede al primo. Insieme decidevano e insieme facevano". Le dichiarazioni di Simeone sono state depositate nel procedimento in cui i principali imputati sono due agenti della polizia penitenziaria, arrestati nel giugno del 2013 con l’accusa di aver introdotto in carcere oggetti personali vietati dal regolamento. Un’inchiesta destinata ad allargarsi. Simeone racconta come riuscire a far arrivare droga oltre le sbarre rappresenti un titolo di merito tra i detenuti. "In carcere - dice Simeone - la cosa che entra di più è l’hascisc. Quindi uno già che riesce ad avere questo canale, in carcere riesce a farsi amare da tutti. Anche uno spinello in carcere, chissà che cosa gli hai dato a un detenuto, quindi quello è subito pronto na stare dalla tua parte; oppure anche lui stesso si fa presente per qualsiasi cosa, si presta". Al pentito gli agenti della sezione di pg della polizia mostrano alcune fotografie. E lui riconosce Giuseppe Altamura, soprannominato "Cartellimo rosso", uno dei due agenti arrestati due anni fa. Simeone racconta di un regalo, alcuni profumi, che il pregiudicato Vincenzo Zonno gli diede in carcere. Ad assistere alla scena c’era "Cartellino rosso". "No, parla tranquillo, non ti preoccupare, è roba nostra questo", avrebbe detto Zonno a Simeone. Che rispondendo ancora al pm, chiarisce: "Cartellino rosso" non è un affiliato, però è una guardia, però è come un amico, come devo dire? Un amicone, uno che tu ci tieni; però in quei contesti si capisce che tu ci tieni perché alla fine è colui che ti fa stare bene, ti porta delle cose, delle agevolazioni in carcere, chiavette, cose che tu non puoi avere". Roma: i detenuti evasi da Rebibbia negano di aver dato soldi ai poliziotti omniroma.it, 3 marzo 2016 Hanno ribadito al pm Silvia Sereni la loro versione dei fatti, spiegando che non ci sarebbe stata nessuna corruzione degli agenti della Polizia Penitenziaria alla base della loro evasione. Mihai Florin Diaconescu e Catalin Ciobanu, i due romeni evasi lo scorso 14 febbraio dal carcere di Rebibbia, dopo aver segato le sbarre di un magazzino nel quale lavoravano all’interno del penitenziario, hanno spiegato al magistrato di aver messo in atto la fuga senza l’aiuto di alcun agente. "Non è stato corrotto nessuno - ha spiegato Diaconescu, assistito dall’avvocato Cristiano Brunelli - è stato Ciobanu a tagliare il seghetto le sbarre del magazzino dove lavoravamo. Il seghetto lo aveva avuto da un altro detenuto. L’idea della fuga è nata quasi per scherzo e io ne ho approfittato perché volevo la libertà". Di segno completamente opposto la versione fornita da Ciobanu, assistito dall’avvocato Andrea Palmiero. "È stato Diaconescu a dirmi che sarebbe scappato e io ho approfittato di questa opportunità. Dopo aver scavalcato le mura ci siamo separati. Non c’è nulla di premeditato in quello che abbiamo fatto. L’ho fatto per disperazione. È da tanto tempo che non vedo mia madre malata, che vive in Italia, e avrei voluto raggiungere anche mia moglie in Spagna. Poi ho capito che stavo sbagliando e ho preferito consegnarmi ai Carabinieri. Mi sono pentito e lo ribadisco". Sulla presunta corruzione lo stesso Ciobanu ha affermato di "non sapere nulla di questa cosa". Milano: spaccio di shaboo alle Colonne, la movida scopre la droga etnica di Gianni Santucci Corriere della Sera, 3 marzo 2016 Tre cinesi presi con 6 grammi di metanfetamine. L’allarme degli investigatori: dal primo gennaio di quest’anno sono stati 19 gli arrestati per spaccio di shaboo a Milano. Colonne di San Lorenzo, una di notte, soliti gruppetti di ragazzi; un uomo, cinese, 28 anni, scambia qualche parola con un giovane italiano, prende un paio di banconote, si allontana; a quel punto si avvicina un altro giovane cinese, 19 anni, che allunga una bustina. Un terzo, ragazzino, 15 anni, si tiene a distanza. I carabinieri della compagnia Duomo, in borghese, confusi tra i passanti, hanno osservato la scena: appena avviene la consegna, si avvicinano e fermano tutti, i tre pusher e il cliente. Sarebbe un’operazione antispaccio di routine, se non fosse per la concomitanza di due elementi: il luogo (Colonne) e la sostanza (shaboo). Presi singolarmente, sono dati insignificanti. Ma questi arresti dei carabinieri raccontano una novità assoluta nel mercato della droga in città: gli spacciatori cinesi hanno iniziato a vendere quella potentissima anfetamina per strada, in un luogo storico di aggregazione per i ragazzi, a clienti occasionali. Investigatori ed esperti del mondo degli stupefacenti riflettono: "Potenzialmente, potrebbe essere una nuova epidemia. Se questa metanfetamina entrasse nelle abitudini di consumo, potrebbe fottere una generazione". Per capire, serve il contesto. Shaboo, ice, crystal meth: nomi diversi per una sostanza che ha l’aspetto del sale grosso ed è la forma più pura della metanfetamina. Provoca eccitazione, insonnia, allucinazioni, resistenza a fame e sonno, istinti violenti, una fortissima dipendenza, pesanti (e rapidi) danni alle cellule cerebrali. Storicamente, per l’Italia, si tratta di una sostanza diffusa nella comunità filippina: in questi anni, a Milano, gli investigatori hanno visto immigrati che usavano lo shaboo per lavorare di più e uomini ridotti a zombie trovati a fumare i cristalli nelle crack house, case di vendita e consumo (l’ultima è stata scoperta l’1 febbraio dalla polizia in via Arquà, zona via Padova). Consumatori filippini e trafficanti iraniani. Poco a poco, i gruppi della criminalità cinese hanno però conquistato una posizione sempre più dominante nel traffico e nello spaccio. Con un punto chiave: il consumo è rimasto confinato all’interno delle comunità straniere, in ambienti chiusi. Ecco perché i tre arresti dei carabinieri della compagnia Duomo sono un simbolo. I tre spacciatori cinesi erano ben organizzati: uno trattava con i clienti; l’altro consegnava le dosi; il terzo, minorenne, teneva addosso la sostanza (6 grammi). Ma il fatto veramente inedito è che siano entrati nella piazza "storica" del piccolo spaccio a Milano e abbiano iniziato a offrire quella droga anche a clienti occasionali: è come se, dopo aver venduto sempre su ordinazione e solo a una clientela ristretta, avessero aperto una vetrina al centro della via dello shopping. Il punto di rottura si toccherebbe se i ragazzini potessero avvicinarsi allo shaboo come avviene per l’hashish. I costi, ad oggi, non sono paragonabili (una dose di shaboo, 0,1 grammi, costa 30 euro). Ma il mercato della droga si muove su strategie e redditività per le organizzazioni criminali: le metanfetamine, con costi di produzione relativamente bassi, vendute a 300 euro al grammo assicurano profitti enormi. Parma: Gianrico Carofiglio tra i detenuti, più "Risvegli" che "Le ali della libertà" di Antonino Cristiano rossoparma.com, 3 marzo 2016 L’ istituto penitenziario di Parma ricorda un po’ uno che abbia passato dei mesi in terapia intensiva a causa di un brutto incidente: prima un lungo coma, poi dolorose operazioni chirurgiche, e quindi una faticosissima riabilitazione. Al centro di polemiche anche dure in tempi lontani (ma nemmeno troppo) a causa di evasioni clamorose, pestaggi sanguinari e metodi da campo di concentramento, il nostro carcere cittadino cerca oggi di aprirsi alla città e di riappropriarsi gradualmente di una funzione redentiva che sarebbe intrinseca del proprio ruolo nella società. I protagonisti di questa primavera valoriale sono tanti, a partire dal direttore del carcere, il già piuttosto amato Carlo Berdini, per arrivare fino alle professoresse del Toschi e Sanvitale, passando dalla cooperativa Sirio, da Non ci sto più dentro, e dall’ Università di Parma. L’iniziativa, questa volta, è consistita in un laboratorio-dibattito dei detenuti con lo scrittore, già magistrato e parlamentare, Gianrico Carofiglio: due ore di botta e risposta molto franchi, "come si usa se rispetti chi hai di fronte", commenterà l’autore di "Con parole precise. Breviario di scrittura civile". Il tema riguardava la manomissione delle parole, e anche noi del mondo dell’informazione abbiamo beccato la nostra dose, com’è giusto che sia. Agiografia dell’uomo dello Stato: ad introdurre l’incontro è stato Carlo Berdini, il già citato direttore. Berdini è una di quelle figure di servitore dello Stato che rimandano con la mente ai Falcone, ai Borsellino, ai Caponnetto, cioè a quelle persone che non sono essenzialmente né di destra né di sinistra: sono dello Stato. Un modo di fare pacato ma determinato ha consentito in tempi rapidi di raccogliere attorno ad un progetto di conduzione della struttura la fiducia di molti, i detenuti su tutti. Nel discorso introduttivo il dirigente ha sottolineato l’importanza di un percorso corale, e di come questo risultato sia il risultato della voglia di provarci di tanti (agenti di Polizia Penitenziaria inclusi). Carcere di massima insicurezza: Vincenza Pellegrino, docente universitaria protagonista di questo percorso laboratoriale inserito nell’insegnamento di Politiche sociali, guarda i "suoi" ragazzi e gongola soddisfatta. Non è che ci si trovi innanzi ad una novella "piattaforma di Torino" (1973), ma certamente i detenuti coinvolti sono esseri umani oggi più consapevoli e responsabilizzati di ieri. Visibilmente soddisfatti anche Giuseppe La Pietra (cooperativa Sirio) e lo stesso Carlo Berdini, che però hanno d’altro canto il compito di "tenere" i detenuti, finalmente messi nella possibilità di dire la propria, e quindi scalpitanti come puledri. Un momento di raro privilegio per chi è sepolto tra quelle mura da almeno vent’anni. Nel discorrere tra scrittore e questi ultimi salterà fuori "Le ali della libertà" (1994, di F. Darabont), ma a dire il vero la foga di fare, di dire, di riprendersi ciò che resta della propria vita, ricorda più "Risvegli" (1990, di P. Marshall). I detenuti aprono bocca, e nessuno sa cosa diranno: ne esce un incontro memorabile, anche in termini di contenuti. Carofiglio ti scrivo: comincia l’incontro vero e proprio. Uno dei partecipanti al laboratorio, Giovanni, legge una lettera a nome di tutti. "Per chi vive in carcere - dice ad un certo punto - anche un semplice libro rappresenta spesso una conquista e un gusto difficile da raggiungere. Che il libro abbia il potere di aprire all’immaginazione è cosa risaputa. Il problema sono le domande, quelle che non trovano risposta". Il dibattito parte subito in modo non banale: chi si alza ha l’aria di aver pensato e ripensato a cosa chiedere, e pone questioni che richiamano l’etica. "Quì - dice un compagno nel proprio intervento - il più "giovane" di noi sta scontando la pena da oltre vent’anni, in condizioni talvolta molto critiche. La comunicazione è ridotta al minimo, perchè la tua vita è cadenzata da orari che ti portano a fare le stesse cose negli stessi orari. Momenti di democrazia come questi pochi ne abbiamo visti. La mia domanda per lei è la seguente: lei è stato magistrato, mi chiedo che idea si sia fatta del carcere e quale delle parole che lei cita in questo libro deve essere più compiuta per arrivare all’accezione che lei ha del carcere". Gianrico Carofiglio: "una delle strade per la libertà interiore è quella di percepire un’idea di uguaglianza con il tuo interlocutore. Io credo che più di qualsiasi altra attività davvero la letture sia un modo per far crescere quel senso di uguaglianza. Come dovrebbe essere il carcere? Io immagino un mondo in cui nei registri non ci sia scritto "fine pena mai" ma "fine pena da definire". Io immagino un sistema della sanzione penale nel quale il carcere sia veramente l’extrema ratio, per rendere efficaci anche le altre sanzioni". "Nel suo libro - fa notare Domenico - lei cita il principio di uguaglianza formale, cioè l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge enunciato dal comma primo dell’articolo 3 della nostra Costituzione repubblicana. Le chiedo: lei non crede che si debba derogare questo principio di uguaglianza rispetto all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene debbono tendere alla riabilitazione? Che senso ha rieducare una persona per la sua reintegrazione nella società e poi portare questa persona rieducata alla morte in carcere?". Sbam. Le parole come una sportellata sul naso, gli spettatori restano assorti nella domanda quando Carofiglio da una sua risposta: "credo che ci sia un contrasto concettuale insanabile. L’ergastolo ostativo in quanto tale è contrario alla Costituzione. Io non sono favorevole che venga eliminato in astratto: sono favorevole che rimanga come sanzione estrema, con la possibilità, che naturalmente va modulata, di ridefinire percorsi e modi per taluni detenuti più sensibili". "A me è stata negata la possibilità recentemente di recarmi a casa per visitare un genitore defunto: lei cosa ne pensa?", chiede Antonio. "Non c’è dubbio che il tema che lei solleva è una sfaccettatura di come si debbano coniugare la libertà individuale e le esigenze di tutela della società. Io sul caso specifico non posso esprimere un’opinione perché non conosco le carte, ma le posso esprimere la mia solidarietà, perché capisco che un uomo che da tanto tempo costretto tra queste mura che si vede negare un affetto così elementare in una vicenda così dolorosa soffra un ulteriore privazione nel suo senso di dignità personale". Carofiglio sta piacendo, i detenuti sentono in lui un interlocutore franco e diretto: il livello dialettico si innalza molto, raggiungendo picchi decisamente interessanti. Aurelio, uomo dall’aria mite e timida, legge una lettera che è anche una bella lisciata di pelo a chi fa informazione, oltreché ai magistrati. "Lei cosa ne pensa delle trasmissioni televisive che si occupano dei fatti di cronaca? Non pensa che possano influenzare chi deve giudicare prima ancora che inizi il processo?". "Sì, certamente", risponde Carofiglio. Che per parte sua dichiara di schivare quelle trasmissioni, non giudicando serio un magistrato che vada a commentare il caso di un collega senza conoscere le carte processuali. Ed è inoltre vero che i magistrati sentono il peso dei casi mediaticamente più eclatanti, che condizionano la redazione della sentenza. Giornalismo assetato di sangue come depravazione costituzionale, quindi. Un monito e uno spunto di riflessione che interroga le coscienze. Uno dei detenuti si sta preparando alla maturità con i ragazzi del liceo artistico del Toschi. Lui individua in "ribellione" una delle cinque parole chiave del laboratorio. Già, la ribellione...ribellione a cosa? A rispondere indirettamente pare essere il suo compagno di viaggio Antonio: "a 9 anni ero a lavorare, a 20 ero in carcere. Quando mi guardo indietro mi accorgo che il mio percorso era già stato deciso, e che io ero troppo piccolo per farci qualcosa. Non avevo scelto di diventare capo del mio paese: in una mentalità ereditata dal secolo precedente era semplicemente deciso che così fosse". La ribellione quindi ad un sistema sociale che vuole buoni e cattivi, e che decide molto prima dell’età della tua ragione se tu debba essere tra i primi o tra i secondi. Il carcere come forma di repressione borghese del proletariato? È tema che interroga le intelligenze da cinquant’anni buoni, e non ha ancora forse trovato una propria risposta definitiva. L’incontro volge al termine: il fuoco di fila delle domande piano piano si affievolisce. Ma solo per questioni di orario: i detenuti ne avrebbero molte altre, e glielo si legge in faccia. Quando il teatro interno al carcere si svuoterà tornerà la solitudine di quattro strette mura, la solidarietà di qualche compagno e l’ostilità di qualche altro. Viene da pensare che la manomissione delle parole sia rispetto a quelle non dette, a quelle che non c’è il tempo di dire, a quelle che si possono dire soltanto stando bene attenti a non patirne dopo le conseguenze. E se vogliamo una riflessione andrebbe condotta anche sulla manomissione delle parole non udite, visto che siamo noi cittadini "liberi" a rinunciare a quel bagaglio esperienziale, che invece servirebbe eccome alla nostra crescita, collettiva ed individuale. Patrizia Bonardi, Valentina Zinelli, Carlo Berdini, Vincenza Pellegrino, le professoresse del Toschi e della Sanvitale gli agenti della Penitenziaria che con santa pazienza fanno avanti ed indietro continuamente per scortare un piccolo esercito di operatori della comunicazione...sono tanti i protagonisti di questa piccola primavera detentiva. Un luogo in massima parte noto per i pestaggi, per qualche arrivo eccellente e per un ritmo suicidario impressionante sta passetto dopo passetto diventando qualcosa d’altro. Ed il tutto profuma di buono. Pisa: i detenuti scrittori ancora all’opera, dopo "Favolare" arriverà "Gabbie" quinewspisa.it, 3 marzo 2016 Nuova stagione per le lezioni di scrittura con i detenuti del Carcere Don Bosco di Pisa, dopo "Favolare" arriverà "Gabbie". Riparte il viaggio di Favolare. Il libro (edito Mds), realizzato con e per i detenuti della casa circondariale Don Bosco, è andato esaurito e la sua ristampa sarà presentata al Consiglio comunale di Pisa. E, mentre si festeggia il successo della prima edizione, durante l’incontro di venerdì 4 marzo dalle 17 in sala Regia (Palazzo Gambacorti), gli autori (Antonia Casini e Giovanni Vannozzi), l’illustratore Michele Bulzomì e la casa editrice in rappresentanza di tutti gli scrittori (32) che hanno partecipato alla stesura delle fiabe, consegneranno i diritti d’autore al direttore del carcere Fabio Prestopino, si sta già lavorando a un secondo progetto, "Gabbie", con il quale si vuol fare riferimento non solo a quelle fisiche ma anche, e soprattutto, a quelli interiori. Se il primo aveva come tema e ispirazione le favole, il secondo si concentrerà sui racconti. Proseguono, dunque, le lezioni di scrittura nella biblioteca del Don Bosco dove una decina di detenuti segue da mesi il laboratorio nel quale si insegna a scrivere, a leggere in modo critico, ma anche a disegnare le proprie idee o a prendere ispirazione da un’immagine. Anche a questa seconda edizione parteciperanno grandi persone più che grandi nomi che dovranno prendersi a cuore il volume e la sua promozione. L’obiettivo, infatti, è raccogliere fondi per l’inserimento nel mondo del lavoro degli ospiti del Don Bosco. Alba (Cn): presentazione del libro "Umanizzare il carcere", di Pietro Buffa targatocn.it, 3 marzo 2016 Sabato 19 marzo alle 10.30 nella Sala Resistenza del Palazzo Comunale di Alba (piazza Risorgimento, 1) la presentazione del libro di Pietro Buffa, "Umanizzare il carcere". Pietro Buffa, classe 59, ricopre l’incarico di direttore generale del personale e delle risorse presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel recente passato è stato direttore dei carceri di Torino, Asti, Saluzzo e Alessandria nonché Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria in Veneto ed Emilia-Romagna; "Umanizzare il carcere", edito da Laurus Robuffo, ripercorre vari aspetti connessi alle trasformazioni normative e gestionali del sistema penitenziario italiano a seguito delle note sentenze di condanna della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Acquista il valore di un vero e proprio manuale d’uso per tutti coloro vogliano intraprendere con decisione la strada del cambiamento di questo delicato settore, partendo dai suoi fondamenti giuridici per toccare anche i meccanismi per la creazione del consenso necessario. Sarà il Sindaco di Alba, Maurizio Marello, ad aprire i lavori. L’introduzione sarà affidata a Domenico Albesano, presidente dell’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno e William Revello, presidente della IV Commissione consigliare Commissione Educazione, Cultura e Problemi sociali. Saranno tre garanti dei detenuti ad interloquire con l’autore sui temi tratti nel libro: Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte, Monica Cristina Gallo e Alessandro Prandi Garanti comunali delle persone private della libertà rispettivamente di Torino e di Alba. La presentazione di "Umanizzare il carcere" è organizzata dall’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte, dalla Città di Alba, dal Garante comunale delle persone private della libertà di Alba e dall’associazione Arcobaleno in collaborazione con il Centro Servizi per il Volontariato Società Solidale e la Cooperativa Libraria La Torre. Alghero: "Dinamo One Team", al via il progetto di basket con il carcere pianetabasket.com, 3 marzo 2016 Ieri mattina, nella Club House societaria di via Pietro Nenni, a Sassari, è stato presentato ai media il secondo progetto One Team della stagione 2015-2016: Dinamo e Fondazione Dinamo proseguono il percorso intrapreso lo scorso anno abbracciando il progetto di responsabilità sociale promosso dalla Turkish Airlines Euroleague. Le parole. A fare gli onori di casa il presidente della Fondazione Dinamo Carlo Sardara: "Il progetto nasce da un visita fatta ad ottobre scorso dalla squadra alla casa di reclusione di Alghero, in cui ci hanno colpito molto le iniziative della struttura per il reinserimento dei detenuti. Da lì è nata l’idea di condividere con questa realtà uno dei nostri progetti, nel solco della mission della Fondazione Dinamo e del programma One Team e in un percorso che vedrà coinvolti lo staff e tutta la squadra. Crediamo molto in questo progetto, nella convinzione che sarà un momento intenso e particolarmente motivante per entrambe le parti. Abbiamo anche il supporto di uno sponsor, la Sigma Consorzio Europa, a testimonianza di come importanti attori del territorio rispondano prontamente e con attenzione all’invito di Dinamo e Fondazione Dinamo, non solo per i progetti sportivi ma anche per quelli sociale". Elisa Milanesi, direttrice della casa di reclusione di Alghero: "La filosofia espressa è la stessa alla base della rieducazione finalizzata al reinserimento dei detenuti nella società. Per una realtà come Alghero questo invito è un sfida molto importante e stimolante, e siamo grati alla Dinamo per l’attenzione e l’opportunità che ci ha dato. È anche un segnale che il nostro grande lavoro nell’ottica dell’interscambio carcere-società sta rimandando un messaggio che sta arrivando bene all’esterno e che sta meritando attenzione al di fuori delle mura carcerarie. Mettere in comunicazione due realtà così diverse come quella della Dinamo e la nostra, credo che darà delle risposte e un arricchimento molto interessanti per tutti noi e in particolare per i detenuti". Giacomo Devecchi, One Tem Ambassador. "Questo è un progetto diverso dagli altri, molto particolare. Siamo rimasti molto colpiti durante la visita di ottobre al carcere di Alghero e credo che sarà un percorso molto stimolante per tutta squadra. Sarà uno scambio straordinario di esperienze, noi cercheremo di trasmettere i nostri valori, di gruppo, di gioco di squadra, di spirito di sacrificio per un obiettivo, e sono certo che avremo un ritorno importante anche dalle loro esperienze. Sarà certamente un dare-avere, siamo davvero carichi per questa nuova avventura che inizieremo la prossima settimana". One Team. One Team, il programma di responsabilità sociale dell’Eurolega, supportato dalla Turkish Airlines come sponsor fondante, con la collaborazione di Special Olympics, utilizza la pallacanestro come mezzo per avere un reale impatto sociale nelle comunità. Con un rinnovato modello di interconnessione, che collega virtualmente il continente attraverso l’operato dei club coinvolti, l’Eurolega ha sviluppato un programma completo di Corporate Social Responsability che unisce le attività di ogni squadra in maniera integrata, di grande impatto, lavorando sul tema comune della "integrazione della comunità". Ogni club che partecipa all’Eurolega sviluppa un suo specifico progetto One Team su misura per i bisogni della propria comunità affinché porti benefici a gruppi sociali a rischio di esclusione. Dalla sua fondazione, avvenuta nel 2012, il programma One Team ha raggiunto oggi 5000 partecipanti e può contare su altrettante persone coinvolte attraverso i diversi progetti. Il progetto. La Dinamo Banco è lieta di presentare il secondo progetto One Team della stagione 2015-2016, il programma di responsabilità sociale promosso da Eurolega e sposato con entusiasmo dallo scorso anno dal club biancoblu. Conclusasi l’esperienza in sinergia con l’Istituto Comprensivo Latte Dolce-Agro e l’ITAS "Salvatore Ruju", la Fondazione Dinamo ha pensato di ampliare il bacino di utenza dedicandosi questa volta agli adulti: dopo tre edizioni dedicati alla scuola, la prossima settimana partirà il progetto "One Team" dedicato agli ospiti della Casa di Reclusione di Alghero. In linea con la mission della Fondazione, che intende dare aiuto e sostegno a chi vive un momento di disagio, la squadra campione d’Italia sarà impegnata nel progetto che coinvolgerà il carcere di Alghero, scelto in quanto struttura proiettata in un progetto avanzato tendente alla progressiva responsabilizzazione dei detenuti e finalizzato al reinserimento sociale. Il progetto coinvolgerà 25 persone e si articolerà i 10 sessioni, che si terranno sempre negli spazi della struttura di reclusione, nella quale è stato anche allestito un campo da basket che permetterà momenti di scambio a canestro fra i detenuti e i giganti. Ogni sessione avrà una parola chiave sulla quale il gruppo lavorerà insieme ai One Team Coach. Come nelle precedenti edizioni saranno coinvolti i giocatori e lo staff della prima squadra. Gli One Team Coach saranno i due assistenti coach Massimo Maffezzoli e Paolo Citrini, e il responsabile tecnico del settore giovanile della Dinamo Sassari, Massimo Bisin. Carcere di Alghero e il Progetto Barrio. La struttura di Alghero attualmente ospita circa 80 detenuti e da quattro anni porta avanti il "Progetto Barrio" che in algherese significa "quartiere": una forma moderna di concezione della struttura carceraria. Abolite le vecchie celle sovraffollate il carcere viene vissuto come un quartiere aperto, con la possibilità degli ospiti di accedere alle diverse zone della struttura, come la palestra o le sale di attività, grazie a un sistema di sorveglianza dinamico. La casa penitenziaria è anche un polo turistico alberghiero e universitario, con oltre una decina di iscritti all’Università di Sassari. L’Europa a due guerre di Ignazio Masulli Il Manifesto, 3 marzo 2016 In Italia, nel 2014, l’ammontare delle tasse e contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil. Stiamo assistendo all’intrecciarsi di quella che è diventata ormai una guerra agli immigrati con gli interventi armati per ristabilire un ordine tardo coloniale nei paesi da cui provengono. Alla fine del 2014, le persone che avevano cercato di fuggire da guerre e conflitti interni assommavano a 55 milioni. Il maggior numero di loro, circa 34 milioni, veniva da Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Repubblica democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria. La stragrande maggioranza ha trovato rifugio nei paesi vicini, spesso altrettanto poveri e non molto più stabili di quelli d’origine. Mentre, alla stessa data, il numero di quelli accolti nei 28 paesi dell’Unione europea sono stati poco più di un milione e altri 270mila negli Usa. Oggi i profughi e richiedenti asilo si trovano di fronte a disponibilità all’accoglienza in cifre risibili o alla chiusura totale di frontiere e perfino divieti di transito. Rifiuti che non vengono solo dai paesi balcanici e dell’Est Europa, ma dai paesi più potenti, come Usa, Gran Bretagna, Francia, o più ricchi, come Austria, Belgio, Svezia, Danimarca, Finlandia. La relativa disponibilità della Germania si è andata vistosamente riducendo. Mentre paesi geograficamente più raggiungibili, come l’Italia e la Grecia non fanno che reclamare la corresponsabilità dell’Unione. Proprio tra i più indisponibili all’accoglienza si trovano gli stati che sono in prima fila nel promuovere azioni militari e fomentare conflitti interni nei paesi da cui fugge la maggior parte dei profughi. Fanno credere che i costosissimi interventi militari da essi promossi sono necessari per la sicurezza e il benessere dei loro paesi, e che i costi dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo sono insostenibili. I fatti stanno molto diversamente. Prendiamo, ad esempio, il caso dell’Italia. Nel 2015, il nostro paese ha impiegato poco più di 800 milioni di euro per la spesa complessiva di accoglienza dei rifugiati. Sempre nel 2015, il costo delle "missioni" militari italiane in alcuni dei paesi d’origine dei rifugiati è stato di un miliardo e mezzo di euro. Altre spese saranno da aggiungere per la spedizione militare che il governo sembra ansioso di promuovere in Libia. La contraddizione tra indisponibilità a sostenere i costi dell’accoglienza e le spese delle azioni militari cui si partecipa, proprio nei paesi dei richiedenti asilo, è ancora più stridente in casi come quello della Gran Bretagna e della Francia. Ma considerazioni analoghe si possono fare per i paesi di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e altri oltranzisti nei confronti dei profughi. Stati che però partecipano spesso e volentieri alle coalizioni di "volenterosi" operanti in vari scacchieri. Per parte loro, i rifugiati non vogliono essere mantenuti. Come gli altri immigrati, cercano lavoro e sperano d’inserirsi al più presto nei paesi meta. E anche su questo occorre considerare i dati di fatto. Rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale assai ridotta del numero complessivo degli immigrati di prima generazione e ufficialmente censiti nei paesi d’arrivo. Si va dallo 0,6% in Usa al 3,1% in Francia. Quand’anche i rifugiati concorressero ad aumentare il numero complessivo degli immigrati in misura maggiore, va ribadito che gli uni e gli altri non rappresentano un gravame per la spesa pubblica, ma, al contrario, è dimostrato che essi rappresentano una risorsa. Se torniamo a fare l’esempio dell’Italia, nel 2014, l’ammontare delle tasse e dei contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite degli immigrati. Ancor più importante è il loro contributo al riequilibrio demografico. Com’è ben noto, proprio nei paesi più sviluppati, la popolazione invecchia, sia per il calo della natalità che per l’aumento degli anni di vita. Il che significa che non bastano i continui tagli alla sanità e la riduzione della spesa pensionistica. Se vogliamo che quel che resta del sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in età lavorativa. Per il raggiungimento di tale obiettivo, la popolazione europea dovrebbe aumentare di 42 milioni in 4 anni. Il che è concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati. Se lo stato delle cose è questo, occorre rispondere a due questioni. La prima riguarda il fatto che, invece di governare in modo positivo il fenomeno migratorio, in diversi paesi dell’Ue l’immigrato è indicato come una minaccia per il benessere dei cittadini già residenti. Purtroppo, su questo terreno s’è innescata una competizione e strumentalizzazione elettorale che si va sempre più radicalizzando e che sfocia ormai in una sorta di guerra al migrante, dai Balcani al Canal della Manica. La seconda risposta non è meno disarmante. Stiamo assistendo al protrarsi di logiche conflittuali e di predominio nella regolazione dei rapporti internazionali che si ritenevano superabili dopo la fine della guerra fredda. Purtroppo, le speranze accese nei primi anni Novanta con la cessata contrapposizione tra i due blocchi - speranze che rilanciarono il progetto di un’Europa unita, pacifica e aperta alla cooperazione nei rapporti internazionali - sono venute via via spegnendosi. Mentre si sono riproposte le vecchie strategie di espansione delle aree d’influenza e di scalata a posizioni di forza in una rigida gerarchia dei rapporti internazionali. Un paradigma che non può non alimentare forme, più o meno latenti, di tensioni e conflitti. Peacekeeping e uso della forza non sono concetti antitetici di Antonio Armellini Corriere della Sera, 3 marzo 2016 Se prima o poi ci troveremo obbligati a "mettere gli scarponi sul terreno", oppure se riusciremo ad evitarlo, in Libia sarà giocoforza anche sparare. Non solo per tutelare i nostri interessi, ma soprattutto per salvaguardare la sicurezza dei nostri militari. Mentre sta per prendere le mosse in Libia un intervento in cui rivendichiamo un ruolo guida, sarà bene cercare di fare chiarezza su cosa si debba intendere per peacekeeping. In un contesto geostrategico in cui alle guerre globali si sono sostituiti conflitti localizzati dove si riflettono interessi più ampi, l’importanza dello strumento militare di pace in politica estera è di molto cresciuta. Sia sul piano della proiezione di potenza che della promozione attiva dell’interesse nazionale. Per buona parte degli anni della Prima Repubblica, grazie alla perdurante memoria di una guerra tragicamente perduta e all’influenza di una cultura fortemente antimilitarista (cattolica e non solo), la nostra partecipazione è rimasta a lungo poco più che simbolica. Negli anni Ottanta la situazione è cambiata: dal primo intervento in Libano siamo arrivati a schierare quasi tredicimila uomini e il peacekeeping è diventato una componente fondamentale dell’azione internazionale dell’Italia. Le nostre operazioni di pace, si è detto, prescindono dall’uso della forza: sono sì composte di militari, ma il loro compito non è tanto di imporre soluzioni quanto di vigilare sul rispetto di quelle adottate. Si tratta, soprattutto, di sanare le ferite inferte dai conflitti e di rendere stabile la pace, costruendo strade, scuole ed ospedali, aiutando la ricostruzione delle società civili e distribuendo caramelle ai bambini. Le armi hanno una funzione residuale, evitando per quanto possibile di sparare un colpo. Un impiego accorto delle risorse, e una dose di fortuna, hanno consentito a lungo di contenere le perdite delle nostre missioni entro limiti modesti, rafforzando l’idea che la visione italiana del peacekeeping fosse confermata dall’esperienza sul terreno. Il tutto ha consentito di superare la diffidenza di un Parlamento tetragono a cogliere il nesso fra politica estera e peacekeeping e interprete dell’ostilità pregiudiziale di gran parte dell’opinione pubblica, verso tutto ciò che potesse anche di lontano evocare l’idea di guerra. Peacekeeping, peace enforcement: sono molti i termini usati per definire i livelli di forza richiesti nelle diverse situazioni. Aldilà delle precisazioni semantiche i confini fra gli uni e gli altri sono labili, ma tutti partono dal principio che - se da un lato è importante compiere tutte le azioni che caratterizzano l’azione italiana - dall’altro è spesso necessario fare ricorso alla forza e sparare non è antitetico al concetto di pace, ma ne può costituire una premessa indispensabile. Abbiamo per molti anni continuato raccontarci una favola bella, secondo cui è possibile fare politica estera attraverso lo strumento militare dando una lettura solo parziale delle responsabilità che ne conseguono. Fino all’Iraq siamo riusciti più o meno a cavarcela. In Afghanistan il salto di qualità, testimoniato da un numero più alto di perdite, ha cominciato a farsi evidente. Ora questa lettura mostra pericolosamente la corda. Non è una via obbligata. La Germania ha solo da poco, quando ha deciso di intervenire nell’ ex Africa Occidentale francese, rinunciato a una politica che vietava per ragioni storiche comprensibili qualunque impiego di suoi militari all’estero, limitandosi ad operazioni di supporto. Volendo, potremmo seguire una strada analoga: abbiamo nei Carabinieri una forza armata che è al tempo stesso uno strumento di soft power straordinario, che non ha pari al mondo e tutti ci chiedono. Impiegandolo in via esclusiva, diverremmo il riferimento pressoché obbligato per tutte le operazioni di consolidamento della pace a valle del controllo armato. Ne guadagneremmo in influenza e metteremmo fra le altre cose a tacere lo stereotipo negativo che, piaccia o non piaccia, continua a caratterizzare la percezione in molti partner della nostra dimensione puramente militare. Ne uscirebbe ridimensionata in parte la nostra capacità di proiezione di potenza, che personalmente riterrei più che compensata da altri vantaggi in termini di credibilità complessiva. Per un intreccio complesso di ragioni, ho però l’impressione che non è una alternativa che saremmo disposti a perseguire; se così stanno le cose, non possiamo più permetterci di illudere, e illuderci, sul fatto che il peacekeeping italiano e l’uso a fini di pace della forza siano due dimensioni separate. Sia se prima o poi ci troveremo obbligati a "mettere gli scarponi sul terreno", sia se riusciremo ad evitarlo, in Libia sarà giocoforza anche sparare. Non solo per tutelare i nostri interessi, ma soprattutto per salvaguardare la sicurezza dei nostri militari. Governo, Parlamento ed opinione pubblica farebbero bene a prenderne atto e, se ciò dovesse risultare inaccettabile, pensare a vie alternative prima che sia troppo tardi. Terrorismo, allarme degli 007 "Italia sempre più esposta, rischio infiltrazioni dai Balcani" di Alberto Custodero La Repubblica, 3 marzo 2016 "Attentati, il rischio zero oggettivamente impossibile". Cresce la "possibilità che in Europa trovino spazio nuovi attacchi eclatanti sullo stile di quelli di Parigi". Preoccupa il ruolo delle donne nel Califfato. Padoan: "Finanziamento terrorismo inquina i mercati". Italia sempre più esposta al rischio terrorismo. La "concorrenza" tra al Qaeda e Is può portare ad attentati eclatanti. Cresce l’afflusso nei teatri del jihad di interi nuclei familiari e di giovani donne. Sul fronte interno, ancora in agguato il pericolo brigatista. E sempre attivo il fronte anarco-insurrezionalista. La relazione dei servizi segreti al Parlamento mette in guardia la politica dai pericoli che il Paese sta correndo in questo momento in cui alle grandi tensioni belliche (dal conflitto Siria-Iraq-Daesh a quello in Libia, dalle tensioni Russia Turchia a quelle tra turchi e curdi), si sommano una crisi congiunturale economica e una forte instabilità politica. I servizi segreti - in genere sempre prudenti - questa volta non temono di sbilanciarsi. Sanno che l’Italia sta giocando la sua partita più importante in Libia, teatro conteso dai francesi e sul quale ha una forte influenza l’Egitto. Come se non bastasse, il Paese è fortemente esposto dal punto di vista "religioso" a causa del Giubileo in corso. Non è un caso che la relazione ponga l’accento sulla elevata esposizione dell’Italia al rischio terrorismo. Infiltrazioni dai Balcani. "Il rischio di infiltrazioni terroristiche nei flussi migratori, che quanto alla direttrice nordafricana, nonostante ricorrenti warning, non ha trovato specifici riscontri, si presenta più concreto lungo l’asse della rotta balcanica". Per la rotta balcanica la nostra intelligence evidenzia, in particolare, "le vulnerabilità di sicurezza legate all’imponente flusso di profughi provenienti dal teatro siro-iracheno; la centralità della regione quale via di transito privilegiata bidirezionale di foreign fighters, oltre che quale zona di origine di oltre 900 volontari arruolatisi nelle file del jihadismo combattente; la presenza nell’area di realtà oltranziste consolidate, in grado di svolgere un ruolo attivo nella radicalizzazione dei migranti". È emersa inoltre l’operatività di sodalizi brindisini attivi nel trasferimento di migranti dalle coste della penisola balcanica meridionale verso il nostro Paese. Si tratta di ex contrabbandieri di tabacchi lavorati esteri, esperti scafisti capaci di eludere la sorveglianza marittima, che utilizzerebbero imbarcazioni veloci di limitate dimensioni (non oltre le venti persone) intercettando una domanda in grado di sostenere costi elevati di viaggio". Cyber security e spionaggio digitale. Secondo la nostra intelligence, si tratta di "una pratica sempre più diffusa quella dell’attacco mirato in ambito aziendale volto a guadagnare un vantaggio competitivo da parte di altre società di settore attraverso l’acquisizione illecita di informazioni sensibili. Proprio sul versante del cyber espionage sono emerse forme di aggressione particolarmente sofisticate e non rilevabili da parte dei software di sicurezza. In alcuni tipi di attacchi, il sistema target, una volta compromesso, rischia di rimanere infettato anche dopo gli interventi di ripristino, continuando quindi a "patire" la contaminazione. Alcune campagne offensive sono risultate alla base di continuative attività di esfiltrazione dati con l’uso di malware sempre più avanzati, poiché riescono ad individuare e sfruttare le vulnerabilità dei sistemi prima ancora che queste emergano all’attenzione o che siano disponibili i relativi aggiornamenti risolutivi. Rischio attentati. "La minaccia, che può concretizzarsi per mano di un novero diversificato di attori, rende il rischio zero oggettivamente impossibile". "È da ritenersi elevato - scrivono gli 007 nella relazione - il rischio di nuove azioni in territorio europeo, ad opera sia di emissari, inviati ad hoc, inclusi foreign fighters, sia di militanti eventualmente già presenti (e integrati/mimetizzati) in Europa, che abbiano ricevuto ispirazione e input da attori basati all’esterno dei Paesi di riferimento". Attacchi stile Parigi. Cresce la "possibilità che in Europa trovino spazio nuovi attacchi eclatanti sullo stile di quelli di Parigi, ma anche forme di coordinamento orizzontale tra micro-cellule, o azioni individuali sommariamente pianificate e per ciò stesso del tutto imprevedibili". "Italia sempre più esposta". "L’Italia è un target potenzialmente privilegiato sotto un profilo politico e simbolico/religioso, anche in relazione alla congiuntura del Giubileo straordinario; terreno di coltura di nuove generazioni di aspiranti mujaheddin, che vivono nel mito del ritorno al califfato e che, aderendo alla campagna offensiva promossa da Daesh, potrebbero decidere di agire entro i nostri confini". Il Vaticano nel mirino degli anarchici. "Permane elevata la minaccia rappresentata dai settori più determinati dell’anarchia insurrezionale, laddove gli obiettivi privilegiati di iniziative di carattere violento rimangono legati al comparto della repressione e ai settori militare, tecnologico e delle nocività. In prima fila nel novero dei possibili bersagli rimangono altresì i poteri economico-finanziari, i media di regime e le strutture/figure rappresentative di Stati stranieri e di istituzioni transnazionali, senza poter escludere il Vaticano e la Chiesa, anche in considerazione della vetrina rappresentata dal Giubileo straordinario". In agguato le vecchie bierre. "Velleitari, o comunque di non immediata viabilità, appaiono invece i progetti di rilancio dell’ideologia brigatista, tuttora coltivati da ambienti ristretti impegnati sul piano propagandistico a preservare la memoria degli Anni di Piombo, anche nel tentativo di attualizzarne il messaggio". Sul versante degli ambienti di matrice brigatista, "continuano ad essere presenti - sebbene in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo - potenziali rischi di una ripresa del fenomeno eversivo, legati ad alcuni aspetti non del tutto ricostruiti dalle indagini sull’ultima stagione terroristica". Padoan, finanziamento terrorismo inquina mercati. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in un convegno alla Luiss, ha detto che "Siamo di fronte alla proliferazione di una rete internazionale di finanziamento al terrorismo che sta inquinando, e quindi potrebbe avere conseguenze di altro tipo, i sistemi finanziari dei mercati. Per questo richiede una particolare attenzione". Al Qaeda e Is, concorrenti del terrore. "Al Qaeda può intervenire sulla scena, in contrapposizione con il Daesh, con "atti eclatanti". "Le acquisizioni informative raccolte dall’intelligence, così come le valutazioni condivise in sede di collaborazione internazionale, non consentono, peraltro, di ritenere superato il pericolo riferibile a formazioni terroristiche collegate ad al Qaeda. Anche se queste ultime risultano segnate da defezioni individuali a favore di Daesh, esse hanno continuato a far registrare una certa effervescenza tanto sul piano del reclutamento quanto su quello operativo, e proprio la competizione con Daesh potrebbe rafforzare la determinazione qaidista a intervenire sulla scena globale con atti eclatanti. Nel contempo, resta il pericolo di un’autonoma attivazione di estremisti homegrown che, individualmente o in micro-gruppi, potrebbero porsi in chiave emulativa sulla scia dei fatti di Parigi, concretizzare propositi violenti in relazione ad aspirazioni frustrate di raggiungere i teatri di jihad o comunque raccogliere gli appelli all’azione lanciati da Daesh e da altre organizzazioni terroristiche". "Le donne del jihad combattente". I servizi segreti dedicano un intero capitolo al ruolo delle donne nel Califfato. "la presenza di donne nel terrorismo di matrice jihadista ha conosciuto una rapida espansione in concomitanza con l’affermarsi di Daesh, come dimostrato dal crescente numero di aspiranti mujahidat europee, per lo più giovani e di varia estrazione sociale, che tentano di raggiungere il teatro siro-iracheno. Il loro compito principale è quello di essere mogli e madri dei mujaheddin : a questo fine, scopo del viaggio è solitamente il ricongiungimento con il proprio coniuge già sul fronte o l’unione con un militante conosciuto anche via internet nel jihad al nikah ("matrimonio per il jihad"), in adesione ai proclami di Daesh nei quali si esortano le musulmane a contribuire al popolamento del Califfato e ad "allevare" le nuove generazioni, nonché a sostenere il morale dei combattenti. Tuttavia, non mancano casi di estremiste impegnate in attività di proselitismo e reclutamento (soprattutto on-line, ove esisterebbero dei circuiti ad "esclusivo" ambito femminile), di supporto logistico (ad esempio, trasportando denaro) e di natura operativa. Le brigate femminili del Daesh. Emblematica, tra l’altro, la creazione in Siria e Iraq di due brigate di Daesh composte da sole donne (tra le quali la "celebre" al Khansaa, attiva a Raqqa), entrambe con compiti prevalentemente di "polizia", specie per la rigida verifica che la condotta della popolazione femminile sia in linea con i dettami sharaitici. Il montante fenomeno del jihad al femminile ha imposto un affinamento degli strumenti di contrasto all’estremismo violento. Vanno lette in questo senso, ad esempio, le Good Practices on Women and Countering Violent Extremism, adottate nell’ambito del Global Counter-Terrorism Forum, intese, da un lato, a prevenire il coinvolgimento di donne e ragazze in attività terroristiche e, dall’altro, a supportare le numerose vittime femminili di estremismo e terrorismo. Reducismo e foreign fighter. "Massima vigilanza informativa è stata pertanto riservata al pericolo derivante dal possibile arrivo di returnees o dai movimenti di commuters - soprattutto ove si tratti di soggetti dotati di titoli di viaggio che consentono loro di muoversi liberamente in area Schengen - già residenti sul nostro territorio o in altri Paesi europei". Si tratta di soggetti in grado di viaggiare più volte dal teatro di Jihad all’Occidente e viceversa, sfuggendo alle maglie dei controlli. "Anche in Italia, il fenomeno dei foreign fighters, inizialmente con numeri più contenuti rispetto alla media europea, è risultato in costante crescita, evidenziando, quale aspetto di particolare criticità, l’auto-reclutamento di elementi giovanissimi, al termine di processi di radicalizzazione spesso consumati in tempi molto rapidi e ad insaputa della stessa cerchia familiare". Proselitismo in carcere, a rischio i più giovani. "Vanno valutati con estrema attenzione i crescenti segnali di consenso verso l’ideologia jihadista emersi nei circuiti radicali on-line, frequentati da soggetti residenti in Italia o italofoni: si tratta di individui anche molto giovani, generalmente privi di uno specifico background, permeabili ad opinioni "di cordata" o all’influenza di figure carismatiche e resi più recettivi al "credo" jihadista da crisi identitarie, condizioni di emarginazione e visioni paranoiche delle regole sociali, talora frutto della frequentazione di ambienti della microdelinquenza, dello spaccio e delle carceri". "I detenuti per reati comuni sembrerebbero i più vulnerabili a percorsi di radicalizzazione ideologico-religiosa e, qualora indottrinati, potrebbero, all’atto della scarcerazione, decidere di raggiungere i territori del Califfato o comunque nutrire sentimenti di rivalsa nei confronti del nostro Paese". Immigrati. La Ue dà una mano ad Atene di Beda Romano Italia Oggi, 3 marzo 2016 La Commissione europea ha proposto ieri di utilizzare 700 milioni di euro provenienti dal bilancio comunitario per meglio gestire la crisi umanitaria che sta colpendo i Balcani e in particolare la Grecia. Il paese è diventato un enorme campo-profughi dopo che a Nord il transito dei rifugiati in arrivo dal Vicino Oriente è bloccato sistematicamente alle frontiere nazionali. L’operazione non intaccherà il capitolo di spesa già dedicato agli aiuti umanitari distribuiti dall’Unione in paesi terzi. "Siamo veramente preoccupati", ha detto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, spiegando che il piano è stato messo a punto sulla scia dei timori di "una gigantesca crisi umanitaria in Grecia". Secondo le Nazioni Unite vi sarebbero nel Nord del paese circa 25mila persone, bloccate alla frontiera con la Macedonia, che non possono continuare la loro strada verso Nord. Circa 12-15mila persone si troverebbero nel solo villaggio di Idomeni. Il commissario all’aiuto umanitario, Christos Stylianides, ha spiegato che i 700 milioni di euro saranno suddivisi su tre anni: 300 milioni nel 2016, 200 milioni nel 2017, e altrettanti nel 2018. La proposta deve essere approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo. "Vogliamo garantire le necessità di base e completare l’azione dei singoli paesi membri", ha detto l’uomo politico cipriota. Il denaro andrà in gran parte ad aiutare la Grecia, che ha chiesto aiuti per 480 milioni di euro. Il paese mediterraneo è oggetto di aiuti finanziari da 86 miliardi di euro. A un certo punto si è pensato di alleggerire il programma di rimborso del debito per aiutare il paese a meglio affrontare l’emergenza. Dopo alcune discussioni, si è deciso per ora di mantenere le due questioni separate. Nella pratica, il nuovo piano di aiuti seguirà il modello utilizzato per convogliare beni di prima necessità nei paesi in preda a conflitti, attraverso le Nazioni Unite e diverse associazioni senza scopo di lucro. In una conferenza stampa qui a Bruxelles, Stylianides ha avvertito che "altri disastri umanitari simili potrebbero accadere rapidamente". Qui a Bruxelles si teme che i rifugiati in provenienza dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq decidano di cercare altre vie - oltre a quella greca - per raggiungere il Nord Europa: attraverso l’Ucraina e i paesi del Gruppo di Visegrad; oppure via l’Albania verso l’Italia; o ancora attraversando il Mediterraneo dal Nord Africa e in particolare la Libia. Lo stesso commissario ha fatto notare che la proposta di piano da 700 milioni di euro è associata a una iniziativa legislativa per consentire l’uso di aiuti comunitari d’emergenza anche nei paesi membri, e non solo in paesi terzi, come è attualmente possibile. In questo senso il capitolo di spesa diventerà un elemento permanente del bilancio comunitario. D’altronde il contesto è grave. Secondo le Nazioni Unite, circa 120mila migranti sono già entrati in Europa dall’inizio dell’anno. Il pacchetto di aiuti umanitari giunge a ridosso di un vertice straordinario dei Ventotto sempre qui a Bruxelles il 7 marzo. In quella occasione si discuterà dell’accordo con la Turchia firmato in novembre e che dovrebbe servire a frenare l’arrivo di rifugiati da Est. Esponenti comunitari hanno spiegato che l’obiettivo dell’intesa è di ridurre a 1.000 al giorno gli arrivi in Grecia dalla Turchia. Oggi oscillano intorno a 2.000-3.000, anche se la cifra molto dipende dalle condizioni del tempo. L’intesa con Ankara prevede anche il rimpatrio delle persone che non hanno diritto alla protezione internazionale. Bruxelles ha annunciato sempre ieri che 308 rimpatri stanno avvenendo in queste ore dalla Grecia verso la Turchia. Dal canto suo, Stylianides ha voluto precisare che il piano umanitario è uno dei tasselli della strategia europea per meglio affrontare l’emergenza rifugiati. Gli altri tasselli, e in particolare il ricollocamento di 160mila persone giunte in Italia e in Grecia, stentano però a concretizzarsi. Preti pedofili, il cardinale Pell: "Io ingannato dai miei superiori" di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 3 marzo 2016 Il "ministro" dell’Economia vaticano, accusato di aver coperto gli abusi, ammette: "Potevo fare di più". Le vittime arrivate a Roma chiedono un incontro con il Papa. Il presidente della "Royal Commission" governativa su crimini pedofili Peter McClellan gli dice che la sua testimonianza "non ha assolutamente senso", la legale Gail Furness che "è completamente implausibile". Stanotte il cardinale australiano George Pell deporrà per la quarta volta, dalle 21 alle 3 di giovedì, sempre in collegamento video con l’Australia dall’Hotel Quirinale di Roma, per quella che dovrebbe essere l’ultima seduta. E l’"audizione", più simile a un processo, si fa sempre più dura per il "ministro" dell’Economia vaticano: accusato di aver coperto i preti pedofili negli Anni Settanta e Ottanta, Pell ripete di non aver mai saputo nulla, "era un mondo di crimini e occultamenti", e punta il dito contro i superiori di allora; la Commissione australiana lo incalza sui singoli casi e non ha affatto l’aria di credergli. "Un mondo di crimini" - Dopo il caso del prete pedofilo seriale Gerald Ridsdale, spostato da una parrocchia all’altra mentre abusava di 54 bambini - Pell aveva detto che Ronald Mulkearns, il vescovo di Ballarat del quale era consulente, aveva mentito e lo tenne "all’oscuro" di tutto - nell’ultima deposizione si è parlato tra altro di Peter Searson, altro pedofilo seriale della parrocchia di Doveton, "uno dei preti più sgradevoli che abbia mai incontrato", ha commentato il cardinale. Pell dal 1987 era vescovo ausiliare dell’arcivescovo di Melbourne Thomas Francis Little, morto nel 2008. "L’arcivescovo Little sembrava incapace di affrontare padre Searson, o almeno di fornire informazioni adeguate sulla situazione", ha detto Pell, alludendo al fatto che le dimissioni dell’arcivescovo nel ‘96 fossero state sollecitate. Il cardinale sostiene che Little e il "Catholic Education Office" gli avevano nascosto le accuse di pedofilia contro Searson. Come gli era accaduto nella diocesi di Ballarat, con Ridsdale: "È un mistero ma in ambedue i casi, per qualche ragione, occultarono tutto". Gail Furness gli ha chiesto se non sia "straordinario" che fosse stato ingannato due volte dalle autorità ecclesiastiche, a Ballarat come a Melbourne, e Pell ha replicato: "Avvocato, era un mondo straordinario. Un mondo di crimini e occultamenti e la gente che non voleva fosse disturbato lo status quo". "Avrei dovuto fare di più - La commissione ha chiesto a Pell anche del caso di Edward Dowlan, sacerdote a Ballarat et Melbourne, più tardi condannato per abusi su una ventina di studenti: "Non sapevo esattamente quello di cui era accusato. Non mi ricordo i dettagli, solo che c’erano delle voci su ciò che faceva con i giovani. Mi dispiace di non aver fatto di più in quel momento", ha detto il cardinale. Dice che aveva fatto delle supposizioni, gli ha chiesto il presidente, ma si è informato? "No, non l’ho fatto", ha risposto Pell. "Avrei dovuto fare di più". Le vittime - L’ultima audizione si sarebbe dovuta concludere alle 2 ma è andata avanti fino alle tre di notte. Il gruppo di quindici vittime arrivate a Roma chiede un incontro con Francesco: "A Pell non importa di noi, siamo qui perché vogliamo fare qualcosa per le future generazioni di bambini", spiega uno di loro, Phil Nagle, all’uscita dell’hotel. Il cardinale ha fatto diffondere dai suoi uffici una dichiarazione nella quale dice che sarebbe "felice di assisterli nella richiesta di incontrare papa Francesco, ma deve fare riferimento ai responsabili ufficiali per queste richieste". Pell assicura di essere disposto a incontrare le vittime: "ll cardinale vorrebbe potere ascoltare i sopravvissuti e gli incontri privati offrono una opportunità a questo fine, piuttosto che incontri allargati dove non tutti possono essere in grado di raccontare la loro storia e le emozioni possono dilagare. I sopravvissuti sono benvenuti nel portare una persona a loro sostegno durante gli incontri, ma a causa della natura privata e pastorale degli incontri non sarebbe opportuna la presenza dei media o dei rappresentanti legali". Alcune vittime incontreranno giovedì un componente della pontificia Commissione per la tutela dei minori istituita da Francesco come strumento di consiglio per le misure di protezione e prevenzione in tutto il mondo, e della quale fanno parte altre vittime di preti pedofili. Egitto: "Regime di torturatori", ecco il libro-denuncia su cui lavorava Regeni di Carlo Bonini La Repubblica, 3 marzo 2016 Il testo di Maha Abdelrahman, tutor del ricercatore italiano: così è stata tradita la rivolta di piazza Tahrir. C’è una traccia non manipolabile che documenta più e meglio di qualsiasi testimonianza o ricordo la ricerca cui Giulio Regeni stava lavorando al Cairo. Il suo oggetto, le sue coordinate, la sua cornice scientifica e politica. E dunque le ragioni per cui quella ricerca abbia finito con il risultare intollerabile agli occhi del Regime e abbia finito per costargli la vita. È un saggio in lingua inglese, Egypt’s Long Revolution (la lunga rivoluzione dell’Egitto), pubblicato nell’autunno del 2014 dall’editore Taylor and Francis group e firmato da Maha Abdelrahman, la supervisor di Giulio alla Cambridge University. Quel libro era il punto di partenza della ricerca di dottorato di Giulio e, nelle intenzioni, anche il possibile approdo, dal momento che il suo lavoro al Cairo avrebbe potuto contribuire al suo aggiornamento. A posteriori, è una lettura per certi versi raggelante. Perché in quelle pagine, nella scelta del linguaggio, è la denuncia di un Regime e delle sue pratiche di costante violazione dei diritti umani, della centralità delle Forze armate e dei Servizi segreti nella vita politica del Paese, del Termidoro e Restaurazione seguite alla Rivoluzione di piazza Tahrir con l’offensiva portata al cuore dei movimenti che quella Rivoluzione avevano reso possibile. Di più: perché in quelle pagine sono ragionevolmente indicati, con inconsapevole preveggenza, mandanti ed esecutori dell’omicidio di Giulio. Si legge nell’incipit: "Questo libro analizza le nuove forme di mobilitazione politica nate in Egitto in risposta alle crescenti proteste contro le politiche autoritarie e le deteriorate condizioni di vita figlie di politiche neo-liberiste e di un capitalismo clientelare". L’arco temporale della ricerca copre i dieci anni precedenti la Rivoluzione del 2011 e i tre che ne sono seguiti. Per individuarne le costanti sociali e politiche, ma, soprattutto, "i protagonisti ignorati", quelli con cui Giulio avrebbe appunto interagito nei suoi sei mesi di "ricerca partecipata". E questo in una cornice di analisi "gramsciana", cui Giulio si richiamava. Scrive la Abdelrahman: "Nella narrazione mainstream fatta propria dai media occidentali, dall’elite politica egiziana, dalle istituzioni globali e persino da alcuni attivisti egiziani, i 18 giorni di piazza Tahrir sono stati raccontati come una pacifica protesta condotta dalla classe media, tecnologicamente alfabetizzata, e dalla gioventù urbana. E questo per accreditare la logica conseguenza che il dopo Mubarak sarebbe stata una transizione costruita su un’economia di mercato e "democratiche" elezioni. In questa narrativa, è assente il ruolo svolto da larghe fette della popolazione egiziana: lavoratori, agricoltori, proletariato urbano". Non è difficile immaginare quale effetto potesse avere un approccio di ricerca di questo tipo agli occhi paranoici del Regime. Non è soprattutto difficile immaginare come suonassero due passaggi cruciali del saggio. Il primo. "L’uso della tortura in Egitto - si legge a pagina 18 - non è una novità (…) La tortura è stata regolarmente utilizzata come metodo di interrogatorio. Spesso lo scopo era ottenere confessioni, prima ancora che informazioni. Le prigioni egiziane erano e sono tutt’oggi piene di detenuti che, sotto l’insostenibile peso della tortura, hanno confessato crimini che probabilmente non hanno mai commesso (…) È una pratica che non si è mai interrotta (…) Dovendo definire i metodi dei Servizi segreti egiziani, l’ex agente della Cia Robert Baer, ha detto: "Se vuoi che dei detenuti siano sottoposti a un interrogatorio come si deve, li consegni alla Giordania. Se vuoi che vengano torturati, li spedisci in Siria. Se li vuoi far sparire per non vederli mai più, li dai all’Egitto". Il secondo: "Per sostenere il fabbisogno di un sistema del terrore in piena espansione, il Ministero dell’Interno egiziano ha cominciato a dare in outsourcing il lavoro sporco. In una cornice di crescente impunità, ha dato vita a una nuova "forza di polizia": i baltagya, i teppisti. Sono criminali comuni, normalmente con precedenti penali e conosciuti alla polizia, pagati per mettere in riga e dare lezioni a cittadini comuni, in cambio di impunità nelle loro attività criminali, in genere il traffico di droga. Il lavoro dei baltagya si è andato allargando, finendo per includere l’intimidazione degli elettori, il pestaggio dei sospettati e degli attivisti politici, violenze sessuali, provocazioni in manifestazioni di piazza. Del resto, la loro capacità di infiltrazione in pressoché ogni gruppo li rende invisibili anche alle normali forze di polizia". Già, i baltagya. Tra le ipotesi investigative affacciate dal Ministero dell’Interno egiziano - "l’incidente stradale", "il delitto a sfondo omosessuale", "la vendetta per droga", "l’atto di terrorismo" - questa, ad oggi, è proprio quella che manca. Egitto: "È stato l’Isis", la "verità" di Al Sisi sull’omicidio Regeni. E il contentino di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 marzo 2016 La presidenza egiziana diffonde la sua versione dei fatti sull’omicidio del dottorando friulano. Il governo del Cairo: "Terrorismo per danneggiare i rapporti esteri". E trasmette tramite ambasciata parte dei documenti chiesti dai pm italiani. Quelli inutili. Dunque non era un incidente stradale, non era un gioco omosessuale finito male né il linciaggio di un depravato, non era un atto di criminalità comune, non era un omicidio passionale, né un regolamento di conti tra spacciatori e drogati, l’eliminazione di una spia, il risultato di una faida interna ai sindacati o ai movimenti di sinistra, non era il tradimento di un dirigente della Oxford Analytica e neppure un sabotaggio messo in atto dai Fratelli musulmani. La "verità" sull’omicidio di Giulio Regeni viene ora direttamente dal presidente dell’Egitto: Al-Sisi in persona o chi per lui. Secondo l’ultima tesi, che potrebbe essere la quadratura del cerchio perfetta anche per il governo italiano e gli alleati europei, ad uccidere il giovane dottorando friulano sarebbe stato lo Stato Islamico. La notizia è stata diffusa ieri attraverso l’Ansa da una "fonte di alto rango della presidenza egiziana". Un atto di terrorismo teso a danneggiare le relazioni esterne egiziane al pari - afferma la fonte "altamente qualificata" e ripete lo stesso premier egiziano Sherif Ismail in un’intervista alla tv pubblica del Paese - dell’abbattimento dell’aereo russo caduto sul Sinai nell’ottobre 2015. "Il terrorismo in Egitto non è finito e cerca di danneggiare i rapporti tra l’Egitto stesso e altri Paesi, come è stato nel caso del cittadino italiano Giulio Regeni - dichiara all’Ansa l’esponente anonimo della presidenza del Cairo - Attraverso quest’atto coloro che vogliono colpire l’Egitto e la regione e coloro che sono legati a gruppi terroristici hanno addossato sul ministero dell’Interno egiziano la responsabilità dell’uccisione di Regeni". L’ufficio di presidenza, precisa l’Agenzia nazionale di stampa associata, ha rilasciato queste dichiarazioni per "chiarire" cosa intendesse Al-Sisi quando il 20 febbraio scorso, in un discorso a Sharm El Sheikh, disse: "Chi ha abbattuto l’aereo russo che voleva? Voleva danneggiare solo il turismo? No, voleva danneggiare le nostre relazioni con la Russia e l’Italia". Il presidente egiziano "conferma", precisa la fonte, che "il terrorismo cerca di danneggiare i rapporti egiziani con gli altri Paesi prendendo di mira le comunità straniere come avvenuto nel caso dell’aereo russo o facendo circolare voci che nuocciono alle relazioni dell’Egitto con altri paesi, come nel caso dell’omicidio di Regeni". In ogni caso, conclude la presidenza egiziana, "i loro tentativi sono votati al fallimento, dato che i rapporti italo-egiziani sono radicati" e "il governo egiziano ha aperto un’inchiesta globale ed esaustiva su questo caso per scovare i criminali". Inchiesta aperta dalla procura di Giza e rimasta top secret per gli inquirenti italiani inviati al Cairo dal pm di Roma, Sergio Colaiocco, che coordina le indagini italiane sull’omicidio. Ieri pomeriggio però, mentre arrivava la versione del presidente Al-Sisi, il ministero degli Esteri egiziano ha trasmesso all’ambasciata italiana al Cairo una parte dei documenti richiesti da settimane, "in particolare informazioni relative a interrogatori di testimoni da parte delle autorità egiziane, al traffico telefonico del cellulare di Giulio Regeni e a una parziale sintesi degli elementi emersi dall’autopsia" eseguita al Cairo il 4 febbraio scorso. Sarebbero tutti reperti cartacei, in lingua araba, nessun filmato, nessuna registrazione, nessuna foto, nemmeno a corredo dell’esame autoptico: atti parziali senza un quadro di insieme che, secondo le prime indiscrezioni, non sarebbero in grado di imprimere sviluppi alle indagini. Dunque, nessuno scambio di informazioni investigative diretto tra procure, ma solo da governo a governo. Per la Farnesina che ha diramato la notizia, è "un primo passo utile" anche se i documenti inviati sono solo una parte di quelli richiesti e perciò, spiega il ministero degli Esteri in una nota, "la collaborazione investigativa deve "essere sollecitamente completata nell’interesse dell’accertamento della verità". Naturalmente, gli atti "sono stati immediatamente messi a disposizione del team investigativo italiano che opera al Cairo". Contemporaneamente, il direttore del Dipartimento di Medicina legale del Cairo, Hisham Abdel Hamid, che per primo ha eseguito l’autopsia sul cadavere di Giulio, ha smentito di essere mai stato ascoltato dalla procura di Giza sul caso Regeni (come aveva preannunciato il giorno prima il ministro di Giustizia egiziano). E ha bollato come "totalmente inventata e assolutamente priva di fondamento" la notizia dei risultati autoptici che parlerebbero di "tortura avvenuta ad intervalli di 10-14 ore". Una diffusa dalla Reuters e dal giornalista investigativo Ahmed Ragab che ha confermato tutto al manifesto. D’altronde, già lunedì il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, da New York, si era mostrato fiducioso e aveva spiegato ai giornalisti che confidava di ricevere presto dal Cairo "elementi di indagine seri in tempi rapidi", avvertendo gli "amici" egiziani che il governo italiano avrebbe verificato "il rispetto delle promesse". E così ieri il regime di Al-Sisi si è dato da fare, ma malamente. Gentiloni, intervenendo di nuovo ieri sul caso dal Council of Foreign Relations di New York, si è limitato a ripetere che "chiede" e "spera" in una maggiore "cooperazione, al momento molto limitata". Siria: nelle vie di Damasco dove l’Isis sfida la tregua, ecco l’ultimo fronte della guerra di Alberto Stabile La Repubblica, 3 marzo 2016 Il centro della città sembra tornato a vivere, ma è in periferia che il Califfato fa strage con i kamikaze, e minaccia la moschea di Sayyida Zainab cara agli sciiti. Saranno pure giorni di tregua. Ma qui, a Sayyida Zainab, periferia sciita alle porte di Damasco, in mezzo a una povertà senza paraventi moltiplicata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati provenienti dalle città cadute nelle mani dei ribelli (si calcola che nel quartiere vivano adesso oltre un milione di persone), la guerra non sa di tatticismi e vuota propaganda, ma di stenti quotidiani e operazioni di bassa macelleria. Per arrivare in questo luogo ci lasciamo alle spalle una Damasco che sembra tornata a nuova vita. Il traffico è intenso, sin dalle prime ore del mattino. Nell’aria non riecheggiano più le batterie d’artiglieria piazzate sulla montagna a martellare la periferia (Ghouta) in mano ai ribelli. E nel cielo non sfrecciano i caccia. La sera, poi, specie nei quartieri più abbienti, è una festa per i giovani, anche se la luce manca in molte zone. La strada che ci porta a Sayyida Zainab è quella per l’aeroporto. Si attraversano zone, come Kfar Sousa, che recano i segni di pesanti bombardamenti, poi si svolta verso sud in direzione Deraa. Una ventina di chilometri ed ecco gli edifici popolari di Sayyida Zainab avvolti nel grigiore dell’indigenza, senza intonaco, spesso senza infissi alle finestre. Le strade sono ricoperte da uno spesso strato di terriccio. L’asfalto è sparito, spesso esploso sotto i corpi di mortaio. Le macchine degli Hezbollah si distinguono per un particolare, non hanno targhe. Sono le facce degli occupanti che fanno fede ai posti di blocco che circondano il quartiere. Barriere di ferro e di cemento, filo spinato. Uomini armati dappertutto, tenute mimetiche: quelle della milizia popolare non hanno insegne, gli uomini di Nasrallah ostentano una fettuccia gialla sulla spalla. Un miliziano sale in macchina con noi. Barba incolta, kalashnikov e telefonino ultima generazione. La prima tappa è Shara Tin, la via del Fico d’India, detta anche la via delle scuole, non a caso, affollata di ragazzi e ragazze con i libri in mano. Era più o meno così, ma un paio d’ore più tardi, il 21 febbraio scorso, quando una macchina-bomba è stata fatta esplodere all’angolo del suk delle verdure. "Mi è sembrato che il mondo si fosse rivoltato", dice Zuher al Frej anche lui un venditore del suk. Ma appena la gente s’è ripresa dallo shock e ha cercato di dare aiuto, due kamikaze hanno completato l’opera: 83 morti e 128 feriti. Quel giorno nella guerra che non conosce pause tra il regime siriano e l’Antistato islamico, o Califfato che dir si voglia, s’è aperto un nuovo fronte, proprio in questo quartiere dove sorge una mausoleo che rimanda alla tradizione sciita e, per contrasto, stimola l’intransigenza del radicalismo sunnita. Sayyida (la Signora) Zainab, è una povera, polverosa periferia con al centro una moschea tutta rilucente di specchi, che ospita i resti mortali di Zainab, figlia di Ali e Fatima, nipote di Maometto. Un luogo da onorare e difendere ad ogni costo, secondo gli sciiti, mentre per i jihadisti di matrice sunnita si tratta solo di un falso idolo da demolire a colpi di auto bombe. Religione come pretesto della politica. Tuttavia è qui, tra le pieghe di questa interminabile diatriba che il capo degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha trovato nel 2013 la giustificazione principale per schierare i suoi uomini a fianco del regime di Assad: "Per difendere i luoghi santi sciiti" dichiarò in uno dei suoi sermoni alla televisione libanese. Ed era stata quella la prima di una serie di allusioni alle manovre dell’Arabia Saudita, il grande nemico a cui Hezbollah attribuisce la regia della rivolta armata contro il regime di Damasco affidata ai gruppi sunniti radicali, "takfiri", come dicono gli sciiti. Tuttavia, oggi che i miliziani Hezbollah sono sparsi per i quattro angoli della Siria, dalle montagne del Qalamon, al confine con il Libano, alla periferia di Aleppo, si direbbe che, a parte "la difesa dei luoghi santi sciiti", altre sono le ragioni per cui Hezbollah continua a combattere a fianco dell’esercito siriano. E, a giudicare dalla decisione degli Stati del Golfo di dichiarare la milizia sciita libanese "un’organizzazione terrorista", queste ragioni avrebbero a che vedere più con l’espansionismo iraniano, di cui Hezbollah sarebbe strumento efficace, che con antiche questioni dottrinarie. Chiedo ad alcuni parenti sopravvissuti all’attentato di febbraio se hanno ancora paura: "Daesh - risponde Ayman, che ha la mano sinistra bloccata da un’ingessatura, ma ha dovuto piangere la morte del fratello e della cognata - ci proverà di nuovo, perché odiano questo luogo e la gente che ci abita. Ma non li faremo avvicinare". I miliziani Hezbollah, giovani spesso giovanissimi con un tenue velo di barba e la cresta all’ultima moda, seguono attentamente i nostri scambi con i testimoni. Domando ad uno degli uomini armati cosa ne pensa della promessa di Nasrallah di difendere i luoghi santi: "È il suo destino - risponde sorridendo - ed anche il nostro". Ma come mai il potente servizio informazioni non ha funzionato? "Neanche noi siamo perfetti", sorride. "È difficile - continua - individuare un malintenzionato in mezzo alla folla. E quella mattina qui c’erano migliaia di persone". Passiamo per le stradine del suk interrotte da blocchi di cemento, guardate a viste da militari dai capelli bianchi. Ecco Shara Sudan, la via Sudan, dove il 31 gennaio, stesso copione, una autobomba e due kamikaze appiedati hanno fatto strage di soldati siriani e di miliziani. Perché questo è il luogo di ritrovo dei militari in partenza per le rispettive destinazioni. Quella mattina 42 soldati e 29 miliziani ci hanno lasciato la vita. Aji Mohammed aveva un negozio di generi vari proprio di fronte al luogo dell’esplosione, ma quella mattina, erano le 10,30, era andato a trovare un amico di Deraa alloggiato all’Hotel Ebla. Poco lontano ma quanto basta per salvare la pelle. "Ho ricostruito tutto - vede? - per ora con i tubi di metallo, ma nessuno mi ridarà il mio vecchio negozio". Arriva una coppia di rifugiati di Idlib a prendere il pano a prezzo politico, le larghe pagnotte basse che costano centesimi di dinaro. Lui, Ayman, è un insegnante. "Grazie a Dio ho ripreso a lavorare. Qui ci sono migliaia di bambini che hanno bisogno di studiare. Ma la sera faccio un corso di addestramento con la milizia popolare. È necessario". Il santuario di Sayyida Zainab è ricoperto di mattonelle tipiche dell’architettura persiana, in particolare l’azzurro splendente della scuola di Kashan, che qui chiamano Kislami. Un funerale attraversa il cortile pavimentato di marmo bianco. La bandiera gialla di Hezbollah, avvolge la bara di legno grezzo. Ai muri sono attaccati gli adesivi con le immagini dei "martiri". Dentro il santuario, uomini si prostrano e si abbandonano sulle grate d’argento che racchiudono, come una gabbia, la tomba di Zainab. Tetto e pareti ricoperti di specchi rimandano l’effetto di una grande padiglione tempestato di diamanti dalle infinite sfaccettature. I tappeti di Qom accomodano decine di pellegrini, alcuni hanno facce asiatiche, orientali. "È vero, questo è uno dei luoghi più caldi della Siria. Perché c’è chi vuole far esplodere l’ostilità tra sciiti e sunniti - dice nel suo ufficio il manager della moschea, Mohsen al Islam, ex ingegnere edile, impiegato nel settore petrolifero -. Ma questo santuario non è degli sciiti, o dei sunniti. È di tutti". A difenderlo, però, sono gli Hezbollah. Come lo spiega? "Gli Hezbollah, sono prima di tutto arabi e musulmani. E come tali ci assistono". Quindi secondo lei tra Hezbollah, la Siria e lo Stato Islamico non è in corso una guerra di religione. "Per niente, vogliono soltanto distruggere la Siria per dividersi le spoglie". Gran Bretagna: le nefandezze del Centro per immigrati più grande d’Europa di Leonarda Clausi Il Manifesto, 3 marzo 2016 Un rapporto svela le nefandezze di Harmondsworth, il Centro per immigrati più grande d’Europa, in mano ai privati. È il centro di accoglienza più grande d’Europa, che il ministero degli interni affida in appalto a imprese private, ed è passato recentemente di mano. Vi sono detenute circa un migliaio di persone, fra richiedenti asilo, migranti senza visto o dal visto scaduto o che hanno a carico precedenti penali e sono in attesa di rimpatrio, in una struttura abilitata a ospitarne un massimo di 661. E ora l’Harmondsworth immigration removal centre, vicino Heathrow, si trova in mezzo a un nugolo di polemiche per le condizioni disagiate in cui versano i suoi "ospiti". Un’ispezione a sorpresa lo scorso settembre, da parte dell’ispettorato delle prigioni, la massima autorità carceraria nazionale, ha portato martedì alla pubblicazione di un rapporto che inchioda il gruppo Geo, i precedenti detentori dell’appalto, alle proprie responsabilità nella gestione di una struttura trovata inadeguata, sovraffollata, sporca, infestata da parassiti, priva di mobilio e in parte fatiscente. E dove lo staff a volte è tutt’altro che solidale con i migranti pur trovandosi a svolgere un lavoro dove la comprensione dei disagi e delle esigenze dell’altro è fondamentale. Tutte mancanze che non possono non aggravare il già compromesso stato di salute e psicologico di chi spesso è miracolosamente sfuggito alla morte, nel proprio paese in guerra o nell’estenuante e infinito viaggio verso una vita migliore. All’inadeguatezza delle strutture di accoglienza si aggiungono poi i tempi troppo lenti nel disbrigo dei documenti e che finiscono per allungare spropositatamente la detenzione. Diciotto migranti si trovano a Harmondsworth da più di un anno, uno da quasi cinque, seppur in periodi diversi, e un altro da quattro e mezzo. Sono problemi già rilevati in una precedente ispezione del 2013 e che Detention Forum, un’organizzazione che si batte per la riduzione dei tempi di permanenza dei migranti in simili centri, non ha esitato a definire "deplorevoli". Una posizione alla quale non ha potuto non allinearsi lo stesso Peter Clarke, ispettore capo delle prigioni fresco di nomina e autore del rapporto: anche lui ha raccomandato al ministero dell’interno di adoperarsi per ridurre il periodo di detenzione, quando la Gran Bretagna è l’unico membro dell’Ue a non dover osservare alcun limite massimo in materia. Il rapporto non risparmia simili critiche ai successori di Geo, il gruppo Mitie, quotato in borsa e presieduto da Ruby McGregor-Smith, membra della camera dei Lords e dal 2014 titolare di un contratto di otto anni che vale 180 milioni di sterline. E dimostra un malessere ai piani alti dell’amministrazione pubblica nei confronti della politica governativa di cessione ai privati di aspetti delicatissimi di gestione della cosa pubblica, come il sistema carcerario. Quanto ai centri di accoglienza, evidentemente non sono solo i trafficanti di uomini a guadagnare dalla disperazione dei rifugiati: nella Gran Bretagna dei Tories sette degli undici centri di accoglienza nazionali sono in mani private. La denuncia di Clarke arriva a poche settimane dallo sdegno generalizzato causato a Cardiff, in Galles, dalla pratica di G4s di affibbiare ai polsi dei migranti dei braccialetti colorati che li distinguessero dalla popolazione. Travolto dalle polemiche, il colosso globale della sicurezza privata, il più grande del mondo, già ai disonori delle cronache per dei gravi pasticci gestionali durante le Olimpiadi londinesi del 2012, ha deciso di rescindere il proprio contratto per la gestione dei riformatori nazionali. Messico: "qui la detenzione è una tortura", così El Chapo chiede l’estradizione negli Usa di Guido Olimpio Corriere della Sera, 3 marzo 2016 La mossa della disperazione. Il boss di Sinaloa vorrebbe essere rinchiuso in un penitenziario non di massima sicurezza e spera in una riduzione della pena. Sui media l’hanno definita una mossa della disperazione. Oppure è solo tattica. Resta la notizia: El Chapo Guzman ha chiesto al suo legale Josè Rodriguez di accelerare il più possibile il procedimento di estradizione negli Usa. Una linea opposta a quella annunciata dopo l’arresto, quando il legale aveva annunciato una raffica di eccezioni per ritardarla. Il padrino ha cambiato idea perché sostiene che la detenzione nella prigione messicana dell’Altiplano è terribile, anzi una "tortura lenta", come ha detto in tv la moglie, l’ex miss Emma Coronel. Il baratto - Rodriguez, nello spiegare la scelta, ha precisato che il boss di Sinaloa in cambio del sì all’estradizione chiede qualcosa: vuole essere rinchiuso in un penitenziario normale e non di massima sicurezza, spera in una riduzione di pena. L’idea del baratto è legata a precedenti accordi conclusi da esponenti criminali messicani con le autorità giudiziarie americane, intese dove i narcos hanno ammesso le loro responsabilità e collaborato con i federali. Dunque El Chapo dovrebbe fare lo stesso, difficile pensare che Washington faccia sconti ad un uomo che ha inondato di droga le città Usa ed ha guidato per anni un impero costruito sulla violenza. In realtà, nelle scorse settimane, il boss aveva fatto sapere di essere pronto a riconoscersi colpevole. Ma al solito contano i fatti, i verbali firmati e non le uscite mediatiche. C’è sempre il sospetto che il capo voglia invece avviare una trattativa sotto banco con i messicani usando la carta dell’estradizione come ricatto: guardate che se finisco in America posso raccontare molto sui miei rapporti. Il boss provato - Dopo la cattura a El Mochis, Guzman è tornato nella prigione da dove era evaso nel luglio scorso e lo hanno sottoposto a misure di sicurezza in apparenza rigorose. Cambi di cella ripetuti, aggiunta di protezione al "cubicolo", cani da guardia presenti lungo i corridoi e controlli ripetuti, anche durante la notte. Una pressione fisica e psicologica che - stando all’entourage del boss - lo avrebbe provato in modo pesante. Accuse respinte dai responsabili della prigione che le hanno presentate come provvedimenti indispensabili nel timore di un’altra evasione. Nuove vittime della narco-guerra - La vicenda di Guzman si svolge mentre all’esterno la narco-guerra continua a falciare vittime. Diversi gli elementi. Nello stato di Veracruz 5 giovani sono stati uccisi da alcuni agenti al servizio di una gang, i loro corpi sono stati bruciati e poi triturati in una macina per lo zucchero. Secondo una ricostruzione sarebbero stati scambiati per membri di un cartello rivale. Nello stato di Tamaulipas, al confine con il Texas, è esplosa una nuova faida tra due gruppi appartenenti ai Los Zetas, scontro segnato dalle consuete atrocità. In Baja California prosegue invece l’offensiva di Jalisco-Nueva Generacion, organizzazione molto aggressiva, dotata di un braccio militare simile a quello di un movimento guerrigliero.