"Se non avessi le mie figlie mi sarei già tolto la vita" di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2016 Roverto Cobertera è un detenuto, condannato all’ergastolo per un omicidio, che lui dice di non aver commesso. E questo ora lo afferma anche il suo coimputato, che si è assunto tutta la responsabilità per quel reato. Roverto non è un "innocente", no, lui non ha mai negato di aver commesso dei reati, ma attende la revisione del processo perché sostiene con forza di non essere un assassino. E intanto è in galera, schiacciato da una pena senza fine, e dai tempi eterni della Giustizia, nel frattempo la moglie non può più seguirlo e le figlie sono lontane, a Santo Domingo, e quei miserabili dieci minuti di telefonata a settimana non possono essere sufficienti a fargli salvare il rapporto con le sue bambine. Roverto Cobertera mi ha detto più volte che se non fosse per le sue figlie si sarebbe già tolto la vita, e io so che è vero perché lui è realmente disperato. La notte di Pasqua Roverto è stato trovato in possesso di un cellulare, ed era già successo, mi hanno detto che stava parlando con la sua bambina più piccola e ha fatto resistenza perché non voleva consegnare il telefono. So che poi è stato portato in isolamento. Se mi fate notare che questa persona è responsabile di comportamenti profondamente sbagliati, vi dico che sono d’accordo, è evidente che è così. Ma è altrettanto evidente che se l’amministrazione vuole davvero capire il disagio di tanti detenuti, e prevenire i suicidi, non deve trasferire queste persone ma seguirle, punirle se necessario, e però in modo umano. E invece ho paura che lo vogliano trasferire, e questo significa esporlo a un forte rischio, significa distruggerlo. A qualcuno magari non interesserà, un delinquente in meno diranno, ma a noi interessa, eccome. Roverto mi ha mandato a dire che gli dispiace per me, e per Ristretti. Della "reputazione" di Ristretti Orizzonti non me ne frega niente: noi combattiamo ogni giorno per cambiare le cose, per rendere più umane le carceri, che ancora sono ben lontane dall’esserlo, e lo facciamo mettendo in conto i nostri errori, disastri, cadute. Quello che mi interessa è far capire che Roverto, in modo sbagliato, ha espresso una sacrosanta verità: che il carcere ha la gravissima responsabilità di distruggere le famiglie. La storia di Roverto è infatti anche una storia di affetti negati dal carcere: lui ha retto per anni il peso di un ergastolo probabilmente davvero ingiusto proprio per la famiglia, per quelle sue figlie bambine che lo cercavano e lo aiutavano a stare al mondo. Ma ora le figlie sono lontane, la famiglia non regge, e quel rapporto di affetto tra padre e figlie non si può salvare con una ridicola telefonata di dieci minuti a settimana, dove un padre dopo tre minuti deve dire alla figlia "Basta, passami tua sorella", e deve anche sentirsi addosso l’urlo di rabbia della bambina: "Papà ti odio, non puoi avere tanta fretta e non volermi parlare più!". L’Amministrazione penitenziaria organizza spesso convegni sulla prevenzione dei suicidi, e io segnalerò ogni volta, pubblicamente, che LA PREVENZIONE NON SI FA se si usano i trasferimenti per punire, non si fa se si usa l’isolamento per piegare chi non rispetta le regole, la prevenzione si fa prima di ogni altra cosa aumentando tutto quello che ha a che fare con l’amore delle famiglie: a partire dalla liberalizzazione delle telefonate e dall’uso massiccio di Skype. Ma la prevenzione si fa anche con un carcere più a dimensione di esseri umani, non con un carcere rigido, incattivito, chiuso ai cambiamenti. Il paradosso è che carceri chiuse come Opera, Venezia, perfino Parma si stanno aprendo, e un carcere-laboratorio come Padova rischia di naufragare nella burocrazia. Niente più colloqui lunghi per pranzare con i propri cari, Skype sempre più limitato nell’uso, bocciato quel sistema davvero innovativo che aveva portato gli educatori nelle sezioni, si torna all’antico sistema dei detenuti ripartiti per lettere dell’alfabeto. Resta aperta, ci hanno garantito, una sezione di AS1, ma a che condizioni? Verrà salvata quella che è stata una delle più importanti innovazioni, l’apertura dei circuiti di Alta Sicurezza al confronto con le sezioni comuni, ma soprattutto con la società che entra ogni giorno in quelle sezioni, o si andrà a una normalizzazione, a un ritorno agli antichi e inutili ghetti che riproducono il peggio della cultura mafiosa e appiattiscono ogni ventata di innovazione e di libertà? A chi ci fa presente che questa specie di "normalizzazione" di un carcere, che è stato davvero un luogo di sperimentazione importante, avviene a seguito di indagini che hanno scoperto traffici e altri illeciti, non possiamo non ricordare che tutto quello che di cattivo è successo è stato dovuto soprattutto a pochi agenti disonesti, che comunque non possono mettere in ombra le tante persone che lavorano con onestà e serietà. Non serve quindi nessuna chiusura, non è stata la troppa apertura a generare errori e storture, è che dove si sperimenta, si cambia, si guarda avanti, a un superamento del carcere chiuso e cattivo, è inevitabile che ci siano correzioni, riaggiustamenti, adattamenti. Per Roverto e per tutte le persone detenute allora chiediamo che la parola, ormai abusata, "umanizzare", riferita alle galere, si traduca in fatti. Gli Stati Generali dell’esecuzione della pena hanno prodotto già molte proposte in tale direzione, c’è in Commissione Giustizia una proposta di legge per gli affetti delle persone detenute profondamente innovativa, noi vogliamo ricordare a chi ha il compito di legiferare che il primo, fondamentale passo da fare è: che ogni detenuto possa chiamare al telefono la sua famiglia LIBERAMENTE. Forse, se questo fosse possibile, oggi Roverto, ma anche tanti altri che pensano a togliersi la vita in carcere, desidererebbero un pò meno morire e avrebbero tra le mani un filo sottile per restare attaccati alla vita. Si può sbagliare e finire in isolamento solo per amore delle figlie di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2016 A volte davvero l’amore per i propri figli può non giustificare, ma certamente far capire un’azione non consentita dalla legge. Roverto Cobertera, detenuto presso la Casa di reclusione di Padova, per la seconda volta è stato trovato in possesso di un telefono cellulare. Non mi sento di giustificare Roverto per aver infranto una regola, ma comunque vorrei riflettere cercando di capire il perché è dovuto arrivare al punto di mandare all’aria un percorso rieducativo che ha intrapreso da anni per una semplice telefonata con sua figlia. Forse sbaglio pure io chiamando quella telefonata "una semplice telefonata" perché banalizzo un rapporto tra padre e figlia e non è giusto, soprattutto quando i due non si vedono da anni. Roverto ha origini sudamericane e la figlia vive in America. L’istituzione penitenziaria autorizza a fare una telefonata a settimana, telefonate della durata di 10 minuti, ma cosa sono dieci minuti? Cosa sono dieci minuti di fronte all’amore di un padre che non vede da anni il proprio figlio? Roverto, anche oggi, continua a dire "se avessi la possibilità lo rifarei di nuovo". Roverto ha accettato il rischio, ha deciso di mettere in gioco tutto il suo percorso e anche la permanenza in questo istituto per poter sentire in maniera decente sua figlia. Ora è in isolamento e dovrà starci per 15 giorni. Qualcuno ha anche deciso che questi giorni dovrà soffrire il più possibile e quindi all’inizio non gli sono stati dati i vestiti per cambiarsi, neanche un cambio intimo da potersi mettere dopo la doccia. È vero, Roverto ha commesso un’infrazione e forse è anche giusto che capisca che se delle regole esistono è perché vanno rispettate, ma spiegateci perché esistono delle leggi che non consentono di vivere i propri affetti in maniera umana, i reati li abbiamo commessi noi non i nostri cari. Per far rispettare delle regole, soprattutto a persone che hanno sempre infranto le leggi, bisogna che queste regole abbiano un senso, ma molto spesso quando l’istituzione non sa dare delle vere motivazioni si rifugia in quella formula che mette sempre a tacere tutti dicendo "motivi di sicurezza". Uno dei tavoli degli Stati Generali ha trattato il tema dell’affettività, la proposta sarebbe quella di ampliare i minuti di telefonata da 10 a 20, ma anche 20 minuti cosa sono? Una volta le telefonate erano una a settimana di sei minuti, dopo il 2000 sono diventate dieci minuti, ora si propongono 20 minuti. Con tutto il rispetto è una miseria, non solo è una miseria il tempo che è poco, ma è una miseria che le persone non capiscono che dare la possibilità al detenuto di mantenere un rapporto umano con i propri cari può essere un deterrente contro la criminalità. Molto spesso si sente dire che il carcere, che la vita detentiva va umanizzata, ma cosa c’è di umano nel privare un essere umano dei propri affetti? Assolutamente niente, anzi la medicina che si tende ad usare sempre di più è rispondere al male con altro male, ma non è la strada giusta da perseguire. Ripeto che il gesto di Roverto non ha giustificazioni, ma credo che però si potrebbe provare a comprendere perché un detenuto decide di compromettere un buon percorso rieducativo che porta all’uscita dal carcere prima del fine pena per sentire il proprio caro. A volte bisognerebbe capire le motivazioni di una infrazione e non solo punire in maniera poco umana come sbattere una persona in isolamento come se fosse un animale, senza i propri vestiti e le cose di prima necessità per la propria pulizia, ma oggi questo è il sistema che anche Padova ha deciso di adottare. La tortura non è bilanciabile con niente di Mauro Palma (Garante Nazionale dei diritti dei detenuti) Il Manifesto, 31 marzo 2016 Giulio Regeni. Ora spetta a tutti noi e al governo italiano esigere la verità. Tornano nelle affermazioni di chi, in nome di un realismo politico e investigativo, non esclude il ricorso a pratiche di interrogatorio muscolare nella lotta al terrorismo internazionale, ora che questo tocca pesantemente le nostre strade, le nostre abitudini, i nostri mezzi di trasporto e non più soltanto luoghi e persone geograficamente distanti. Tornano a Strasburgo, nei casi che giungono finalmente a una definizione davanti alla Corte dei diritti umani e che ci riportano a cosa avvenne a Genova, in termini peculiari per estensione, brutalità e scelta politica, a cosa avvenne ad Asti nelle celle di isolamento, a cosa avvenne nelle strade milanesi quando una persona fu rapita e portata, con l’acquiescenza, la complicità o quantomeno l’indifferenza dei nostri servizi, a essere interrogata nei luoghi di assenza del diritto e di brutale presenza della coercizione, in Egitto. Ma, soprattutto tornano con quell’immagine non vista ma così drammaticamente intuibile di Giulio Regeni, consegnataci dalle parole di sua madre. Parole semplici, chiare che fanno percepire come l’immagine di una normalità positiva, ridente, di giovane aperto sia alla ricerca scientifica che all’impegno sociale e soprattutto aperto alla vita, sia stata tramutata nella maschera irriconoscibile prodotta dalla violenza di stato su un corpo inerme. La tortura ha sempre una doppia "funzione": informativa e politica. Ha una funzione informativa nel carpire le notizie utili all’ipotesi di chi interroga e l’adesione al proprio impianto d’indagine; nell’ottenere nomi, connessioni, elementi per altre inchieste: è la tortura che Beccaria respinse come tentativo di costruzione di una verità dei muscoli, basata sulla resistenza al supplizio. Ha una funzione politica nell’inviare attraverso la sua attuazione, la sua esibizione e l’impunità di chi la attua un messaggio intimidatorio volto ad affermare un potere assoluto e a reprimere sul nascere ogni tentativo di opposizione. Le indagini che, dopo le prime grottesche e offensive ricostruzioni di comodo, le autorità egiziane dovranno concretizzare e che le autorità italiane dovranno pretendere, ci diranno chi e come ha attuato lo scempio di quella vita; quali compiacenze ci siano state, quali rapporti con il potere. Tuttavia ci sono almeno due aspetti che già da ora vanno sottolineati, anche senza attendere l’esito di una vero e completo accertamento. Il primo riguarda il contesto di un apparato che ha assunto il potere attraverso un colpo di stato e che, come tale, è un interlocutore poco raccomandabile. Dovrebbe esserlo per i governi che con esso sembrano placidamente intrattenersi in virtù del suo ruolo di gendarme in una zona complessa. Ma anche per gli imprenditori che sembrano vederne la connotazione di garanzia di una stabilità, sia pure oscura e irrispettosa dei diritti umani, però utile ai propri investimenti. E infine per gli intellettuali e i giornalisti che, in ampie interviste, diffondono l’immagine di Abd al-Fattah al-Sisi quale "padre di famiglia" che farà di tutto per consegnare la verità sul massacro del giovane Giulio Regeni. Eppure tutti questi tre interlocutori, ai diversi livelli di responsabilità, non sembrano cogliere la gravità dell’implicita legittimazione che rischiano di dare all’attuale regime egiziano, alle sue azioni, all’ambiguità del ministro degli interni e alle fantasiose ricostruzioni dei suoi apparati. Occorre mettere un punto fermo a tutto ciò. I genitori lo hanno fatto martedì con la loro conferenza stampa. Ora spetta a tutti noi e al nostro governo. Perché come più volte si è doverosamente affermato in dichiarazioni di principio, il divieto della tortura non è "bilanciabile" con alcun altro principio, valore o criterio. Non è bilanciabile con la necessità della lotta al terrorismo; non è bilanciabile con la volontà di evitare pericoli imminenti - e questo lo abbiamo affermato tante volte in anni recenti per contrastare il tentennamento di alcuni interlocutori nel quadro internazionale dei primi anni di questo secolo. Tantomeno è bilanciabile con l’interesse economico o con l’interesse politico-militare dell’avere una guardia in un territorio che in anni recenti ha mostrato potenzialità e instabilità. Perché bilanciare vuol dire essere complici. Anche per dimostrare, quindi, la fermezza nel rifiutare qualunque sensazione di arrendevolezza in tal senso, credo sia bene che il nostro ambasciatore venga richiamato per consultazione qui in Italia. Stop ai facili allarmismi: le violenze in Italia sono in netto calo di Roberto Volpi Il Foglio, 31 marzo 2016 Se si potesse rivolgere al popolo italiano dai 14 anni in poi la seguente domanda: "Secondo voi, in Italia, negli ultimi anni, gli omicidi in generale e gli omicidi di cui sono vittime le donne, e le violenze, (sempre in generale e contro le donne) sono in crescita o in diminuzione?", non c’è dubbio alcuno s’avrebbe un plebiscito di risposte del tipo: "Ma in crescita, che razza di domanda". Se si potesse poi chiedere allo stesso popolo italiano quanto vasta sia tale crescita, la risposta sarebbe scontata. Intendiamoci, nelle indagini demoscopiche le risposte sono preordinate e secche: non sono apprezzative, dunque non c’è la possibilità di commenti. Mi sono divertito a esprimere quello che sono sicuro essere lo stato d’animo pressoché generalizzato di fronte alle due domande in questione. Il perché è presto detto: degli omicidi in generale e contro le donne (l’italiano "femminicidio") e delle violenze contro le donne - segnatamente di quelle sessuali - si fa un gran parlare da tutte le parti, e sempre in termini catastrofici. Con una specificazione che non manca mai: che questo peggio trova il suo brodo di coltura, e al tempo stesso il suo palcoscenico di gran lunga più importante, nella famiglia. Ah, benedetta innocenza di chi non dubita che le cose non possano che stare nei termini in cui ci vengono raccontate. Perché invece non stanno così - non queste, almeno. In Italia ci sono assai pochi omicidi, punto primo. Abbiamo un tasso di omicidi per milione di abitanti che ci colloca agli ultimi posti d’Europa e del mondo. Tra questi pochi omicidi la quota delle donne - punto secondo - è di un terzo da sempre, e si tratta di una quota ordinaria, nient’affatto eccezionale nel panorama internazionale. E infine, punto terzo: è tutto prepotentemente in calo. Tutto. Omicidi e violenze e stalking. In generale e sulle donne. Questo terzo punto merita un focus a parte. Secondo i dati del ministero dell’Interno (polizia) nel periodo marzo 2014-marzo 2015 rispetto al periodo analogo marzo 2013-marzo 2014 si sono registrate queste variazioni percentuali dei fenomeni che ci interessano: omicidi volontari meno 15,5 per cento (con vittime femminili meno 22,6 per cento); lesioni meno 10,7 per cento (con vittime femminili meno 13,8 per cento); percosse meno 13,5 per cento (con vittime femminili meno 17 per cento); minacce meno 12,8 per cento (con vittime femminili meno 15,2 per cento); violenze sessuali meno 21,3 per cento (con vittime femminili meno 22,3 per cento); maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli meno 12,6 per cento (con vittime femminili meno 14,8 per cento); atti persecutori meno 24,6 per cento (con vittime femminili meno 24,8 per cento). Una sfilza ininterrotta di "meno" su cui fermare bene l’attenzione. I dati in questione, che mostrano diminuzioni assai consistenti di tutti i delitti (nessuno escluso) vengono a seguito di contrazioni quasi altrettanto consistenti verificatesi nel periodo marzo 2013-marzo 2014 rispetto al periodo marzo 2012-marzo 2013. Non siamo insomma in presenza di una qualche "annata eccezionale", bensì di una tendenza. Tendenza ch’è ancora più accentuata per quanto riguarda i delitti contro le donne: non c’è un solo delitto, tra quelli del tipo esaminato (violenze e stalking) che non abbia registrato una più marcata contrazione di vittime femminili. Ancora un’osservazione, sulla famiglia. Gli omicidi in ambito familiare diminuiscono "solo" del 7,9 per cento (rispetto al meno 15,4 per cento complessivo), mentre i maltrattamenti in famiglia o contro i fanciulli diminuiscono del 12,6 per cento, una percentuale che è in generale più bassa di quelle relative agli altri delitti. Ma tutti questi altri delitti - omicidi compresi - compiuti fuori dalla famiglia, quanto della loro forte contrazione devono proprio alla famiglia? Nelle famiglie si compiono dei delitti (il cui numero risulta essere comunque in calo), e ciò è indiscutibile. Ma quanti delitti, proprio grazie alle famiglie, vengono evitati? Un aspetto, questo, di cui la comunicazione fa ben poca menzione. Il coraggio della denuncia è aumentato, specialmente tra le donne e nelle famiglie. Cosicché la formidabile contrazione dei delitti di violenza e stalking verso le donne è ancora più significativa. Perché è vitale una Procura europea antiterrorismo di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Il Foglio, 31 marzo 2016 Il Foglio del 24 marzo, non senza qualche tributo ideologico, boccia la mia proposta di procura europea. Lo fa sotto due profili. Il primo fondamentalmente rivolto contro qualunque struttura sovranazionale inevitabilmente condannata a diventare "burocrazia", si tratti di intelligence, di polizia e a maggior ragione di magistratura. E poi il secondo rilievo. La vicenda Abu Omar dimostrerebbe, sempre secondo il Foglio, che con i magistrati tra i piedi la lotta al terrorismo diventa addirittura più difficile. Mi ha stupito leggere questa seconda considerazione da un giornale che ha una importante tradizione di difesa dei diritti e delle garanzie. Giuseppe Sottile nei giorni scorsi, solleva un’altra questione, esprimendo un giudizio sul funzionamento della nostra procura nazionale antimafia (Dna). Sostiene, infatti, che quella struttura ha finito per tradire le aspettative, non essendo riuscita a dominare i particolarismi investigativi delle singole procure. Lo stesso rischio, secondo Sottile, correrebbe la nuova Procura europea. Andiamo con ordine. Coordinamento sì, ma burocrazia no, dice il Foglio. Ma chi definirebbe, persino tra i detrattori, la Cia o il sistema dei procuratori federali "burocrazia"? Senza una struttura centrale dubito ci possa essere una qualche omogeneità nelle tecniche investigative o di intelligence e soprattutto nello scambio e nella raccolta di informazioni. A questo rilievo risponde in qualche modo nel suo fondo lo stesso Sottile, quando rimprovera al legislatore italiano di aver dato alla procura antimafia solo poteri di coordinamento. C’è molta ideologia nel catalogare come "burocrazia" le eventuali e auspicabili strutture comuni. Anche perché in assenza di queste, sono le burocrazie nazionali a condurre il gioco, con i risultati che purtroppo conosciamo. L’idea che ci si possa rimettere in qualche modo alla buona volontà che dovrebbe sostenere un "ipotetico" coordinamento, per evitare il pericolo dei "baracconi", non tiene conto della forma e del peso dei particolarismi nazionali nella scrittura delle regole e soprattutto nella quotidianità della loro applicazione. La nostra esperienza di coordinamento nelle indagini contro fenomeni criminali viene da lontano. Quando ormai un quarto di secolo fa, su intuizione di Falcone, si decideva di coordinare le indagini di mafia, sia nell’ambito delle forze di polizia istituendo la Dia sia nell’ambito della magistratura, attraverso le Direzioni distrettuali antimafia e la Direzione nazionale antimafia. Sottolineo queste elemento perché credo sia centrale anche oggi. Oggi come allora affrontavamo una sfida, una minaccia gravissima alle istituzioni democratiche. È vero, quando nasceva la Direzione nazionale antimafia, alla quale nel febbraio del 2015 abbiamo conferito anche il potere di coordinamento in materia di terrorismo, le diffidenze non furono poche, così come le aspettative. Molte le diffidenze e i timori nella magistratura rispetto al rischio di interferenza e di controllo verticistico. Cosi come molte furono le critiche sul versante opposto: dall’anomala collocazione ordinamentale nell’ambito della Procura generale all’impianto fondato sul coordinamento. Aspetti indicati come freno al dispiegarsi della potenzialità dell’organismo. Si tratta di argomenti non spendibili e sovrapponibili nella vicenda della procura europea. Questa, infatti, dovrebbe interagire con ordinamenti diversi. In molti di questi, per fare solo un esempio, l’azione penale è promossa da procure più o meno direttamente emanazioni dell’esecutivo. Il terrorismo jihadista ha oggi una dimensione prevalentemente sovranazionale, le indagini "territoriali" assumono un segno chiaro soltanto se un’intelligenza collocata su una scala più grande è in grado di ricostruire, di tessere fila non visibili nella scala territoriale, di rintracciare le connessioni tra le reti criminali, le vie di finanziamento, i modelli di reclutamento, le relazioni tra i network nazionali. La Procura nazionale antimafia ha consentito di dare nel corso del tempo una chiave di lettura più ampia al lavoro delle procure distrettuali e, anche senza un vero e proprio ruolo gerarchico, ha contribuito a creare una rete infinitamente più efficiente rispetto a quella che presidiava il territorio prima della sua nascita. Se c’è un punto che nessuno è in grado di discutere in questo sistema è il vantaggio rappresentato da una banca dati comune che la Direzione nazionale antimafia ha implementato nel tempo e che costituisce un supporto fondamentale al lavoro delle singole procure antimafia. Se vogliamo usare, dunque, quell’esperienza, ammesso che la sua struttura sia replicabile ne varrebbe comunque la pena a fronte di un quadro nel quale, all’interno dei confini dell’Unione (lo ripeto per i "muristi"), le polizie e gli inquirenti non sanno quello che fanno i vicini di casa, ai quali preferiscono non dare troppa confidenza! Infine, la vicenda Abu Omar, a mio avviso, costituisce un argomento a supporto della mia proposta. Senza entrare nel merito, il suo esito è il frutto dell’affermazione di un principio: nessun potere pubblico, nazionale o straniero, può essere sottratto a un controllo di legittimità. Se vogliamo - come noi vogliamo con forza - che intelligence, polizie e in generale apparati di sicurezza agiscano in una dimensione sovranazionale, l’unica in grado di porsi sulla stessa scala dei network del terrore, è giusto portare sulla stessa scala il potere giurisdizionale. Una minaccia terribile come quella del terrorismo si fronteggia solo con una forma altrettanto potente e inevitabilmente terribile, che è bene che sia - in qualche modo e compatibilmente alla sua funzione - sottoposta a regole certe. Se facciamo la guerra al terrore senza questa accortezza rischiamo di cambiare la nostra natura. E questo significa farli vincere almeno su questo piano. Mi sembra strano spiegarlo al Foglio. L’imam entra in carcere, ma per arrestare la jihad di Sabrina Cottone Il Giornale, 31 marzo 2016 In otto penitenziari italiani religiosi musulmani in campo per evitare che il fanatismo faccia proseliti. La scommessa ha una posta alta: puntare sulle religioni per evitare che il fondamentalismo islamico faccia proseliti in carcere. Forse anche per questo il ministero della Giustizia ha chiesto la collaborazione degli imam. Una sperimentazione in corso in otto carceri del Paese, quattro in Lombardia, perché è al Nord la più alta concentrazione di detenuti di religione islamica, sul totale di oltre 10.000 musulmani nelle carceri italiane. In Lombardia, a gennaio 2016, erano 3.630 i detenuti stranieri, quasi la metà del totale (46,38%): molti i musulmani. I penitenziari milanesi di Opera e Bollate sono i luoghi pilota del progetto imam nelle carceri, realizzato in collaborazione con l’Ucoii, l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia. Nato per motivi di recupero, è una sorta di alternativa spirituale alla radicalizzazione dei detenuti che avviene sempre più di frequente nelle carceri, oggi uno dei principali luoghi di adescamento e reclutamento di futuri terroristi. Centrali di proselitismo del jihad. "Sono le nostre banlieu" secondo la recente definizione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Accanto a Opera e Bollate, in Lombardia la sperimentazione è stata avviata a Cremona e a Brescia Canton Mombello. Sono coinvolte anche le carceri di Torino, Verona, Modena e Firenze. Funziona così: l’Ucoii fornisce una lista di persone interessate a prestare la propria opera di volontariato (cioè senza alcuna retribuzione) nelle carceri, in qualità di ministri del culto (Imam) e mediatori interculturali e l’Amministrazione penitenziaria effettua i controlli per le necessarie autorizzazioni all’ingresso. Verifiche di concerto con le prefetture, per evitare la più paradossale delle situazioni, che cioè siano gli imam ammessi in carcere a rivelarsi pericolosi per la sicurezza. Nelle carceri milanesi, in passato, è capitato che abbiano fatto richiesta di entrare come imam persone alle quali non è stato concesso l’accesso perché avevano commesso reati. "L’intesa con l’Ucoii è una collaborazione allo scopo anche di gestire i problemi di sicurezza. In questo momento, nelle carceri ci sono anche persone attenzionate perché ritenute sospette" spiega Daniela Milani, professoressa all’Università Statale di Milano, tra i docenti di un corso sul pluralismo religioso rivolto agli agenti della polizia penitenziaria milanese, realizzato dalla Curia di Milano con rappresentanti delle diverse religioni. "Su chi è in difficoltà per motivi personali o sociali, è più facile che attecchisca un’interpretazione cattiva del Corano, se non c’è una seria politica di integrazione" dice Milani. Il corso di pluralismo religioso ha tra i docenti Hamid Roberto Distefano, del Coreis, rav David Sciunnach, ebreo, Paolo Branca della Cattolica. Distefano, italiano convertito all’Islam, sottolinea il rischio di "cattivi maestri", del "fai da te con internet" che "la scarsa integrazione va a facilitare". Un terreno su cui è più facile che attecchiscano male piante. Condivide Rav Sciunnach: "Il nostro è un seme che viene messo nella terra e non dà subito frutto, ci vuole tempo, ma siamo all’avanguardia". Come ricorda Branca: "Qualche tempo fa a Tolosa un detenuto arabo, un delinquente comune, radicalizzatosi in carcere, poi uccise bambini di una scuola ebraica. Oso sperare che se avesse incontrato rav Sciunnach e gente come noi a lavorare nel carcere, forse qualche dubbio gli sarebbe venuto...". Jihadisti d’Italia, è caos: 23 arrestati con l’accusa di terrorismo, ma uno su 4 è scarcerato di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 31 marzo 2016 Indagini superficiali o confusione nelle procure? Intanto nelle carceri è emergenza radicalizzazione. Hanno scarcerato persino "Hitler". Così infatti gli amici chiamavano il curdo iracheno Ibrahim Jamal: pericoloso jihadista per i carabinieri del Ros, vittima di un incredibile errore giudiziario secondo il pubblico ministero di Trento. Dopo che a novembre nome e soprannome di Jamal avevano fatto il giro del mondo per definire l’uomo di punta del gruppo del mullah Krekar, predicatore che dalla Norvegia reclutava mujaheddin per Al Ansar al Islam, i magistrati hanno annullato l’arresto di "Hitler" e quello di altri 7, su 17 catturati nell’operazione che aveva sgominato "una pericolosa associazione terroristica" a Merano. Un caso, questo, che racconta il cortocircuito del sistema giudiziario italiano in materia di terrorismo: il 20 per cento degli arrestati nello scorso anno è già stato liberato. Detenuti per il 270 bis - Delle 23 persone finite in carcere nel 2015 per 270 bis (l’articolo del codice penale che punisce chi si associa a gruppi terroristici nazionali o internazionali, oppure si offre come reclutatore) cinque sono uscite dopo poco. Avevano sbagliato le procure? O c’è un "baco" nei tribunali? È intorno a questa domanda che si sta muovendo in questi giorni di grande tensione il dibattito all’interno della stessa magistratura. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, lo scorso anno sono stati scarcerati 19 accusati di terrorismo. Ebbene, di questi 19 ben 10 sono fuori non perché hano espiato la pena (vero solo in 3 casi) o gli sono stati concessi i domiciliari (5 casi), ma perché per legge non potevano più essere tenuti in prigione. In cinque casi, infatti, erano scaduti i termini della custodia cautelare: processo troppo lungo, il giudizio si attende in libertà. In altre quattro occasioni l’arresto è stato revocato, cioè l’accusa di terrorismo è franata davanti al tribunale del Riesame, perché evidentemente non era abbastanza solida. In un caso, infine, l’arresto non è stato convalidato dallo stesso giudice per le indagini preliminari. Dieci su diciannove sono stati liberati prima che un tribunale decidesse se si trattava di terroristi oppure di innocenti: o non dovevano uscire dal carcere, o non dovevano proprio entrarci. A Roma terroristi, a Trento no - Considerata la delicatezza del tema c’è qualcosa che non torna. Astolfo di Amato è, tra gli avvocati italiani, un decano, e si è trovato a difendere Alma Shalabayeva nel famoso caso della deportazione. Di fronte ai dati delle scarcerazioni, allarga le braccia: "Si apre un interrogativo: sono state le forze di polizia ad aver svolto indagini superficiali, o è l’autorità giudiziaria ad aver usato un metro di misura più lassista?". La seconda ipotesi pare avere una sua solidità proprio nella storia della presunta cellula meranese del mullah Krekar. L’inchiesta del Ros è partita nel 2010 ed è stata coordinata dalla procura di Roma. Un gip della capitale, a novembre, dopo aver letto l’enorme mole di atti acconsente alla cattura dei 17 sospettati. Quando però il fascicolo per competenza passa a Trento, cambia la musica. Il procuratore capo Giuseppe Amato, di fatto, non crede al lavoro svolto dai colleghi. Nel firmare rapidamente la richiesta di archiviazione per 8 indagati, fa a pezzi il lavoro dell’altro ufficio: "Non ci si può accontentare di contatti episodici a mezzo del computer", "non basta la generica adesione all’ideologia", "sono segmenti di condotta neppure commessi in territorio italiano". Chi era un presunto terrorista a Roma, diventa l’oggetto di una svista giudiziaria a Trento. Dunque, da liberare al più presto. In Calabria, la Guantánamo d’Italia - "Il problema è serissimo - osserva Roberto Rossi, magistrato antiterrorismo di Bari, già membro del Csm - in altri paesi basta aver combattuto in Siria o Iraq per avere la prova e sostenere un processo, in Italia c’è bisogno che il soggetto combattente partecipi effettivamente al gruppo terroristico o compia un reato sul nostro territorio". Ma quanti sono, oggi, i detenuti per terrorismo islamico? Ci sono 38 accusati di 270 bis nel sistema penitenziario italiano. Di questi, 18 sono ospitati nella struttura di Rossano (Cosenza), già definita "la Guantánamo d’Italia". Da due giorni, e non è un caso, è arrivato l’esercito a presidiare l’area per il timore di attentati a seguito dei fatti di Bruxelles. Il ministro dell’Interno Alfano, nella conferenza stampa di fine anno, aveva parlato però di 259 arrestati nel 2015 "per fatti legati al terrorismo": in realtà quelli con l’accusa specifica sono stati solo 23 (e 5 sono usciti pochi giorni dopo essere entrati), i restanti sono indagati per reati di "contorno" quali immigrazione clandestina, rapina, spaccio, furti, anche se hanno avuto un qualche contatto con presunti gruppi terroristi. Contatti che, è l’allarme della Direzione nazionale antiterrorismo, avvengono spesso in cella. Sono 400 i detenuti a rischio radicalizzazione. Non sono "dentro" per il 270 bis, ma hanno manifestato segnali di potenziale adesione al salafismo più estremo. Anche per questo il Dap ha firmato un protocollo con l’Unione delle comunità islamiche per selezionare imam "certificati" col compito di guidare la preghiera de i 7mila detenuti musulmani: "Perché su un diritto intoccabile come la preghiera - dicono dal Dap - non ci possano essere equivoco". Il giornalista decide la pubblicazione della testimonianza di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2016 Cedu. Sentenza 22 marzo 2016 (Pinto Coelho contro Portogallo). Spetta al giornalista scegliere le modalità con le quali informare la collettività su questioni di interesse generale come lo svolgimento di un processo o un presunto errore giudiziario. Di conseguenza, va garantito il diritto a mandare in onda stralci di una testimonianza in udienza anche senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza del 22 marzo nel caso Pinto Coelho contro Portogallo, che ha portato alla condanna dello Stato per violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione. È stata una giornalista televisiva a rivolgersi a Strasburgo dopo la condanna, arrivata dai tribunali portoghesi, a versare un’ammenda di 1.500 euro per aver trasmesso il sonoro di un’udienza del processo a un cittadino di Capo verde, condannato a quattro anni di carcere per furto. Un errore giudiziario per la giornalista che aveva diffuso le registrazioni di testi che non avevano riconosciuto l’imputato. La cronista era stata così condannata per aver violato la normativa penale portoghese che consente la divulgazione di udienze solo previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Una scelta legislativa simile a quella italiana fissata dall’articolo 147 delle norme di attuazione al codice di procedura penale, sul quale la pronuncia è destinata a incidere. Per la Corte europea, che non condivide, se la notizia è di interesse pubblico, l’obbligo imposto dal legislatore nazionale di una preventiva autorizzazione, la condanna è stata contraria alla Convenzione. Non spetta, infatti, ai giudici nazionali stabilire le modalità con le quali un giornalista procede a diffondere una questione di interesse pubblico. Tanto più che l’articolo 10 tutela non solo il contenuto, ma anche le modalità con le quali il reporter esercita il suo diritto alla libertà di stampa. Nessun dubbio, per la Corte, che le questioni legate all’amministrazione della giustizia hanno un interesse generale e che la libertà di stampa non può essere sacrificata, in via generale, sull’altare della buona amministrazione della giustizia. È vero - osserva Strasburgo - che lo Stato ha diritto di porre taluni limiti per assicurare lo svolgimento di un equo processo, ma spetta al Governo dimostrare che l’ingerenza nella libertà di stampa era necessaria e proporzionale. Se lo Stato non dimostra in che modo la diffusione di un sonoro dell’udienza produce effetti negativi sulla buona amministrazione della giustizia, l’ingerenza non è ammissibile. E questo senza che sia rilevante sapere se le registrazioni sono arrivate nelle mani del giornalista in modo illecito. Ciò che conta, per Strasburgo, è che la diffusione del sonoro contribuisce a un dibattito di interesse generale. In questi casi, quindi, il giornalista non deve attendere alcuna autorizzazione, che i giudici internazionali sembrano non giustificare soprattutto tenendo conto che il processo era pubblico. La Corte, poi, a differenza del passato, ha bocciato anche il ricorso a sanzioni pecuniarie piuttosto lievi. Questo perché, scrive Strasburgo, la sanzione comminata al termine di un processo penale ha in sé un effetto deterrente sulla libertà di stampa ritenendo, così, che il fatto stesso della condanna ha più importanza del carattere minore della sanzione inflitta. Omicidio stradale. Droga e alcol senza prove di Stefano Manzelli Italia Oggi, 31 marzo 2016 Non è possibile ordinare il prelievo di sangue al pirata della strada gravemente alterato dall’alcol o dalla droga anche in caso di un coinvolgimento dell’autista in una ipotesi di omicidio stradale. Sarà molto facile, però, incorrere in limitazioni della libertà personale con condotte di guida poco prudenti e sfortunate. Lo ha evidenziato la procura di Trento con la circolare del 29 marzo 2016. La stretta sull’omicidio stradale lascia perplessi per le contraddizioni innestate nell’ordinamento a partire dalla revoca della patente per chiunque procuri anche indirettamente una prognosi grave, superiore a 40 giorni, per esempio facendo cadere un pedone o un ciclista. Ma è sul fronte penale che le cose sono ancora più complicate. Nel caso dell’omicidio stradale aggravato dall’uso di droga e tanto alcol le pene sono state pesantemente inasprite. Ma questa previsione vale solo se il conducente è a bordo di un veicolo a motore. Il ciclista ubriaco, evidenzia la circolare trentina, se anche procura un gravissimo sinistro stradale non incorre nell’aggravante speciale per alcol e droga. "Trattandosi di ipotesi di nuovi reati colposi", prosegue l’istruzione trentina, "non potrà applicarsi la disciplina del reato continuato anche se il trasgressore verrà denunciato per altre violazioni previste dal codice stradale". Per dimostrare lo stato di grave alterazione da alcol e droga sarà però necessario ricorrere a riscontri analitici di natura tecnica. E la riforma ha ammesso la possibilità di attivare dei meccanismi coattivi per costringere il pirata della strada a sottoporsi agli accertamenti medici. A parere della procura, però, non sarà possibile comunque ordinare un prelievo ematico coattivo. Lo vieta espressamente la Carta costituzionale, all’art. 13. "Per legge", prosegue la nota, "possono essere autorizzati prelievi di capelli e di mucosa del cavo orale, ma non del sangue". In ogni caso all’indagato dovrà essere dato l’avviso che ha facoltà di farsi assistere da un difensore. Circa l’alterazione da droga poi resta necessario documentare anche l’attualità dell’alterazione. Non solo la presenza delle sostanze stupefacenti. In caso di concorso di colpa sia da parte della vittima del sinistro che da parte di terzi la pena potrà essere diminuita fino alla metà. Le ipotesi sanzionatorie più gravi ammettono sia l’arresto obbligatorio in flagranza che il fermo di polizia e l’applicazione della custodia cautelare in carcere, prosegue la circolare. Per quanto riguarda le lesioni personali lievi resta la competenza del giudice di pace. Per quelle gravi e gravissime subentra la procedibilità d’ufficio e la competenza del tribunale. L’aggravante della fuga, innestato in coda ai nuovi articoli 589-bis c.p. e 590-bis c.p., a parere della procura difetta di coordinamento con il codice stradale con la conseguenza che l’arresto in flagranza di omicidio stradale non potrà essere neutralizzato dal comportamento collaborativo del trasgressore. Il reato di fatture false non è cumulabile con la truffa allo Stato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 12872/2016. L’emissione di fatture per operazioni inesistenti è reato speciale rispetto alla truffa ai danni dello Stato. Pertanto la duplicazione dell’imputazione disposta ai soli fini di rendere applicabile la confisca è scorretta, e la misura di sicurezza decade immediatamente vincolando alle restituzioni dei beni ablati. La Seconda sezione penale della Cassazione - sentenza 12872/16 depositata ieri - torna su un tema ampiamente arato dalla giurisprudenza di legittimità, per annullare senza rinvio una decisione del tribunale di Ferrara - condanna a 5 anni e mezzo di un imprenditore per i due reati in concorso - passata indenne anche dall’Appello, che si era limitato a dichiarare l’intervenuta prescrizione (quindi senza effetto alcuno sulla confisca). Assodato l’interesse ad agire dell’imputato - che rimaneva comunque spossessato dei suoi beni - la Corte ha stabilito la fondatezza del ricorso nella parte in cui evidenziava l’indebita sovrapposizione tra le due ipotesi di accusa. Per ribadire un orientamento già sufficientemente univoco, la Seconda parte dalla riforma dei reati tributari (dlgs 74/2000) che segnò all’epoca l’abbandono del modello prodromico di reato fiscale (legge 516/1982) "a favore del recupero della fattispecie penal-tributaria", come dimostra il momento consumativo della evasione fiscale che si realizza nella dichiarazione annuale, trascurando invece tutto ciò che ne sta a monte. Solo per la "emissione di fatture" (articolo 8) resta sanzionata anche l’attività preparatoria, ma unicamente per (tentare di) prevenire il fenomeno delle cosiddette "cartiere", e comunque con l’esclusione del concorso soggettivo dell’utilizzatore e con l’ulteriore esclusione del concorso del reato di frode fiscale (articolo 2). L’ulteriore punibilità dei reati da "cartiera" - per esempio l’emissione di documenti fiscali per ottenere indebite erogazioni pubbliche - va oltre l’ambito fiscale e si giustifica con la pluralità di obiettivi della condotta criminale. E inoltre, argomenta ancora il relatore a proposito del rapporto di specialità tra truffa e frode fiscale, siamo obiettivamente di fronte a fatti naturalistici diversi: la frode richiede un artificio peculiare mentre alla truffa servono, per il suo perfezionamento, elementi indifferenti per il reato tributario, dalla induzione in errore fino al danno. Anche ponendosi fuori dal rapporto di specialità, comunque - e immaginandosi in un ambiente alternativo di "unità normativa del fatto" - la soluzione da adottare è un criterio di valore agganciato alla norma penale più severa. Ma solo quella, escludendo il concorso. Nullo il sequestro per evasione Irap di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2016 Evadere l’Irap non è reato. Di conseguenza il sequestro preventivo va annullato oppure rideterminato al ribasso in caso di contestazione "mista". Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 12810 della Terza sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così disposto l’annullamento (senza rinvio) dell’ordinanza con la quale il tribunale del riesame aveva respinto l’impugnazione del sequestro preventivo disposto dal Gip per il reato di omessa dichiarazione. A venire contestata dall’accusa era la mancata presentazione delle dichiarazioni sia Irap sia Ires sia Iva per 3 annualità. Nell’importo complessivo soggetto alla misura cautelare finalizzata alla confisca era stato anche contabilizzato un importo relativo, per ciascun anno, all’imposta regionale sulle attività produttive. Il ricorso da parte della difesa del rappresentante legale si era concentrato sul fatto che nel perimetro del profitto del reato non poteva essere annoverata anche l’evasione Irap. La Corte di cassazione accoglie l’impugnazione cancellando il sequestro per i 60mila euro complessivi a titolo di Irap. E lo fa sottolineando, come premessa, che sequestro e confisca per equivalente non possono avere per oggetto beni in valore superiore a quello che è il profitto del reato "nel senso cioè che il valore delle cose sequestrate deve essere adeguato e proporzionale all’importo del credito garantito". Il tribunale del riesame, allora, nel quantificare il profitto del reato di omessa dichiarazione, ha per errore tenuto conto anche dell’(asserito) mancato pagamento dell’Irap sui redditi relativi alle 3 annualità sotto la lente penale. La legge infatti non attribuisce rilevanza penale all’eventuale evasione dell’Imposta regionale sulle attività produttive, dal momento che non si tratta di un’imposta in senso tecnico. Così, le dichiarazioni che, più correttamente, rientrano nell’area presidiata dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 sono unicamente le dichiarazioni dei redditi e quelle annuali Iva. Una conferma di questa linea interpretativa si trova anche nella circolare del ministero delle Finanze n. 154/E del 4 agosto 2000, che spiega l’esclusione della dichiarazione Irap con la natura reale dell’imposta che, per questa ragione, non si considera incida sul reddito. Il reato di omessa dichiarazione è invece posto a tutela del bene giuridico patrimoniale dell’incasso del tributo da parte dell’Erario ed è alla mancata percezione dell’imposta (sui redditi e Iva), derivante dall’omessa presentazione di "una delle dichiarazioni relative a dette imposte" che deve farsi riferimento per l’individuazione del profitto del reato, quando sia stata superata la soglia di punibilità prevista dalla fattispecie incriminatrice". Di conseguenza l’irrilevanza penale della condotta trascina con sè anche la necessità di rideterminare, abbassandola, la misura cautelare che era stata presa per un’omissione che comprendeva una pluralità di tributi, in arte compresi nel perimetro di rilevanza penale e in parte, invece, esclusi. La Cassazione procede allora in maniera diretta alla rideterminazione del sequestro, "amputando" l’originario importo dei circa 60mila euro che erano stati compresi nel profitto del reato in quanto ascrivibili all’Irap. Una borsa contraffatta non fa ricettazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 12870/2016. È l’uso personale a fare la differenza. E a escludere da sanzione penale l’acquirente di merce contraffatta. Questa la conclusione della Corte di cassazione con la sentenza n. 12870 depositata ieri. Annullata di conseguenza, ma con rinvio per la rideterminazione degli elementi della condotta, la condanna per ricettazione disposta dalla Corte d’appello di Lecce nei confronti di un imputato che era stato fermato alla guida di un’auto a bordo della quale trasportava un borsone contenente svariati capi d’abbigliamento di note marche con segni di contraffazione. La Cassazione, nell’esaminare il ricorso, ricorda che, per escludere la punibilità per il delitto di ricettazione, è necessario che la persona che acquista il bene "sospetto" lo abbia fatto per uso personale. Deve quindi essere estranea al processo produttivo ma anche di diffusione del prodotto contraffatto. "Di conseguenza - sottolinea la sentenza - risponde del delitto di ricettazione chi acquistando un bene contraffatto, contribuisca alla ulteriore distribuzione e diffusione di esso, in quanto non lo destina a sé, ma ad altri, essendo irrilevante se l’ulteriore distribuzione avvenga a titolo oneroso o gratuito". In primo grado l’imputato era stato condannato per ricettazione perché riconosciuto colpevole anche del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, un reato quest’ultimo che esclude alla radice la possibilità di essere considerati "acquirenti finali" del prodotto incriminato. Peccato però che, successivamente, la Corte d’appello avesse ritenuto di assolvere l’imputato proprio dal reato presupposto, punto su cui poi si era formato il giudicato. Venuto quindi meno l’elemento che permetteva di escludere che l’imputato potesse essere ritenuto un consumatore finale, si sarebbe dovuta rivalutare tutta la sua posizione da parte dei giudici di secondo grado. Obiettivo: verificare a quale titolo l’imputato era in possesso della merce che gli era stata sequestrata. Invece la Corte d’appello aveva provveduto solo in parte, rilevando l’esistenza dell’elemento psicologico della ricettazione; elemento però che, di norma, è presente anche nel consumatore finale, di solito ben consapevole dell’acquisto di merce contraffatta. Tra immigrazione e Garanti dei detenuti dal Forum Nazionale dei Giovani L’Opinione, 31 marzo 2016 Come garantire una dignità che deve essere propria degli esseri umani anche all’interno degli istituti penitenziari italiani? Questo uno degli interrogativi che ha portato il Forum Nazionale dei giovani a istituire un gruppo di lavoro sulla situazione carceraria ed a elaborare un report che sarà presentato in tutta Italia nei prossimi mesi. Il primo appuntamento di questo tour si terrà giovedì prossimo alle ore 11:30 presso il consiglio regionale della Campania. "Nell’ultimo decennio" afferma il coordinatore del gruppo di lavoro l’avvocato Luigi Iorio "l’aumento della popolazione penitenziaria italiana ha generato un forte sovraffollamento degli istituti di pena che ha contribuito ad un notevole deterioramento delle qualità della vita dei detenuti, già provati per le condizioni di limitata libertà. In un passato recente in una cella, dove sarebbe previsto il soggiorno di soli due detenuti, ve ne alloggiavano normalmente sei e, nel peggiore dei casi, otto. Questa condizione ha favorito il proliferare di malattie, una vera e propria emergenza sanitaria anche per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere. Situazione che ha visto condannare l’Italia dalla Cedu". "Nell’ultimo periodo - continua il coordinatore del gruppo di lavoro - le cose sono certamente migliorate". Il sovraffollamento carcerario degli ultimi decenni ormai sembra attenuato anche grazie agli interventi recenti del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dall’intervento dalla suprema Corte costituzionale che ha cassato una legge restrittiva come la Fini-Giovanardi. Attualmente sono 52.846 i detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.504 posti a disposizione nei 195 carceri nazionali. Altro dato su cui ci siamo soffermati è sulla percentuale di stranieri sulla popolazione carceraria che è del 32 per cento. In Europa ci si ferma al 14 per cento. Altro capitolo, quello che riguarda i minori. I detenuti presenti negli Istituti penali per minorenni al 28 febbraio 2015 sono 407, di cui 168 (il 41 per cento) stranieri. Tra i detenuti presenti, 175 in attesa di giudizio, vale a dire circa il 43 per cento del totale. Infine vi è la spiacevole problematica legata alle mamme detenute. Ci sono bambini che scontano la pena insieme alle loro madri. Notizia positiva è la chiusura degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari istituiti in Italia a metà degli anni settanta con il fine di sostituire i vecchi manicomi criminali. Purtroppo però non tutte le nuove strutture denominate Rems sono funzionanti. Per il futuro occorre abolire il reato di immigrazione clandestina e intensificare la possibilità del rimpatrio dei detenuti stranieri nel proprio paese di origine. Serve poi sollecitare le regioni e i comuni capoluogo a nominare più celermente i garanti dei detenuti; prevedere delle attività formative all’interno delle carceri che offrano l’opportunità di acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro: si pensi semplicemente, ad esempio, all’insegnamento della lingua inglese o dell’informatica. Dal punto di vista dell’esecuzione della pena occorre porre l’attenzione sulla carenza di magistrati di sorveglianza, tale carenza limita i diritti dei detenuti e le loro istanze, materia di pertinenza del Consiglio superiore della magistratura, implementare la vigilanza dinamica, colloqui educativi e migliorare ancor di più le condizioni di vita dei detenuti come affermato nei motivi della sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del gennaio 2013. Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, informata ai valori costituzionali e in linea con le risoluzioni internazionali migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di soffrire una doppia pena: quella sociale che si somma a quella penale. Napoli: era finito in cella per rapina, si impicca con un elastico di Stefano Di Bitonto Metropolis, 31 marzo 2016 La vittima aveva 30 anni, si è ucciso nella casa circondariale di Poggioreale. L’ultima difesa: mi servivano soldi per comprare le uova di Pasqua ai figli. Tragica, ennesima morte in carcere. Un suicidio avvenuto al padiglione Napoli la scorsa notte con protagonista un detenuto di 30 anni. Pasquale Puorro di Afragola che si sarebbe tolto la vita con l’elastico della biancheria intima all’interno della sua cella. L’uomo era in carcere da pochi giorni dopo essere stato arrestato con l’accusa di rapina: per gli investigatori sabato scorso, assieme ad un complice, aveva effettuato un colpo ai danni di un negozio di parrucchiere a Cardito. Sul corpo di Puorro verrà comunque effettuata l’autopsia mentre la Procura ha aperto un fascicolo: l’esame autoptico sarà finalizzato a confermare l’ipotesi del suicidio e dare qualche informazione in più sui suoi ultimi attimi di vita. Dalle prime indiscrezioni filtrate pare che Puorro, poco prima della convalida del fermo, avrebbe manifestato l’intenzione di un gesto estremo, gesto materializzatesi purtroppo ieri. Due giorni fa l’uomo, difeso dall’avvocato Giovanna Cacciapuoti, aveva affrontato l’udienza di convalida e dinanzi al giudice del tribunale di Napoli nord aveva confessato la rapina raccontando di voler comprare delle uova di Pasqua per i figli, due bambini di sei e di due anni. Già in passato era stato in carcere: era stato già condannato a due anni e otto mesi con l’accusa di rapina, condanna che ha scontato agli arresti domiciliari. Dopo essere stato assolto dall’accusa di evasione dai domiciliari era tornato in libertà fino all’ultimo arresto di sabato scorso. E a quel tragico gesto effettuato con l’elastico della biancheria intima. Su questo ennesimo caso è intervenuto anche Donato Capece, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria: "Si tratta dell’ennesima tragedia avvenuta dietro le sbarre. Da anni denunciamo la cronica carenza di agenti, non è pensabile che un solo agente debba occuparsi anche di cinquanta detenuti. Con più unità e di conseguenza più controlli c’è maggiore possibilità di evitare gesti cosi estremi. Altro punto che contestiamo è la volontà dell’amministrazione centrale di garantire la cosiddetta "sorveglianza aperta" con appunto l’apertura delle celle. Se c’è già una mancanza cronica di unità come possiamo pensare di garantire un controllo adeguato dei detenuti?". Altro punto critico sollevato da Capece è quello della depenalizzazione dei reati minori: "Bisogna garantire le misure e le pene alternative come mezzo per combattere la piaga della sovrappopolazione nei penitenziari, in carcere devono andarci gli autori di reati gravi e quelli legati a fatti inerenti la criminalità organizzata. Soltanto in questo modo la polizia penitenziaria potrà svolgere al meglio il suo compito". Sull’ultima tragedia avvenuta la scorsa sera al padiglione Napoli è intervenuto anche Pietro loia, presidente dell’associazione ex detenuti organizzati napoletani che ha evidenziato un altro aspetto della vicenda e della sicurezza dietro le sbarre: "È importante che i detenuti che sono sottoposti a terapie farmacologiche solo ed esclusivamente nelle infermerie alla presenza dei medici, altrimenti c’è il rischio che si conservino medicinali e ne assumano tutti quanti assieme con un sovradosaggio come avvenuto per Giulio Murolo". Spoleto (Pg): detenuto tenta il suicidio impiccandosi, salvato dalla polizia penitenziaria spoletooggi.it, 31 marzo 2016 Un detenuto ha tentato di impiccarsi in piena notte nel bagno della sua cella legando il lenzuolo alle inferriate della finestra. È successo nel carcere di Spoleto, nella notte tra martedì e mercoledì intorno alle 2.30. A rendere noto l’episodio è Riccardo Laureti, segretario regionale della Fns Cisl Umbria. Riccardo Laureti, segretario regionale della Fns Cisl, riferisce che "solo grazie alla professionalità e alla prontezza di riflessi dell’agente in servizio in quella sezione, si è potuto evitare il peggio". L’agente, mentre faceva il giro di ispezione si è accorto che il detenuto era nel bagno, dopo averlo chiamato più volte, senza risposta, con l’ausilio dei sottufficiali in servizio entravano nella cella del detenuto; la porta del bagno era bloccata dall’interno con un manico di scopa. Tolti gli ostacoli, hanno trovato il detenuto con il lenzuolo al collo appeso alle inferriate della finestra. Ancora cosciente, ed è stato accompagnato nella locale infermeria e medicato, senza necessità di ricovero. Modena: caos al Carcere di Sant’Anna, un detenuto ha tentato il suicidio mo24.it, 31 marzo 2016 Un detenuto di origini algerine, situato nel reparto protetti della struttura penitenziaria Sant’Anna ha tentato di suicidarsi barricandosi nella propria cella. Lo straniero in preda alla disperazione ha dato fuoco al materasso della propria branda, richiamando così gli agenti di custodia. L’intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria sono intervenuti immediatamente, ma hanno faticato molto per entrare nella stanza, l’uomo è stato tratto in salvo. Il detenuto ha opposto una strenua resistenza, perché determinato a togliersi la vita. Per fortuna non ci sono stati intossicati e tutto si è risolto per il meglio. Sull’accaduto si è espresso Eugenio Durante della Segreteria Regionale Sappe: "Sono sempre tanti gli eventi critici che si verificano nelle carceri, nonostante il calo dei detenuti avvenuto negli ultimi anni. Infatti, in Emilia Romagna, la popolazione detenuta è scesa al di sotto dei 3000 reclusi, rispetto ai circa 4400 di qualche anno fa". Cagliari: Caligaris (Sdr); nuovo ricovero dopo 24 ore in cella per nonnina di 83 anni Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2016 "È tornata in cella ieri mattina, dopo quindici giorni di cure ospedaliere, perché le sue condizioni sembravano stabili. Invece stamattina è stata nuovamente ricoverata in Ospedale per una bradicardia. Stefanina Malu, la nonnina della Casa Circondariale di Cagliari, che ha compiuto 83 anni lo scorso 8 marzo, si trova nella struttura del San Giovanni di Dio". Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che con i volontari ha incontrato più volte la donna affetta da diverse patologie. "Stefanina Malu aveva ottenuto per i gravi disturbi cardio-respiratori il differimento della pena nel 2009, ma era stata nuovamente condotta in carcere nel giugno 2012 perché le sue condizioni di salute erano risultate discrete a una visita di controllo. Successivamente era tornata a casa anche per poter accudire il figlio Casimiro non autosufficiente, poi deceduto. Durante i domiciliari però non avrebbe tenuto un comportamento corretto e ciò ha comportato il suo ritorno dietro le sbarre con l’accusa di spaccio di droga". "Si tratta di una persona con una storia personale e familiare non certo esemplare ma vederla in una cella della Casa Circondariale in condizioni di sofferenza - conclude la presidente di Sdr - non può lasciare indifferenti, anche perché l’età avanzata e la depressione senile limitano le attività trattamentali e di recupero sociale. L’auspicio è che possa riprendersi e possibilmente tornare a casa. Sondrio: le dimissioni del Garante dei detenuti diventano un "caso", Sindaco sotto accusa La Provincia di Sondrio, 31 marzo 2016 I gruppi di minoranza compatti nel lanciare l’accusa: "Il sindaco non ha mosso un dito dopo le dimissioni. Abbiamo perso una persona preparata e super partes". In consiglio comunale il sostegno al garante dei detenuti è stato unanime, ma la posizione del sindaco è stata "una stridente stonatura" rispetto all’unanimità del consiglio comunale, dopo mesi di "inerzia spiacevole" di fronte alle difficoltà segnalate da Racchetti. Lo dicono i gruppi di opposizione, che in una nota unitaria esprimono forti critiche all’operato e all’atteggiamento del primo cittadino Alcide Molteni nella vicenda che si è conclusa, come noto, con le dimissioni che il garante dei detenuti Francesco Racchetti ha presentato martedì sera all’assemblea cittadina. Firmato da Sondrio liberale, Forza Italia, Sondrio anch’io, Popolari retici, Lega, Rilanciamo Sondrio e Movimento 5 stelle, il documento punta il dito contro Molteni, che secondo i consiglieri di opposizione con il suo intervento ha aggiunto "un ulteriore elemento di forte disagio", scrivono, "nel totale sconcerto per la situazione venutasi a creare, peraltro segnalata da tempo dal garante alle autorità competenti, tra cui il sindaco e il presidente della competente commissione consiliare Gemma Simonini". Tutti i consiglieri comunali intervenuti nel dibattito, sottolineano i gruppi di opposizione, hanno espresso "sostegno e apprezzamento della figura del garante", tanto che all’ordine del giorno "bipartisan" presentato ad inizio seduta si è aggiunto anche un secondo documento, preparato in aula, che chiedeva a Racchetti di ritirare le dimissioni. Invece nell’intervento di Molteni in aula "in nessun passaggio è stato ribadito il sostegno e la partecipazione solidale nei confronti del professor Racchetti", affermano i consiglieri di opposizione, con "una generica disamina dell’attività del garante" e "l’assenza di un qualsiasi ruolo di relazione tra amministrazione comunale ed istituzione carceraria". Ma c’è di più, secondo i gruppi di minoranza, perché anche il contesto è significativo: "Per tutta la discussione il sindaco è rimasto immobile, ricordando figure mitologiche egizie - prosegue la nota -, con lo sguardo che mai ha voluto incrociare quello del garante, seduto alla sua destra. Ancor più imbarazzante l’assenza di una stretta di mano, segno di stima e di solidarietà, all’uscita dalla sala consiliare di Racchetti. Evidentemente - affermano nella nota - vecchie ruggini, probabilmente legate ad una situazione da mesi incancrenita, hanno inevitabilmente spinto un personaggio di elevato profilo morale e culturale alle dimissioni, soprattutto in considerazione del fatto che non è stata intrapresa, da parte del sindaco e della giunta, un’azione forte a tutela dell’operato importante del garante, sollecitata dagli interventi di tutto il consiglio comunale". Larino (Cb): il teatro itinerante in carcere, un regista guida i detenuti attori primonumero.it, 31 marzo 2016 Il teatro come esperienza di rinascita e di impegno. Uno strumento di integrazione e riabilitazione sociale che per i detenuti del carcere di Larino rappresenta un’opportunità importante, da non buttare via. Quest’anno nel penitenziario alle porte della città frentana la sfida teatrale si fa più ricca e particolare: il progetto è infatti quello di realizzare un teatro itinerante "per gli attori e per gli spettatori - raccontano le organizzatrici - lo spettacolo si muoverà nei vari luoghi della struttura, gli attori reciteranno in stanze diverse, mai aperte e sconosciute per le quali abbiamo richiesto dei permessi speciali, con loro anche gli spettatori che avranno la possibilità di visitare il carcere e conoscere una realtà di cui conoscono solo l’esistenza". Nei dieci giorni di lezioni intense gli attori sono stati guidati dal regista di Santa Croce Nicolino Macolino e dall’insegnante Petronilla Di Giacobbe per scrivere l’intera sceneggiatura e costruire il progetto, "il regista è stato con noi dieci giorni e poi tornerà a Londra, nei prossimi giorni saremo noi a seguire i ragazzi e a continuare a lavorare allo spettacolo". A giugno presumibilmente la rappresentazione teatrale che vedrà in scena l’Amleto di Müller, una parodia dell’opera in cui si ritrovano le tante e diverse storie dei detenuti che hanno contribuito personalmente a scrivere il copione con le loro vicende personali. L’intento delle insegnanti del Cpia, i centri per l’istruzione degli adulti, in origine centri territoriali permanenti, è quello di creare una compagnia stabile con un regista che possa seguirli e rendere il carcere di Larino al pari degli altri penitenziari italiani, dove le attività sono numerose e coinvolgono tutti i detenuti. Telefonate a casa alle sei del mattino "aiuto, siamo migranti sui barconi!" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 31 marzo 2016 L’allarme dato da un pensionato del quartiere Marconi che ha chiamato la polizia. Lo straniero faceva numeri a caso col prefisso di Roma: salvati in mare in più di 600. In sottofondo si sentiva il mare. "Ma non si capiva una parola, quel tipo parlava un pò in inglese, un pò in francese. Non capivo proprio cosa volesse all’alba". Un pensionato di 66 anni che abita al quartiere Marconi tutti poteva immaginare tranne che dall’altro capo del telefono di casa ci fosse un migrante terrorizzato, un sudanese con un satellitare, in balìa delle onde su un barcone pieno zeppo di persone salpate dalle Libia. Più di una telefonata dai toni disperati, alle sei del mattino, componendo con il telefonino numeri a caso con il prefisso di Roma. Una tecnica tuttavia utilizzata spesso dagli scafisti (che sono gli unici fra l’altro a poter possedere in quei frangenti un telefono satellitare) per chiedere aiuto e far scattare i soccorsi una volta a ridosso delle coste italiane facendo chiamare passeggeri impauriti, quasi sempre donne. Questa volta il destino ha voluto che quel pensionato si sia svegliato a forza di telefonate e che poi un poliziotto intervenuto su chiamata dell’inquilino stanco di tutte quelle chiamate incomprensibili abbia capito cosa stava accadendo e abbia dato l’allarme. Così, probabilmente, la guardia costiera è riuscita martedì mattina a individuare un gommone e quattro barconi diretti sulle coste italiane con 600 migranti a bordo che sono stati salvati. Una parte importante dei quasi 1.600 intercettati nel corso di 11 operazioni nel Canale di Sicilia e portati al sicuro. "Dall’altra parte del telefono si sentivano le onde e il vento forte" - Il soccorso è scattato dopo la segnalazione del capopattuglia dell’autoradio del commissariato San Paolo che con un collega si era recato a casa del pensionato in via Cardano, vicino viale Marconi. All’inizio sembrava più un intervento per molestie telefoniche, visto che lo straniero continuava a chiamare a ripetizione senza riuscire a farsi capire dall’interlocutore, ma lo stesso padrone di casa ha comunque intuito che poteva trattarsi di una richiesta di aiuto di qualche tipo. Magari per qualcuno che stava tentando il suicidio. Non era così. A capire tutto è stato il poliziotto che all’ennesima telefonata ha risposto di persona. Il mare, il vento, il rumore assordante dei motori. L’impressione immediata è stata quella di parlare con qualcuno che si trovava su una barca. Poi, scambiando ancora qualche parola, l’agente si è reso conto che era un migrante che chiedeva soccorso. A quel punto è stato avvisato il comando generale della guardia costiera ed è stato individuato il punto in mare dove si trovava il satellitare dal quale partivano le telefonate. L’eredità delle guerre jugoslave di Guido Caldiron Il Manifesto, 31 marzo 2016 Sempre più tour dei foreign fighters e gruppi jihadisti, qui la nuova frontiera europea. È uno dei frutti avvelenati che la lunga guerra civile dei Balcani ha lasciato agli stati nati dal collasso della ex Jugoslavia. Lo jihadismo, sbarcato nella regione, ed in particolare prima in Bosnia, dove unità speciali di "combattenti islamici" provenienti da tutto il mondo arabo ma anche da Pakistan e Afghanistan furono integrate nel 1993 nell’Armija BiH, l’esercito della repubblica guidata da Ali Izetbegovic, formando il reparto "El Mudjahedin" forte di circa 2000 effettivi, e quindi nel Kosovo, grazie alle associazioni caritatevoli wahabite e all’impegno economico diretto dell’Arabia saudita, ma anche paradossalmente dell’Iran sciita, non ha mai davvero deposto le armi. Al punto che la jihad balcanica riappare sistematicamente da oltre un decennio in tutte le indagini sulla rete terroristica globale, prima legata ad al Qaeda ed ora al sedicente Stato Islamico. In particolare, anche in seguito alle stragi di Parigi e Bruxelles, i media internazionali hanno lanciato l’allarme sul gran numero di foreign fighters partiti da queste zone alla volta della Siria e poi tornati in patria. Attualmente oltre 800 volontari, in prevalenza provenienti da Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Albania, Macedonia e dalla regione del Sangiaccato nella Serbia meridionale, farebbero parte delle forze impegnate dall’Isis contro il regime di Assad. Tra i bosniaci, oltre la metà dei combattenti proverrebbe inoltre dalla sola zona di Sarajevo. Per il rapporto dell’Onu 2015, sulla base delle informazioni fornite dall’intelligence di 27 paesi, che fissava in oltre 15 mila il numero dei "volontari" stranieri accorsi a sostenere le forze di al Baghdadi, cifra poi rivista al rialzo fino a far parlare di almeno 25 mila combattenti stranieri presenti tra Siria e Iraq, con un aumento di oltre il 70% rispeto al 2014, alcuni stati balcanici rientrano tra i primi 10 a livello internazionale per numero di foreign fighters forniti alla causa della jihad rispetto alla popolazione complessiva, Una inquietante classifica che vede Albania, Bosnia e Kosovo affiancare paesi come Tunisia, Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Libano, Kazakhistan e Turkmenistan. E il problema, com’è noto, non riguarda tanto coloro che sono partiti, in particolare alla volta della Siria, quanto piuttosto chi da quel fronte ha fatto ritorno con il suo carico di esperienza bellica, odio e determinazione. Dalle informazioni fornite sia dalla polizia locale che dalle forze della Kfor/Nato, solo in Kosovo, paese che non raggiunge i 2 milioni di abitanti, dal 2011 ad oggi avrebbero fatto ritorno dalle guerre del Medio Oriente oltre 120 jihadisti, mentre l’intero circuito del fondamentalismo radicale potrebbe contare su circa un migliaio di adepiti. Dei 140 sostenitori dell’Isis partiti negli ultimi anni alla volta della Siria, oltre una quarantina sarebbero invece rientrati in Albania, dove negli ultimi mesi sono stati effettuti numerosi arresti e perquisizioni negli ambienti integralisti. Quanto alla Bosnia, quarto paese al mondo per numero di foreign fighters, un centinaio quelli partiti per la ridotta siriana nel solo 2015, la minaccia jihadista non ha mai cessato di farsi sentire nel corso dell’ultimo decennio. Dopo aver costituito delle comunità wahabite, inizialmente con l’appoggio delle autorità, come quella sorta nel villaggio di Gornja Maoca, nel nord del paese, intorno ad alcuni ex combattenti della guerra civile, tra i fondamentalisti locali sarebbero oggi presenti dei reclutatori dell’Isis e dei veri e propri centri di addestramento paramilitare. Per la stampa internazionale, è questa la nuova frontiera del network del terrore in Europa. La ragion di Stato alla prova Regeni di Giuliano Ferrara Il Foglio, 31 marzo 2016 La famiglia del ragazzo ucciso ha mostrato un volto raro, capace di civismo eroico. Le autorità italiane hanno reagito come potevano e dovevano. Botero e i trattati del 500 sono lontani, mentre chi strumentalizza è vicino. È quasi certo che Giulio Regeni sia stato preso dai servizi egiziani, torturato, ammazzato e il suo cadavere reso reperibile nella speranza di imbastire una giustificazione farlocca per la sua scomparsa o nel contesto di battaglie interne alle forze di sicurezza del regime del generale-presidente al Sisi (che ha i suoi nemici interni come tutti gli apparati della forza divenuti potere statuale). L’eventuale circostanza di una implicazione di Regeni in un network informativo che poteva essere considerato pericoloso politicamente dagli organi di sicurezza, dunque l’innesco del fatto tragico, va solo a merito e illustrazione della giovane vita di studio, di relazioni, di opinioni in dissenso e di interesse per le battaglie di opposizione di Giulio. Per ogni regime autoritario chi si oppone è automaticamente una spia o l’alleato, se straniero, di un potenziale nemico della fatta più maligna, il famoso nemico interno. Il ragazzo è stato seppellito con grande cura per il contegno e la sacralità della morte da famiglia e amici. La famiglia e gli amici hanno mostrato un volto raro, severo, fiero, capace di civismo eroico, per certi aspetti perfino impassibile oltre il velo trasparente di un dolore atroce. Il senatore Luigi Manconi, che si occupa della questione istituzionalmente e come ispiratore di un movimento di diritti umani, ha guidato dentro la sala Nassirya del Senato un pubblico pronunciamento che rimarrà nella memoria per il volto struggente della madre di Regeni e per la sua rivelazione: avevano talmente martoriato corpo e volto del figlio, con una tortura che ricorda la barbarie d’un tempo che non vuole passare, che è stato possibile riconoscerlo solo dalla punta del naso. Governo e altre autorità italiane, anche di parte indipendente come la magistratura penale, hanno seguito con crescente incredulità e rabbia i tentativi vani e penosi degli egiziani di trovare una soluzione impossibile, che sacrificasse alla verità delle cose, all’imputabilità di comportamenti disumani, la ragion di stato ridotta a uno straccio, a un reperto grottesco di antiche e oggi impalatabili memorie politiche. Hanno provato in molti modi a inventarsi la fine di Giulio Regeni per evitare che si scopra quel che è effettivamente avvenuto. Data la complicazione politica e la delicatezza del problema dal punto di vista degli interessi nazionali, trattandosi del rapporto di stato con un regime che ci interessa per il suo controllo sull’approvvigionamento energetico e per il suo crescente ruolo dissuasivo nella Libia sconvolta dalle guerre di fazione e dall’irruzione dello Stato islamico, le autorità italiane hanno reagito come potevano e dovevano: alzando la voce al massimo livello, chiedendo verità, stabilendo gradi e tappe dell’accertamento, forzando le cose per favorire una soluzione accettabile che non abbia il sapore di un compromesso insabbiatore. Fratelli musulmani vs interesse nazionale - È una questione che ci riguarda tutti, salvo le anime belle e le coscienze pure che pensano di potere fare a meno della politica, della diplomazia, del realismo, del diritto e della forza, e si fanno vanto della loro intrinseca purezza e disponibilità a far saltare tutto in aria (meglio: disponibilità a trasformare una tragedia in un comodo atto d’accusa al governo nazionale, purché sia moralmente e politicamente redditizio in una logica di ostilità e di preconcetto). La ragion di stato non è più quella di Giovanni Botero e dei trattati del Cinquecento, ovvio. Le società aperte, che vivono anche della loro impura rete di alleanze, che devono scegliere tra la dittatura elettiva della Fratellanza musulmana e il governo dei generali al Cairo, e scegliere in base all’interesse nazionale, non sono gli stati nazionali dell’origine, sono società interdipendenti dal resto del mondo e forgiate da un serio impegno di fronte all’opinione pubblica e alla tavola dei diritti umani, un tempo affatto sconosciuti. Per questo è giusto il percorso iniziatosi in queste settimane e ribadito dal senatore Manconi, dalla Farnesina e dal potere esecutivo: portare gradualmente verso il confine dell’intollerabilità, il punto di non ritorno, la richiesta per canali pubblici e diplomatici di verità per Giulio Regeni, e alimentare una campagna internazionale con il solido sostegno di un grande paese quale siamo, senza dispiegare una velleitaria ostilità rissosa e odio verso l’Egitto. Chi si tira indietro e, fatto un passo di lato, spara a pallettoni sfruttando il dolore di una famiglia e lo scandalo indicibile che il fatto della tortura sempre rappresenta, e lo fa in nome della dignità nazionale, assume in realtà un comportamento poco dignitoso, strumentale, banalmente utilitaristico per i vantaggi presunti ricavabili dall’offesa che prova l’opinione pubblica. Le mani legate di Roma sul caso Regeni, è l’Egitto a decidere cosa condividere di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 31 marzo 2016 Raggiunta una prima intesa con il Cairo. Renzi chiede che la Procura "abbia accesso a tutte le carte". Tra Italia e Egitto non c’è un trattato di cooperazione giudiziaria. Il poco che è accaduto finora nei rapporti fra magistrati è solo frutto delle rispettive buone volontà, come quello che potrà accadere in futuro. Spirito di collaborazione, e niente altro. Questa sconsolata ma realistica premessa è necessaria per farsi un’idea di che cosa ci si può legittimamente attendere dalla doppia inchiesta - egiziana e italiana - sul sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Due indagini che in realtà sono una sola, di cui restano titolari gli inquirenti del Cairo; la Procura di Roma può offrire l’aiuto eventualmente richiesto e giudicare i risultati. Su di essa confida il premier Matteo Renzi, quando chiede che "abbia accesso a tutte le carte" e ribadisce che "noi ci fermeremo soltanto quando avremo trovato la verità". Che non può essere nessuna delle tante vagheggiate finora, compresa l’ultima messinscena dalla quale sembra che anche gli egiziani intendano fare marcia indietro: i cinque presunti criminali comuni uccisi e asseritamente trovati in possesso del passaporto e di altri documenti di Regeni. Martedì prossimo, giorno fissato per l’incontro tra gli investigatori dei due Paesi sollecitato da una lettera del ministro dell’Interno Alfano, proprio a partire da quell’episodio si potrà capire quanto le autorità del Cairo facciano sul serio. Il nuovo depistaggio - Al di là della incredibile, prima ricostruzione dei fatti, la storia dei morti ammazzati collegati al giovane ricercatore assassinato ha aperto un nuovo filone investigativo: la ricomparsa dei documenti d’identità di Giulio, che verosimilmente sono stati messi a bella posta accanto ai cadaveri, o nelle loro abitazioni, in un goffo tentativo di depistaggio. Da chi? E perché? La tv locale Dream ha trasmesso l’intervista allo zio di una delle vittime, secondo il quale il nipote fu prelevato dalla polizia e poi ucciso, con colpi sparati quasi a bruciapelo: ci sono riscontri a queste affermazioni? O smentite attendibili? Se gli elementi che i poliziotti egiziani porteranno a Roma la prossima settimana daranno qualche pur generica indicazione per rispondere a queste domande, vorrà dire che la dichiarata disponibilità a cercare la verità è quantomeno credibile (che poi arrivi a qualche risultato è un’altra storia); se viceversa le risposte del Cairo ignoreranno questo capitolo dell’indagine, limitandosi a fornire le informazioni richieste ormai due mesi fa, sarà lecito dubitare delle reali intenzioni egiziane. Il rientro in Italia del team investigativo composto da poliziotti del Servizio centrale operativo e carabinieri del Ros (uno o due componenti sono comunque rimasti al Cairo, per ogni evenienza) serve a preparare al meglio l’incontro di martedì. Che difficilmente si rivelerà "il giorno della verità", ma potrà fornire qualche dettaglio in più. Per esempio: l’identità certa e i contatti telefonici delle persone indicate come coinvolte nel sequestro di Giulio, per verificare se davvero qualcuno di loro è stato nei pressi dell’abitazione del ragazzo il giorno del rapimento, o del luogo in cui è stato ritrovato il cadavere, una settimana dopo. E ancora: come si sono mossi e con quali persone hanno parlato nei giorni della scomparsa di Regeni. Nuove richieste - Anche l’elenco delle telefonate fatte e ricevute da Giulio nelle ultime settimane della sua esistenza (non solo degli ultimi tre giorni, già fornito) è atteso dagli investigatori italiani; così come quelle del coinquilino che, secondo alcune testimonianze, avrebbe parlato di visite della polizia locale a Regeni prima della sua sparizione: l’uomo è già stato interrogato al Cairo, ma su questo punto non gli sono state fatte domande. E sempre a proposito di tabulati, bisognerà vedere se gli egiziani porteranno dei semplici numeri di telefono oppure anche dei nomi, e magari i risultati di accertamenti già svolti sul loro conto; sarà un’altra prova delle loro reali intenzioni. Ieri la Procura generale del Cairo ha annunciato la creazione di un pool di magistrati dei vari distretti interessati dalle indagini, e ha confermato l’intesa raggiunta con Roma per "scambiare le informazioni fino ad arrivare agli autori di questo caso e a portarli davanti a un tribunale penale per essere puniti per quello che hanno commesso". Renzi si affida all’esperienza e alla professionalità del procuratore Pignatone. Il quale per adesso, insieme al sostituto Colaiocco, non può che attendere di conoscere quello che i colleghi egiziani intenderanno condividere. E magari proporre un protocollo bilaterale che permetta a poliziotti e carabinieri di partecipare alle attività d’indagine più e meglio di come hanno fatto finora. Ma è indispensabile, per l’appunto, la disponibilità del Cairo. Il nodo politico - Ecco perché il nodo resta politico, prima che giudiziario. È ciò che sostiene il senatore Luigi Manconi, che affianca la famiglia Regeni come ha fatto in passato con i familiari di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri morti in stato di detenzione. In quei casi però, la magistratura aveva in mano le redini delle indagini; qui no. "I margini dell’azione penale italiana sono strettissimi - spiega Manconi, perciò bisogna agire politicamente per costringere l’Egitto a dare sostanza alla propria azione penale". Caso Regeni. Governo egiziano spaccato tra verità e interessi economici di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 marzo 2016 Egitto. Fonti interne al ministero degli Esteri citate da Cairo Portal parlano del conflitto tra chi opta per l’assunzione di responsabilità sul caso Regeni e chi preferisce far passare la tempesta. Silenzio su tutta la linea: il governo egiziano non commenta la conferenza stampa della famiglia Regeni. Ma dal mondo dell’informazione qualcosa trapela: la paura che eventuali sanzioni possano far traballare relazioni commerciali consolidate, in un periodo non certo roseo per l’economia del Cairo, e la conseguente spaccatura interna al governo tra chi opta per l’assunzione di responsabilità e chi preferisce far "passà a nuttata". Se ieri le prime pagine dei quotidiani egiziani erano alle prese con il dirottatore del volo della Egypt Air, quasi tutti hanno riportato le parole dei genitori di Giulio. Nessun commento ufficiale da parte del governo, ma tutti gli articoli - su Masr al-Arabiya, al-Ahram, Egypt Independent, Mada Masr, Daily News Egypt, Egyptian Streets - si concentrano sulla presa di posizione di Paola e Claudio Regeni: senza risposte serie e trasparenti da parte egiziana, la famiglia renderà pubbliche le foto del corpo martoriato di Giulio, con su la firma dei torturatori di polizia e servizi segreti. Lo ribadisce Imad Al Din Hussein, direttore del quotidiano indipendente Al Shorouk: secondo un’autorevole fonte del governo, dietro l’omicidio ci sono i servizi segreti egiziani. Ma c’è chi scrive di più: Cairo Portal, agenzia web egiziana, riporta di una spaccatura dentro il governo egiziano. Due le alternative: tenere duro e proseguire sulla via dello scaricabarile o ammettere in qualche modo le responsabilità del governo egiziano. Una svolta, quindi, nel caso Regeni? Il quotidiano cita fonti anonime interne al Ministero degli Esteri: "Secondo fonti vicine al Ministero, le dichiarazioni del ministro degli Esteri "il caso Regeni è un caso isolato" è forse un preludio al riconoscimento delle responsabilità da parte dell’Egitto". Il commento fa seguito a quanto affermato dal ministro Shoukry lunedì durante un’intervista all’emittente tv Mbc. In quell’occasione Shoukry ha parlato del possibile impatto che l’omicidio del giovane ricercatore italiano e le conseguenti falle nelle indagini potrebbero avere sul paese. "Il governo egiziano si trova in grande difficoltà - prosegue Cairo Portal - soprattutto dopo che quello italiano si è rifiutato di credere alla storia della banda criminale". Da qui la frattura interna all’esecutivo: "Altre fonti dicono che c’è una controversia all’interno del governo. Una parte riconducibile al Ministero degli Esteri punta sulla necessità di risolvere la questione in modo trasparente, anche se questo implicherà il riconoscimento delle responsabilità del governo stesso e il sacrificio di qualche testa per evitare ingenti perdite economiche e politiche. L’altra parte invece ritiene necessario tenere duro fino all’ultimo momento, cercare di guadagnare tempo affinché entrino in gioco gli interessi economici e coprano l’accaduto. Soprattutto visti i rapporti commerciali ed economici che grandi aziende italiane hanno in Egitto. Un’ammissione di colpa, dicono, significherebbe pagare un prezzo alto e potrebbe essere il pretesto per trascinare in giudizio componenti importanti del regime, persino il capo di Stato, in aule dei tribunali internazionali". In ballo c’è tanto, tantissimo, rapporti commerciali miliardari che fanno dell’Italia il primo esportatore europeo in Egitto: tre miliardi di euro nel 2015, 3.1 previsti per il 2016. Ci sono i contratti dell’Eni per il giacimento di Nooros, sul Delta del Nilo, da 14 miliardi di dollari e quello che arriverà per il giacimento sottomarino di Zhor (riserve stimate per 850 miliardi di metri cubi di gas). Secondo i dati dell’Autorità Generale egiziana per gli Investimenti riportati da Linkiesta, ci sono 880 aziende italiane operative in Egitto - da Edison al Gruppo Caltagirone, dalle compagnie turistiche Alpitour e Valtour alla Pirelli e alla Italcementi - che producono un fatturato annuale di 3,5 miliardi di euro. C’è un business nel settore militare dal valore di 3.7 milioni di euro, secondo la Rete Disarmo. Reagisce anche il procuratore generale Nabil Sadiq che annuncia la creazione di un pool investigativo per coordinare le procure coinvolte nelle indagini. È sui social network, però, che appaiono gli attacchi più duri al generale: tanti gli egiziani che citano le parole di Paola Regeni, che ricordano che Giulio è stato ucciso come un egiziano, che attaccano il presidente golpista. I genitori del giovane ricercatore hanno rappresentato tutte quelle famiglie egiziane che non hanno occasione di dire la loro, di parlare dei figli scomparsi o uccisi sotto tortura. Il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, lo ha ricordato martedì: nel 2015 i casi accertati di tortura da parte di polizia e servizi segreti sono stati a 1.176, quasi 500 terminati con la morte dei prigionieri (dati Centro el-Nadeem). E nel solo mese di febbraio se ne calcolano 88, di cui 8 decessi. Due di loro morirono negli stessi giorni in cui Giulio era ostaggio dei suoi aguzzini: "Mohammed Hemdan, arrestato il 18 gennaio sul posto di lavoro - scrive Noury sul Fatto Quotidiano - e ritrovato morto in un obitorio il 25 gennaio; e Ahmed Galal, arrestato il 19 gennaio ad un posto di blocco e ritrovato a sua volta morto in un obitorio il 3 febbraio". I loro corpi portavano i segni inconfutabili delle torture, ferite da armi da taglio, unghie strappate, lividi. Il ministro degli Interni Ghaffar disse che erano morti in scontri a fuoco. Stati Uniti: Obama commuta la pena a 61 condannati per droga Ansa, 31 marzo 2016 Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha commutato la pena per 61 detenuti condannati per reati di droga. Si tratta di una passo significativo verso la riforma della Giustizia penale che Obama spinge da tempo. Oltre un terzo dei detenuti interessati dal provvedimento è stato condannato all’ergastolo, tutti per possesso di droga, intenzione di cedere sostanze stupefacenti e reati affini. La gran parte sono considerati non violenti sebbene alcuni erano stati incriminati di reati relativi al possesso di armi da fuoco. L’intervento di Obama è volto a ridurre le loro sentenze, con la gran parte dei detenuti che verranno rilasciati il prossimo 28 luglio. Guantánamo va chiusa - Il presidente americano, Barack Obama, va avanti nel suo progetto di chiudere il carcere di massima sicurezza di Guantánamo prima della fine del suo mandato, nel 2017. Il Pentagono vuole trasferire un’altra decina di detenuti nelle prossime settimane in almeno due Paesi: la destinazione non è ancora nota, ma il trasferimento avverrà a breve e tra i detenuti in uscita ci sarà sicuramente Tariq Ba Odah, uno yemenita che è stato a lungo in sciopero della fame. Degli 800 detenuti rinchiusi nel famigerato Camp X Ray, nella baia cubana di Guantánamo, ne sono rimasti 91. Obama vuole trasferirli nei loro Paesi di residenza o in altre prigioni civili e militari in Usa. Secondo il New York Times, il Pentagono ha già informato il Congresso (dove i repubblicani sono contrari alla chiusura), un passo richiesto dalla legge prima di realizzare questo tipo di operazioni. Svizzera: carceri sovraffollate e tentativi di suicidio, esiste un legame diretto? tio.ch, 31 marzo 2016 Il capo del servizio di medicina e psichiatria penitenziaria presso gli ospedali ginevrini ha studiato il caso di Champ-Dollon e ha notato una tendenza parallela. Esiste una correlazione tra il sovraffollamento delle carceri e il tasso di tentativi di suicidio dei detenuti? Il capo del servizio di medicina e psichiatria penitenziaria presso gli ospedali ginevrini, Hans Wolff, è convinto di sì. Lo studio è stato compiuto presso la prigione ginevrina di Champ-Dollon, e ha preso in esame i dati di un arco temporale che va dal 2006 al 2014. "Da quando abbiamo superato del 200% il tasso di occupazione, il rischio di automutilazione è più che raddoppiato", ha dichiarato alla Tribune de Genève. Non è possibile stabilire un legame di causa ed effetto, ma i due fenomeni (affollamento delle celle e atti di strangolamento o impiccagione) procedono in maniera parallela. Il numero di detenuti protagonisti di atti di strangolamento si è moltiplicato di 3,6 volte tra il 2011 e il 2014. Nello stesso periodo di tempo il tasso di occupazione di Champ-Dollon è passato dal 170% del 2011 al 233% del 2014. Due anni fa la prigione ospitava 903 detenuti per 387 posti a disposizione.