Serve una guida politica al nuovo individualismo fragile ma creativo di Aldo Schiavone Corriere della Sera, 30 marzo 2016 L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzione del lavoro ha avuto l’impatto più travolgente. Dietro la maschera del populismo ci sono cambiamenti che vanno capiti per affrontare al meglio le sfide del futuro. Si fa presto a dire "populismo". Nella tradizione culturale italiana, fino a qualche tempo fa, questa era una parola marginale, usata assai poco. Sembrava venire da altri mondi, ed evocava immagini vaghe e sfocate: lontani movimenti rivoluzionari russi, masse sudamericane magnetizzate dal peronismo. Oggi, soprattutto da noi (ma non solo, per la verità: basta dare uno sguardo al libro curato da Daniele Albertazzi e Duncan McDonnel Tewenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy) quell’etichetta la si adopera ormai per spiegare tutto, o quasi, quel che avviene nella nostra politica: prima per Berlusconi, e poi per Salvini, e Grillo, e Renzi stesso infine; e non solo per dar conto di singole vicende e personalità, ma per descrivere il nostro costume politico nel suo insieme, compreso quell’immedicabile tratto di perenne nervosismo, insieme frivolo e febbrile, che sempre lo accompagna. In realtà, questo ricorrere così inflazionato - come una specie di chiave universale per entrare ovunque - nasconde, credo, una mancanza grave. Un vero e proprio vuoto di conoscenza e di interpretazione di cosa sia diventata, almeno dagli anni Novanta in poi, la società italiana: le dinamiche della sua composizione; i mutamenti che la hanno attraversata come un turbine; i punti in cui ha maggiormente ceduto la sua vecchia ossatura (quella "di classe", per intenderci); i contesti in cui mordono di più le nuove diseguaglianze; quali siano i suoi caratteri finora imprevedibili - abitudini, comportamenti, pratiche di convivenza - che stanno cominciando a prendere corpo e forma; dove e come si producano i suoi vissuti emotivi, e si condensino le sue convinzioni. Non sappiamo più quasi niente. Abbiamo messo i sondaggi - un diluvio di sondaggi - al posto delle analisi: ma non sono la stessa cosa. E la vecchia cultura politica (quella della sinistra, ma anche in buona parte quella democratico-liberale) dove non sa, o non capisce, dice: "populismo", e si mette tranquilla - come se avesse finito, quando non ha nemmeno iniziato. L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzione del lavoro - che è l’autentico mutamento del nostro tempo; tutto il resto viene dopo - ha avuto l’impatto maggiore e più travolgente. Abbiamo intrecciato le fragilità storiche - anche culturali - di una industrializzazione tardiva (e talvolta incompiuta), con le altre, appena acquisite, frutto di una deindustrializzazione precoce e non regolata, indotta solo dall’esterno, e da incontrollabili compatibilità di mercato. Un intero mondo è finito in pochi anni: quello della borghesia delle imprese radicate sul territorio, e delle professioni intellettuali dominate dalla cultura umanistica; con di fronte una classe operaia matura e consapevole, uscita dal sistema di fabbrica classico. Il cambiamento ha avuto conseguenze incalcolabili (e invece gravemente sottovalutate) sulla percezione di sé e del proprio personale destino per milioni di italiani, di ogni generazione: dai pensionati cui veniva d’improvviso cancellato il proprio passato, agli studenti, senza più il futuro cui li avevano preparati i loro genitori. Come immaginare che tutto ciò non avrebbe avuto effetti enormi sul piano dei comportamenti politici? Che si trattava di ben altro che della sola fine del Pci e della Dc? Era un modo complessivo di pensare la politica, e prima ancora la vita stessa - un sistema totale di pensieri e di riferimenti - che era saltato, perché erano irrimediabilmente compromesse le sue basi materiali e sociali. Non è stato solo un problema di "fine delle ideologie" (come è stato tante volte ripetuto): a scomparire era un’intera architettura sociale, e con essa una maniera di costruire e di rappresentare il rapporto di ciascuno con la propria esistenza. Il lavoro del terzo millennio - ad alta intensità tecnologica e con una richiesta continua di innovazione - non generava più legami collettivi (né di classe, né d’altro tipo), e non era più un veicolo di socializzazione di massa: e questo modificava in radice tratti e contenuti della democrazia e della rappresentanza, e la qualità stessa delle assemblee elettive. Frantumava e atomizzava rispetto al passato, e dove prima c’erano interessi generali e visioni del mondo, c’era ora un pulviscolo di singolarità che chiedevano, ognuna, riconoscimento e visibilità, e un rapporto diretto (almeno mediatico) con i leader. Per dirla con un lessico che ha avuto molta fortuna, una società "liquida" non poteva che avere una rappresentanza politica altrettanto "liquida". È una regola cui non si sfugge. Ed è proprio la novità dirompente di questo fenomeno, che si nasconde dietro il dilagare di quel che chiamiamo populismo: una politica che, non trovando altri punti su cui far presa, insegue il moltiplicarsi di soggetti desocializzati (mi si passi l’espressione), prigionieri del loro particolare (da cui non sanno come uscire), che non si riconoscono più in nessuna delle mediazioni tradizionali - partiti, sindacati e quant’altro - senza autentica esperienza di vita collettiva, con un rapporto comunque problematico e inesplorato con le proprie competenze e la propria occupazione (quando l’hanno), alla ricerca di una nuova misura fra tempo di vita e tempo di lavoro, ma carichi (inevitabilmente) di desideri, di bisogni, di aspettative. Siamo passati, insomma, dall’individualismo strutturato e progettuale - e però rigido e tendenzialmente ripetitivo - della nostra prima modernità, all’individualismo sradicato e fragile - ma flessibile e creativo - che riempie il nostro tempo. Dargli una forma politica non regressiva - in grado di esprimere il suo potenziale di innovazione e di vitalità - è la grande sfida che ci aspetta. Ed è una sfida di idee, di saperi, di progetti. Per guidare il cambiamento, bisogna prima pensarlo. Commissione Adr. Sì alla giustizia più snella, ma la nomina di Alpa delude di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 30 marzo 2016 Fa pensare il caso che ai vertici di un organo chiamato a cambiare la giustizia sia messo un signore che presiedeva il Consiglio Nazionale Forense condannato a una multa esorbitante per avere ostacolato la concorrenza. È normale che lo Stato con una mano condanni a una multa record per ostacolo alla concorrenza il Consiglio Nazionale Forense presieduto per lustri da Guido Alpa e con l’altra affidi allo stesso Alpa la Commissione Adr ("Alternative Dispute Resolution") delegata a studiare "una riforma organica degli strumenti stragiudiziali di risoluzione delle controversie" per snellire la giustizia? Snellimento che finora, come ha scritto tra gli altri Leonardo D’Urso su Lavoce.info, è stato deludente? Eppure è successo. Pochi giorni dopo la scelta di Andrea Orlando di nominare ai vertici del nuovo organo il notissimo avvocato (il curriculum sul web è di 1.580 parole, compreso il cavalierato dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro) è arrivata infatti una sentenza del Consiglio di Stato. Che, ribaltando un giudizio del Tar del Lazio, ha confermato i 912.536 euro di multa accollati nel 2014 dall’Authority al Cnf. Colpevole di due atti compiuti sotto la presidenza Alpa. Il primo era una circolare del 2006 che osteggiava l’abolizione delle tariffe minime perché "nel caso in cui l’avvocato concluda patti che prevedano un compenso inferiore al minimo tariffario pur essendo il patto legittimo civilisticamente, può risultare in contrasto" col codice deontologico in quanto "lede la dignità dell’avvocato". Il secondo un parere del 2012 su "AmicaCard", piattaforma nata per consentire agli avvocati di proporsi sul web con tariffe concorrenziali rispetto a quelle "suggerite". Uno "svilimento della prestazione professionale", bacchettava il Cnf, da contratto d’opera intellettuale a questione di puro prezzo". Due interventi che, secondo l’Authority, costituivano "un’infrazione unica e continuata, restrittiva della concorrenza, consistente nell’adozione di decisioni volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, stigmatizzando quale illecito disciplinare la richiesta di compensi inferiori ai minimi tariffari (…) con evidente svantaggio per i consumatori finali". Multa giustissima, ha ribadito il Consiglio di Stato. "Giusta, anche se esagerata perché non sono solo quelli gli ostacoli", precisa il presidente dei giovani avvocati Michele Vaira. Resta il tema: possibile che ai vertici di un organo chiamato a cambiare la giustizia sia messo un signore, per stimato che sia, "condannato" (non lui, il Cnf: ma lui era il rais) a una multa esorbitante per avere ostacolato la concorrenza? I magistrati voltano pagina, Davigo sarà il nuovo presidente dell’Anm di Liana Milella La Repubblica, 30 marzo 2016 Tra dieci giorni il giudice verrà nominato alla guida dell’Anm. Intesa dopo gli scontri al vertice del sindacato: resterà in carica un anno. Davigo presidente dell’Anm. Il famoso "dottor Sottile" del pool Mani pulite di Milano al vertice del sindacato dei giudici, la famosa Associazione nazionale dei magistrati, nota per le battaglie contro Berlusconi, ma anche per le più recenti polemiche con Renzi per via dei tagli all’età pensionabile e in quanto major sponsor della nuova legge sulla responsabilità civile delle toghe. Lui, Davigo, diventerà ufficialmente il capo dell’Anm solo sabato 9 aprile, il giorno in cui è stato convocato il nuovo "parlamentino" composto dai 36 componenti eletti tra il 6 e l’8 marzo. Ma nelle febbrili trattative tra le correnti il suo nome ormai non viene più messo il discussione. La ragione è semplice. Innanzitutto, come spiega chi sta partecipando a colloqui e telefonate, "perché Davigo è semplicemente Davigo", uno dei magistrati più famosi in Italia e nel mondo non solo per essere stato la mente giuridica del pool della Tangentopoli capostipite, quella di Milano, ma anche per aver continuato a studiare il fenomeno della corruzione. Lo dimostrano i libri che ha scritto, le interviste, le conferenze tenute in Italia ma anche nel mondo. L’ultima a Pasqua in Brasile. Toga pronta alla battuta sferzante, con la rara capacità di tradurre con esempi facili e storielle complessi concetti finanziari. Un cane mastino per chi, in un prossimo futuro, lo avrà come interlocutore nelle trattative. Fin qui il personaggio. Ma il suo "quid" sindacale adesso è un altro. Davigo è stato il concorrente più votato nelle elezioni per la nuova Anm dopo il lungo regno, ben quattro anni, del presidente Rodolfo Maria Sabelli (Unicost) e del segretario Maurizio Carbone (Area). Ha incassato 1.041 voti. Ha corso con la "sua" corrente, Autonomia e indipendenza, nata da una clamorosa rottura con Magistratura indipendente, il gruppo ultraconservatore della magistratura, che ha in Cosimo Maria Ferri, attuale sottosegretario alla Giustizia confermato da Renzi dopo la nomina con Letta e Cancellieri, il magistrato più noto e anche più votato quando si candidò al Csm (1.199 voti nel 2012). Proprio la presenza di Ferri al governo e la certezza che, nonostante il suo ruolo politico continuasse a dettare legge dentro Mi, ha spinto Davigo e i suoi - toghe note come Marcello Maddalena, Antonio Patrono, Sebastiano Ardita, Alessandro Pepe, Fausto Cardella, Ignazio De Francisci, Aldo Morgigni - a mettersi in proprio. Questo ha scompaginato l’assetto correntizio tradizionale assestato sulla centrista Unicost, la sinistra di Area, la destra di Mi. Gli elettori hanno dato i "voti". Successo di Unicost con 13 seggi, insuccesso di Area che si ferma a 9, Mi tiene con 11 componenti, mentre Davigo piglia 6 consiglieri. La prima reazione è di ostracismo nei suoi confronti. "Non diventerà mai presidente" si sente dire. Ma poi prende piede una riflessione più equilibrata. Si rispolvera una vecchia usanza dell’Anm, quella di presidenze che duravano solo un anno su quattro e alla scadenza si cambiava, tradizione interrotta per via degli scontri con Berlusconi. Questo ha portato a ben 8 anni di presidenza Unicost, prima con Luca Palamara, segretario il pm di Roma Giuseppe Cascini, e poi con Sabelli. Per ora Davigo conquista il vertice per un anno. Certo, i mal di pancia ci sono. Soprattutto perché si punta a una giunta unitaria, tutti corresponsabili, senza potersi giovare elettoralmente del ruolo di oppositori, come ha fatto Mi. E una condizione imprescindibile. In compenso Davigo, eletto presidente, potrà spendere la sua verve e la sua acclarata notorietà. Il Csm, dopo molti rifiuti, lo sta anche per nominare presidente di una delle sezioni della Cassazione. Le elezioni delle toghe hanno decretato il buon risultato della sua corrente. Omicidio stradale, bullismo legislativo di Marino Longoni Italia Oggi, 30 marzo 2016 La legge sull’omicidio stradale, entrata in vigore pochi giorni fa, rischia di creare molti più danni di quanti riuscirà a evitarne. È il classico esempio di bullismo legislativo che causerà centinaia, forse migliaia di tragedie familiari, prima di essere dichiarata incostituzionale o di essere riformata in senso meno celodurista. Ogni giorno in Italia avvengono circa 50 incidenti con feriti gravi e in un caso su 5 ci scappa il morto (numeri in lenta e costante diminuzione, tanto che i decessi di una quindicina di anni fa erano il doppio di quelli attuali). Ma non sempre tali incidenti sono la conseguenza di una grave imprudenza o di una guida alterata da alcol o droghe. Fatalità, distrazione, imperizia, a volte è lo stesso comportamento del danneggiato a essere causa principale del danno. La pioggia, il gelo, la neve sono all’origine di incidenti anche gravi, così come un malore improvviso e imprevedibile di chi guida. L’uomo non è un macchina perfetta, e non lo diventa nemmeno con un approccio terroristico: chi non ha mai dovuto guidare in preda a uno stato d’ansia o di depressione (magari più che giustificato) o sotto l’effetto di una pasticca contro il mal di denti o il mal di testa (che potrebbe dare esito positivo a un esame antidoping)? Ci sono pedoni che attraversano la strada con l’occhio fisso allo smartphone, senza nemmeno guardare se l’auto che sta arrivando può fermarsi in tempo. Oppure ciclisti che improvvisamente scartano a sinistra per evitare una buca o un tombino: anche in questi casi l’automobilista o il motociclista investitore, saranno rovinati. Dovranno affrontare un processo penale che, a seconda della gravità del danno o della presenza di circostanze aggravanti, può concludersi con la condanna a diversi anni di carcere. Ma probabilmente non vedranno più la patente per molti anni. Questa infatti sarà prima sospesa dal prefetto in attesa di accertare le responsabilità. Poi potrà essere revocata per altri 5, 10, 15 anni. Danni collaterali enormi, efficacia dubbia: meglio sarebbe stato prevedere l’obbligo di uno strumento che limita la velocità. Si sarebbero risparmiati drammi quando l’auto è necessaria per lavorare, per portare la vecchia madre in ospedale o per portare i figli a scuola. Ma la vendetta sociale dà più soddisfazione. Omicidio stradale. Migliucci (Ucpi): l’incremento delle pene non servirà come deterrente di Elena Romanazzi Il Mattino, 30 marzo 2016 Il primo arresto per omicidio stradale non cambia la posizione dei penalisti. Il presidente dell’Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci, resta critico. "Si continua a parlare di deterrente, aumentando le pene contro la corruzione è forse diminuita la corruzione? Assolutamente no. Ed anche in questo caso semmai aumenteranno le condotte riprovevoli, per paura delle pene soprattutto nei piccoli centri o dove non ci sono testimoni la tendenza sarà quella di scappare, per non essere arrestati in flagranza di reato". Presidente è una legge che non serve a nulla? "Non dico questo. Ma va detto e non lo diciamo solo noi, che è nata sull’onda delle emozioni. E quando si tratta di inasprire le pene non si può seguire questa strada. Si è proceduto come se non esistessero pene adeguate per le vittime delle strada. Chi si poneva alla guida ubriaco e causava un incidente comunque veniva punito". Cosa manca alla nuova normativa? "L’attenuante". Entriamo nel merito. "Quando si prevede per un reato colposo, di questo si tratta, una pena che arriva fino ai 18 anni, allora si deve prevedere anche una attenuante. Chi si ferma dopo l’evento a prestare soccorso pur avendo causato l’incidente dove poter avere una attenuante, uno sconto, e invece non è previsto. Le norme devono raggiungere dei risultati, l’attenuante, considerato che non tutti si comportano in maniera civile, deve stimolare gli atteggiamenti positivi. In questa legge non sono previste. Un comportamento virtuoso va in generale premiato". Le sanzioni severe non sono mai un deterrente? "È così ed è ampiamente dimostrato. Prendiamo i Paesi dove è prevista la pena di morte, casi estremi, la condanna capitale non riduce certo i reati per i quali è prevista. Allo stesso modo invece di inasprire le sanzioni, peraltro già previste, era necessario potenziare quello che è il capitolo della prevenzione". E dunque? "Maggiori controlli sulle strade, contrarie al codice della strada, educazione nelle scuole. Gli incidenti sono diminuiti. I dati lo dimostrano. Ma soprattutto le cause degli incidenti stradali sono tre e tra queste non c’è la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Sono mancato rispetto della precedenza, eccesso di velocità e guida distratta". Il giudizio dunque resta negativo? "Su questa legge è stata posta la fiducia. Sarebbe stato necessario un dibattito più ampio, una analisi attenta delle norme esistenti e di quelle inserite nella legge. L’aumento di pena e il reato autonomo non limiteranno il fenomeno. Lo si vedrà nel tempo. Non si può agire solo ed esclusivamente aumentando le pene. Il populismo giudiziario in base al quale a seconda delle evenienze si aumentano le pene non è positivo e non porta a nulla". Le sanzioni avranno l’effetto contrario? "Il punto è la presunzione di colpa. Così come è stata formulata la norma c’è un nesso con l’evento negativo anche senza l’accertamento di condotte ci può essere un nesso di casualità e non una presunzione in sé. Il rischio è di dare delle indicazioni di pena troppo severe per fatti che sono colposi, quando invece una norma ben fatta avrebbe dovuto prevedere delle pene congrue per la violazione del codice della strada. Insisto su un punto: più che servire da deterrente potrebbe indurre le persone a darsi alla fuga dopo un incidente". Ogni legge è perfettibile. "Dovrebbe essere così, ma si è deciso di seguire questa strada. Dunque chi provoca un incidente mortale rischia una sanzione maggiore rispetto a chi fa una rapina. C’è qualcosa che non quadra. Prima della legge si poteva arrivare fino a 15 anni di pena e per un fatto colposo la considero una pena congrua. Ora invece è discutibile". Persona offesa senza assistenza di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 30 marzo 2016 Nei tribunali italiani manca lo Sportello unico di assistenza della persona offesa nonostante lo raccomandi la direttiva europea 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, recepita dal decreto legislativo 212/2015. A sottolinearlo è l’Ufficio del Massimario, servizio penale, della Corte di cassazione, che nella relazione n. III/02/2016 del 2 febbraio 2016 illustra le novità del decreto legislativo. Sportello Unico. Il profilo, da sottolineare per primo, riguarda lo sviluppo di "punti unici di accesso" o "sportelli unici", dedicati ai bisogni delle vittime di reato o analoghi servizi di assistenza privati. Tutto ciò è caldeggiato dalla direttiva 2012/29, ma, constata la Cassazione, attualmente non esistono uffici o strutture di sostegno all’iniziativa legale della persona offesa istituzionalizzate. La ragione è presto detta: non ci sono soldi a sufficienza per organizzare lo "sportello delle vittime". Informazioni. Alla persona offesa la direttiva impone di dare tutta una serie di informazioni. Il nuovo articolo 90-bis del codice di procedura penale elenca tutte le notizie da mettere a disposizione, alcune già presenti nel codice, altre nuove. Si va dalle prerogative processuali (come partecipare alle indagini e ai dibattimenti) ai diritti fruibili anche in caso di proscioglimento dell’imputato, fino alle strutture sanitarie presenti sul territorio, le case famiglia, i centri antiviolenza e le case rifugio. Convivente. Il nuovo comma 3 dell’articolo 90 del codice di procedura penale prevede che in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti della stessa sono esercitabili anche dalla persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente. Nota la Cassazione che, così, si riconosce valore giuridico a una situazione di fatto: sarà compito del giudice valutare, caso per caso, quando ricorrono i presupposti, che non escludono a priori anche legali affettivi omosessuali. Minore età. In caso di dubbio sulla minore età della persona offesa, il decreto obbliga il giudice a disporre la perizia; se permane l’incertezza, la minore età è presunta. La Cassazione aggiunge che la presunzione della minore età si applicherà solo a protezione della parte offesa; mente è escluso che per effetto della presunzione si possa aggravare la posizione dell’imputato. Interprete. Il giudice e il pubblico ministero o la polizia giudiziaria devono nominare interpreti e traduttori per permettere alla persona offesa di partecipare alle indagini e al processo. Il decreto consente che l’assistenza dell’interprete possa essere assicurata anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza: così si può fruire più facilmente e con minori costi dell’assistenza linguistica senza che l’interprete, specie se di una lingua o un dialetto rari, si debba spostare frequentemente sul territorio. Il decreto sancisce la gratuità per la parte offesa dell’assistenza dell’interprete e del traduttore. Tuttavia, aggiunge la relazione, si deve chiedere al condannato il rimborso dei costi. Anche i detenuti devono pagare le tasse di Marina Crisafi studiocataldi.it, 30 marzo 2016 Lo stato di detenzione non configura forza maggiore e non giustifica quindi gli inadempimenti col fisco. Stare in carcere non è una buona ragione per non pagare le tasse. La privazione della libertà personale infatti non è una causa di forza maggiore, in quanto il detenuto ben può, in occasione dei colloqui con i familiari e con terzi, fornire tutte le indicazioni per adempiere correttamente ai propri obblighi fiscali. Ad affermarlo è la Ctr della Lombardia con la recente sentenza n. 5328/67/2015, respingendo l’appello presentato da un contribuente che sosteneva di non aver presentato la dichiarazione dei redditi in quanto ristretto in carcere. L’uomo era stato raggiunto da una contestazione dell’Agenzia delle entrate relativa al mancato versamento dell’Irpef per l’anno di imposta 2007 e in primo grado la Ctp di Brescia gli aveva dato parzialmente ragione, riducendo le imposte ma senza annullare la pretesa del fisco. Il contribuente ricorreva pertanto in appello lamentando che le sanzioni non erano dovute giacché per forza maggiore non aveva ottemperato ai propri obblighi fiscali, essendo ristretto in carcere fino al 2012 e quindi materialmente impossibilitato ad adempiere agli obblighi dichiarativi contestati dal fisco. La tesi di fronte alla commissione regionale però non regge. Per i giudici lombardi, infatti, "lo stato di detenzione, di per sé, non configura quella forza maggiore che giustifica il mancato invio della dichiarazione". Questo perché il detenuto avrà sicuramente "potuto conferire con il suo difensore, per il tramite del quale avrebbe potuto informare il proprio consulente tributario". La decisione, del resto, si innesca nel solco già seguito dalla giurisprudenza tributaria che in passato aveva affermato principi analoghi, sottolineando che il personale impedimento derivante dallo stato di detenzione non configura un caso di forza maggiore e non esclude dunque la punibilità per il mancato rispetto degli obblighi dichiarativi, atteso che "gli atti e i comportamenti censurati non devono e non dovevano di necessità avvenire personalmente, ma potevano essere realizzati con le modalità e per il tramite di soggetti terzi quali professionisti abilitati, parenti, conoscenti, etc." (cfr. Ctp Caltanissetta sentenza n. 708/01/2014). Né tanto meno, nel caso di specie, aggiungono i giudici, può rilevare a favore del contribuente la circostanza relativa allo stress connesso alla reclusione in carcere che gli avrebbe fatto "dimenticare" i suoi obblighi fiscali. Da qui il rigetto dell’appello. Violenza sessuale tentata se si ricatta la vittima per ottenere un rapporto di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2016 Tribunale di Firenze - Sezione II penale - Sentenza 4 dicembre 2015, n. 4809. Cercare di ottenere un rapporto sessuale attraverso un ricatto equivale a violenza sessuale, anche se nella forma tentata. Il reato di cui all’articolo 609-bis del codice penale, infatti, si configura nella forma del tentativo, anche quando sia mancato il contatto fisico con la vittima, se la condotta tenuta dall’agente al fine di appagare i propri istinti sessuali sia stata tale da violare la libertà di autodeterminazione sessuale della vittima. Questo è quanto emerge dalla sentenza 4809/2015 del Tribunale di Firenze. I fatti - Protagonista della vicenda è un giovane appena maggiorenne che aveva conosciuto tramite un social network una ragazza di fede musulmana che frequentava il primo anno di scuola superiore. I due si erano mantenuti in contatto per diverso tempo e incontrati in alcune occasioni, durante una delle quali c’erano stati anche dei baci. La ragazza spaventata però dall’insistenza dell’uomo di avere un rapporto sessuale aveva interrotto la presunta relazione, non rispondendo più ai messaggi del ragazzo e cancellando ogni suo contatto dai vari social network. L’uomo però insisteva con le sue richieste e minacciava la giovane, se non avesse ceduto alle sue pretese - pesanti in ragione della religione musulmana praticata dalla famiglia - "di raccontare altrimenti ai compagni di scuola e, soprattutto, ai genitori, di averle in precedenza baciata e toccata, nonché di diffondere una sua foto in costume". Temendo la reazione dei familiari per la natura delle regole loro imposte dalla religione, la ragazza si rivolse al preside della scuola, con l’aiuto del quale il ragazzo fu bloccato dai Carabinieri e in seguito tratto a giudizio per il reato di violenza sessuale tentata. La decisione - Per il Tribunale non ci sono dubbi in merito alla responsabilità del ragazzo per il reato di violenza sessuale. "Nella nozione di atti sessuali - spiegano i giudici - vanno inclusi tutti quelli idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate, come nella specie, dalla costrizione psicologica". Pertanto, anche se è mancato un contatto sessuale di tipo corporeo, la violenza sessuale può dirsi configurata, nella forma tentata, "costituendo elemento essenziale sul piano soggettivo l’intenzione dell’agente di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e sul piano oggettivo l’idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale". E nel caso di specie, il contenuto dei messaggi minatori inviati dal ragazzo indicano chiaramente l’obiettivo che questi si era prefisso di raggiungere - cioè avere un rapporto sessuale a tutti i costi - indipendentemente dalla volontà della ragazza. Il caso Regeni e la pazienza di uno Stato di Luigi Manconi L’Unità, 30 marzo 2016 Quand’è che uno Stato democratico può perdere la pazienza? Non c’è alcunché di leggero o di faceto (e tantomeno di antropomorfico) in questa domanda. Perdere la pazienza vuol dire, qui, né più né meno che perdere la pazienza: ovvero allentare quell’autocontrollo diplomatico e quella autodisciplina formale e istituzionale che le relazioni internazionali impongono, e far sentire che uno stato di diritto, quale è il nostro, è un sistema politico che esige rispetto intransigente e tutela rigorosa dei diritti fondamentali della persona, in Italia e ovunque. E quando quel rispetto e quella tutela non ci sono, vivaddio, un paese democratico fa sentire la sua voce, la sua volontà e la sua forza. In gioco è, infatti, un concetto non convenzionale e non conservatore di sovranità: la capacità, cioè, di rispettare le proprie stesse leggi e di far rispettare le leggi internazionali. Tanto più quando quelle leggi sono poste a presidio del bene essenziale: l’integrità e la dignità del corpo umano. E che cosa è stato più mortificato e umiliato del corpo di quel giovane uomo sottoposto a sequestro, trattamenti inumani e degradanti, tortura e morte? Di fronte a uno scandalo simile - il più grande e crudele - e di fronte alle risposte oltraggiose che, in proposito, ha offerto il regime egiziano, cos’altro si deve attendere perché l’Italia dica che la misura è colma? Certo, è indubbio che, sulla morte di Giulio Regeni, sia in atto uno scontro all’interno del sistema di potere di quel paese; ed è altrettanto sicuro che qualche segmento delle istituzioni egiziane mostrano una certa esile volontà di collaborazione. Ma tutto questo, finora, ha prodotto solo una successione vertiginosa di menzogne. Chiariamo subito un punto: qui non si vogliono rompere le relazioni politiche, diplomatiche, istituzionali, economiche e commerciali con l’Egitto: si vuol piuttosto che, all’interno di quel sistema di rapporti, la questione della tutela dei diritti fondamentali della persona occupi un posto centrale. Sia priorità tra le priorità. E mai sia ridotta ad accessorio superfluo, a promemoria retorico, a enfasi delle belle intenzioni e dei buoni propositi. Tutto qui: e so bene che si tratta di un’impresa particolarmente ardua, ma intanto incominciamo ad affrontarla. Ad esempio, per restare al caso di Giulio Regeni, è previsto il 5 aprile un incontro tra gli investigatori della polizia egiziana e gli investigatori italiani. Qualora si rivelasse l’ennesimo diversivo, potremo ancora attendere o dovremo, infine, spazientirci? Io penso che si debbano assumere, infine, quelle che appaiono come scelte ineludibili e indifferibili. Ovvero, in primo luogo, il richiamo per consultazioni dell’Ambasciatore d’Italia a il Cario, Maurizio Massari. Dovremo poi prendere atto che la vicenda Regeni, non è solo un fatto privato che ha provocato una ferita non rimarginatile tra i familiari e gli amici, ma che riguardai un paese intero nei suoi rapporti con un altro paese. Di conseguenza, andrà adottata una revisione profonda delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Stati; e, in questo quadro, si potrà ipotizzare un ridimensionamento delle nostre rappresentanze in Egitto. Da ultimo, l’Unità di Crisi della Farnesina potrebbe essere costretta a prendere atto che recarsi in Egitto può implicare dei rischi per l’incolumità dei cittadini italiani; e che le autorità di quel paese, lungi dall’essere in grado di tutelare la sicurezza personale di chi vi si reca, possono addirittura costituire una minaccia per essa. E allora il nostro ministero degli Esteri, attraverso l’Unità di crisi, appunto, potrebbe dichiarare l’Egitto "Paese non sicuro", con conseguenze inevitabili sui flussi turistici italiani - e forse, non solo - verso lo Stato Nordafricano. Può considerarsi sicuro, infatti, un paese dove, nei soli primi mesi del 2016, sono state fatte sparire 88 persone, 8 delle quali ritrovate cadaveri? Ed è dunque l’Egitto, un luogo dove è possibile, secondo i criteri del diritto internazionale, attuare pratiche di respingimento di profughi giunti sulle nostre coste? Ripeto: tutto ciò non è "dichiarare guerra all’Egitto", figuriamoci: è, appunto, esercitare quella pressione diplomatica ed esprimere quella forza democratica, che sono le sole risorse di cui disponiamo per affermare la piena tutela dei diritti umani. E questa stessa tutela è la condizione perché le relazioni economiche e commerciali anche con l’Egitto, alle quali pure teniamo, e molto, possano realizzarsi in un clima di amicizia vera: non quella che definisce "ottimi rapporti" le relazioni segnate dal reciproco ricatto. Il reato di tortura non può più aspettare di Eugenio Gialli (Presidente Consiglio Regionale Toscana) L’Unità, 30 marzo 2016 Il nostro Paese deve decidersi ad introdurre nel proprio ordinamento penale il reato di tortura. La legge c’è, ma è ferma ormai da mesi al Senato, non facciamola cadere nel dimenticatolo. Il perché è presto detto: punire tortura e altre pene o trattamenti crudeli è un grande valore umano e sociale. È veramente il momento che l’Italia si allinei con numerosi altri ordinamenti di Paesi esteri su quello che sento essere, come Presidente del Consiglio regionale della Toscana, un diritto di civiltà. La Toscana è il primo Stato al mondo, con il Granduca Pietro Leopoldo, ad aver abolito il 30 novembre de11786 la pena di morte e la tortura, ma, in merito a quest’ultima, ancora oggi nel nostro codice penale manca una forma coercitiva per chi nei fatti la pratichi. Con la Festa della Toscana ricordiamo questo evento, ma anche la figura di Pietro Leopoldo, che inquadrò l’abolizione della pena capitale all’interno di un grande disegno riformatore. Un disegno che comprendeva anche l’abolizione della tortura. Numerosi atti internazionali prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani e degradanti: tra gli altri cito la Convenzione di Ginevra de11949 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950; la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000; la Convenzione Onu del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti, ratificata dall’Italia con la legge n. 489/1988. La maggior parte di tali atti si limita a proibire la tortura ma non ne fornisce una specifica definizione. In Francia la pena massima per il reato di tortura è l’ergastolo, nel Regno Unito idem. In Spagna sono sei anni. In Italia la pena massima non esiste. E neanche quella minima. Da tostano, da Presidente del Consiglio della Regione che per prima al mondo ha visto abolire la pena di morte e la tortura, sento il dovere di battermi per cambiare le cose. Storie di resistenza antimafia e parole vane di Antonio Maria Mira Avvenire, 30 marzo 2016 Casal di Principe, Afragola, Messina, Nicolosi, Polistena, Rizziconi. Per sette giorni ho viaggiato in un’Italia che resiste alle mafie. Un’Italia che c’è, eccome. Bisogna dirlo con forza e convinzione, bisogna continuare a raccontarlo. Perché se c’è una parte del Paese che accetta compromessi con le cosche e, addirittura, è collusa, complice, alleata delle mafie, ce n’é un altra che dice no, e lo fa a voce alta, denunciando, proponendo, realizzando iniziative di crescita civile e come tale strutturalmente alternativa a ogni potere mafioso. Un Paese fatto di sindaci, parroci, volontari, uomini delle forze dell’ordine. I rappresentanti di questa Italia a Messina sono sfilati in 50mila in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera e da Avviso pubblico. Sono i 350mila che si sono riuniti in tanti altri luoghi d’Italia. Sono le centinaia di familiari delle vittime di mafia che trasformano il dolore in impegno e concreta testimonianza. È l’ex sindaco di Rizziconi, Nino Bartuccio, che con voce ferma accusa la cosca di ‘ndrangheta del suo paese. E sono i giovani volontari e gli altri sindaci che lo sostengono in questo giorno difficile. È la professionale e motivata fantasia nella gestione dei rifiuti di Salvatore Iavarone, assessore all’ambiente di Afragola, ‘terra dei fuochi’ e terra di camorra. Sono le centinaia di veri casalesi che col loro vescovo Angelo Spinillo e i loro parroci, ricordano don Peppe Diana, martire di camorra, con gesti concreti, facendo di ogni anniversario un’occasione di riscatto. È la naturalezza con la quale Antonino Borzì, sindaco di Nicolosi, grosso centro etneo, racconta dell’intitolazione dell’aula consiliare e della sala per i giovani, ai giudici Rocco Chinnici e Rosario Livatino, uccisi dalla mafia, e di tante iniziative per far crescere la cultura della legalità. È la scelta coraggiosa, e ancora una volta concreta, dell’amministrazione comunale di Polistena di concedere sconti fiscali a chi denuncia il racket. Sono parroci calabresi come don Pino Demasi, don Ennio Stamile, don Roberto Meduri che fanno del loro impegno coi giovani, gli emarginati, i migranti, la migliore arma contro la ‘ndrangheta. Sono i soci della cooperativa Valle del Marro che nel coltivare i terreni strappati alle cosche non solo creano lavoro pulito ma trasformano il sogno di cambiamento in concreti segni. Queste e altre storie ho incontrato in questi giorni. Non sono eroi, per carità, non chiamateli così. Sono persone normali, ma in certi territori la normalità è davvero eroica, e proprio come normalità è la più temuta dalle cosche. Ma è una normalità così giusta che fa fatica a diventare notizia. Sottovalutazione? Distrazione? Disinteresse? Fatto sta che ad ascoltare la testimonianza di Bartuccio c’erano solo chi sta scrivendo questa nota e il bravo collega calabrese Michele Albanese, da quasi due anni sotto scorta. Ed è mortificante che su quasi tutti i giornali una polemica molto politica innescata dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio nei confronti del governo abbia offuscato le belle iniziative per l’anniversario dell’uccisione di don Diana. La normalità non fa notizia, ancor più quando dà buoni risultati. Mentre lo fa sempre quello che non va. Certo la denuncia è necessaria e doverosa, soprattutto quando ben documentata (e alcune volte non lo è), ma deve essere sempre accompagnata e seguita dalle positive storie di cambiamento. Che ci sono sempre, anche nelle terre più tragicamente infestate dalla mafia, persino là dove sembra non dimorare alcuna speranza. Storie da raccontare, da illuminare perché solo così si vincerà la solitudine dei giusti, l’isolamento dei buoni cittadini che sono il miglior regalo alle cosche. In questi ultimi mesi su alcuni giornali sembra andar di moda fare ‘pelo e contropelo’ a chi si batte in prima linea nella battaglia antimafia. Che non è esente da errori, ma gli errori non sono la regola. E non possono essere ingigantiti e conditi con illazioni e falsità. Perché c’è tanta bella Italia che, senza clamori, contrasta le mafie. Non si fa certo ricca per questo, ma arricchisce la speranza di tutti e contribuisce a costruire il futuro. Merita di essere sostenuta e raccontata. Su queste pagine non smetteremo di farlo. Campania: la Regione scrive all’Associazione Jonathan di Lucia Fortini (Assessore regionale alle Politiche sociali) La Repubblica, 30 marzo 2016 Gentile associazione Jonathan, la vostra lettera aperta pubblicata lo scorso 22 marzo su queste pagine mi consente, nel rispondervi, di riflettere pubblicamente sulla programmazione rivolta all’accoglienza dei minori che l’assessorato da me rappresentato intende mettere m campo La strategia di questa programmazione è fondata sul riconoscimento del ruolo centrale svolto dalle comunità di accoglienza, nonché sul coinvolgimento e confronto costante tra gli Ambiti territoriali, l’Autorità giudiziaria minorile e il Centro giustizia minorile che consenta, da un lato, di intercettare le esigenze differenziate, dall’altro, di monitorare l’efficacia delle misure adottate. Qualunque intervento specialistico di tipo penale sul minore va definito all’interno di un percorso educativo individualizzato che possa essere stimolo di crescita armonica e reintegro in un tessuto sociale complesso. Ci ispiriamo, inoltre, ad un modello di comunità educativa quale luogo di incontro tra le diversità, come integrazione e complementarietà al percorso educativo e non ad una comunità costruita su una determinata categoria di disagio o problema. E intento del mio assessorato, e di tutta la giunta guidata da Vincenzo De Luca, rifiutare tipologie di intervento generalizzate sulla base di modelli astratti ed inefficaci e adottare invece strategie di costruzione di processi di crescita personale finalizzata ad un reinserimento nel territorio di appartenenza. A conferma di tutto rio si ricorda che tra i suoi obiettivi strategici per il prossimo triennio di programmazione, la Regione, di concerto con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ed m base a priorità da individuarsi congiuntamente, con il coinvolgimento del Centro servizi sociali per adulti, degli Ambiti Territoriali, della magistratura di Sorveglianza, del Terzo Settore anche alla luce delle regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa che sottolineano come la vita in carcere dovrebbe avvicinarsi "il più possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera" (Regola 5) e che tutta la detenzione dovrebbe "essere gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società libera delle persone che sono state private della libertà" (Regola 6) promuove varie linee di intervento, calibrate in modo differenziale in base alla tipologia di detenuti (minori, stranieri, donne, tossicodipendenti) e alle caratteristiche degli istituti penitenziari. Ancora, sempre nel Piano sociale regionale 2016/2018, si evidenzia come, in una regione quale la Campania dove lo svantaggio sociale rischia di riprodursi, per la forte incidenza che la povertà assume nelle famiglie con minori ed in quelle dove le dimensioni del disagio e della povertà si cumulano (cosiddette famiglie multiproblematiche), azioni strategiche di prevenzione devono essere prioritariamente predisposte con riferimento alle aree "Infanzia ed adolescenza" e "Responsabilità familiari", per la migliore gestione delle problematiche relative ai minori ed alle loro famiglie. Dunque ritengo sia importante investire sull’infanzia partendo dalla famiglia, attraverso un programma globale e integrato di presa in carico della famiglia stessa al fine di favorire il benessere del minore. Ed è proprio questo il percorso intrapreso dalla misura strutturale varata dal governo nazionale di sostegno all’inclusione attiva (Sia) che si propone di interrompere meccanismi di riproduzione del disagio sodale. Consapevole della complessità di intervento, sono disponibile ad ulteriori approfondimenti e confronti istituzionali di ascolto e valorizzazione delle esperienze del territorio. Sardegna: Sdr; a Cagliari-Uta ridotti educatori, limitazioni per auto servizio direttori Ristretti Orizzonti, 30 marzo 2016 "Cancellati i distacchi per motivi di famiglia agli educatori con il conseguente loro rientro nelle sedi di assegnazione, obbligatorietà della pausa di mezz’ora nel corso della giornata lavorativa con recuperi pomeridiani due volte la settimana, tagli nell’utilizzo delle auto di servizio per gli spostamenti dei Direttori. È iniziata all’insegna dell’applicazione rigida delle circolari la nuova gestione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, suscitando però polemiche tra il personale con negative ripercussioni sul piano della serenità nel lavoro". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che "ha ricevuto diverse segnalazioni in merito alle novità nella gestione del personale introdotte dal Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano". "I distacchi per motivi di famiglia accordati in occasione di maternità o per far fronte a problemi legati alle condizioni di figli o genitori con gravi patologie vengono accordati di norma per un periodo limitato di quattro mesi a cui può tuttavia seguire una deroga per un analogo periodo di tempo. La realtà però talvolta - sottolinea Caligaris - è meno lineare rispetto a ciò che è stato previsto dalla prassi regolamentare. In molte circostanze infatti il buon senso suggerisce ulteriori deroghe. Ciò quando si è in presenza di neonati o di figli o genitori disabili oppure in considerazione delle distanze e delle difficoltà a raggiungere le sedi più disagiate nonché per la oggettiva opportuna razionalità di svolgere l’attività in un Istituto affollato piuttosto che in uno con pochi detenuti". "In situazioni particolari come quella di Cagliari-Uta, la cancellazione dei distacchi degli Educatori - evidenzia la presidente di Sdr - ha determinato una drastica riduzione dei funzionari. Attualmente infatti sono soltanto nove, uno dei quali è il responsabile dell’Area e un altro si occupa in modo esclusivo delle attività legate alla Biblioteca. La questione non è di secondaria importanza se si considera che nella Casa Circondariale di Cagliari sono ristrette circa 600 persone ed è stato necessario introdurre la quarta branda in alcune celle avendo superato abbondantemente i posti regolamentari". "Ciò che lascia interdetti è come si possa conciliare il recupero sociale rieducativo dei detenuti con un numero così esiguo di Educatori e con gli Agenti della Polizia Penitenziaria ridotti all’osso, senza contare che molti di loro hanno ormai raggiunto il limite d’età e sono in procinto di andare in pensione. Anche l’organizzazione interna dell’Istituto relativamente agli orari appare troppo rigida, anche perché occorre considerare oggettivamente la compatibilità tra impegni familiari, distanze e disponibilità di mezzi propri per raggiungere la sede. Difficile - conclude Caligaris - conciliare le problematiche individuali senza un ampio uso del buon senso. Che dire poi delle limitazioni nell’uso dei mezzi di servizio per i Direttori? L’auspicio è che si guardi maggiormente ai risultati del lavoro piuttosto che irrigidirsi sull’applicazione di circolari peraltro non sempre adeguate alle circostanze oggettive delle diverse aree territoriali". Campania: oltre i manicomi criminali, cosa resta ancora da fare di Maria Pirro Il Mattino, 30 marzo 2016 Le residenze hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari. In Campania sono aperti quattro centri sanitari distanti dal capoluogo fino a due ore d’auto. Oltre i manicomi criminali cosa resta ancora da fare. Viaggio nella struttura di Roccaromana che ospita ex internati. Li hanno trasferiti in un viale disperso per la campagna. A 80 chilometri da Napoli, nella provincia di Caserta, dove non arriva né l’autobus né il treno e le case qui intorno sono diroccate e addirittura il centro del paesino è distante. Trovare qualcuno a cui chiedere informazioni è un’impresa, fino a quando compaiono loro, i protagonisti della grande migrazione iniziata a giugno scorso, in anticipo sulla chiusura del primo Ospedale psichiatrico giudiziario in Italia, con sede a Secondigliano, avvenuta a dicembre; invece un altro dei sei, quello ad Aversa, si svuoterà completamente nelle prossime settimane. A Roccaromana di ex internati ne sono già passati tanti, nel silenzio della montagna. "In fondo alla strada c’è una palazzina che non si vede, senza insegne e con un grande cancello", spiegano in coro gli ospiti, originari di diversi comuni della Campania, per indicare dove abitano oggi. Incontrarli in strada è però un’eccezione. Per uscire, da soli o assieme agli altri, devono avere il permesso del magistrato ed essere accompagnati dal personale della struttura. "È necessaria l’autorizzazione del giudice anche per andare a messa", fa notare, una volta superato il portone d’ingresso, Tiziana De Marco, che è ancora in attesa di averla, per effetto di una legge ancora in bilico tra assistenza e sicurezza, pietà e paura. In questa Rems, la residenza nascosta agli occhi di molti che ha preso il posto dell’Opg, vivono in venti, uomini e donne, anziani, ammalati, casalinghe, laureati, giovani e forti, ritenuti dal giudice "socialmente pericolosi", nella maggior parte dei casi provvisoriamente: tutti sono infatti accusati di aver commesso un reato, dal tentato omicidio ai maltrattamenti in famiglia, ma di aver agito in un momento di "annebbiamento della mente". Per questo motivo, non sono stati portati in carcere, alcuni (il 66 per cento) lì non ci sono mai stati. L’edificio che li accoglie è un’ex scuola, ceduta all’azienda sanitaria che l’ha adattata, per quanto possibile, alle nuove esigenze, senza sbarre alle finestre. Al piano terra si trova la portineria, che provvede a una "vigilanza discreta", e poi gli uffici di psichiatri, psicologi e assistenti sociali, due locali in tutto, per cui bisogna alternarsi per i colloqui o spostarsi in camera da letto, quando arrivano inquirenti o familiari. "Ho una figlia di 24, una di 10, uno di 18, un nipote di cinque e mezzo e un altro in arrivo", racconta Tiziana, che conta i giorni per festeggiare il compleanno e spera di poter avere una foto ricordo di quella data speciale. Le feste si organizzano dall’altro lato del corridoio, dove c’è un piccolo salottino con la tv e gli scacchi e, accanto, un’altra stanza con un tavolo rotondo, la macchinetta del caffè usata dagli operatori anche come deposito. Di fronte, il refettorio si trasforma in sala riunioni, per i dibattiti e le terapie di gruppo, palcoscenico, per le prove di teatro, pista da ballo, con la musica dal vivo grazie a uno strepitoso karaoke, ormai un appuntamento quotidiano, nonostante gli spazi siano limitati. Santolo Tammaro si presenta così: "Sono il nipote della regina Margherita, delle Cinque Terre". Parla seriamente, ma sa anche recitare bene. "È uno degli attori più bravi nella recita di Pasqua", rivela soddisfatta la sua psicologa; mentre il quarantenne abbozza un sorriso e fa la guardia del corpo per un giorno, con gentilezza, in questo viaggio nella struttura sanitaria. Al primo piano ci sono le camere con quattro o tre letti: l’ultima, sulla sinistra, è riservata alle tre donne, tutte hanno il bagno all’interno, alcune occupate giorno e notte dagli afflitti da patologie croniche; mentre il secondo piano è interdetto: "riservato agli impianti", chiarisce il medico Loris Ivan de Vita, responsabile della Rems. Peccato, perché sarebbe utile avere più spazio. Ma, quel che più è duro da accettare, è la carenza di verde all’esterno per qualsiasi tipo di esercizio, dal calcetto al giardinaggio: tutto cemento, tutto blindato. L’ennesimo muro è stato alzato dopo i disordini dei primi tempi, quando un ospite della struttura ("un vero criminale") picchiò pure il direttore sanitario. Così questo luogo ha rischiato di essere conosciuto solo attraverso fatti di cronaca. "Anche gli incontri con il sindaco fino a oggi sono avvenuti esclusivamente in Comune o davanti all’altare con i pazienti", racconta la psicologa Silvana Calano. Sotto il campanile, una curva in salita segna così il passaggio nel tratto di confine in un borgo di appena 800 anime. È in questo viale più che deserto che Luigi Maisto, 46 anni, piange disperatamente come bimbo piccolo: "Devo andare via. Subito", ripete qualche giorno prima delle dimissioni. "Fatti coraggio", gli dice Salvatore Ranieri, "dal 2016 rinchiuso in diverse strutture, da Genova a Reggio Emilia. Ho avuto due anni di pena: ne ho scontato uno, me ne resta un altro". Il trentenne chiede di parlare per segnalare che la caldaia per le docce e i termosifoni funziona male, e aggiunge: "Il cibo fa schifo. Devo comprarlo fuori tutti i giorni e ho paura che mettano qualcosa dentro per avvelenarmi". Di certo, la dieta è "un po’ ospedaliera. Ma la maggioranza di queste persone non è ammalata. Anzi, avrebbe bisogno di normalità", obietta il personale Asl che per ciascuno ha difatti predisposto un progetto personalizzato, che punta essenzialmente sull’apprendimento di un lavoro o la ripresa di un’attività interrotta dopo l’arresto. Tramite un protocollo d’intesa, già sottoscritto tra Asl e Comune, è previsto che sia favorita "una stretta collaborazione con persone, cooperative e realtà produttive locali" contro il rischio di costituire qui, come in Opg, una nuova comunità di esclusi. A Roccaromana tutti i piani sono però nel cassetto: nonostante i budget di cura stanziati per ogni ospite, per articolati meccanismi non è stato speso un centesimo. "E questo è il problema più grande", dicono tutti gli operatori. Karima Gaacem, nata in Algeria ("ma da 26 anni vivo in Italia", dice) potrebbe fare la stiratrice. "Non sono mai prima andata in carcere, mai fatto guai, mai avuto a che fare con la legge. Ho solo sofferto tanto", racconta con emozione. "Voglio uscire di qui il più presto possibile", implora. Le figlie vengono una volta a mese: "All’epoca dei fatti avevano 17 e 21 anni, quando litigai con il mio compagno, e per questo sono stata condannata a un anno e un giorno di reclusione, ma non ho capito perché sono ancora dentro". Sospira: "Se mi trasferissero almeno in una casa famiglia, le ragazze potrebbero farmi visita più spesso; da sola, posso uscire solo con l’operatore". Decisivo è anche il ruolo dell’assistente sociale: "Li aiuto a ritirare la pensione e a fare tante altre cose. Qui si diventa come una famiglia", sorride Angela Ventrone. Ma è vero che oggi stesso in tanti potrebbero lasciare le Rems, solo che i parenti hanno bisogno di aiuto per accoglierli. "Il turn-over è già nettamente maggiore di quello degli Opg", spiega lo psichiatra Giuseppe Nese. "Alcune persone sono rimaste in Rems solo i pochi giorni necessari a raccordarsi con la magistratura per la valutazione dei progetti alternati predisposti, ma i margini di riduzione di questi tempi sono ancora notevolissimi. Basti pensare che circa il 60 per cento ha un progetto terapeutico-riabilitativo della Asl competente che attesta la possibilità di un’assistenza in un luogo diverso", la soluzione migliore auspicata da tutti, operatori e ospiti. "Vivere in quattro in una stanza, significa anche rischiare di prendere botte tutti i giorni", avverte Ranieri. "Certo, qui si sta meglio che in cella", interviene Tiziana che loda infermieri e medici. "I miei amici sono morti, io sono fortunato", annota un ex tossicodipendente su un foglio bianco, anonimo come un messaggio lasciato da un naufrago in una bottiglia nella tempesta "Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo", scrive un altro. È la terapia dell’emozioni a cui aggrapparsi tra le onde che rimbalzano in queste mura. Il mondo, dal quale l’ammalato proviene, rimane oltre la salita. Oltre la "palazzina che non si vede", come la definisce Salvatore, sotto accusa, ma anche vittima, perché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere anche se stesso, mentre il sole incendia gli alberelli, le vette aguzze si stagliano nel cielo limpido, di un azzurro profondissimo, e in fondo a questo viale di periferia, anche loro, gli ospiti colpiti da una vertigine, nel tornare dentro, si sentono sparire. Milano: corso ad agenti penitenziari e detenuti per prevenire la radicalizzazione di Zita Dazzi La Repubblica, 30 marzo 2016 Le lezioni rivolte a 150 agenti di polizia penitenziaria, che saranno estese anche ai detenuti. Si parte tra una settimana. Obiettivo: evitare la radicalizzazione e il reclutamento in nome della guerra santa. Passano anche dalle carceri i reclutatori di estremisti disposti a gesti clamorosi in nome di un qualche dio. Anche nelle celle crescono i fanatici che si esaltano sentendo parlare della guerra santa, dello scontro di civiltà. E per questo, nella fase di massima allerta per gli attentati che hanno colpito Parigi prima e Bruxelles pochi giorni fa, arriva a Milano, un progetto di prevenzione, rivolto in primis alle guardie carcerarie e, in un futuro, anche ai detenuti. Oggi, negli uffici davanti al carcere di San Vittore, a presentare l’iniziativa promossa dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria arriveranno i rappresentanti delle principali comunità religiose, perché il problema del radicalismo riguarda non solo l’Islam, ma anche tutte le altre fedi. "La religione, come indicato dall’ordinamento penitenziario, è uno dei fattori del reinserimento sociale a cui punta l’esecuzione penale", spiegano alla Caritas ambrosiana, che è una delle sigle capofila del progetto, che si articolerà in un ciclo di sei lezioni, rivolte a 150 agenti di polizia penitenziaria, a partire dal 6 aprile. L’idea è quella di fornire agli operatori dell’istituzione carceraria gli strumenti per capire le diverse sensibilità, per prevenire atteggiamenti di fanatismo e per evitare che i soggetti più fragili si facciano affascinare dai predicatori che riescono a far proselitismo proprio nei luoghi della detenzione, del massimo disagio, dell’isolamento sociale. "La conoscenza delle diverse pratiche religiose deve entrare a far parte del bagaglio di competenze degli operatori che prestano servizio negli istituti", dicono i promotori di quello che è stato chiamato per ora "seminario di formazione sul pluralismo religioso", un titolo che comprende anche la formazione che verrà fatta agli operatori per cercare di rendere il carcere un luogo dove ai detenuti viene mostrato qualche spiraglio di vita positiva, lontana dalle tentazioni di farsi arruolare dalla criminalità. "C’è molto bisogno di agire già dal carcere contro il rischio di radicalizzazione di chi si sente emarginato e senza futuro", dice il professore Paolo Branca, docente di Islamistica dell’università Cattolica e responsabile per la Diocesi dei rapporti con l’Islam. Con lui, a presentare i corsi, ci sarà monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, il rabbino David Sciunnach, Hamid Di Stefano per la Coreis (Comunità religiosa islamica italiana), e Silvio Ferrari della Statale. Un gruppo di lavoro interculturale e interreligioso a supporto dell’attività di assistenza penitenziaria. Salerno: intesa col Ministero, detenuti al lavoro per espiare la pena La Città di Salerno, 30 marzo 2016 Un percorso rieducativo per il reinserimento di persone in esecuzione penale. È quanto deciso dall’esecutivo Pisani dopo la nota del 9 marzo scorso dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Salerno - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia - che ha trasmesso una convenzione e patto etico per la collaborazione al Comune di Pollica, per promuovere "azioni di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività". I detenuti verranno impiegati in attività utili alla collettività sul territorio comunale. Ciò avviene da tempo anche in altri comuni dove ad esempio i detenuti vengono impiegati per la manutenzione e cura del verde pubblico. Lo scopo è "favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova con un progetto ripartivo". La normativa di riferimento, infatti, prevede che le Direzioni degli Istituti e degli Uepe curino la partecipazione della comunità al reinserimento sociale dei condannati attraverso l’affidamento dell’imputato ai servizi sociali per lo svolgimento di un programma di attività di volontariato di rilievo sociale con prestazione di lavoro di pubblica utilità. Lanciano (Ch): Uil-Pa; detenuto aggredisce tre agenti primadanoi.it, 30 marzo 2016 Tre agenti della polizia penitenziaria del carcere di Lanciano sono stati aggrediti da uno stesso detenuto la sera di Pasqua e ieri mattina. Gli agenti hanno riportato lesioni guaribili tra 5 e 15 giorni. A segnalare gli episodi è Ruggero Di Giovanni, segretario provinciale del sindacato Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Il detenuto, arrestato alcune settimane fa, alla vigilia di Pasqua ha aggredito un compagno di cella ed è stato quindi messo in isolamento. Il giorno di Pasqua, racconta il sindacalista, ha sferrato un pugno a un agente. Ieri, poi, il recluso avrebbe prima danneggiato due celle, poi in quella di isolamento avrebbe spaccato un vetro antisfondamento che protegge il monitor del televisore, per calarsi poi nei cunicoli interni, utilizzati per gli interventi tecnici di riparazione. Una volta bloccato l’uomo ha ferito altri due agenti. "Una Pasqua da dimenticare - dice Di Giovanni - Dobbiamo costatare che negli ultimi anni sono state prese decisioni che mal si prestano alla gestione di questo tipo di detenuti che non sono ancora pronti al regime aperto, e nulla è stato fatto a livello regionale per istituire le sezioni per detenuti violenti previste da maggio 2015. Pur sforzandoci di non puntare il dito contro l’Amministrazione penitenziaria locale, non possiamo non chiederci se siano stati adottati tutti i provvedimenti del caso a tutela dei lavoratori. Questo detenuto si è reso responsabile di altri episodi violenti contro gli agenti durante altre carcerazioni". La Uil-Pa chiede "una riorganizzazione del lavoro nel carcere frentano necessaria per l’insufficienza dell’organico di polizia penitenziaria". Caltanissetta: detenuto aggredisce due poliziotti penitenziari nuovosud.it, 30 marzo 2016 Un detenuto straniero ha aggredito nel carcere di Caltanissetta due poliziotti penitenziari in servizio "perché rifiutava di essere perquisito dopo essere uscito dalla cella per andare nel cortile per l’ora d’aria. entrambi i poliziotti sono ora in ospedale", spiega Calogero Navarra, segretario regionale per la Sicilia del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, che esprime "la solidarietà e la vicinanza del sindacato" ai poliziotti feriti. "L’aggressione - sottolinea - è sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la polizia penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Da Roma, il segretario generale del Sappe Donato Capece aggiunge: "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri, espellendo i detenuti stranieri Da rifugiati a detenuti: così la Croazia è diventata un "limbo micidiale" Redattore Sociale, 30 marzo 2016 Reportage dal campo di Slavonski Brod, che si trova al sud del paese, al confine con la Bosnia Erzegovina. Doveva essere un luogo di identificazione, ristoro e cura per chi passava sulla rotta balcanica, ma con la chiusura della frontiera è diventato una specie di prigione a cielo aperto per iracheni, afgani e siriani. Doveva essere un luogo di identificazione, ristoro e cura per i rifugiati in transito, ma è diventato presto una specie di prigione a cielo aperto. È il campo di Slavonki Brod, in Croazia, dove sono bloccati iracheni, afgani e siriani dopo la chiusura della frontiera slovena e l’accordo Ue-Turchia. Un "limbo micidiale" a cui è dedicato il reportage di Anna Meli, direttrice comunicazione del Cospe, pubblicato sul sito della ong. "La Croazia è stata terra di transito di rifugiati per molti mesi. La situazione più drammatica si è registrata tra la fine di settembre e dicembre scorso. Nel solo mese di ottobre sono state 204.349 le persone arrivate nel paese. Arrivavano in treno. Si contavano fino a 8 convogli stracarichi e fino a 1500 persone che sostavano per al massimo 1 giorno o a volte per poche ore nel campo di Slavonski Brod. Il campo si trova a sud del Paese al confine con la Bosnia Erzegovina, su una vecchia area industriale dismessa che veniva servita dalla ferrovia, la stessa usata dai profughi per arrivare qui. Ed è proprio attorno ai lati dei binari che sono state allestite le strutture provvisorie, tende e container, adibiti alla registrazione e identificazione dei rifugiati ma anche a luogo di ristoro e cura. Le strutture dell’ala sinistra dei binari gestite in collaborazione con la Croce Rossa e dal ministero dell’Interno croato si sono via via trasformate da luoghi di ricovero a luoghi di detenzione. Dalla chiusura della frontiera con la Slovenia l’8 marzo e ancor più dopo la conferma dell’accordo con la Turchia stabilito nel vertice europeo del 17 e 18 marzo le persone sono rimaste bloccate nel campo. Non solo non sono state fatte più uscire ma gli è stato dato loro il permesso provvisorio di 30 giorni rilasciato dalle autorità croate e allo scadere del quale si diventa irregolari ed espellibili. Solo da qualche settimana le famiglie sono state divise dal resto dei detenuti e gli sono stati assegnati dei container mentre gli uomini soli vivono tutti insieme in una enorme tenda. Attualmente nel campo si contano 219 persone di cui 129 uomini, 29 donne e 65 minori. La maggioranza delle persone viene dall’Iraq (108 persone) seguono gli afgani (81) e 30 sono invece i siriani. Il campo si è anche ripopolato nelle ultime settimane di persone respinte dalla Slovenia e anche dall’Austria". "Un documento inviato da un profugo del campo ad un’operatrice croata del Centro studi per la pace, partner di Cospe, che opera nel campo insieme e a sostegno delle organizzazioni internazionali fin dall’inizio dell’emergenza, mostra come fino a gennaio la cosiddetta "Balkan route" era stata "istituzionalizzata" prevedendo che al passaggio tra i vari Stati aderenti (Macedonia Serbia, Croazia, Slovenia e Austria ) si apponesse addirittura un timbro dalle singole autorità di frontiera. Con la chiusura della frontiera slovena i rifugiati si sono trovati in un limbo micidiale" (...). "Nessuno rinuncia alla speranza di passare la frontiera verso il nord Europa e di ricongiungersi a qualche familiare", dichiara il poliziotto che ci scorta durante tutta la visita (...) Alle mie insistenti domande sul perché i rifugiati non possono uscire dalle strutture il poliziotto racconta come in verità possono uscire ma accompagnati dalla polizia. "Oggi abbiamo accompagnato 2 rifugiati ad un alimentari in paese e ieri anche. Dovevate vedere gli sguardi degli abitanti" aggiunge. Alla fine racconta che a scortare i 2 rifugiati che avevano chiesto di poter comprare dei beni in città c’erano 4 poliziotti. Una criminalizzazione inaccettabile ostentata anche dall’imponente dispiegamento di forze dell’ordine nel campo. Al momento della nostra visita erano almeno 6 le camionette all’interno e nella caserma adiacente abbiamo visto almeno una ventina di agenti senza contare quelli della sorveglianza all’ingresso e i 3 poliziotti dispiegati all’ingresso di ciascuna delle due sezioni. Una detenzione ingiustificata e contro ogni normativa internazionale funzionale però a garantire quella separatezza tra popolazione locale e rifugiati a cui il governo croato tiene molto". In Grecia hotspot a rischio emergenza per il sovraffollamento di Carlo Lania Il Manifesto, 30 marzo 2016 Il parlamento si prepara a discutere il disegno d legge che dichiara la Turchia Paese terzo sicuro. Il parlamento greco si prepara ad esaminare il disegno di legge messo a punto dal governo che dichiara la Turchia Paese terzo sicuro. Si tratta di uno dei passaggi necessari per dare attuazione all’accordo del 18 marzo scorso tra Unione europea e Ankara che consentirà di rispedire oltre il mar Egeo i migranti arrivati sulle isole greche a partire dal 20 marzo scorso, giorno dell’entrata in vigore dell’intesa (altro passaggio fondamentale sarà probabilmente l’esame dell’accordo stesso da parte dei parlamenti degli Stati membri). L’approvazione del disegno di legge dovrebbe segnare l’avvio ufficiale all’operazione voluta da Bruxelles per fermare gli arrivi in Europa di quanti fuggono dalla guerra, anche se si tratterà di una partenza solo formale. Nei fatti, è molto probabile che ancora per molte settimane nessuno dei profughi e dei migranti economici arrivati a Lesbo, Chios, Kos o in un’altra isola dell’Egeo venga riportato a forza in Turchia. Almeno se verranno rispettate le convenzioni internazionali. Le richieste di asilo devono infatti essere esaminate individualmente e in caso di risposta negativa è prevista la possibilità di fare ricorso. Tutte procedure che richiedono tempo, anche se Bruxelles preme in tutti i modi per velocizzarle al massimo. Fino a oggi infatti, nonostante gli appelli di Frontex agli Stati europei perché mettano a disposizione di Atene almeno 1.500 tra poliziotti e funzionari addetti all’esame delle richieste di asilo, a vagliare le domande dei rifugiati ci sono solo una ventina di funzionari greci. Conseguenza di questo stato di cose è che presto gli hotspot allestiti sulle isole saranno sovraffollati. Gli sbarchi in Grecia continuano infatti a essere numerosi, anche se inferiori rispetto ai numeri registrati fino a qualche mese fa. Dopo una flessione iniziale nei giorni successivi alla firma dell’accordo con Ankara - e dovuta probabilmente al maltempo che ha reso difficile la traversata dell’Egeo - gli arrivi sembrano essere di nuovo in salita. Più di 700 solo ieri a Lesbo, che rischiano adesso di far scattare l’emergenza a Moria, uno dei due hotspot dell’isola nel quale già ieri si contavano oltre 2.000 uomini, donne e bambini mentre ne potrebbe ospitare al massimo 1.500. Persone che contrariamente a quanto accadeva fino al 20 marzo ora non possono uscire dalla struttura (un ex carcere trasformato prima in centro di accoglienza e poi in hotspot), cosa che ha provocato la reazione dell’Unhcr e Medici senza frontiere che per protesta hanno sospeso alcune delle loro attività pur mantenendo una presenza quotidiana all’interno del centro. Ma il pericolo è che vengano violati anche altri diritti riconosciuti internazionalmente. "Per essere rimandati in Turchia i migranti devono poter contare sulla protezione internazionale e questa non è garantita a iracheni e afghani" spiega Michele Telaro, responsabile a Lesbo per Msf. La Turchia applica infatti la convenzione di Ginevra limitatamente ad alcune aree geografiche. "Questo significa che in Turchia gode di protezione internazionale chi fugge da fatti accaduti in Europa, ma non iracheni e afghani". Perché questo avvenga sarebbe necessario che Ankara modificasse le sue leggi cosa che, seppure avvenisse, richiederebbe ulteriore tempo. Con i migranti sempre prigionieri negli hotspot, l’accordo potrebbe così trasformarsi in un boomerang per Bruxelles. Campo profughi in movimento di Marino Ficco Il Manifesto, 30 marzo 2016 Concerto improvvisato allenta per un giorno la tensione tra chi fugge dalla Jungle di Calais. Nella nuova tendopoli, per ora tollerata dalle autorità, la voce di Aster Aweke a pasquetta riesce a sconfiggere la paura. Uscita del metrò Stalingrad di Parigi. Mais c’est quoi ça? esclama un signore che fino a un attimo prima era immerso in un’intensa conversazione telefonica. Decine di uomini, donne e bambini sono sdraiati a terra su dei materassi. Alcuni giocano a carte. C’è chi fuma. Uno ci prova con una volontaria della Caritas. Un bimbo abbozza un sorriso mentre la mamma gli tende un biscotto. Una tenda verde e una arancio. Sudiciume, spazzatura, umidità, puzza. E la musica di Aster Aweke. Da un angolo riparato dalla pioggia con un telone di plastica verde, riecheggiano le parole dell’ultimo successo della cantante etiope. D’un tratto il silenzio, si provano gli ultimi accordi e il concerto ha inizio. Bastano un basso, una chitarra elettrica e un microfono per mettere in movimento quest’umanità abbandonata a se stessa. Sorrisi si alternano ad applausi. Tutti vogliono filmare questa parentesi di umanità per condividerla su Facebook. Ci sono almeno un centinaio di persone. In totale hanno a disposizione 4 bagni chimici e nessuno passa a raccogliere i rifiuti, che si accumulano. "Adesso c’è poca gente ma di notte dormono fino a 500 persone" ci dice Marie-Laure, una signora che abita nel quartiere e che viene a dare una mano quando ha un attimo libero. Siamo nel nuovo campo di migranti a Parigi. Per il momento le autorità lo tollerano ma le associazioni che difendono i diritti dei migranti temono che sia smantellato presto. Esattamente un anno fa la prefettura di Parigi cominciava una politica di smantellamento di tutti i campi che si erano formati in città. Prima fu sgomberato lo squat de La Chapelle, poi fu la volta del liceo occupato Jean Quarré ed infine Austerlitz e Saint Ouen. Uomini, donne e bambini erano stati ridistribuiti in centri d’accoglienza sparsi per tutta la Francia. "Mi avevano mandato a Verdun - dice Omar, un giovane pakistano - ma non c’era nessuno della mia comunità e non parlo ancora francese". Molti di loro sono stati mandati in località remote dove possono godere di una buona assistenza materiale ma non hanno la possibilità di frequentare le loro comunità. Nelle ultime settimane è cominciato l’abbattimento della Jungle di Calais, il più grande campo profughi europeo dopo Idomeni, in Grecia. A causa dell’aumento degli attacchi xenofobi e con il peggiorare delle condizioni nella Jungle, a centinaia si sono rimessi in marcia verso il campo di Grande-Synthe, Dunkuerque, il Belgio o Parigi. "Ma perché Parigi?" chiediamo ad Assan, 32enne di Aleppo: "A Calais nelle ultime settimane la polizia è diventata sempre più violenta e poi non si riesce più a passare la Manica verso l’Inghilterra; sono tornato a Parigi perché ho deciso di depositare una domanda d’asilo in Francia. Qui potrò continuare a frequentare molti amici e connazionali". È il momento di Alpha Blondy e dell’afro-reggae. Gli etiopi danzano muovendo le spalle di lato, verso l’alto e in basso. I bimbi sorridono. Fateh batte il ritmo coi piedi mentre filma tutto per mostrarlo ai suoi amici che arriveranno più tardi. Un signore sulla quarantina, francese e molto ben vestito, cerca di comunicare con un bambino eritreo. Gli offre delle caramelle e un orsacchiotto. Il bimbo è felice e sorride. Poi comincia ad accarezzarlo e a quel punto interviene la madre, fino ad allora appartata poco lontano. Prende in braccio il figlio, lancia un’occhiata chiara ed espressiva nei confronti dell’uomo e se ne va. Sono accampati per comunità. Da un lato i sudanesi. Abdullah e molti di loro vengono dal Darfur, regione che ci evoca un conflitto di cui tanto si parla ma dimenticato e sconosciuto. All’altra estremità ci sono afghani e pakistani. Al centro ci sono etiopi ed eritrei. Molti sono i bimbi. Le loro storie sono sempre le stesse. Le loro richieste pure: un po’ di pace ed una vita migliore. "Se davvero ci tenessero ai loro bambini potrebbero fare una domanda d’asilo in Francia e gli troveremmo una sistemazione" risponde un poliziotto a un’attivista che si lamenta del fatto che lo Stato tolleri che dei bimbi passino le giornate in condizioni simili, al freddo, senza riparo, sdraiati su un materassino, avvolti in coperte e pile, circondati dai rifiuti. "Non fanno la domanda in Francia perché parlano inglese e hanno dei parenti in un altro paese" controbatte l’attivista. "Che ricorderanno della loro infanzia questi bambini? E che adolescenza difficile per questi ragazzini afghani, che futuro avranno?" si domanda Xavier, un pensionato che è stato attratto dalla musica uscendo dal metrò. "Alla tv vedo centinaia di attivisti e giornalisti prendere d’assalto Idomeni, Calais, le isole della Grecia e il porto del Pireo; perché nessuno viene qui?" si domanda sua moglie. Dopo qualche tuono e un po’ di grandine esce un grande arcobaleno. Una ragazza racconta a due bimbi afghani la tradizione secondo cui dove finisce un arcobaleno è posto un pentolone pieno d’oro custodito da uno gnomo cattivo. Poi si rivolge a me aggiungendo: "Anche noi occidentali siamo come lo gnomo cattivo che non permette a tutti di beneficiare equamente dei beni comuni, dell’oro del pentolone". I due bimbi si guardano negli occhi, si scambiano un sorriso complice, si prendono per mano e cominciano a correre. Hanno deciso di non arrendersi. L’Onu e la droga, il sistema tutela se stesso di Axel Klein* Il Manifesto, 30 marzo 2016 "Non è questione di sistema per il problema mondiale della droga, solo di risorse": ecco la conclusione della Commissione delle Droghe Narcotiche (Cnd), in vista di Ungass. Ma che cos’è di preciso "il problema mondiale della droga"? Significa che i prezzi sono troppo alti, che la qualità è bassa e la distribuzione è lenta? Oppure che perseguire l’astinenza con la forza ha causato spargimento di sangue e repressione? È un riconoscimento dell’errore di base, stante che nelle società capitalistiche spingere nella clandestinità beni di consumo si traduce in economie parallele e in incubazione di criminalità organizzata? Oppure che l’utilizzo del sistema penale per fini di salute pubblica conduce a incarcerazioni di massa? I tassi di omicidio sospinti dal narcotraffico in Messico, Guatemala o Giamaica sono parte del problema? O lo è l’intreccio di guerra e droga in Afghanistan e in Colombia? E che dire del problema della corruzione globale? La riunione della Cnd della scorsa settimana a Vienna ha avuto il compito di preparare la Sessione Speciale sulle droghe dell’Assemblea Generale Onu di aprile. Lì i politici hanno la possibilità di verificare che, nonostante i loro sforzi, i consumi globali sono in ascesa, le produzioni di coca e di cannabis sono più alte che mai, e che laboratori chimici clandestini immettono tutti gli anni sul mercato nuove sostanze psicoattive. Tanto è complesso il problema che bisogna trovare una soluzione globale: da qui l’urgenza di un documento unanime. Ma portare tutti a tagliare il traguardo significa riconfermare principi come "un mondo libero dall’abuso di droga", proprio quando la legalizzazione della marijuana sta diventando una realtà in alcuni stati membri delle Nazioni Unite. I leader di Messico, Brasile, Nigeria e Grecia hanno invocato la normalizzazione delle "droghe" oggi proibite, proprio per prevenire la violenza. L’Uruguay è stato il primo stato a legalizzare la cannabis, proprio per combattere il narcotraffico. Ma il prezzo dell’unanimità è di regredire alla mediana, al "risoluto impegno alla riduzione della domanda, alla riduzione dell’offerta e alla cooperazione internazionale". Questi solenni proclami sono necessari, apparentemente, per tenere a bordo i paesi conservatori, come l’Arabia Saudita, Singapore e il Kazakhstan. Può il prezzo dell’unanimità consistere nel supporto alle tattiche brutalmente repressive di regimi autoritari? L’Onu è l’assise per le buone pratiche a sostegno del benessere e dei diritti umani: rimpiazzate - constatiamo- da più pragmatiche preoccupazioni di mantenimento del sistema di controllo antidroga. Perciò, la risoluzione "riafferma" e "sottolinea" gli impegni delle tre Convenzioni sulle droghe, sì che ogni "guerriero della droga" possa avvolgersi nella bandiera dell’Onu. Non solo vanno avanti come al solito, guardano anche al proprio business. Per prima cosa, i rappresentanti concordano nel "conferire adeguate risorse" alla riduzione dell’offerta e della domanda e "per assistere i paesi in via di sviluppo". Poi si identificano i beneficiari di queste elargizioni, iniziando dall’ospite: si "riafferma" il ruolo principale della Cnd, e i ruoli "prescritti dai trattati" dell’Ufficio per la Droga e il Crimine (Unodc) come l’entità guida del sistema Onu, così come i ruoli, prescritti dai trattati, del "International Narcotic Control Board" (Incb) e della Oms. Dopo aver assicurato gli interessi del sistema stesso, il documento raccomanda di indirizzare risorse per i trattamenti sanitari e per la repressione penale. Invece di confrontarsi con l’evidenza, la riunione Cnd ha riconfermato precedenti asserzioni non verificate, a sostegno di principi "sacri" e di interessi professionali. Se Ungass andrà allo stesso modo, un decennio di riforma della politica della droga sarà sprecato. *L’autore è il direttore della rivista "Drugs and Alcohol Today" Egitto. Dolore in pubblico, "Verità su Giulio" di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 marzo 2016 Dopo l’ultimo depistaggio, la famiglia Regeni trova il coraggio di parlare e avverte: "Il 5 aprile ci aspettiamo un gesto forte dal governo italiano". Senza sviluppi "mostreremo le immagini di nostro figlio torturato, come altri egiziani". Luigi Manconi: "L’Egitto va dichiarato Paese non sicuro, e l’ambasciatore richiamato". Quando nella notte tra il 24 e il 25 marzo hanno appreso che "la più cupa delle previsioni si era puntualmente avverata", e che l’ennesimo, incredibile depistaggio era stato servito "su un vassoio d’argento", assunto come "verità" ufficiale direttamente dal ministro dell’Interno egiziano Ghaffar, la famiglia Regeni ha deciso di fare il passo che non aveva mai fatto finora. Di presentarsi in pubblico con lo striscione giallo di Amnesty "Verità per Giulio Regeni" e parlare direttamente ai giornalisti, senza più la mediazione del governo Renzi, pur pagandone un prezzo altissimo. "Rinnoviamo il nostro dolore" che però a questo punto è "un dolore necessario", anche perché "ciò che è successo a Giulio in Egitto non è un caso isolato". Paola Deffendi ha "bloccato le lacrime" e con lucidità, insieme al marito Claudio Regeni, racconta del figlio e di quella verità che "pressioni" esterne vorrebbero silenziare. Lo fanno rivolgendosi ai media di mezzo mondo convocati nella sala Nassirya del Senato, insieme al presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, alla loro avvocata Alessandra Ballerini e al portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury. L’impressione è che confidino ancora nelle istituzioni italiane, in particolare nella procura di Roma, e nella loro capacità di ottenere una reale collaborazione da parte delle autorità cairote, ma che pongano un limite alla paziente ed estenuante attesa. Quando tra pochi giorni gli inquirenti dei due Paesi si incontreranno di nuovo a Roma, "cosa porteranno gli egiziani?", chiede Paola Deffendi. I documenti che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aspetta da un paio di mesi - richiesta rinnovata anche dall’avvocata Ballerini e dal collega egiziano, in modo da aumentare la pressione - o una nuova versione-farsa? "Se il 5 aprile sarà una giornata vuota, confidiamo in una risposta forte del nostro Governo. Forte, ma molto forte. È dal 25 gennaio che attendiamo una risposta su Giulio". Altrimenti, spiegano i Regeni, si spingeranno sulla stessa strada intrapresa da Ilaria Cucchi e mostreranno al mondo le foto del corpo martoriato del giovane ricercatore. "Se non l’abbiamo fatto finora - aggiunge l’avv. Ballerini - è solo perché la mobilitazione e la protesta generale hanno fatto fare un mezzo passo indietro all’Egitto". Esporranno le foto di Giulio torturato "come un partigiano dai nazifascisti", solo che "lui non era un giornalista e non era una spia, era solo un ragazzo che studiava". "Torturato come un egiziano", massacrato perché "forse le idee di mio figlio non piacevano". Mostreranno non più quel "bel viso sempre sorridente, con uno sguardo e una postura aperta", come era aperta la sua mente, ma l’immagine dell’obitorio, come è stato "restituito dall’Egitto", di quell’uomo "completamente diverso" sul quale "si era riversato tutto il male del mondo", "e noi ci chiediamo ancora perché". Di quel "viso che era diventato piccolo piccolo", nel quale "l’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui, ma proprio l’unica, è stata la punta del naso". Un particolare che fa impressione, ma non è l’unico. Paola Deffendi racconta infatti che non furono loro ad effettuare il riconoscimento di Giulio all’obitorio del Cairo, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità e dai media di entrambi i Paesi finora. Non lo videro prima che i medici egiziani effettuassero l’autopsia, ma solo quando il corpo rientrò a Roma per il secondo esame. "In Egitto ci avevano consigliato di non vederlo, e noi avevamo anche accettato, perché eravamo talmente fuori, credetemi, da pensare che forse sì, era meglio ricordarlo come era prima". Non solo. La scomparsa di Giulio non venne pubblicizzata, come accade di solito e come avrebbero voluto fare i suoi amici convinti che avrebbero potuto salvarlo con la campagna "Where is Giulio?" lanciata e immediatamente interrotta, perché nel Paese di Al Sisi, "amico" di Matteo Renzi, "ci hanno spiegato - ha ribadito l’avvocata Ballerini - che c’è una procedura informale diversa per i cittadini italiani", anche per fare in modo che un eventuale "fermo si possa trasformare in arresto formale". In sostanza, fin dal primo momento si agì sotto l’impulso di forti pressioni, anche se probabilmente in buona fede, almeno da parte italiana. Ieri pomeriggio, prima della conferenza stampa, i Regeni hanno proceduto, presso la procura di Roma, al riconoscimento degli oggetti fatti rinvenire in uno dei covi dei presunti "banditi" uccisi dalle forze dell’ordine egiziane e fotografati dal ministero degli Interni di Ghaffar. "Tranne i documenti e forse uno dei due portafogli, nessuno di quegli oggetti che servivano a costruire un’immagine ignobile di Giulio, appartiene a lui", riferisce l’avvocata Ballerini. D’altronde, anche se Giulio viveva da anni lontano da casa, "avevamo un rapporto strettissimo, profondo, una relazione simile a quella che hanno gli aborigeni a distanza", racconta ancora la madre. Per questo "sappiamo che Giulio non lavorava né ha mai prestato i suoi studi ai servizi segreti", anche "con tutto il rispetto per il ruolo dell’intelligence". "Non aveva un conto corrente da spia e conduceva una vita molto sobria. Sul suo conto c’erano 850 euro, e tanti ce ne sono ancora. Nessun prelievo successivo a quello del 15 gennaio". Il che mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la pista della banda che rapinava stranieri non sta in piedi. È vero invece che "in Egitto nel 2015 ci sono stati 1676 casi di tortura di cui 500 terminati con la morte del torturato, e nei primi due mesi del 2016 sono già 88 le persone torturate di cui 8 morti", riferisce Noury. E allora, il 5 aprile la famiglia Regeni non si aspetta "proprio la verità" ma neppure un’altra giornata persa. A questo punto non è escluso che la campagna "Verità per Giulio Regeni" sposi la proposta lanciata ieri dal senatore Luigi Manconi, secondo il quale il governo dovrebbe "porre la questione del richiamo - non del ritiro - del nostro ambasciatore per consultazioni. Un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese considera il caso discriminante per mantenere buone relazioni con il Cairo". "Penso sia necessario considerare la revisione delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Paesi - ha aggiunto Manconi - mettendo in conto l’urgenza e l’ineludibilità di altri atti concreti da parte dell’Unità di crisi della Farnesina, che sulla scorta di quanto accaduto dovrebbe dichiarare l’Egitto Paese non sicuro". Giulio Regeni non c’è più, lui che, come dice in conclusione sua madre, "avrebbe potuto dare una mano al mondo". "Però - aggiunge Paola Deffendi - ora noi siamo qui a parlare di tortura e a parlare di Egitto, e prima non se ne parlava". L’ultima domanda la pone lei: quello di Al Sisi "è un Paese sicuro?". Egitto. Menzogna e torture di Giuseppe Anzani Avvenire, 30 marzo 2016 L’incontro del padre e della madre di Giulio Regeni con i giornalisti, faccia a faccia, a dire il disperato bisogno di verità in un luogo istituzionale come l’aula Nassirya del Senato, riporta di colpo l’attenzione di tutti a quel picco di sofferenza che è il nocciolo incandescente della tragedia interna alla famiglia, il suo profilo per così dire "privato", il suo intimo e indicibile strazio. E ce ne viene una commozione infinita. Ma subito si aggiunge un nostro coinvolgimento crescente, protagonista a sua volta, un moltiplicato dolore e una centuplicata indignazione per ciò che tuttora pare offuscare la ricerca di verità, perché la morte di Giulio Regeni non è una storia privata. C’è la faccia d’Italia, sul campo, anzi c’è la faccia del mondo civile, l’interpello di oltre 4.600 esponenti del mondo universitario internazionale, l’attenzione della stampa mondiale in cui spicca il duro affondo del "New York Times" sino a mettere in forse le scelte circa gli equilibri e le strategie fondamentali Usa di alleanze o divergenze. È una storia tenebrosa in cui è difficile far luce. Le versioni, o le piste, volta a volta fornite dalle autorità egiziane, a partire dall’incidente stradale o dall’aggressione di rapinatori, fino al sequestro a opera di oppositori del regime egiziano, o infine al crimine di delinquenti comuni già a loro volta uccisi, suonano irritanti e fin beffarde, di fronte a quel corpo torturato per giorni in modo "professionale", come detto dagli esperti, fino a morire; così che l’immagine di un "interrogatorio" gestito da professionisti del supplizio, addetti alla repressione da parte proprio del regime, ci si è piantata nel cervello come la fotografia di quella morte. Naturalmente, finché la coltre di tenebra non sia tutta dissipata, anche mediante l’intervento dei nostri segugi, e con la forza di prove risolutive, anche questa nostra interiore visione rimane una congettura; con tante e gravi ragioni di sospetto e di inchiesta, sì, ma non uno stampo che risucchi da sé la risposta forzata; o imponga all’Egitto il dilemma fra confessare il crimine di Stato, cioè la sua infamia, o esser giudicato impostore. Forse non accadrà, forse ci resterà l’atroce dubbio, il suo morso più doloroso della più tragica fra le risposte. E dovremo allora spostare il baricentro dell’attenzione su un orizzonte più largo che la sola tragedia di Giulio Regni, mettendo in campo quanto gli stessi genitori di lui hanno inteso rammentare, per bocca del rappresentante di Amnesty International, sugli arresti, le torture (676 casi nel 2015, e già altri 88 nel 2016, con 8 morti), le centinaia di persone "sparite", nel Paese governato dal generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013 e le successive nuove elezioni. Se questi dati di Amnesty sono il vero, lo scandalo, l’infamia, è globalmente qui, scoperchiata. E la verità giudiziaria che si va cercando, nel ping pong diplomatico, imbronciato quel tanto che vuole la platea, ma timido e guardingo rispetto ai rischi di una rottura, non è risolutiva di niente fino a quando non saranno tutti questi torturati e tutti questi desaparecidos l’argomento affrontato dall’Italia e dal mondo, e anteposto a ogni ragion di Stato. Purtroppo, in tema di tortura, non sono molti i predicatori innocenti. Tutti hanno firmato la Convenzione Onu del 1984 contro la tortura, ma in pratica in molti l’hanno tradita. In oriente e in occidente. Non solo nelle dittature, anche nelle democrazie. Persino in paesi-simbolo del progresso civile e dei diritti, come il Regno Unito, quando si torturarono i separatisti dell’Ira; e a Guantánamo, che Barack Obama non è riuscito a chiudere in otto anni di presidenza, col cosiddetto water boarding. E qualche biasimo episodico è toccato anche a noi, dalla Corte di Strasburgo. È questa, infine, la verità che chiede al mondo il corpo distrutto di Giulio Regeni: basta con le menzogne, basta con le torture, mai più. Egitto: diritti negati, arresti e torture in nome della lotta al terrore di Ugo De Giovannangeli L’Unità, 30 marzo 2016 Con il giro di vite più di 41rnila persone finite in cella. "Una generazione in carcere". Uno Stato di polizia non può negare se stesso. Un generale-presidente che sale al potere attraverso un putsch, che riempie le galere di oppositori, non può violentare la propria storia e trasformarsi da falco in colomba, abbattendo lo Stato di polizia per edificare sulle sue macerie uno Stato di diritto. Il generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi, manovra un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. I miliziani di Mubarak sono stati riciclati da al-Sisi dopo il golpe contro i Fratelli musulmani. La manovalanza non manca per imporre, con ogni mezzo, la "ragion di Stato". Una repressione che il regime giustifica in nome della lotta al terrorismo: una lotta che tende a legittimare ogni attacco alla libertà di espressione. Secondo gli ultimi dati diffusi dagli attivisti egiziani per i diritti umani, il giro di vite ha visto più di 41.000 persone arrestate, accusate di reati penali e processate in modo irregolare. Il livello della repressione è agghiacciante. Le autorità egiziane hanno dimostrato che non si fermeranno di fronte a nulla nel tentativo di soffocare ogni sfida al loro potere, rileva un recente rapporto di Amnesty International Tra le persone in carcere vi sono leader di movimenti giovanili apprezzati a livello internazionale, difensori dei diritti umani e perfino bambini che indossavano magliette con slogan anti-tortura. La situazione continua a peggiorare. Migliaia di arresti e in almeno 90 casi si tratta di persone scomparse nel nulla: a documentarlo è Human Rights Watch. Tra i giovani imprigionati in modo arbitrario vi sono gli attivisti Ahmed Maher e Mohamed Adel del "Movimento giovanile 6 aprile", il noto blogger Ahmed Douma, Alaa Abd El Fattah, un blogger e autorevole voce critica che è stato in prigione sotto Hosni Mubarak e il Consiglio supremo delle Forze armate, e i difensori dei diritti umani Yara Sallam e Mahienour El-Massry. Il gruppo di attivisti "Libertà per i valorosi" ha denunciato una nuova ondata di arresti, scattata a metà del 2015, che ha visto almeno 160 persone finire in carcere in condizioni equivalenti a sparizioni forzate. Ecco una testimonianza, tra le tante raccolte dall’organizzazione umanitaria di ciò che significa una "generazione in carcere": "Sono stato arrestato a febbraio, a casa, da uomini della sicurezza in abiti civili. Mi hanno subito picchiato e poi trasferito ad Al Azouly. Mi hanno interrogato 13 volte. Ogni volta bendato, denudato, ammanettato con le mani dietro la schiena, colpito con le scariche elettriche su tutto il corpo, compresi i testicoli. Non m i hanno permesso di telefonare ai miei familiari. Allora, ho dato il loro numero di telefono a un prigioniero che stava per essere rilasciato che li ha avvisati. Un uomo che era in cella con noi, si chiamava Haj Shatewy e veniva dal Sinai, è stato torturato dalla Brigata militare 101. È morto nella cella numero 11 del secondo piano. A maggio, alla fine delle indagini, mi hanno rilasciato". Molti arrestati sono stati portati di fronte ai giudici a seguito di accuse false o motivate politicamente e sono stati condannati, al termine di processi di massa con centinaia di imputati, sulla base di prove insufficienti o inesistenti o solo grazie a testimonianze da parte delle forze di sicurezza o a indagini della Sicurezza nazionale. Altri sono in carcere da lungo tempo senza accusa né processo. Tra questi, c’è lo studente Mahmoud Mohamed Ahmed Hussein, arrestato mentre tornava a casa dopo aver preso parte a una protesta, solo a causa dello slogan scritto sulla sua maglietta. Secondo i suoi familiari e avvocati, ha "confessato" sotto tortura attività collegate al terrorismo. Ha trascorso il suo 19esimo compleanno in prigione, dove è rinchiuso da più di 500 giorni. Il dato di migliaia di persone condannate per false accuse o a causa di leggi che limitano la libertà di espressione e di manifestazione pacifica, è in profondo contrasto coi pochi casi di agenti di polizia processati per violazioni dei diritti umani a partire dal gennaio 2011. Nessun membro delle forze di sicurezza è stato chiamato a rispondere sul piano penale per il massacro di centinaia di sostenitori del deposto e incarcerato presidente islamista Mohammed Morsi, avvenuto nelle piazze Rabaa Adawiya e al-Nahda del Cairo il 14 agosto 2013. Sperare di &tenere verità e giustizia per Giulio Regeni da un siffatto regime, che ha innalzato bugie e torture a sistema di governo, è una illusione. Battersi perché mandanti ed esecutori di questo assassinio politico non la passino liscia, è un dovere. Caso Regeni, l’Italia pensa a sanzioni e black list verso l’Egitto di Giuliano Foschini La Repubblica, 30 marzo 2016 Affari bloccati e ritiro dell’ambasciatore senza passi avanti sull’inchiesta da parte del Cairo. Cinque miliardi di investimenti, dal maxi giacimento di gas di Zohr al business sull’edilizia e l’energia attorno a Suez. Tanto vale la partita diplomatica che si muove attorno all’omicidio di Giulio Regeni. Una storia che riguarda l’Italia, secondo partner europeo del Cairo dopo la Germania, ma evidentemente tutta la comunità internazionale che, come dimostrano anche le campagne che i giornali americani hanno lanciato in questi giorni sul caso Regeni, ha acceso le luci sul governo di Al Sisi e sui suoi metodi, così come denunciato dalle Ong internazionali. Non è un caso che tutti i nuovi affari italiani siano stati messi in stand by, comprese le prospettive aperte nella missione dei 60 imprenditori italiani, al seguito al seguito del ministro Federica Guidi, proprio quando il corpo di Giulio fu ritrovato. Ma la famiglia Regeni chiede anche la sospensione degli accordi già in essere, a partire proprio dall’affare dell’Eni che, già ai primi di febbraio, si era mossa per chiedere al governo del Cairo risposte credibili e in tempi brevi. L’invito, evidentemente, è stato disatteso. "E a questo punto non possiamo permettere più errori: l’Egitto deve chiedere scusa. Non c’è accordo commerciale che tenga davanti a una situazione del genere" dice il presidente della commissione Bilancio alla Camera, Francesco Boccia del Pd. A conferma che anche la maggioranza di governo ha capito che la strada è strettissima e non ci sono altre uscite se non quella delle verità. "Una verità - ha attaccato ieri l’avvocato dei Regeni - che il regime nega perché scomoda: hanno torturato un italiano". La posta in gioco è, come detto, altissima. La chiamata "per consultazioni" dell’ambasciatore italiano sarebbe un atto politico molto forte. Che, tra l’altro, ha anche un precedente recente: è stato fatto a dicembre 2014 con l’ambasciatore in India per la vicenda dei Marò. "Ma non sappiamo - dicono dalla Farnesina - quanto possa rivelarsi una mossa efficace: in questo momento, proprio per controllare che le indagini vengano fatte come si devono, è necessario la nostra presenza al Cairo". Un colpo definitivo agli scambi turistici tra i due paesi darebbe invece l’inserimento nella black list della Farnesina dell’Egitto come "paese a rischio". Sulla carta la nostra unità di crisi si limiterebbe a segnalare che "non sono garantite tutte le condizioni di sicurezza per i viaggiatori ". In realtà significherebbe bloccare i tour operator che, per psicosi ma soprattutto per i premi assicurativi che schizzerebbero alle stelle, chiuderebbero di fatto le rotte con Sharm el Sheik, Hurgada e Marsa Alam che già di fatto sono al collasso rispetto agli scorsi anni. Dopo l’attentato al jet russo a febbraio sono state registrate circa un migliaio di presenze contro le 12.629 di dicembre 2015 e dei 34.404 dello stesso mese del 2014. Un calo registrato del 63 per cento che la vicenda Regeni, dicono i tour operator, spingerà "allo zero". Alla Bit di febbraio l’Egitto praticamente non esisteva con il ministro del turismo Hisham Zaazou era stato costretto ad annullare la sua visita a Milano per "impegni improvvisi". Lo stesso ministro che qualche giorno prima aveva organizzato al Cairo una messa per Giulio: 12 i presenti. Libia, pressing di Obama su Roma. Ma Renzi: solo aerei e commando di Fabio Martini La Stampa, 30 marzo 2016 Venerdì a Washington l’incontro fra il presidente americano e i leader dei Paesi europei. Il premier si aspetta altre richieste. E resta fermo sul no a un contingente di terra. Renzi sa già tutto. Sa che Barack Obama vorrebbe chiudere in gloria una stagione presidenziale considerata neo-isolazionista, riconquistando Raqqa e stroncando l’Isis in Libia. E dunque il presidente del Consiglio sa che dopodomani a Washington, in occasione della conferenza sul nucleare, il pressing della Casa Bianca sull’Italia si intensificherà. Renzi sa bene che i francesi e soprattutto gli inglesi sono pronti ad appoggiare Obama in ogni sua istanza e dunque se, come pare, il presidente americano promuoverà a Washington un confronto a tema, le vie di "fuga" rischiano di farsi complicate. Anche perché nelle principali cancellerie della coalizione anti-Califfo si è diffusa la sensazione che l’Isis - in difficoltà in Siria e in Iraq - potrebbe intensificare sia l’attività terroristica in Europa, sia accelerare il "trasloco" verso Sirte. Nel complesso, si sarebbe aperta una "finestra" per assestare al Califfo colpi incisivi. Ecco perché il presidente del Consiglio, prima di partire per gli Stati Uniti (oggi sarà a Chicago e domani a Boston), ha elaborato una "dottrina" libica che prevede una linea di resistenza all’intervento diretto, ma anche alcune subordinate (dal dispiegarsi di reparti speciali fino all’uso dei Tornado), condizioni e disponibilità da esplicitare soltanto davanti ad un aggravarsi del teatro libico e nel caso in cui l’incontro di venerdì a Washington dovesse rivelarsi un assedio. Matteo Renzi ha già fatto sapere agli sherpa americani che il governo italiano ritiene azzardato e sbagliato un intervento di terra; che è inimmaginabile il dispiegamento di migliaia di soldati: che "non è il tempo delle forzature" e comunque Roma resta contraria ad un intervento militare. Per il quale, eventualmente. serve un primo, indispensabile step: l’insediamento effettivo di un governo legittimo a Tripoli, pre-condizione ancora in alto mare, visto che l’esecutivo di unità nazionale guidato da Al Serraj si è autonominato, ma anche ieri non è riuscito a ricevere il voto di fiducia del Parlamento rappresentativo delle tante fazioni libiche e non riesce neppure a raggiungere Tripoli, dove l’attuale primo ministro dell’amministrazione della vecchia capitale ha dichiarato lo stato di emergenza per impedire l’insediamento del nuovo governo, che di fatto lo esautorerebbe. E infatti il messaggio di Renzi agli americani è che soltanto "sulla base della richiesta di un governo legittimato, potremmo valutare un impegno, che avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari". E qui si apre il varco italiano, che per effetto del pressing di Obama, potrebbe allargarsi. Davanti ad una esplicita richiesta libica e per dare seguito alla solenne richiesta (avanzata all’assemblea generale dell’Onu a settembre), di una "leadership italiana in Libia", il governo è disposto a dispiegare unità speciali all’interno delle quali troverebbero spazio - con modalità da valutare - le eccellenze militari italiane: Tornado e reparti speciali di piccole dimensioni ma di forte impatto operativo. In altre parole, no agli scarponi nel deserto, sì a piccoli nuclei (10-15 unità per volta) capaci di operare bliltz mirati. E, come extrema ratio, sì anche all’utilizzo dei Tornado. Dunque, una decisione italiana non c’è, anche perché la situazione in Libia resta fluida. Da qualche giorno Serraj e il suo Consiglio Presidenziale sono attesi nella capitale per insediarsi, sospinti dal via libera dell’Onu, ma l’amministrazione di Tripoli ha dichiarato lo stato di emergenza per impedire l’insediamento del nuovo governo e sono iniziati i primi scontri, per ora dimostrativi. Evitiamo avventure in Libia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 30 marzo 2016 La presenza dei militari discrediterebbe ancora di più il già delegittimato governo e rafforzerebbe la presenza Isis. È giunto il momento di dirlo nella maniera più esplicita: sarebbe un grave errore, in un contesto come l’attuale, inviare migliaia, anzi decine di migliaia di soldati in Libia solo perché ce lo ha chiesto un governo insediato all’uopo. La presenza di quei militari getterebbe una pesante ombra di ulteriore discredito sul già delegittimato governo libico e, anziché debellarla, rischierebbe di rafforzare la presenza Isis che fa capo alla città di Sirte. La benedizione dell’Onu non sarebbe sufficiente a trasformare tale esecutivo in qualcosa di diverso da un "governo fantoccio". E non esistono precedenti storici di governi di tal fatta che non abbiano aggiunto caos al caos e non abbiano trascinato nel baratro coloro che li avevano istituiti. Nel 1963 gli americani favorirono, nel Vietnam del Sud, la cruenta deposizione di Ngo Dinh Diem, ordita da Nuguyen Cao Ky, che due anni dopo assunse la guida di una giunta militare. Il nuovo capo del governo suggerì un’intensificazione delle offensive contro il Nord e spalancò le porte ai "consiglieri militari" statunitensi che nel 1969 arrivarono ad essere 550mila. L’effetto fu che la guerra di Saigon contro il Vietnam del Nord e i partigiani Vietcong assunse dimensioni immani. Cao Ky, per parte sua, si dedicò con solerzia a eliminare il rivale Nguyen Chanh Thi (anch’egli membro della giunta) e con le sue politiche repressive scatenò una rivolta buddista che sortì l’effetto di dare una luce pacifista alla causa dei comunisti del Nord. Questi ultimi presero vigore, passarono all’offensiva e travolsero americani e sudvietnamiti. Il "fantoccio" - Cao Ky che nel frattempo era diventato vicepresidente per poi, nel ‘71, essere fatto fuori - fece ancora in tempo, al momento dell’umiliante resa statunitense (1975), a tornare alla ribalta per proporre di "riprendere la lotta". Nessuno per fortuna lo ascoltò e l’America lo accolse a Costa Mesa, in California, dove gli consentì di aprire un negozio di liquori. Impresa in cui, per la prima volta nella sua vita, ebbe successo. La sua storia è paradigmatica di tutte le leadership imposte dall’esterno per rendere più agevole un intervento militare. Ruolo assegnato stavolta a Fayez Serraj. Il 17 dicembre 2015 "è nato" il governo di conciliazione libico voluto dall’inviato Onu Martin Kobler e presieduto da Serraj che dovrebbe porsi al di sopra delle due fazioni che comandano a Tripoli e a Tobruk. Secondo le Nazioni Unite, da quel giorno di dicembre, quello di Serraj è l’unico governo "legittimo" della Libia. Anche se tutto è ancora sulla carta. Ed è proprio sulla carta che è scoppiata la prima grana allorché il "nostro" uomo formò un gabinetto da record con 32 ministri, 64 sottosegretari e 9 consiglieri presidenziali: 105 persone. A seguito di una complicata mediazione tra Tobruk e Tripoli venne nominato ministro degli Esteri Marwan Ali Abu Sraiweil appartenente ad una famiglia importante della Tripolitania (con qualche interesse in Cirenaica). Molti rilevarono un qualche sbilanciamento. Si decise allora di nominare altri due pari grado, uno alla Cooperazione internazionale e un altro per gli Affari arabi e africani. Fioccarono ironie e polemiche da parte di tutti, ma proprio tutti gli osservatori. Alla fine si optò per una drastica riduzione dei titolari di dicastero. I quali in ogni caso, per settimane e settimane, dovevano restarsene a Tunisi dal momento che nella capitale libica non erano ben accetti. Arriveranno a Tripoli alla spicciolata, dopo una lunga discussione su come raggiungere la loro "sede naturale": in aereo o in nave? Qual è il mezzo più sicuro? Alla fine si è optato per l’aereo ma a Tripoli è divampata una battaglia attorno all’aeroporto e il tutto è stato ancora una volta rinviato. Perché? Il governo Serraj ha il sostegno della città di Misurata ma non è affatto popolare dalle parti di Tripoli. Il capo dell’"entità governativa della Tripolitania" vicina ai Fratelli musulmani, Khalifa Ghweil, ancora oggi considera quello di Serraj un esecutivo "imposto dall’esterno" che i "libici non accetteranno mai". In una occasione si è lasciato sfuggire che qualora Serraj si presentasse a Tripoli, lui lo farebbe arrestare. Il suo ministro degli Esteri, Aly Abouzzalok, lo definisce un gabinetto "messo insieme dall’Onu alla bell’e meglio" a seguito di un "dialogo artificiale" e, per queste ragioni, "privo di legittimità". Lo speaker del Parlamento tripolino, Abu Sahmain, mette addirittura in forse l’incolumità del capo del governo di unità nazionale. Sull’altro versante, quello di Tobruk, grande incognita per il costituendo gabinetto Serraj è il generale Khalifa Haftar, già al fianco di Gheddafi e adesso - sostenuto dall’Egitto - uomo forte di quella fazione. L’ufficiale, appoggiato anche da commandos francesi, guida l’offensiva per la "liberazione" di Bengasi ed è all’attacco contro diversi gruppi islamisti: i qaedisti di Ansar Al Sharia (che nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano Chris Stevens) e la Brigata Martiri del 17 febbraio vicina ai Fratelli musulmani. Ma Haftar, inviso per le ragioni appena dette ai Fratelli musulmani, è costretto a restar fuori dal gabinetto di unità nazionale: una delegazione italiana ha dovuto recarsi a Marj per rassicurarlo e convincerlo a non fare bizze. Contemporaneamente Haftar è oggetto di una presa di distanze da parte del presidente del Parlamento di Tobruk, Aqila Saleh, che annuncia il varo di una commissione per vagliare le accuse contro di lui lanciate in tv dal colonnello Nohamed Hejazi fino a poco tempo prima suo fedelissimo. Il governo filoegiziano di Tobruk è più disponibile nei confronti di Serraj anche se milizie wahabite si mostrano ostili. Ma, a parte la "grana Haftar", servirebbe il voto favorevole di due terzi dei parlamentari qui insediati (vale a dire 124 su 188) e ad oggi si sono pronunciati per il sì solo in 101. Secondo l’Onu la mancanza degli altri 23 voti sarebbe riconducibile non già a resistenze dei parlamentari di Tobruk, bensì a "pressioni violente e indebite". Destinate a venir meno non appena sarà chiaro che Serraj è in grado di esercitare la sua autorità sulle decine di miliardi di depositi bancari, sui fondi sovrani nonché sui giacimenti petroliferi. Denaro da cui trarre le paghe per dipendenti pubblici e soldati. Tanto che si è cominciato ad auspicare, anche da parte italiana, la nascita di un esecutivo guidato da Serraj "il più possibile riconosciuto". Come dire: anche se a votarlo non ci sono proprio tutti, va bene lo stesso. Pericolosa illusione. Il capo del governo di Tobruk, Abdullah al Thani, ha esortato la comunità internazionale alla prudenza, a non imporre il nuovo esecutivo prima che abbia ottenuto la fiducia parlamentare ("sarebbe un atto senza precedenti") e a non procedere per forzature o accelerazioni. Per il momento perciò sarebbe opportuno soprassedere e non inviare contingenti in Libia. Anche a governo realmente insediato. Sarebbe più saggio fermarci alla politica già in atto, quella di mandare un numero limitato di soldati altamente specializzati a presidiare le postazioni più delicate e, in modi poco visibili, a dare supporto ai primi passi governativi di Serraj. Il quale dovrà essere capace di conquistare il consenso e la legittimazione che ad ogni evidenza al momento gli mancano. Solo quando, tra mesi e mesi, avrà manifestamente ottenuto consenso e legittimazione, potrà - se lo riterrà opportuno - chiedere un sostegno militare internazionale per combattere l’Isis. Se lo facesse a tambur battente, l’impresa sarebbe votata all’esito di quella di Cao Ky e di tutti, ma proprio tutti, i "fantocci" che in tremila anni di storia lo hanno preceduto. E lo stesso discorso, ovviamente, varrebbe per noi. I Paesi Bassi hanno un "problema" con le carceri, ed è una buona notizia tpi.it, 30 marzo 2016 Una progressiva riduzione del tasso di criminalità sta svuotando i centri di detenzione del paese, grazie anche a politiche alternative di condanna per i criminali. Secondo il quotidiano olandese De Teleegraf, i Paesi Bassi hanno in programma di chiudere cinque carceri nei prossimi anni, a causa della costante riduzione del tasso di criminalità che sta progressivamente rendendo inutilizzati i centri di detenzione del paese. Ard van der Steur, ministro della Giustizia, ha confermato che i costi di manutenzione di penitenziari semivuoti sono troppo alti per il bilancio dello stato, ed è stata quindi deliberata la chiusura delle strutture, e il trasferimento ad altre mansioni dei dipendenti impiegati nella sicurezza. Recentemente, i giudici olandesi stanno concedendo sentenze più brevi per i condannati, ma c’è stato anche un calo dei reati più gravi negli ultimi anni, con una riduzione progressiva del tasso di criminalità nazionale dello 0,9 per cento ogni anno. Inoltre, il tasso di recidività per i criminali olandesi è molto basso a causa di pene che prevedono spesso un reinserimento in ambienti di lavoro con un braccialetto alla caviglia in grado di monitorare gli spostamenti, e un atteggiamento molto permissivo delle autorità nei confronti dei reati legati alla droga. Questo fa sì che sui 17 milioni di cittadini residenti nel paese, solo 11mila siano detenuti, ovvero un tasso dello 0,069 per cento, mentre il paese con il tasso più alto al mondo, gli Stati Uniti, arriva allo 0,716 per cento (nel 2011 in Italia il tasso di detenzione era dello 0,1126 per cento). Già nel 2009 il paese aveva chiuso otto carceri a causa di una diminuzione della popolazione carceraria, e altri 19 nel 2014. Questo ha fatto sì che altri paesi abbiano approfittato della rosea condizione olandese per "prendere in prestito" i penitenziari del paese: nel 2015, infatti, la Norvegia ha trasferito più di mille detenuti nei Paesi Bassi a causa di un problema inverso di sovrappopolazione delle carceri. Altri paesi scandinavi, al contrario, vivono lo stesso positivo trend olandese: la Svezia, per esempio, ha visto il suo numero di cittadini reclusi scendere di circa l’1 per cento annuo dal 2004 al 2011, con un ulteriore ribasso del 6 per cento nel 2012. Usa, abusi e violenze sessuali contro le migranti transgender nei centri detentivi di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 30 marzo 2016 La denuncia di Human Rights Watch. Sono 28 i casi documentati dalla Ong di maltrattamenti e stupri ai danni di donne transgender fuggite dai loro paesi d’origine. Dal giugno 2015 dovrebbero essere ospitate in strutture apposite per sole transgender, ma ancora oggi continuano gli episodi di violenza da parte di migranti uomini, guardie e operatori. "Non vedi quanto sto soffrendo qui?". È questo il titolo del rapporto pubblicato dalla Ong statunitense Human Rights Watch dove sono raccolte le testimonianze di 28 donne transgernder che hanno abbandonato i loro paesi d’origine per sfuggire a violenze e discriminazioni. Ma giunte negli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con un sistema che oltre a non tutelarle, le espone agli stessi pericoli da cui sono fuggite. Centri di detenzione. Le storie raccolte da Hrw parlano di violenze, anche sessuali, avvenute nella maggior parte dei casi in centri di detenzione per migranti. Fino all’estate del 2015 infatti, le donne transgender erano ‘ospitatè nelle strutture maschili. Molte delle testimonianze raccolte riportano umiliazioni costanti, docce comuni e l’indifferenza delle guardie anche di fronte ad abusi sessuali. In molti casi, le migranti hanno raccontato di esser state messe in isolamento per essere protette da possibili malintenzionati. Come se l’isolamento non giustificato dalla condotta del detenuto, non fosse di per sé una forma di abuso che può avere anche gravi ripercussioni psicologiche su chi lo subisce. "Molte donne trans - afferma Adam Frankel, coordinatore del programma Lgbt di Human rights watch - arrivano negli Stati Uniti in cerca di protezione dagli abusi che subiscono nei loro paesi d’origine. Invece, nell’ambito delle politiche detentive, si trovano ad affrontare ulteriori maltrattamenti e diventano vulnerabili a violenze e abusi." Le storie. La Ong tra il 2011 e il 2015 ha raccolto 28 storie. In quattro anni è stato dipinto solo un quadro parziale della situazione, ma abbastanza chiaro da evidenziare le falle del sistema dei centri detentivi statunitensi per migranti. Tra le voci ascoltate dagli operatori, c’è quella di Sara V., una donna transgender arrivata dall’Honduras in un centro detentivo dell’Arizona. La giovane ha raccontato di esser stata stuprata da tre uomini durate la sua permanenza nella struttura. Dopo la violenza, ha provato a denunciare quanto accaduto, ma la guardia cui si è rivolta ha risposto che la colpa era la sua perché aveva richiamato l’attenzione degli uomini. Simile anche la storia di Gloria L., anche lei fuggita dall’Honduras. La donna ha denunciato di esser stata tenuta in isolamento per quattro mesi solo per tenerla separata dagli uomini della struttura. "Mettere le donne trans in strutture maschili - ha detto Isa Noyola, avvocata specializzata nella difesa di donne transgender migranti - vuol dire esporle al pericolo della violenza sessuale". "Molte - continua - hanno dovuto affrontare innumerevoli violenze nel loro paese e una volta giunte qui ogni giorno devono subire violenze ancora più gravi". Buone intenzioni. Dopo una serie di denunce e manifestazioni, nel giugno del 2015 il governo statunitense ha annunciato una serie di riforme volte a migliorare le condizioni detentive per le migranti trans. Un passo importante che però ad oggi manca di efficacia data la quasi totale mancanza di un organo di controllo che vigili sul rispetto delle linee guida dettate dall’enstablishment. Secondo le nuove leggi, le donne transgender sono detenute nel centro di Santa Ana City, nel sud della California. Un risultato importante che però nasconde alcune ombre. Alcune detenute infatti hanno raccontato di esser state sottoposte a perquisizioni umilianti da parte di guardie carcerarie di sesso maschile. Altre hanno testimoniato la mancanza di servizi igienico sanitari, come la terapia ormonale sostitutiva. Inoltre continua a persistere la pratica dell’isolamento ingiustificato anche per lunghi periodi di tempo. "Per lo meno - conclude Frankel - il governo degli Stati Uniti dovrebbe far in modo che le donne transgender detenute siano protette in un ambiente che privo di abusi e che rispetti i loro bisogni di salute medica e mentale". Se il carcere in Kenya è scuola di perdono di Anna Pozzi Avvenire, 30 marzo 2016 Sono passati pochi mesi da quando papa Francesco percorreva le strade polverose dello slum di Kangemi, periferia ovest di Nairobi. E il ricordo di quella visita assolutamente eccezionale è ancora vivissimo tra la gente. Che ben presto però è tornata alle occupazioni di tutti i giorni. Anche qui, come altrove, in questa città segnata da forti e odiosi contrasti, l’imperativo è sopravvivere. Lo sa bene Alain Ragueneau, "piccolo fratello del Vangelo", che vive qui da quindici anni, dopo averne vissuti più di venti in un villaggio della Tanzania e prima ancora tre con i nomadi del Niger. Tutto però era cominciato in un villaggio semi abbandonato della Sicilia e dopo un’esperienza in Senegal, dove - dice - "mi sono reso conto che, nel mondo, la maggior parte della gente vive nella povertà. Mi sono detto che dovevo scegliere da che parte stare". Il suo percorso di vita risponde da solo. Con il confratello Edouard, ruandese, condivide una casetta essenziale, in un compound con altre famiglie, proprio dietro la chiesta di Christ the King, "cappella" della parrocchia di Saint Joseph, quella visitata da papa Francesco. Nella vita semplice e piena di relazioni che conduce in questo slum di circa 150mila abitanti, si incrociano molti dei temi affrontati dal Pontefice nel suo viaggio in Africa: povertà, sofferenza, diseguaglianze e discriminazioni, mancanza di prospettive, corruzione… Ma anche le grandi sfide che interpellano la Chiesa: "Approfondire la fede è, a mio avviso, la prima - dice fratel Alain: qui la gente è molto credente, ma è veramente cristiana? Si prega sempre Dio Padre, molto meno Gesù. Per questo la seconda priorità è creare una vera "intimità" con Gesù, che si traduca poi in gesti concreti. E, infine, la vita famiglia. Dovremmo accompagnare di più e meglio le coppie al matrimonio e stare loro accanto anche dopo. Invece, oggi, i giovani-adulti sono quelli più ‘abbandonati’ a loro stessi". Ricorda uno degli ultimi libri di Carlo Maria Martini, dove il cardinale metteva tra le priorità la Parola di Dio, la conversione e il matrimonio. "Mi ci ritrovo anche qui, sebbene il contesto sembri così lontano da quello europeo". Fratel Alain racconta il suo Vangelo della vita, strada facendo: cammina per lo slum, si ferma per visitare una famiglia dove entrambi i genitori sono malati di Aids e il loro bambino è sieropositivo e poi per dare un saluto a un’anziana signora, che è stata malata. Quindi è la volta della responsabile di una comunità di base che è anche ministro straordinario dell’Eucaristia - "una cosa rara anche a Nairobi per dei laici" e infine una giovane donna, abbandonata dal marito non appena ha saputo che aveva l’Aids. Madre di due figlie, ha recentemente avuto un aborto spontaneo con serie conseguenze anche a una gamba. È con questa piccola famiglia tutta al femminile che Alain ed Edouard hanno trascorso la loro Pasqua. Intanto, però, lo sguardo è rivolto già alle prossime settimane, quando sarà chiamato a guidare un ritiro spirituale in una prigione di Nairobi. "Un progetto sperimentale partito tra novembre e dicembre dello scorso anno, grazie all’iniziativa di quella che allora era la responsabile di tutte e cinque le prigioni della capitale. Un’iniziativa molto coraggiosa che sta dando frutti insperati". L’inizio non poteva essere più difficile: un mese intero nella prigione di massima sicurezza di Nairobi, tra i condannati all’ergastolo o alla pena di morte (che da molti anni però non viene eseguita). "La prima settimana abbiamo lavorato sulla persona: chi sono io, chi sono stato, chi vorrei essere. La seconda sulle relazioni, fuori e dentro la prigione. Le ultime due, più spirituali. Una bella sfida anche per noi. E una risposta molto positiva da parte dei detenuti. Al termine della sessione con le donne, alcune hanno chiesto di poter incontrare le persone che hanno "offeso" o i loro familiari. Si sentono pronte per chiedere perdono e per fare un percorso di riconciliazione". Dopo una sessione nel carcere femminile lo scorso gennaio, ora fratel Alain, con tutta l’équipe, sta preparando un altro mese di ritiro, tra aprile e maggio, nella prigione per la detenzione preventiva, dove a volte le condizioni di vita sono ancora più difficili che nel carcere di massima sicurezza. Per tutti, questo mese di riflessione, studio delle Bibbia e approfondimento spirituale è accompagnato da una frase che, nel contesto della prigione, tra persone condannate anche per crimini gravi, risuona - ancor più che altrove - "rivoluzionaria": "Dio ti ama non per le tue buone azioni, ma perché è buono".