Il governo rilancia il nuovo processo penale. Allarme della Cassazione: "rischio default" di Silvia Barocci Il Messaggero, 2 marzo 2016 Un decreto legge per avere da subito poche ma mirate riforme che evitino il default alla Cassazione, assediata ogni anno da migliaia di ricorsi (80mila, di cui 53mila penali che si sommano alla "mostruosità" di 104mila arretrati). A chiedere un intervento d’urgenza, lanciando un allarme non nuovo nei contenuti ma mai così esplicito, è il primo Presidente della Suprema Corte, Giovanni Canzio. Sarà forse una coincidenza, ma il suo pressing arriva proprio mentre il governo ha deciso di tirare fuori dalle secche della commissione Giustizia del Senato la riforma del processo penale. Un disegno di legge "monstre" di 35 articoli con una sfilza di novità: dalle pene più severe per furti in casa, scippi e rapine, alla revisione del sistema delle impugnazioni chiesta da Canzio, fino alla riforma delle intercettazioni per delega al governo che i magistrati guardano con sospetto. Il provvedimento, approvato lo scorso settembre alla Camera, è fermo da mesi al Senato. In Commissione Giustizia non è stata neppure avviata la discussione, mentre su un’altra riforma, la prescrizione, da sempre invocata dalle toghe, è paralisi totale per effetto del braccio di ferro tra Pd e Ncd. La novità - Votate le unioni civili, il governo sembra intenzionato a riaprire il "file" giustizia. Un anticipo lo si è avuto sabato scorso, con il premier Renzi pronto a rivendicare la svolta "garantista" di un Pd ormai lontano dai tempi in cui "bastava un avviso di garanzia per decretare la condanna di una persona". Il Guardasigilli Orlando, che in settembre aveva preannunciato l’istituzione al ministero di un tavolo di giuristi ed esponenti del mondo dell’informazione per studiare da subito la delega sulle intercettazioni, in questi mesi non si è mosso. Ora quel disegno di legge ricomincerà a marciare. Ma a scapito - pare di capire - della riforma della ex Cirielli, la legge varata nel 2005 dal governo Berlusconi e a causa della quale nel 2014 sono "morti" per prescrizione oltre 132mila processi. L’assist - La richiesta del presidente Canzio di varare quanto prima una serie di riforme per evitare il "default" della Cassazione è precisa e dettagliata. Il presidente della Suprema Corte coglie l’occasione di un convegno, cui partecipano il vicepresidente del Csm Legnini e il ministro Orlando, per elencare le misure organizzative cui la Corte sta già provvedendo e quelle che invece sono ineludibili a livello legislativo. La "cura" per quei 53.539 ricorsi penali arrivati nel 2015 sarebbe proprio in alcuni dei 35 articoli del ddl che ha attinto dal lavoro di una commissione di studio a suo tempo presieduta dallo stesso Canzio. Si tratta del sistema delle impugnazioni che il primo presidente della Suprema Corte chiede di stralciare dal testo ora fermo al Senato e di approvare con un decreto ad hoc che, per il civile, dovrebbe contenere "pochi interventi": "una procedura semplificata per i ricorsi più semplici, l’apporto di tirocinanti in alcuni uffici, la possibilità di utilizzare nelle sezioni giurisdizionali i magistrati del massimario, la nomina di giudici ausiliari (tra magistrati e avvocati in pensione) per smaltire il contenzioso tributario, che rappresenta il 50% di tutto l’arretrato della Corte". Le reazioni - Orlando e Legnini condividono la necessità d’intervento sollecitata da Canzio, ma sul fatto che si possa fare per decreto legge non si sbilanciano: il primo rinvia alle valutazioni del Cdm, il secondo anche a quelle del Capo dello Stato. Vero è che l’intervento di Canzio potrebbe imprimere un’accelerazione alla riforma ferma al Senato che, su almeno due punti, spaventa assai le toghe: le intercettazioni (le procure di Roma, Torino e Napoli hanno tentato di "bruciare" i tempi con circolari ad hoc a maggiore tutela della privacy); il termine perentorio entro il quale il pm deve chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione di un’indagine (tre mesi prorogabili di altri tre su richiesta motivata per i casi complessi, dodici per mafia e terrorismo), pena l’avocazione del fascicolo da parte del pg della Corte di Appello. Un’emergenza nazionale gli arretrati della Cassazione di Giovanni Canzio (Primo presidente della Corte di Cassazione) La Stampa, 2 marzo 2016 Il Paese ha sete di legalità e di efficienza della giustizia e chiede che la legge venga applicata in modo rapido e uniforme. La giurisdizione non può però risolversi in un nudo esercizio statistico e in un efficientismo senz’anima. La risposta alla domanda di giustizia dev’essere pronta ed equa. Negli ultimi decenni sono andati crescendo gli interventi di supplenza della magistratura nella governance dell’economia e della società. Il fenomeno affonda le radici nella scarsa chiarezza e coerenza sistematica delle norme, talora ispirate a logiche emergenziali, e nel labirinto delle stesse fonti: legislative e giurisprudenziali, nazionali ed europee. Il giudice ricostruisce i fatti, individua la regola più adeguata e, nell’applicarla al caso concreto, svolge un ruolo parzialmente creativo della regola medesima. Come evitare il rischio che il fenomeno di formazione giurisprudenziale del diritto vivente si risolva nell’affievolimento delle garanzie di conoscibilità della legge e di prevedibilità e coerenza delle decisioni? Come preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, non privilegio dei magistrati ma garanzia dei cittadini nello Stato di diritto, se è messo in forse il primato esclusivo della legge? Si apre per la magistratura la questione del rapporto tra potere e responsabilità: se cresce il primo (il giudice non è "bocca della legge" ma partecipe della formazione del diritto), cresce proporzionalmente la responsabilità di chi lo esercita, in termini di formazione, sapere, capacità e deontologia. Conoscenza e etica del limite, saggezza pratica nella conformazione della norma al caso concreto, gradualità, proporzionalità e ragionevolezza delle soluzioni. Queste le caratteristiche del giudice europeo perché, nel raccordo tra potere, dovere e responsabilità, la magistratura acquisti autorevolezza e fiducia nell’opinione pubblica e sia scongiurato il rischio che la supplenza ne sposti la legittimazione sul terreno del consenso popolare. Al giusto equilibrio tra la dimensione creativa del diritto giurisprudenziale e le aspettative di qualità, coerenza e prevedibilità delle decisioni contribuisce la Cassazione, giudice di legittimità che, con le sue più significative decisioni (i precedenti), svolge una funzione di sintesi ordinatrice del circuito pluri-livello della giurisprudenza e degli standard di tutela dei diritti fondamentali. Funzione questa (la nomofilachia) che riveste nei moderni sistemi giuridici un importante rilievo per la certezza del diritto, essendo diretta, nell’inarrestabile evoluzione della giurisprudenza, a rendere chiari i criteri interpretativi di fondo cui essa s’ispira. La Cassazione versa, tuttavia, in una seria crisi di funzionamento perché, assediata da un mostruoso numero di ricorsi, non riesce a costruire isole di ordine sufficientemente solide per dissipare il disordine dell’esperienza giudiziaria e per assicurare alla complessità del sistema una pur provvisoria stabilità. In mancanza di decisi interventi legislativi sul flusso patologico dei ricorsi, nel settore civile (in cui paradossalmente è lo Stato il maggior cliente nella misura del 48%) resta alto il numero annuo delle iscrizioni (30.000) e in aumento quello delle pendenze (105.000) e della durata dei procedimenti (44,4 mesi). A fronteggiare l’impatto della domanda non si rivela sufficiente nemmeno l’elevato tasso di definizioni e di produttività dei magistrati. Anche per quanto riguarda il settore penale, con una sopravvenienza annua di 53.000 ricorsi tende ad aumentare la pendenza, nonostante l’alto tasso di eliminazioni (di cui il 64,2% per inammissibilità) e di produttività dei magistrati e la ragionevole durata dei processi (7 mesi). Il divario di carico quantitativo della Corte italiana rispetto alle Corti di ogni altro Paese europeo ha assunto (s)proporzioni strabilianti e incomparabili. Per fermare il declino della Cassazione si è avviato un percorso innovativo di autoriforma, mediante l’adozione di misure organizzative di razionalizzazione che, in una logica di semplificazione e accelerazione, fanno leva sugli snodi dell’esame preliminare e del filtro dei ricorsi definibili in forme semplificate e con schemi concisi di motivazione o dei ricorsi da accorpare per la serialità delle questioni. Viene incoraggiata la specializzazione e la costituzione dell’ufficio per il processo di cassazione e potenziato l’utilizzo delle comunicazioni telematiche e degli strumenti informatici, anche in vista della redazione di provvedimenti connotati da sinteticità ed essenzialità. Peraltro, è assolutamente prioritario apprestare un piano straordinario di riduzione dell’arretrato civile costituito da 105.000 procedimenti, di cui poco meno della metà riguarda la materia tributaria in cui è parte l’Amministrazione finanziaria. Una vera e propria emergenza nazionale, per fronteggiare la quale risulta necessaria un’urgente riforma legislativa che preveda una procedura camerale non partecipata, caratterizzata dal contraddittorio eventuale delle parti e da una motivazione contratta. Quanto al settore penale, è urgente l’approvazione del disegno di legge n. 2067 già scrutinato dalla Camera dei Deputati e fermo al Senato da molti mesi, recante per le impugnazioni penali incisive modifiche che, per la loro efficacia deflativa, apporterebbero un sicuro beneficio al giudizio di cassazione con risparmio di tempi e risorse. Spetta al Parlamento apprestare le misure necessarie perché la giurisdizione possa adempiere l’alto compito di garanzia affidatole dalla Costituzione. D’altro canto, se il giudizio non è solo architettura legislativa, ma anche filosofia e prassi, pure i giudici debbono avviare un virtuoso percorso di autoriforma e autorganizzazione, con speciale riguardo alle metodologie e alle forme delle decisioni. Un decreto contro il rischio default della Cassazione di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 "Un decreto legge per impedire il default della Cassazione". Lo chiede il primo presidente della suprema Corte, Gianni Canzio. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando sottoscrive, impegnandosi a perorare la richiesta al Consiglio dei ministri perché, per dirla con Canzio, "il declino della Cassazione" - sommersa da un arretrato civile di 105mila cause, di cui il 50% in materia tributaria (e nel 40% lo Stato è parte in causa) e da un "flusso patologico" di 80mila ricorsi, di cui 50mila nel penale - mette "a rischio i valori della democrazia", quelli che la Cassazione dovrebbe presidiare garantendo la "certezza del diritto", cioè "conoscibilità del comando della legge, prevedibilità, coerenza e effettività delle decisioni e, quindi, uguaglianza dei cittadini davanti alla legge". Valori che rischiano appunto di saltare con una Corte che ha un carico di lavoro "mostruoso", dieci volte quello della Germania. Orlando esclude di aver già abbozzato un testo ma non nasconde di essere favorevole a un decreto, che proporrà al governo "perché è opportuno dare una risposta". Certo è che l’allarme lanciato ieri da Canzio non è un fulmine a ciel sereno visto che appena un mese fa il primo presidente denunciò il "rischio default della Cassazione" durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte alle più alte cariche dello Stato (si veda il Sole 24 Ore del 29 gennaio). Già allora citò numeri e chiese interventi (a parte il decreto legge) identici a quelli risuonati ieri nell’aula magna del Palazzaccio, durante il convegno organizzato dalla Cassazione, in partnership con il Csm, proprio per (ri)accendere i riflettori sulla crisi del giudizio di legittimità, con un parterre da grandi occasioni: presidenti della Consulta, della Corte dei conti, del Consiglio di Stato, vicepresidente del Csm e del Consiglio nazionale forense, quartier generale del Quirinale, presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, presidenti di sezione della Corte e di uffici giudiziari di merito di mezza Italia. I "pochi e semplici interventi" chiesti ieri da Canzio sono di natura processuale, organizzativa e ordinamentale: procedura semplificata in camera di consiglio per i ricorsi civili più semplici, l’apporto di tirocinanti in alcuni uffici di Cassazione, la possibilità di applicare come consiglieri i magistrati del Massimario, nomina di giudici ausiliari (tra magistrati e avvocati in pensione) per smaltire il contenzioso tributario pendente, riforma delle impugnazioni nel penale. Alcuni sono inediti, altri (come le impugnazioni) sono contenute nel ddl di riforma del processo penale approvato dalla Camera ma fermo da mesi al Senato. "Con l’approvazione di quel ddl, noi siamo in grado di recuperare" dice Canzio. "Datecelo. Ma se i tempi del ddl sono lunghi, dateci un decreto legge perché siamo in emergenza". "Valuteremo se ci sono le condizioni per un decreto legge - fa sapere Orlando a margine -. Molte delle questioni poste possono essere inserite in provvedimenti organici già in Parlamento. Se non ci fosse quella via, per ragioni di congestionamento della decretazione d’urgenza, lavoreremo sulla strada ordinaria. Si tratta comunque di una valutazione che compete collegialmente al governo, al presidente del Consiglio e al ministro per i Rapporti con il Parlamento. Da parte mia c’è tutto il favore per uno strumento urgente". Mentre il neopresidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola (Ncd) non si sbilancia sui tempi della riforma del processo penale, la sua omologa alla Camera Donatella Ferranti (Pd) fa trasparire la preferenza per la via ordinaria da seguire per approvare le riforme strutturali su processo penale e civile. "Sono già avanti e la legislatura è solo a metà", osserva, convinta che "faranno fare grossi passi avanti". Rilancia l’appello di Canzio il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini: "La scelta dello strumento legislativo spetta ovviamente al governo e al Capo dello Stato nell’ambito delle rispettive prerogative costituzionali. Ma c’è una convergenza di analisi e di proposte che prefigurano un’occasione che non possiamo sciupare per far fronte alle emergenze di funzionamento della Cassazione". Il "Fatto" non sussiste.. ma è davvero colpa dei giudici se i criminali restano impuniti? di Filippo Facci Libero, 2 marzo 2016 Un lungo e involuto articolo, ieri, strombazzava la solita ragione sociale del Fatto Quotidiano: più galera per tutti. In prima pagina, addirittura, il titolo d’apertura era "Vietato arrestare i ladri" con sottotitolo "obbligati a scarcerare topi d’appartamento e rapinatori", il tutto per via "della legge del governo sulla custodia cautelare". Ora: posto che la difesa di questo governo non è affare nostro (c’è già la fila) le balle tuttavia restano balle, e quelle del Fatto lo sono. In sostanza è tutto falso: nessuno può scarcerare rapinatori e topi d’appartamento in virtù della nuova legge, tantomeno i magistrati che il Fatto intervista; la nuova legge, fatta anche per decongestionare le carceri come pure il Fatto auspicava, rinsalda un cardine dello Stato di diritto che evidentemente non era abbastanza incardinato: non puoi mettere in galera (preventiva) un tizio che prevedibilmente non sarà neppure condannato alla galera, cioè non sarà condannato a una pena superiore ai tre anni. Domanda chiave: i rapinatori e i topi d’appartamento rientrano nella categoria? Possono, cioè, essere condannati a meno di tre anni? Risposta: no, non c’è attenuante o cavillo che tenga, mentre la facoltà di concedere riti alternativi e quindi di abbassare la pena, beh, è una facoltà degli stessi magistrati che si lagnano. Tra questi, inspiegabilmente, ci sarebbe il procuratore generale di Venezia Antonino Condorelli, secondo il quale "sono troppi i reati per cui non possiamo applicare la custodia cautelare in carcere". Sarà: purché non dica che tra questi reati c’è anche la rapina e il furto in appartamento, come spara genericamente il Fatto. Di passaggio: tra i reati che lascerebbero in libertà i malviventi non c’è neppure lo spaccio, come ancora titolava il Fatto: a meno di intendere lo spaccio di lieve entità (che non è vero spaccio, perché non abituale) ma che prevede comunque gli arresti domiciliari. Forse i secondini del Fatto non li giudicano abbastanza punitivi. Bene, ma allora di che reati si parla? Quali sono le piaghe sociali per cui i banditi scorrazzano liberi? "Il problema", scrive il Fatto, "riguarda anche casi di rapina semplice, cioè quando per strada ti portano via il portafogli senza usare un’arma". Informazione: si chiamano scippi, e ora sappiamo che il Fatto vorrebbe tenere in carcere preventivo tutti i borseggiatori d’Italia fino a sentenza definitiva, cioè per anni e anni: altro che sovraffollamento carcerario, non basterebbe la Sardegna. Va aggiunto - è un’altra informazione che forniamo - che è così in tutto il mondo: la pena, in genere, si sconta dopo una condanna, non prima. E ci avviciniamo al problema, sempre quello: i tempi della giustizia. Essere garantisti non significa auspicare che certa gentaglia scorrazzi libera, ma che smetta di farlo solo dopo un accertamento cui segua una sentenza di condanna: la normalità sarebbe questa, altrimenti, di innocenti rinchiusi in galera preventiva, ne abbiamo già avuti abbastanza. Chi deve incaricarsene? "La grandissima maggioranza dei nostri fascicoli finiscono in niente... una buona parte finisce in assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e patteggiamenti". Il Fatto dixit. Posto che i patteggiamenti non sono letame (vi si regge l’intera giustizia degli Stati Uniti, che chiude la maggioranza dei processi prima di cominciarli) è straordinario come ancora una volta si parli come se la magistratura non avesse un ruolo in tutto questo: come se, cioè, la storica inefficienza della giustizia italiana non dipendesse anche dalla storica inefficienza di una larga parte della magistratura italiana, ancor oggi coordinata da "capi" eletti per pastette politiche e non certo con criteri basati su efficienza e managerialità. Secondo il procuratore generale di Venezia, il citato Condorelli, intervistato dal Fatto, "può capitare che in Trentino il responsabile di un reato possa essere arrestato e in Veneto no", questo perché "in Trentino c’è un rapporto molto più favorevole tra magistrati e fascicoli". In Trentino cioè condannano in fretta. Secondo Condorelli è solo una questione numerica, la capacità di lavoro non c’entra: eppure sono stati proprio dei suoi colleghi - come Mario Barbuto, presidente di tribunale a Torino e inventore del "metodo piemontese" che ha dimezzato le cause civili - a spiegare che "non tutto dipende dai buchi nella pianta organica degli uffici". Se Venezia o altre procure non figurano propriamente ai primi posti della classifica stilata "dall’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia" (presieduto dalla ex Guardasigilli Paola Severino) forse ci sono altre spiegazioni: che coincidono, talvolta, persino con magistrati inerti e intoccabili come le loro ferie. Che poi il bizantino sistema di impugnazioni si possa migliorare, beh, non ci piove. Ieri il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio si è detto "assediato da un mostruoso numero di ricorsi" e ha invocato un decreto che attenui un "flusso di ricorsi patologico" che non ha eguali del mondo. È vero. Ma è anche vero che il maggior cliente della Cassazione resta lo Stato: 48 per cento dei ricorsi. È la giustizia che divora se stessa, sino a morirne. Mascherin (Presidente Cnf): "dall’Antitrust un’aggressione all’avvocatura" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 L’Antitrust è ormai protagonista di un’aggressione all’autonomia deontologica dell’avvocatura. L’ingresso del socio di capitale nel modello per l’esercizio della professione forense non va bene. Semaforo rosso poi per ulteriori interventi sulle geografia giudiziaria e per la soluzione del ministero sulle elezioni forensi. Andrea Mascherin, presidente del Cnf, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario che si svolgerà domani a Roma con la partecipazione, per la prima volta, del Primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio e del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, fa il punto sulle questioni aperte nell’avvocatura. Presidente, poche ore fa è stata resa nota la notizia della nuova condanna inflitta dall’Antitrust al Cnf per condotte anticoncorrenziali. Ormai è scontro continuo. "Soprattutto constato una forma di accanimento nell’aggredire l’autonomia deontologica dell’avvocatura. La centralità della deontologia, un tema caro per ovvie ragioni al Consiglio nazionale forense, non può essere letta come un ostacolo alla concorrenza. Anzi: professionisti di elevato rigore deontologico rappresentano la migliore garanzia per tutti i cittadini". Ecco, proprio su questo punto, gli avvocati sono ormai protagonisti di un circuito di amministrazione della giustizia alternativo alla giurisdizione "classica". Trova che alle competenze accresciute corrisponda anche un livello adeguato di preparazione. "Direi senza dubbio di sì. Gli avvocati sono dei giuristi, obbligati a essere continuamente aggiornati. Trovo che la giurisdizione italiana, con riferimento agli avvocati ma anche ai magistrati, sia di grande qualità. Anche nel confronto con Paesi che nelle varie classifiche internazionali ci precedono. Essere giudicato in uno di questi non mi farebbe molto piacere. Certo, su negoziazioni e arbitrati si potrebbe fare di più sia in termini di incentivi sia in termini di competenze. Su quest’ultimo aspetto, per esempio, agli avvocati dovrebbero essere permessi i trasferimenti immobiliari nell’ambito della negoziazione". Sta prendendo forma, nei prossimi giorni sarà votata in commissione alla Camera, la delega per la riforma del Codice di procedura civile. Potremo a breve contare su un modello più efficiente? "Alcuni punti lasciano fortemente perplessi. Per esempio, l’estensione del rito sommario, che da eccezione rischia di diventare norma. Oppure il favore per un modello, basato sullo scambio di memorie, che alla fine potrebbe mettere nelle mani del giudice pochi elementi per decidere. In generale credo si debba prestare la massima attenzione alle conseguenze delle norme che si intende introdurre: la velocità di molte soluzioni potrebbe rivelarsi solo apparente". Con la delega e il debutto del tribunale della famiglia si intende procedere in maniera più decisa sulla strada della specializzazione. Strada rispetto alla quale l’atteggiamento dell’avvocatura è stato spesso assai ondivago... "La maggiore specializzazione della magistratura, e anche dell’avvocatura, innalza senza dubbio la qualità del servizio giustizia. Bisogna però bilanciarla con altri principi come quello di prossimità della giustizia al cittadino che non deve essere considerato residuo del passato". Quindi siete contrari a ulteriori interventi sulla geografia giudiziaria? "Non servono nuovi interventi. Soprattutto se dovessero comprendere tagli alle Corti d’appello o a nuovi tribunali. Non ci sono motivi per tagliare ancora in assenza di valutazioni d’impatto sulle conseguenze per le possibilità di accesso dei cittadini a una servizio chiave per lo Stato. Bisogna prestare la massima attenzione a non impoverire i territori". Siete favorevoli all’ingresso del socio di capitali nel modello forense? "No. Siamo contrari. Qui è a rischio l’indipendenza dell’avvocatura; sono coinvolti diritti costituzionali, non si tratta della prestazione di servizi ordinari. Il Parlamento è sovrano naturalmente, ma non si può non registrare che il Governo poteva esercitare una delega sul punto e non l’ha fatto". E sulla soluzione che sta prendendo corpo per sbloccare l’impasse sulle elezioni dei Consigli dell’ordine? "La previsione della possibilità di esprimere preferenze solo per il 50% più uno dei posti di consigliere non è convincente. È vero che va favorito il ricambio e che vanno tutelate le minoranze, ma senza sacrificare la governabilità. Inoltre tra i principi da preservare c’è anche il rispetto della volontà dell’elettore evitando che venga eletto chi gode di poco consenso". Un’ultima domanda. Nell’avvocatura è inutile negare polemiche sulla decisione del Cnf di attribuire un compenso all’ufficio di presidenza per l’attività istituzionale. Intende replicare? "Preferirei di no. Ritengo che questioni interne all’avvocatura non vanno dibattute sui giornali". Giudizio "mediatico" e contradditorio negato di Francesco Picca* Il Mattino, 2 marzo 2016 L’articolo pubblicato sul Vostro quotidiano il 20 febbraio 2016 dal titolo "Politica e clan. Brancaccio conferma le accuse: diedi a Diana 25mila euro" induce ad alcune riflessioni di ordine generale. L’articolo traeva spunto dalla pubblicazione "integrale" del verbale di interrogatorio di Brancaccio Angelo, ex esponente politico casertano, accusatore di Lorenzo Diana, in merito ai presunti rapporti intrattenuti da quest’ultimo con l’imprenditore eco-mafioso Sergio Orsi. Il verbale di interrogatorio era stato depositato dalla Procura di Napoli, nell’ambito dell’indagine a carico del Diana, pochi giorni prima della pubblicazione sul Vostro quotidiano. La prima riflessione che si impone è quella relativa all’anomalia che un atto di indagine, di cui "il difensore e l’indagato hanno facoltà di prendere visione ed estrarre copia", si trasformi da atto di indagine ad atto "di accusa pubblica", attraverso la sua pubblicazione integrale. È inevitabile che, in tal modo, l’atto finisca per travalicare "il suo specifico processuale" e si trasformi nell’ennesima tappa di un processo mediatico che non è regolato da alcuna norma processuale ma si alimenta attraverso la costante violazione delle stesse. L’episodio chiama in causa, in termini "drammatici", il rapporto tra i diritti di cronaca e di informazione (diritti il cui esercizio è, ormai, confinato in un circuito "autoreferenziale") e la tutela della dignità pubblica e privata dell’indagato. Che, ad esempio, nella vicenda giudiziaria oggetto dell’articolo c’entri poco o nulla il diritto di cronaca e di informazione è dimostrato dalla circostanza che nell’articolo non si dice (e, dunque, mai nessuno saprà) che: Angelo Brancaccio e lo stesso Sergio Orsi sono stati arrestati proprio (o anche) a seguito di dichiarazioni accusatorie rese da Lorenzo Diana, ritenute attendibili dalla Procura di Napoli; Lorenzo Diana, senza soluzione di continuità, dall’anno 2000 ad oggi, ha denunciato alle Autorità Giudiziarie, Politiche e di Polizia la contiguità dell’imprenditore Sergio Orsi con il sistema camorristico; entrambi, dunque, avevano più di un motivo per consumare, anche attraverso lo strumento giudiziario, una propria vendetta nei confronti del Diana. Ma non è sulle questioni di merito specifico che si intende intervenire in questa sede. Ciò che si vuole evidenziare è la circostanza che, nell’articolo, si riporta il contenuto integrale del verbale di interrogatorio del Brancaccio consegnando, in tal modo, all’opinione pubblica un atto di accusa, impietoso quanto unilaterale, nei confronti del Diana. L’episodio non è più confinabile nell’ambito della ormai superata dialettica sull’informazione (incompleta o parziale) a cui corrisponde il diritto del soggetto, chiamato in causa, di richiedere la integrazione della informazione parziale. L’episodio si ricollega ad un interrogativo oggi sempre più pressante: quali tutele possiede (ora e subito) la persona indagata (e, dunque, assistita dalla presunzione di innocenza) che veda la sua vicenda processuale già risolta davanti al Tribunale dell’opinione pubblica con la pubblicazione dell’interrogatorio del suo accusatore? Nessuna! Il giudizio sulla dignità, sull’onesta e sulla colpevolezza dell’indagato viene già definito, attraverso la pubblicazione di un solo atto del complesso processo giudiziario, senza filtri e senza possibilità di contraddittorio. Tutto ciò accade nel silenzio, più assordante che imbarazzante, di Giudici e Procuratori che, per dettato costituzionale, sono i garanti della legalità e del rispetto dei principi giuridici, anche nei confronti di persone che risultano solo indagate. È auspicabile un intervento risolutivo delle prassi degenerative. Ciò in quanto "l’anticipato giudizio mediatico" non conosce ragioni di opportunità. Per esso si può essere un tempo carnefici e, poi, diventarne vittime. *Avvocato difensore dell’ex senatore Lorenzo Diana Fuori dalla confisca i beni acquistati in tempi non sospetti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 8389/2016. I proventi dell’evasione fiscale non possono essere usati come giustificazione del reddito. La Corte di cassazione, con la sentenza 8389 depositata ieri, respinge la tesi del ricorrente, secondo il quale ai fini del computo delle somme da confiscare non potevano essere considerati redditi illeciti quelli conseguiti attraverso attività i cui guadagni erano stati occultati al fisco: perlomeno non dovevano "pesare" quelli che restavano sotto la soglia di punibilità. A supporto del suo ragionamento il ricorrente richiama il disegno di legge 2134 approvato dalla Camera dei deputati l’11 novembre scorso. La norma, che modifica il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, prevede espressamente l’impossibilità di giustificare la legittima provenienza dei beni giocandosi la circostanza che il denaro utilizzato per acquistarli sia frutto o reimpiego di evasione fiscale. Un giro di vite, valido solo per il futuro che, ragionando al contrario, comporterebbe la possibilità di usare ora gli argomenti che in seguito saranno vietati. Non la pensa così la Cassazione la quale precisa che il nuovo testo normativo, licenziato da uno dei rami del Parlamento, deve invece intendersi come espressione della volontà del legislatore di fare proprio l’indirizzo interpretativo già adottato dalla giurisprudenza di legittimità e considerato come diritto vivente. Ma anche se l’argomento non passa la confisca viene comunque annullata, perché la Corte d’Appello aveva in ogni caso commesso un errore nel valutare il requisito della cosiddetta pericolosità qualificata. Un "criterio" utile a escludere dalla misura preventiva patrimoniale i beni acquistati in tempi non "sospetti", in cui la condotta dell’indagato non si era rivelata pericolosa. La Corte territoriale, nel formulare il giudizio di pericolosità sociale, aveva infatti valorizzato una singola condanna per usura, dalla quale aveva fatto discendere la possibilità di confiscare gli acquisti compresi in un arco temporale che andava dal 1990 al 2009. La Cassazione ricorda che la confiscabilità dei beni è in stretto rapporto di derivazione con la pericolosità: quest’ultima è presupposto della prima. E non può dunque disporsi la confisca di quei beni che non siano stati acquistati quando l’imputato o l’indagato non aveva compiuto azioni "pericolose" socialmente. Per affermare la pericolosità qualificata dunque "il giudice deve accertare se questa investa l’intero percorso esistenziale del proposto o se sia invece individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato". Per la Cassazione, infatti, un diverso nesso "pertinenziale e temporale" misura-pericolosità, sarebbe incompatibile con i principi affermati dalla Costituzione sulla libera iniziativa economica e sulla proprietà privata. La confisca viene dunque annullata con rinvio. Niente "guida sotto l’effetto di cocaina" senza la prova di quando è stata assunta di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 1° marzo 2016 n. 8383. Non è imputabile di guida in stato di allucinazione per aver assunto sostanze stupefacenti il soggetto che - una volta fermato - mostri di avere genericamente "un comportamento non adeguato per la guida di un veicolo". La Cassazione, con la sentenza n. 8383/2016, si è spinta anche oltre. La Corte ha precisato, infatti, che l’ulteriore esame delle urine da cui sia emersa la presenza di cocaina non è sufficiente a comprovare il reato se il laboratorio ove l’esame è stato effettuato non sia dotato di apparecchiature tali da determinare a quando risale l’assunzione dello stupefacente. Questo, perché, si legge nella sentenza, la droga una volta assunta può rimanere in circolo per diverso tempo. Sul punto i Supremi giudici hanno chiarito le differenze che sussistono con la guida in stato di ebbrezza. In quest’ultima ipotesi, infatti, grazie all’alcool test e successivo esame delle urine è piuttosto semplice capire se il conducente abbia superato di poco o meno la soglia massima prevista dalla legge e quindi inquadrare giuridicamente con una certa sicurezza e rapidità il comportamento. Alcune riflessioni - Certo è che - stando così le cose - non si può non fare a meno di osservare una potenziale disparità di trattamento su condotte simili accomunate dalla guida in stato di alterazione, ma poi in concreto più difficile da decifrare sotto il profilo della gravità per una rilevanza penale. Nel precedente grado di giudizio il conducente era stato dichiarato colpevole in quanto il verbalizzante si era reso conto che il conducente aveva "assunto comportamenti del tutto inadeguati per la guida di un veicolo". L’esame delle urine eseguito, poi, nell’ambito del normale protocollo sanitario aveva evidenziato la presenza di cocaina. E nessun riferimento era stato rinvenuto nella sentenza a eventuale presenza nel liquido biologico di etanolo. Contro la sentenza è stato proposto appello che la Cassazione ha pienamente accolto. La Corte ricorda, infatti, che "la contravvenzione di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti in quanto integrata dalla condotta di guida in stato di alterazione psico-fisica determinato dall’assunzione di sostanze e non già dalla mera condotta di guida tenuta dopo l’assunzione di sostanze e stupefacenti richiede, ai fini del giudizio di responsabilità, che sia provata non solo la precedente assunzione di sostanze stupefacenti, ma anche che l’agente abbia guidato in stato di alterazione causato da tale assunzione". I requisiti necessari per l’imputazione - Ai fini dell’accertamento del reato è quindi necessario sia un accertamento tecnico-biologico in ordine all’assunzione delle sostanze (necessario perché presuppone conoscenze tecniche specialistiche in relazione all’individuazione e alla quantificazione delle sostanze), sia che altre circostanze provino la situazione di alterazione psico-fisica (ciò che è necessario perché le tracce degli stupefacenti permangono nel tempo, sicché l’esame tecnico potrebbe avere un esito positivo in relazione a un soggetto che ha assunto la sostanza giorni addietro e che, pertanto, non si trova al momento del fatto in stato di alterazione). Sul punto la Corte territoriale non si è confrontata con le dichiarazioni rese dal responsabile delle unità operative di un ospedale pugliese ove erano state eseguite le analisi biologiche - poste a fondamento della sentenza di condanna - secondo le quali mancava un laboratorio attrezzato per test di livello superiore, ovvero sui metaboliti della cocaina. Insufficienti anche le dichiarazioni del verbalizzante (giudicate come generiche) in base alle quali l’imputato aveva assunto comportamenti non adeguati per la guida di un veicolo, senza descrivere i sintomi in concreto riscontrati. Pubblica sicurezza, i post su Facebook possono legittimare il divieto di detenere armi di Alberto Ceste Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 È legittimo il provvedimento del Prefetto che vieta la detenzione di armi e munizioni a una persona che nel proprio profilo Facebook fa riferimento a forme di autotutela della proprietà privata e ha pubblicato una fotografia con la pistola in pugno e l’invito a farne uso. Lo ha stabilito il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria sezione I con sentenza del 19 febbraio 2016 n.123. Il caso - Il ricorrente impugnava il decreto del Prefetto che gli vietava di detenere armi e munizioni lamentando l’eccesso di potere e sostenendo che la pubblicazione della fotografia e l’invito in essa contenuto non avrebbe consentito valutazione della personalità richiesta per una simile decisione. Il post non avrebbe di per sé costituito indice di inaffidabilità in un soggetto che non era mai stato denunciato e non aveva nessuna pendenza penale. Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria ha respinto integralmente il ricorso. Presupposti del divieto e rilascio della licenza di porto d’armi - Il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione armi, munizioni e materie esplodenti alle persone ritenute capaci di abusarne (articolo 39 comma 1 del Rd n. 773/1931). La norma ha finalità di prevenzione della commissione di reati e di fatti lesivi dell’incolumità pubblica. Non si richiede, quindi, che l’abuso che legittima il provvedimento dell’Autorità amministrativa si sia poi effettivamente verificato: è sufficiente anche solo una situazione di pericolo potenziale. Il potere discrezionale dell’Autorità di polizia può essere dunque esercitato anche in presenza di un comportamento che pur non concretandosi nella commissione di reati veri e propri, possa incidere, anche su di un piano solo sintomatico, sul suo grado di affidabilità. Il rilascio della licenza di porto d’armi non costituisce una mera autorizzazione di polizia, ma assume contenuto di permesso concessorio in deroga al divieto generale di portare armi sancito dall’articolo 699 del codice penale e dall’articolo 4 della legge 18 aprile 1975 n.110. "In tale quadro, il controllo effettuato dall’Autorità di pubblica sicurezza viene ad assumere connotazioni particolarmente pregnanti e severe e spetta al prudente apprezzamento di detta Autorità l’individuazione della soglia di emersione delle ragioni impeditive della detenzione degli strumenti di offesa". La disponibilità di un’arma, sia pure legittimamente detenuta, richiede sempre e necessariamente che il soggetto sia in condizioni di perfetta e completa sicurezza circa il suo uso. Anche il solo dubbio sulla possibile lesione della sicurezza pubblica e dell’incolumità delle altre persone fa venir meno il requisito di affidabilità e legittima la valutazione discrezionale negativa dell’Autorità di pubblica sicurezza. Il monitoraggio del web - Un aspetto di interesse è l’uso da parte di agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria, accanto alle tradizionali tecniche investigative, dei nuovi mezzi di comunicazione e dei social network come fonte di informazioni per formulare valutazioni connesse alla sicurezza pubblica. Una valutazione che secondo l’univoca giurisprudenza formatasi sul punto, non è suscettibile di alcun sindacato nel merito da parte del Giudice amministrativo (confronta, per tutti sentenza del Consiglio di Stato, sezione III, 19 gennaio 2015 n.116). Reati tributari, l’indebita compensazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016 Tributi - Reati tributari - Reato di indebita compensazione previsto dall’articolo 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000 - Elemento oggettivo. Il delitto di indebita compensazione di cui all’articolo 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, richiede, sotto il profilo oggettivo, che il mancato versamento di imposta risulti formalmente "giustificato" da una illegittima compensazione, ex articolo 17 D.Lgs. n. 241/1971, operata tra le somme spettanti all’erario e i crediti vantati dal contribuente, in realtà non spettanti o inesistenti. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 14 aprile 2015 n. 15236. Tributi - Reati tributari - Articolo 10 quater D.Lgs. n. 74/2000 - Utilizzo in compensazione di crediti "non spettanti" - Nozione. Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’articolo 10-quater del Dlgs n. 74/2000, per credito "non spettante" si intende quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (o non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 26 gennaio 2015 n. 3367. Tributi - Reato di indebita compensazione - Compensazione di crediti e debiti riguardanti la stessa imposta - Estensione - Configurabilità. Il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti è configurabile sia nel caso di compensazione verticale (ossia riguardante crediti e debiti afferenti la medesima imposta), sia in caso di compensazione orizzontale (ossia riguardante crediti e debiti di imposta di natura diversa). • Corte cassazione, sezione III, sentenza 30 novembre 2010 n. 42462. Tributi - Reato di indebita compensazione - Natura speciale rispetto al reato ex articolo 316 ter cod. pen. - Sussistenza. Il reato di indebita compensazione di crediti tributari di cui all’articolo 10 quater del D.Lgs. n. 74/2000 ha natura speciale rispetto al reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 28 febbraio 2012 n. 7662. Tortura, la banalizzazione di un crimine di Patrizio Gonnella (Presidente di "Antigone") Il Manifesto, 2 marzo 2016 Di tortura si può restare feriti a vita, nell’anima o nel corpo. Di tortura si può morire per le lesioni subite o per il trauma psico-fisico sofferto. Della tortura sopportata si può provare addirittura un sentimento di vergogna. La tortura produce nella vittima sensi di colpa difficili da spiegare. La tortura determina sfiducia nell’umanità. La tortura è l’annientamento della dignità umana in quanto degrada la persona a cosa, la fa divenire mezzo per raggiungere un altro fine, pseudo-giudiziario o punitivo. La tortura è una manifestazione primitiva di potere che rende plastica l’asimmetria che c’è tra la persona custodita e il custode. Nessun Paese ne è immune, nessuna democrazia può dirsi certa che non sia praticata o tollerata al proprio interno. Nei regimi dispotici la tortura è sistematica e fa parte della fisica del potere. La tortura non ha alcun rapporto con la verità. Quella estorta non è mai la verità. È una via di fuga per interrompere il ciclo tragico della violenza. Obama ha annunciato la chiusura di Guantánamo, seppur difficile da realizzarsi per la forte opposizione repubblicana, non solo perché detenere senza processo una persona (anche il peggior criminale) significa violare macroscopicamente le regole dello stato di diritto ma anche perché non è servito a nulla, dal punto di vista preventivo, organizzare la tortura su scala universale. Dunque sotto tortura non si dice la verità. Nello spot della Wind, da noi e da Amnesty International contestato, e pare fortunatamente prontamente ritirato, Giorgio Panariello rilevava sotto tortura le offerte del gestore telefonico. Quando abbiamo chiesto alla Wind di ritirare lo spot lo abbiamo fatto non perché siamo ‘bacchettonì o privi di ironia, o perché pensiamo che non si possa scherzare con i santi ma solo con i fanti, ma solo perché quel modo facile, leggero, scontato di trattare la tortura ne favoriva uno sdoganamento di massa, una facile (ma falsa) connessione logica tra tortura e verità. In sostanza era la banalizzazione di un crimine contro l’umanità. Nei giorni scorsi nella trasmissione "Chi l’ha visto" il testimone della morte di Riccardo Magherini ha raccontato quello che ha visto, ovvero calci all’addome della povera vittima. E di tortura è morto il povero Giulio Regeni in Egitto. Piero Calamandrei nella rivista "Il Ponte" nel 1949 manifestava il suo stupore perché bisognasse ribadire che la tortura in Europa andasse vietata. Eppure la tortura dalla fine della guerra fino a oggi ha continuato a essere praticata dentro e fuori l’Europa, nelle democrazie e fuori da esse, come pratica punitiva illegale o come metodo inquisitorio. In Italia, e ciò ha dell’incredibile, non vi è una legge che la punisca. Il Senato ha riposto la proposta di legge nell’armadio, dopo avere fatto di tutto per annacquarne i contenuti. Eppure Matteo Renzi, il 7 aprile 2015, all’indomani della condanna europea per quanto accaduto alla Diaz nel caso Cestaro, aveva promesso che avremmo avuto una nuova legge sulla tortura. Per ora la promessa è rimasta un tweet. Accorpamenti penitenziari di Beppe Battaglia (Associazione Casa Caciolle - Firenze) Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2016 Sei anni fa Sandro Margara, in un convegno pubblico a Firenze, annunciava la...buona novella: il pericolo che intravvedo all’orizzonte è quello che si voglia far scivolare la direzione delle carceri dal personale civile (che accede per concorso pubblico alla funzione di direttore di carcere) alla polizia penitenziaria. Una profezia in corso di realizzazione silenziosa. Infatti, silenziosamente sono stati abilitati, per via amministrativa, i commissari di polizia al ruolo dirigenziale. Possono cioè sostituire per delega il direttore del carcere. Questo è stato il primo passo. Il secondo è in corso d’opera, sempre per via amministrativa, col pretesto della spending review. Al Ministero della Giustizia in questi giorni si sta lavorando all’accorpamento delle direzioni di più carceri. Ossia, impegnare un direttore o una direttrice di carcere a dirigere due o più istituti (in Sardegna già da tempo cinque direttori dirigono dieci carceri sul territorio sardo!) accorpando due o più carceri di piccole dimensioni, oppure un istituto piccolo accorpato ad uno grosso. La motivazione riposa nell’assunto che un direttore di un carcere piccolo (meno di cento detenuti) è sprecato! Questo disegno viene da lontano, come diceva Margara. Infatti, l’ultimo concorso per direttori di carcere risale a circa vent’anni fa! In questi ultimi venti anni molti direttori sono andati in pensione e di fatto si è prodotta la necessità, diventata consuetudine, degli interpelli interni che chiamano un direttore a coprire la sede vacante (part time) oltre alla sede ricoperta come titolare (che diventa part time anche quella). Come dire, un direttore dimezzato e talvolta triplicato. Di ulteriori concorsi per la copertura delle sedi mancanti per avvenuto pensionamento non se n’è parlato negli ultimi vent’anni, né se ne parla. Il trend perciò resterà in crescita, nella direzione dell’estinzione di questa titolarità dirigente alla quale si accedeva per titoli e competenze mediante concorso pubblico. Stanti così le cose, va da sé che un direttore svolge il suo ruolo in un carcere per due o tre giorni la settimana. E in sua assenza (per i restanti giorni della settimana) chi decide, chi dirige, chi comanda in quel carcere? È ovvio: il commissario di polizia mediante delega! Questa condizione si è già prodotta di fatto e vige in una serie di carceri italiani. Mancava e manca il passo decisivo (sempre per via amministrativa): l’accorpamento di due o più carceri per...fare economia (si dice). Non sfuggirà a nessuno la differenza tra un direttore civile ed uno militare. Siamo su due terreni completamente diversi per formazione e inquadramento, per ruolo istituzionale e mandato d’ingaggio. Insomma, non si elimina la figura legislativa del direttore di carcere, lo si riduce progressivamente, per via amministrativa, sempre più a...foglia di fico! La sua funzione si riduce in misura inversamente proporzionale alla crescita della direzione militare. Forse pochi sanno la quantità e la qualità delle decisioni che ogni direttore di carcere (anche piccolo) deve prendere ogni giorno, specialmente se vuole svolgere bene il suo compito. Far scivolare (in modo surrettizio) questo compito dal personale civile al personale militare, cosa che già avviene in un gran numero di carceri, spalanca nuovi scenari dei quali...è bene non parlare! Forse è questo il significato da attribuire alle roboanti dichiarazioni sulle nuove modalità dell’esecuzione penale? Se si considera che la gran parte del popolo dei puniti è composto da...cattivi consumatori in costante aumento (leggi poveri, vecchi e nuovi) per i quali non a caso il Papa ha coniato il nuovo termine di "scarti", senza alcuna illusione possibile di recupero, reintegrazione, reinclusione. Scarti definitivi, macerie sociali da rimuovere perché fuori mercato. Se si considera questo fatto, allora appare chiaro che il contenimento (e lo smaltimento terminale) dei poveri deve essere affidato sempre più all’efficientismo gerarchizzato del personale militare. Uno degli indicatori che distinguono un campo di concentramento da un carcere è proprio quello del comando della prigione: il carcere è comandato da personale civile e funziona in base ad un regolamento giurisdizionalizzato; il campo di concentramento è comandato da personale militare e non dispone di alcun regolamento. La deriva democratica dello Stato di diritto è un processo lento, avanza per piccoli passi dissimulati muovendo dai territori a controllo totale per poi dispiegarsi su quello sociale. In questo senso il carcere diventa il laboratorio politico ideale. Altro che "revisione della spesa". Siamo alla revisione dei diritti che dal recinto del popolo dei puniti (lo testimoniano le numerose e salate sanzioni dell’Unione Europea che l’Italia - ossia i cittadini italiani - ha pagato e continua a pagare per il mancato rispetto dei diritti umani nelle nostre carceri) tracima sulla cittadinanza facendo nuove e più ampie macerie! Tra le numerose violazioni dei diritti delle persone recluse, ora si arriva alla violazione del diritto ad avere un direttore in abiti civili ed a tempo pieno! Accorpamenti penitenziari in nome della "revisione della spesa" o accentramento del potere di controllo sociale... manu militari? Veneto: Orlando promette "più magistrati in Regione, l’Islam radicale insidia le carceri" di Filippo Tosatto Il Mattino di Padova, 2 marzo 2016 Dal Polesine la replica al grido d’allarme lanciato all’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Venezia. Il presidente Zaia: "I cittadini colpiti dal crimine non chiedono vendetta ma la certezza della pena". "La dotazione di magistrati del Veneto è obiettivamente insufficiente, anzi, rappresenta il punto di maggior criticità insieme alla Corte d’Appello di Brescia. Per quest’ultima abbiamo già attivato un tavolo al ministero, presto faremo lo stesso per Venezia. I rinforzi arriveranno non appena, d’intesa con il Csm, disporremo della nuova pianta organica". Parole di Andrea Orlando, il ministro di Grazia e Giustizia, che risponde così al grido d’allarme del presidente della Corte d’appello di Venezia, Antonino Mazzeo Rinaldi, che il 25 gennaio, aprendo l’Anno giudiziario, non ha usato circonlocuzioni: "Il Veneto è ultimo nella classifica delle regioni per quanto riguarda il rapporto popolazione-giudici, in Procura generale a Venezia c’è una carenza del 30%, in alcune Procure dei nostri capoluoghi veneti si sfiora addirittura il 50%: il personale va in pensione e non viene sostituito"; gli effetti? "Quasi il 70% dei procedimenti penali messi in moto dalle forze dell’ordine, con arresti o denunce, finisce in prescrizione, ovvero non si conclude con una sentenza di condanna o assoluzione a causa dei tempi eccessivi della giustizia italiana". "La giustizia rappresenta uno dei pilastri della nostra società", ha concluso il magistrato "pilastro che qui in Veneto fa fatica a reggere". L’annuncio del Guardasigilli, di scena a Rovigo per l’inaugurazione del penitenziario, fa eco alle polemiche ricorrenti sulla certezza della pena, il diritto all’autodifesa e la criminalità diffusa. Refrain ripresi dal governatore Luca Zaia nel suo breve intervento: "Rousseau diceva che aprire una scuola equivale a chiudere un carcere, noi concordiamo e evitiamo di sollecitare giustizialismi o pene esemplari. Però chi ruba, o fa di peggio, deve andare in galera e restarci fino a completamento della pena. Non sempre questo avviene e la popolazione si scopre alla mercé dei violenti. La colpa, secondo me, non va imputata ad un presunto lassismo dei magistrati: loro applicano leggi che troppo spesso sono confuse, contraddittorie o permissive". Ad Orlando, Zaia sollecita un occhio di riguardo al destino del tribunale di Bassano ("Per noi è una partita fondamentale"), ricevendone una generica promessa di "attenzione". Il ministro, comunque, tiene a ribadire la linea governativa che ha ispirato la legislazione svuota-carceri: "Spendiamo quasi 3 miliardi l’anno per l’esecuzione delle pene, una cifra superiore alla media Ue, ma scontiamo il tasso di recidività più alto d’Europa. È evidente che la semplice pena afflittiva, intesa come intervallo tra una fase delinquenziale e l’altra, non è più sufficiente. Non sono un buonista, a volte serve la durezza ma, come insegna il Santo Padre, il carcere non può tradursi nel luogo della segregazione e della de-responsabilizzazione. In due anni, la popolazione penitenziaria è scesa da 65 mila a 45 mila unità, una risposta concreta al sovraffollamento e non è vero che abbiamo rimesso in libertà criminali pericolosi. Piuttosto abbiamo applicato con convinzione le pene esterne, il cui rapporto rispetto a quelle detentive, è balzato da 1 a 4 ad 1 a 1. Il concetto è quello di prevedere un percorso risarcitivo per chi sbaglia, condizionandolo magari all’accesso alla condizionale". Tutto bene, allora? Non proprio: "I nostri istituti ospitano circa 11 mila detenuti islamici, di questi 8 mila sono praticanti. Serve un’attiva opera di vigilanza per prevenire fenomeni di radicalismo". Liguria: la Vicepresidente Viale "la Regione avrà una sua Rems, nello spezzino" di Matteo Macor La Repubblica, 2 marzo 2016 La vicepresidente della Regione sul caso delle carceri. "Ma non costerà meno che portarli in Lombardia". "La Rems ligure si farà, a breve partiranno i lavori, ma sia chiaro che non verrà a costare così tanto meno rispetto al milione e sei che attualmente paghiamo a Castiglione delle Stiviere". Mette le mani avanti, Sonia Viale, braccio destro del governatore ligure Giovanni Toti e assessore regionale alla Sanità, all’indomani dell’uscita di Repubblica sui costi degli internati liguri in "trasferta" nella Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, strutture nate per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari) lombarda, ad oggi l’unica a cui possono essere affidati in Liguria gli autori di reato con problemi psichici. La buona notizia è che entro marzo la situazione della prima Rems sul territorio regionale finalmente si sbloccherà, ma se la cifra annuale che la struttura del Mantovano chiede alla Sanità ligure (tra i 300 e i 500 euro al giorno a internato) "pare, a ragione, una montagna di soldi" - sottolinea la vicepresidente della Regione - è tutto il sistema che "non può non costare così tanto". Assessore, la Liguria non fa parte delle regioni commissariate per mancanza di strutture. Però la "nostra" Rems si trova 300 chilometri di distanza. "La Rems ligure sarà quella di Calice al Cornoviglio, nello Spezzino. Entro la fine di marzo saranno assegnati i lavori. Esistono già un piano economico e un progetto esecutivo: siamo al passo con i programmi ministeriali, per questo non siamo tra le regioni commissariate". Però ogni anno, almeno ancora per il 2016 e il 2017, la Liguria verserà un milione e sei alle casse di un’altra Regione. Perché proprio la Lombardia? "Castiglione è la struttura di quel genere più vicina alla Liguria. E la scelta si deve alla precedente amministrazione, in tempi non sospetti". In futuro si spenderà meno? "I costi sono alti. Però sia chiaro, sono considerati congrui al tipo di trattamenti di assistenza particolari a cui corrispondono. La Rems non è una comunità come tutte le altre". A parte i 5 milioni stanziati per i lavori, Calice al Cornoviglio costerà meno, alle tasche dei liguri? "Dovrebbe, ma sarà comunque una spesa importante. Sono previsti 20 posti, cui occorrerà garantire l’assistenza di personale dedicato 24 ore su 24, strutture e tutta una serie di standard da rispettare". Oltre ai 14 internati affidati alla Lombardia, ci sono ancora 8 casi liguri ospitati dagli opg di Napoli e Montelupo Fiorentino. "Mi risultano solo i 5 in Toscana. Di cui le nostre strutture avevano proposto un percorso di rientro in Liguria, incassando però il no dell’autorità giudiziaria". Cosa può fare il sistema sanitario regionale per queste situazioni? Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma dice molto di più. "Potenziare la presenza dei nostri servizi all’interno dei penitenziari liguri a sostegno di detenuti e di personale penitenziario. Migliorare i rapporti di collaborazione che devono esserci tra Asl e carceri o altre strutture. Individuare insieme i percorsi migliori per capire se le persone devono essere inviate alle Rems e per quanto tempo o in comunità che hanno costi inferiori. Anche se ovviamente non dipende tutto dal sistema sanitario regionale". Cioè? "A decidere su detenuti o internati sono tutti provvedimenti dell’autorità giudiziaria, noi possiamo solo mettere a disposizione le strutture di psichiatria forense a supporto dei giudici". A settembre vi eravate incontrati con l’allora direttore di Marassi Salvatore Mazzeo per iniziare un percorso sul diritto alla salute in carcere. A che punto siamo? "C’è ancora tanto da fare". Il Garante dei detenuti potrebbe cominciare il suo lavoro proprio da Genova. "Bene. Sarebbe un bel messaggio di attenzione e di stimolo". Liguria: detenuti in lista di attesa anche 1 anno per l’affidamento terapeutico in struttura di Erica Manna La Repubblica, 2 marzo 2016 La chiamano "domandina", e l’eufemismo burocratico suona un po’ beffardo, a guardare il faldone di fogli che ogni settimana attende gli operatori al carcere di Marassi. La lista delle "domandine" è lunga, ma lo è molto di più il percorso che attende una parte dei detenuti che chiedono un colloquio per uscire dal carcere in affidamento terapeutico: perché il loro è il caso più spinoso e irrisolto di tutti. Si tratta di quelle persone che scontano la pena in carcere ma che chiedono di entrare in comunità per doppia diagnosi: è questa, l’etichetta per l’ultimo gradino del disagio. Si dice, più tecnicamente, comorbilità: l’Organizzazione Mondiale della Sanità la definisce la coesistenza nello stesso individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro, psichiatrico. "Negli ultimi tempi, solo a Marassi, sto seguendo quattro persone che hanno presentato questa richiesta - racconta Ramon Fresta di Ceis, il Centro di solidarietà di Genova - si tratta di detenuti che soffrono di dipendenza da una sostanza, molto spesso l’alcol, e sono anche affetti da patologie psichiatriche". Persone che andrebbero curate, in un luogo diverso da una cella. Eppure, a Genova l’unica struttura accreditata per accoglierle in affidamento terapeutico si trova a Trasta, in Salita Ca dei Trenta 28. E i posti sono soltanto 20. Proprio mentre "ci troviamo di fronte a un’impennata di pazienti con doppia diagnosi autori di reati - spiega Marco Vaggi, responsabile salute mentale di Asl3 - a Marassi, oltre la metà dei reclusi ha commesso reati connessi all’uso di stupefacenti. E tra loro, il 10 per cento ha la doppia diagnosi". Una quarantina di persone. I motivi di questo aumento sono tanti, intrecciati tra loro: "È cambiato l’uso di sostanze, l’offerta si è ampliata e così anche la fascia di utilizzatori - riflette Vaggi - tutto questo si interseca con la crisi, il disagio sociale, l’incremento di soggetti ai margini, come gli immigrati. Ma i detenuti con doppia diagnosi hanno esigenze sanitarie e legali molto specifiche: è più che mai necessario un progetto sociale ad hoc". Eppure, questo progetto ancora manca. Soprattutto per la carenza di risorse a disposizione. Nel carcere di Pontedecimo, una giovane detenuta sta aspettando da oltre un anno di essere accolta a Trasta. "Il fatto è che all’interno di una comunità per tossicodipendenti il percorso dura circa un anno - racconta Ramon Fresca - ma nel caso della comunità per doppia diagnosi i tempi sono molto più lunghi. Negli ultimi tempi, la distribuzione delle risorse è cambiata in modo inversamente proporzionale al bisogno: anzi, la mancanza di risorse crea bisogni". La causa va ricercata in un utilizzo improprio delle risorse, punta il dito Enrico Costa, presidente di Ceis: "Su circa cinque milioni di euro di budget di Asl3 per trattare le dipendenze in generale, il 40 per cento serve a coprire le spese per mandare i pazienti in comunità fuori regione. Mentre in altre regioni è vietato farlo". "Negli ultimi tre anni - replica Vaggi - stiamo cercando di far rientrare progressivamente i pazienti, perché clinicamente è più utile averli vicino. Al momento, la percentuale di persone con dipendenze accolte fuori regione è del 5 per cento. E chi viene indirizzato in una struttura extra regionale ha tentativi falliti alle spalle o esigenze molto particolari". Uno degli ultimi casi è quello di un detenuto a Marassi: mandato d’intesa con Asl4 chiavarese in una comunità psichiatrica di Cuneo, la Cufrad di Sommariva del Bosco. A centossessanta chilometri, con un costo di 141,16 euro al giorno. Piemonte: "Progetto Libero", l’impegno della Compagnia di San Paolo per le carceri secondowelfare.it, 2 marzo 2016 A partire dalle riflessioni condotte nel corso dello scorso anno, e in coerenza con le Linee di Indirizzo del Piano Territoriale Unitario emanate nell’ottobre 2015 dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, Compagnia di San Paolo ha deciso di rafforzare il proprio impegno nei confronti del mondo carcerario italiano. Attraverso il Progetto Libero 2016 - d’intesa con le Autorità Penitenziarie e di concerto con i Garanti dei detenuti attivi sul territorio della Regione - CSP ha scelto infatti di sostenere un cambiamento culturale rispetto al mondo del carcere e della coscienza civile, allo scopo di massimizzare l’efficacia di interventi atti a migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri e a favorire l’accettazione e il reinserimento di persone in misure e sanzioni alternative e di ex detenuti nella società. La fondazione torinese in questo senso ha recentemente pubblicato sul proprio sito le linee guida dell’edizione 2016 di Progetto Libero per la presentazione di richieste di contributo in ambito carcerario. Verranno prese in esame richieste di contributo per progetti sia volti a favorire il miglioramento del clima detentivo e del benessere organizzativo, garantendo un grado di dignità progressivamente crescente alla vita all’interno delle carceri - prevendendo eventualmente, dove ritenuto opportuno, il coinvolgimento della polizia penitenziaria - sia mirati all’inserimento di detenuti in uscita dalle Case circondariali. È possibile presentare richieste di contributo entro venerdì 29 aprile 2016 esclusivamente tramite procedura Rol (Richieste-On-Line) utilizzando il modulo specifico "Progetto Libero". Prima di presentare la domanda gli enti sono invitati a partecipare a un incontro preliminare con la Compagnia di San Paolo. Per partecipare questi dovranno scrivere entro il 18 marzo a politichesociali@compagniadisanpaolo.it, specificando nell’oggetto "Progetto Libero 2016" e allegando una descrizione del progetto di circa 1.000 battute. Catanzaro: batterio killer in carcere; dopo la morte di un detenuto si rischia l’epidemia quicosenza.it, 2 marzo 2016 Lanciato l’allarme: è stata chiesta l’urgente disinfestazione del penitenziario e lo screening di tutti gli ospiti. "A seguito della morte di Michele Rotella, avvenuta presso l’ospedale di Catanzaro dove è stato trasportato d’urgenza la sera del 27 febbraio dal carcere di Siano dove si trovava ristretto da alcune settimane, - scrive in una missiva l’associazione Yairaiha di Cosenza che si occupa di diritti dei detenuti - siamo molto preoccupati del possibile rischio di epidemia che potrebbe verificarsi all’interno della struttura detentiva di Siano. Detta preoccupazione trova ragione nella patologia che pare abbia portato al decesso improvviso del detenuto. Negli ultimi giorni infatti Rotella accusava i malori tipici delle enteriti ma, evidentemente, è stata sottovalutata la gravità del problema. Dai primi accertamenti effettuati nel nosocomio catanzarese, risulta essere deceduto per clostridium difficilis, un batterio purtroppo molto pericoloso e resistente che, stando alle fonti mediche consultate, negli ultimi anni sta registrando "un aumento della frequenza, oltre che della gravità, delle Infezioni da Clostridium Difficile (ICD o CDI, Clostridium Difficile Infections, o Cdad, Clostridium Difficile Associated Disease) sia in ambiente intra- che extra-ospedaliero, associate ad una elevata probabilità di recidiva dopo il trattamento. Le cause dell’incremento di incidenza e di severità di tali infezioni non sono del tutto chiare e sono tuttora oggetto di analisi. Si tratta di un batterio, gram-positivo, anaerobio e sporigeno (ovvero capace di sporulare, di generare spore). Le spore sono dotate di una membrana particolarmente resistente, sia alle escursioni termiche che all’attacco chimico dei comuni disinfettanti. Le diverse fonti mediche consultate invitano a non trascurare assolutamente questo batterio ed il potenziale epidemologico che esprime soprattutto in ambiti comunitari e il carcere è assolutamente un ambiente comunitario. Considerato che la persona infetta è la fonte primaria di veicolazione del batterio e che l’ambiente la fonte secondaria, onde evitare il pericolo concreto di una epidemia di Clostridium Difficile chiediamo che venga effettuato uno screening di tutta la popolazione detenuta e che, contestualmente, venga effettuata opportuna disinfestazione della struttura carceraria di Siano al fine di tutelare la salute dei detenuti ristretti e del personale operante". La lettera volta ad allertare le istituzioni è stata inviata ieri dall’associazione Yairaiha Onlus di Cosenza al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria - Calabria Salvatore Acerra, alla Direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro Angela Paravati e al Garante per i diritti dei detenuti Mauro Palma. Milano: il Giubileo fa tappa davanti a San Vittore "non rubateci l’amore e la speranza" di Zita Dazzi La Repubblica, 2 marzo 2016 Hanno commesso i peggiori reati, ma per la processione col cardinale hanno scritto le più belle preghiere. Hanno messo la loro vita, in mezzo alle invocazioni a Dio e alla parola cardine del Giubileo: perdono. Ci sono i pensieri e le speranze dei detenuti di tutte le carceri della Diocesi nel libretto della processione che venerdì il cardinale Scola guiderà fino al carcere di San Vittore. Parole di fede e di pentimento, di dolore e di speranza nel futuro. "Tu perdoni e dimentichi, noi vogliamo che si creda nella nostra rigenerazione", recita la preghiera dei carcerati di San Vittore. "Padre abbi misericordia di noi che abbiamo peccato e apri i nostri cuori - pregano dal penitenziario di Opera - Dacci il perdono per i dispiaceri causati a chi abbiamo più caro". Dopo un’Ave Maria, la preghiera da Bollate: "Non abbiamo altro da offrirti che noi stessi, aiutaci a riconoscere le nostre debolezze e a rinascere nel tuo amore Si può stare sicuri che venerdì sera tutto San Vittore sarà alle finestre, con le mani aggrappate alle inferiate e il cuore in rivolta, come quando ci sono le proteste per chiedere condizioni di vita più umane. E quello di venerdì sera sarà in effetti, un appuntamento nel suo piccolo "rivoluzionario", se si pensa che saranno i carcerati, dal buio delle loro celle e con la forza delle loro preghiere e dei loro pensieri, a condurre la processione esterna, con i fedeli, i prelati e l’arcivescovo Angelo Scola con la croce sulle spalle, attraverso uno dei quartieri più antichi e nobili della città, quello tra la basilica di Sant’Ambrogio e l’istituto di pena. Il cardinale, seguendo la tradizione dei suoi predecessori Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, negli ultimi anni ha conosciuto il mondo anche da dietro alle sbarre, visitando tutte le carceri della Diocesi, raccogliendo le confessioni le paure, la disperazione di chi è recluso e non vede l’orizzonte, non sa più nemmeno che cosa succede fuori e quando mai arriverà il fine pena. Racconti che devono averlo colpito nel profondo. Per questo ha voluto che l’iniziativa più importante del Giubileo in città fosse dedicata proprio al carcere, con la processione "Via Misericordiae" che si fermerà davanti al portone di via Filangieri per chiedere giustizia e pene che tendano alla rieducazione invece che alla disumanizzazione dei condannati. Una processione del genere non si è mai vista a Milano e sicuramente l’impronta concreta data dall’arcivescovo al Giubileo ambrosiano un suo significato, uno scopo preciso ce l’ha. Basta leggere i testi scritti dai detenuti di tutti i penitenziari della Diocesi che Scola ha voluto fossero inseriti nel libretto della processione accanto ai brani evangelici e alle preghiere. "Noi donne di San Vittore - si legge in uno di questi brani che prende spunto dal brano del Vangelo di Luca sulla "peccatrice" - ci siamo perse nei sentieri della vita ma ora c’è qualcuna che si sta incamminando, qualcuna che è già entrata in casa, qualcuna rannicchiata ai piedi di Gesù, consapevole del suo essersi persa e dell’inizio del ritrovamento di se stessa. Si osa esprimere gesti di umiltà, spontaneità, pentimento. Voi che in qualche modo ci osservate, non rubateci l’amore, non rubateci la speranza". Anche nel discorso alla città, in occasione dell’ultimo Sant’Ambrogio, il cardinale aveva parlato a lungo dei sette istituti penali per adulti in Diocesi (Milano San Vittore, Milano Opera, Milano Bollate, Monza, Lecco, Busto Arsizio e Varese) e dell’istituto per minorenni (il Beccaria a Milano) con 4.368 adulti e più di 50 giovani al minorile. Scola aveva parlato del perdono e dell’esecuzione penale esterna al carcere: "La miglior scelta possibile: abbatte la recidiva, dà provato esito di efficacia nel reinserimento sociale, incide meno sui costi della pubblica amministrazione e finisce per generare maggior sicurezza sociale". Ed è quello che sotto forma di preghiera, chiedono anche i detenuti del terzo raggio, quello dei tossicodipendenti: "Ci sono sbagli che non riusciamo a perdonare - si legge nel libretto della processione - ma che Dio sa perdonare. "Perdono" significa "diamo dono", quando perdoniamo diamo un po’ di noi stessi agli altri, scegliamo di non dare il male. Ma anche di fronte al perdono, ognuno deve fare il suo percorso spirituale, non è automatico. Chiunque, qualunque cosa abbia fatto, può confessare e aspirare al perdono. Dimostrando molto amore, si vive: questo è il segno e la conseguenza del perdono". Dal centro clinico di San Vittore, un altro appello: "Vorremmo chiedere la forza di non giudicare, per non essere a nostra volta più giudicati, quando avremo scontato la nostra pena". L’arcivescovo risponderà parlando col cuore, venerdì sera, davanti al portone di via Filangieri. Velletri (Rm): detenuto si dà fuoco in cella, agente gli salva la vita ilcaffe.tv, 2 marzo 2016 Un detenuto di origine italiana ristretto nel carcere di Velletri si è dato fuoco per futili motivi. A denunciare il caso è il sindacalista Ciro Borrelli del Si.P.Pe. (Sindacato Polizia Penitenziaria) affiliato UGL P.P.. "Il detenuto - commenta Borrelli- sembrerebbe essere malato psichiatrico perché ha sempre manifestato disordini e violenza ovunque è andato. Questi tipi di detenuti vanno gestiti nelle strutture adatte con una equipe di specialisti che li segue in continuazione, non tenuti in una cella con la sola terapia farmacologica. Solo grazie al tempestivo intervento dell’agente di sezione che con grande professionalità e freddezza ha preso l’ estintore e senza esitare ha evitato che accadesse il peggio. Il detenuto è stato immediatamente soccorso dai medici del carcere per poi essere trasferito prima presso l’Ospedale di Velletri per le valutazioni del caso e poi all’Ospedale grandi ustioni del San Eugenio di Roma. Il detenuto fortunatamente è stato dimesso in tarda notte con una diagnosi di ustioni di secondo grado in varie parti superiori del corpo. Il carcere di Velletri - continua Carmine Olanda Segretario Generale del Sippe - da poco ha aperto una sezione psichiatrica, ad oggi priva di detenuti perché la Asl RmH non ha ancora provveduto a completare la dotazione organica sanitaria per garantire la dovuta gestione dei malati. Ci auguriamo che le autorità competenti - conclude Olanda- intervengono immediatamente con fatti concreti, inviando il personale sanitario mancante ed almeno 40 Agenti subito, per scongiurare che la nuova sezione Psichiatrica si riempia improvvisamente di detenuti malati, evitando che la Polizia Penitenziaria si trovi a svolgere anche le competenze sanitarie". Venezia: carcere, monta la protesta della Polizia penitenziaria di Giorgio Cecchetti La Nuova Sardegna, 2 marzo 2016 Gli agenti denunciano organici all’osso, turni massacranti, l’uso di furgoni che cadono a pezzi e la mancata sostituzione di uniformi ormai consumate. L’hanno scritto e riscritto, ma per ora le loro segnalazioni sono rimaste lettera morta. I conducenti dei mezzi della Polizia penitenziaria sono costretti a viaggiare in terraferma su mezzi che hanno almeno venti anni e migliaia di chilometri di percorrenza. Si tratta di furgoni, sono due, e di un’auto, utilizzati per trasferire i detenuti da un carcere all’altro e, soprattutto, per accompagnarli nei numerosi tribunale del Veneto e non dove vengono interrogati o processati. Accade spesso che uno o l’altro dei furgoni debba essere portato in officina per essere rattoppato nel motore o nella carrozzeria. Gli agenti, a salire su quei mezzi, non si sentono sicuramente sicuri, spesso tra l’altro devono percorrere lunghe distanze. Per ora, non sono state messe in cantiere azioni di protesta, ma trattandosi di un problema che coinvolge la sicurezza dei trasporti e di conseguenza l’incolumità dei componenti della Polizia penitenziaria e anche quella dei detenuti che viaggiano su quei mezzi, prossimamente potrebbe scattare una iniziativa clamorosa. Una protesta che punta a mettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti di custodia, che già da tempo chiedono più organici, trovandosi costretti a turni massacranti. O, comunque, a turni all’interno del carcere con il personale ridotto all’osso, visto che in alcune occasioni all’interno dei bracci, per tenere sotto controllo circa trecento detenuti, che ora possono rimanere fuori dalle celle per l’intera giornata, ci sono appena tre o quattro agenti. C’è, inoltre, un’altra questione che sta a cuore agli agenti della penitenziaria: è quella delle divise che indossano. Da decenni, quelli più anziani, hanno la divisa d’ordinanza e quella da lavoro, che prima veniva indossata soltanto quando erano in servizio all’interno del carcere. Adesso, invece, è facile vedere in Tribunale chi arriva con la divisa d’ordinanza (giacca e cravatta) e sono i più giovani, ai quali è stata consegnata solo da pochi anni, mentre gli altri, i più anziani, indossano quella da lavoro perché l’altra, ormai, è da buttare o quasi. È lisa e il blu è ormai stinto, mancano spesso i bottoni e c’è pure qualche strappo. Naturalmente accade anche su quella da lavoro, ma si vede meno e comunque le mogli, per gli agenti maschi, e le agenti donne sono costrette a intervenire spesso con ago e filo. L’Amministrazione penitenziaria, evidentemente, non è in grado di fornire divise nuove: ne hanno consegnata una per tipo al momento dell’entrata in servizio e da allora ognuno dei componenti della Polizia penitenziaria ha dovuto arrangiarsi. Naturalmente gli agenti non possono prestare servizio con abiti civile e quindi si arrangiano come possono. Tempio Pausania: cento agenti per duecento detenuti, protesta della Polizia penitenziaria di Andrea Busia L’Unione Sarda, 2 marzo 2016 Non arrivano a cento unità e devono occuparsi di 200 detenuti, gli agenti della Polizia penitenziaria di Nuchis dicono basta. Oggi le più importanti sigle sindacali hanno organizzato un sit-in davanti al Palazzo di giustizia di Tempio. I sindacati sostengono che la situazione del penitenziario gallurese, sta peggiorando di giorno in giorno. Uno dei problemi più gravi è quello delle condotte dell’acqua, che rilasciano metalli. Dai rubinetti esce un liquido arancione. Antonio Arras, segretario provinciale Uspp: "Le segnalazioni non si contano più. L’organico è sottodimensionato, la rete idrica interna inservibile e abbiamo denunciato anche la mancata sistemazione dei cancelli all’ingresso. Come può funzionare un carcere senza guida? Il direttore deve occuparsi di altri due istituti, non c’è il comandante della Polizia penitenziaria". Alessandro Cara, segretario regionale Uspp: "Noi proponiamo un interpello nazionale per integrare l’organico del carcere (con un vincolo di permanenza per 5 anni) e delle misure per favorire il reperimento degli alloggi a Tempio". Luigi Arras, segretario regionale Sinappe: "Il dramma è che non vediamo spiragli, le condizioni di lavoro peggiorano". Erano presenti a Tempio, Vannino Piana, Cnpp, e Michele Cireddu, Uil. Milano: "Dentro a metà", documentario a San Vittore sulla vita dell’agente penitenziario di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 marzo 2016 Il documentario in tre puntate, di cui l’ultima dedicata al carcere milanese, racconta il lavoro degli agenti che prestano servizio nelle carceri, è realizzato dalla Cgil. "Dentro a metà", e forse il titolo dice già molto: è il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria che prestano servizio nelle carceri. Ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette. Ormai come tanti altri, si dirà, dagli infermieri d’ospedale ai cassieri di molti supermarket. Eppure è difficile negare che chiunque lavori dentro un carcere condivida almeno in parte, di fatto, se non la vita certamente il tempo di coloro che è chiamato a "controllare" e la cui condizione principale è riassunta in una definizione prima che in ogni altra: quella di reclusi. Questo documento filmato realizzato dalla Cgil ci accompagna in un piccolo viaggio, guidati dall’ispettore Gianni Mazzarelli, all’interno del carcere di San Vittore. Una terza puntata, dopo quelle già realizzate a Rebibbia e Poggioreale. Alla scoperta di un mondo di cui spesso non si sa nulla - tra turni, carenze di organico, strutture antiche, problemi legati al sovraffollamento, gestione di un universo complesso come una città - e che però è caratterizzato soprattutto da quella cosa che ancora più spesso si dimentica: un lavoro il cui ingrediente principale è cioè il rapporto tra persone, in un contesto di sofferenza che si chiama umanità. E che ovviamente è sempre -per tutti, ma in una prigione più che mai - la sfida più impegnativa da affrontare. San Nicola Baronia (Av): internato scappa dalla Rems e semina il panico in paese di Pasquale Manganiello irpinianews.it, 2 marzo 2016 Scene di panico a San Nicola Baronia (in provincia di Avellino) dove un internato affetto da problemi psichici detenuto in custodia presso la locale Rems, centro inaugurato poche settimane fa, è scappato dalla struttura con l’intento - sembra - di rubare un’auto, suscitando paura e caos tra coloro che si trovavano sul posto intorno alle ore 19 di ieri. L’uomo, sui quarant’anni, si sarebbe trovato di fronte e avrebbe aggredito il consigliere comunale di opposizione al Comune di San Nicola Baronia, Gerardo Capodilupo, che proprio in quel momento si stava dirigendo verso la casa della suocera. Dopo una breve colluttazione il consigliere di minoranza è riuscito a divincolarsi dall’internato, il quale è subito corso, intemperante, verso un’altra vettura entrando all’interno dell’abitacolo. Tutto questo è accaduto nel centro del borgo di San Nicola Baronia, nei pressi del Piano di Zona. La situazione di terrore si è prolungata fino all’arrivo dei vigilanti che lavorano all’interno della Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, le quali, come si evince anche dalle immagini, sono intervenute con veemenza per far ritornare la situazione alla normalità, riconducendo l’uomo nella struttura. "Stavo arrivando in via 4 novembre - dichiara Gerardo Capodilupo - ho visto una persona rivolta verso una casa e mi sono accorto che era in stato confusionale. Mi sono fermato ed ho chiesto se andasse tutto bene: continuava a ripetere frasi sconnesse. All’improvviso è diventato aggressivo, mi ha strattonato e sono stati chiamati i carabinieri. Lui ha svoltato l’angolo, si è infilato in una macchina parcheggiata nei pressi di un’abitazione in un leggero tratto in discesa ed ha tolto il freno a mano. Per fortuna sono riuscito a trattenere la macchina evitando che andasse ad incidentare contro il muro in fondo alla stradina. Dopo qualche minuto è accorso un vigilante della Rems che l’ha fermato. La zona dove è accaduto questo episodio è abitata e frequentata da molti bambini, il che fa pensare quanto sia poco sicuro e pericoloso il fatto che questa struttura sia stata realizzata a due passi dal centro abitato e, in particolare, nei pressi della Scuola". La Rems di San Nicola Baronia è stata inaugurata il 3 dicembre 2015, una struttura con 20 posti letto che ospita utenti psichiatrici autori di reato. Si tratta di una delle prime Rems aperte sul territorio nazionale, dopo quelle del Lazio e della Toscana. Cividale del Friuli (Ud): carceri e giustizia, se ne parla al Lex Fest L’Espresso, 2 marzo 2016 Una kermesse dedicata agli operatori del diritto e al mondo del giornalismo per discutere della condizione carceraria, la comunicazione della giustizia, l’accusa e la difesa di fronte all’opinione pubblica, il rapporto tra giustizia, ambiente e imprese. A Cividale del Friuli dal 4 al 6 marzo. La condizione carceraria, la comunicazione della giustizia, l’accusa e la difesa di fronte all’opinione pubblica, il rapporto tra giustizia, ambiente e imprese, il doppio binario tra i tempi della giustizia e quelli delle imprese e infine il racconto della criminalità organizzata. Saranno questi i temi del Lex Fest 2016, la kermesse nazionale dedicata alla giustizia, agli operatori del diritto e al mondo del giornalismo che si terrà dal 4 al 6 marzo a Cividale del Friuli, Udine. Nella tre giorni di confronti e interviste - rivolta a studenti, magistrati, avvocati e studiosi di diritto - si interrogheranno non solo giuristi ma anche reporter investigativi, che spiegheranno il difficile ma prezioso ruolo dell’informazione applicata alla giustizia. Fra i partecipanti il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, il giornalista de L’Espresso Lirio Abbate, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mario Palma, Il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis, l’ex presidente Anm Luca Palamara, il presidente delle Camere Penali Beniamino Migliucci, il governatore del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani e il direttore del Messaggero Veneto Tommaso Cerno. I lavori saranno trasmessi integralmente da Radio Radicale e accompagnati dal saluto del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il primo tema che verrà affrontato sarà quello sulla condizione delle carceri italiane. Il presidente della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto, davanti al vice capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Massimo De Pascalis, porterà la testimonianza vincente del lavoro dei detenuti. Che, grazie a panettoni e biciclette, sono riusciti a trovare la loro strada verso il riscatto. A dare il loro contributo ci saranno anche gli studenti del convitto nazionale Paolo Diacono, che saranno impegnati in una disputa filosofica sul tema della giustizia. Seguirà l’intervento del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti Mauro Palma, che si focalizzerà su problemi e prospettive dei nostri istituti di pena. La sfida su come "comunicare la giustizia" sarà invece spiegata da Tonia Cartolano di Sky Tg24, Massimo Bordin di Radio Radicale, Piero Sansonetti direttore de Il Dubbio e Alessandro Da Rold di Lettera43. Con loro anche il componente del Csm Luca Palamara, il giudice Luisa Napolitano e l’avvocato Elisabetta Busuito. I tempi della giustizia e i tempi delle imprese saranno invece l’argomento del quale discuteranno, fra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il presidente delle Camere Penali Baniamino Migliucci, il presidente dei Giovani di Confindustria Marco Gay e il presidente della Corte d’Appello di Trieste Oliviero Drigani. A spiegare come il giornalismo di inchiesta debba raccontare la criminalità organizzata - da Cosa Nostra passando per Mafia Capitale - sarà infine l’inviato de l’Espresso Lirio Abbate, autore di numerosissime inchieste che hanno anticipato il lavoro degli inquirenti e che attualmente si trova sotto scorta per le minacce ricevute. L’evento è ideato da Andrea Camaiora, giornalista ed esperto di litigation pr, promosso dal Comune di Cividale e organizzato da Spin, team di comunicazione attivo tra Roma e Milano. Tutti i dibattiti si terranno a Cividale del Friuli, cittadina proclamata patrimonio mondiale dell’Unesco, tra la splendida cornice del Castello Canussio e il Teatro comunale Ristori. Napoli: torneo di calcio in carcere, in campo studenti e detenuti di Liliana Stella Metropolis, 2 marzo 2016 Oggi il quadrangolare organizzato dalla Garante regionale e dal Comune. Si disputerà oggi e domani su un campo da gioco inconsueto. Quello allestito all’interno del carcere di Poggioreale, a dimostrazione che gli interventi di inclusione e reinserimento sociale di chi vive dietro le sbarre possono realizzarsi. Specie se a opera di soggetti che, quotidianamente, sono a stretto contatto con le realtà carcerarie campane. Sarà questo il senso del quadrangolare di calcetto in cui si sfideranno gli studenti dell’ultimo anno delle scuole medie superiori napoletane (i licei Sannazzaro e Genovesi e l’istituto Serra) e i detenuti degli istituti penitenziari di Poggioreale e Secondigliano. L’iniziativa, promossa dal Garante regionale dei detenuti, Adriana Tocco, è stata realizzata in collaborazione con l’assessore all’Istruzione del Comune di Napoli, Annamaria Palmieri, che ha raccolto le adesioni delle scuole e con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, in particolare con il responsabile Claudio Flores, che ha coordinato la partecipazione dei reclusi. L’organizzazione tecnica del torneo si è avvalsa della preziosa collaborazione dell’Uisp (Unione italiana sport per tutti), che fornirà palloni e arbitri. Il match ha come obiettivo principale quello di far comprendere ai giovani il significato reale dell’articolo 27 della Costituzione, per il quale "le persone private della libertà sono cittadini a tutti gli effetti e quindi titolari dei diritti fondamentali non negoziabili e come un pieno reinserimento nella società di chi ha commesso un reato contribuisca alla sicurezza di tutti noi". L’appuntamento è fissato per oggi alle 9.30 presso la casa circondariale di Poggioreale, diretta da Antonio Fullone. Le partite che si giocheranno oggi e domani all’interno del penitenziario sono un’ulteriore prova dell’importanza dei progetti che si mettono in campo a favorf dei detenuti. Progetti nei quali he sempre un ruolo principale la Garante dei detenuti della Campami nell’ottica del coinvolgimento de giovani. E quella del quadrangolare ne è l’ennesima dimostrazione. Sul precipizio di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 2 marzo 2016 La guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi - Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria - ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati. Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato "scusandosi" lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli "Amici della Siria", vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin. I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton, ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi. Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista. Dalle "nostre" guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa. Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato. Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara "pronto". In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo. Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una "guerra agli scafisti". Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati "effetti collaterali". Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno. L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto - anche con i suoi silenzi? - resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico "unitario". È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale. Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano. Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce. Missione in Libia, Italia alla guida di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 marzo 2016 Nord Africa. Secondo l’israeliano Debka File, l’operazione potrebbe partire a fine aprile e sarebbero già in corso addestramenti tra marina egiziana e portaerei De Gaulle. Il Pentagono affida all’Italia la guida della coalizione. L’Occidente si affolla lungo le coste libiche. Aumentano le truppe, aumenta la pressione militare. Dopo le rivelazioni di Le Monde riguardo la partecipazione dei soldati francesi agli scontri via terra a Sabratha e Bengasi, Parigi manda la portaerei De Gaulle di fronte alle spiagge libiche. Lo rivela Debka File, sito di informazione militare israeliano: sarebbero in corso addestramenti congiunti con la marina egiziana, che nel Canale di Suez impiega la fregata Tahya Misr, dotata di sistema missilistico antiaereo. Torna così a galla, prepotentemente, il ruolo del Cairo, burattinaio del generale Haftar e di conseguenza del riottoso parlamento di Tobruk. E all’Italia l’ordine arriva direttamente dal Pentagono: lunedì Ashton Carter ha dato la benedizione alla formazione di una coalizione guidata da Roma che si lanci in una nuova avventura libica. Il segretario alla Difesa Usa ha detto che Washington "appoggerà con forza" l’Italia che "si è offerta di assumere la guida in Libia". Ovvero la guida di una coalizione che intervenga contro l’avanzata dello Stato Islamico e metta in sicurezza i giacimenti petroliferi. Su questo punto Carter ammette le riserve libiche: "Ai libici non piace l’idea di un intervento esterno straniero e che qualcuno entri nel paese per prendersi il petrolio. Ma quando il governo sarà nato, speriamo presto, chiederà l’aiuto internazionale". La conferma è giunta ieri dal ministro degli Esteri Gentiloni: "Il livello di pianificazione e di coordinamento tra i diversi sistemi di difesa su un possibile contributo alla sicurezza della Libia è a un livello molto avanzato che va avanti da parecchie settimane". L’Italia, ha aggiunto, è pronta ad intervenire su richiesta del nuovo governo libico. Richieste ufficiali o meno, siamo già sul piede di guerra: da oltre un mese l’Italia ha messo a disposizione degli Usa la base di Sigonella per lanciare azioni contro l’Isis. Azioni meramente "difensive", specifica il governo di Roma senza spiegare però cosa significhi auto-difesa nel caso di un gruppo jihadista che opera in un altro paese. Così si è giunti, senza autorizzazione né internazionale né tantomeno libica, al raid su Sabratha del 19 febbraio. In più, come spiega al Wall Street Journal il generale Bolduc, comandante delle forze speciali Usa in Africa, a Roma è già stato inaugurato il Centro di Coordinamento della Coalizione. L’operazione è già sul tavolo. Le fonti militari citate da Debka File raccontano di una campagna in fieri e vicina alla sua definizione: "Le navi da guerra egiziane si sono spostate nel Mediterraneo dopo che il presidente francese Hollande e l’egiziano al-Sisi sono avanzati nei piani di attacco congiunto con l’Italia alle postazioni Isis in Libia. I tre poteri si sono accordati per lanciare l’offensiva tra fine aprile e maggio". Intanto la Germania è pronta ad inviare in Tunisia, dice il governo di Tunisi, unità speciali che addestrino le truppe libiche a combattere l’Isis. E, notizia di ieri, la Gran Bretagna ha mandato 20 uomini ad addestrare i militari tunisini alla sorveglianza della frontiera con la Libia e ad impedire sul campo l’infiltrazione di miliziani islamisti. Il fronte Parigi-Roma-Il Cairo potrebbe fare da testa d’ariete dell’intervento occidentale, bramato da molti e in stallo per le difficoltà dei parlamenti di Tobruk e Tripoli a trovare un accordo definitivo sul governo di unità nazionale. A frenare è soprattutto Tobruk, l’esecutivo riconosciuto dalla comunità internazionale, che non ha ancora dato l’ok alla proposta mossa dal premier designato al-Sarraj. Anzi, ieri per la seconda volta in due settimane non si è espresso per mancanza del quorum necessario al voto. Non sono pochi quelli che immaginano che dietro ci sia il boicottaggio del generale Haftar e quindi del Cairo, intenzionati ad ottenere maggiore influenza sul governo che nascerà. Se ad aprire le danze in Libia sarà il cane a tre teste (francese, egiziana italiana), si prefigura un radicamento dello speciale rapporto che lega il nostro paese al generale golpista al-Sisi. A farne le spese potrebbero essere le indagini sulla brutale uccisione di Giulio Regeni, già ostacolate dalle autorità egiziane. Sul piano internazionale le preoccupazioni riguardano il possibile tracollo della Libia se costretta a subire un nuovo intervento internazionale: il primo spazzò via il sistema istituzionale del paese, scoperchiando il vaso di Pandora di poteri tribali, paramilitari, secessionisti, islamisti. E il secondo non promette nulla di buono: difficile che chi ha combinato il pasticcio ora ci metta una pezza. Più probabile che la capacità attrattiva dei gruppi jihadisti trovi nuova linfa e che le svariate autorità che gestiscono un paese a pezzi ostacolino l’accidentato percorso verso la stabilizzazione. Aiuti umanitari e un piano per salvare Schengen, Bruxelles tenta la riscossa di Marco Zatterin La Stampa, 2 marzo 2016 Doppio passo contro la crisi migratoria. La Commissione europea vara stamane la riforma dell’agenzia Echo - il suo ufficio per gli aiuti umanitari - in modo da consentirgli di operare anche all’interno dell’Unione. È una mossa da leggere con attenzione. Indica che si temono disastri anche nel nostro continente. Del resto, secondo la polizia greca, ci sono 27 mila persone ammassate alla frontiera macedone. Se non si risolve il problema, saranno presto di più. E mentre c’è chi usa i lacrimogeni per tenerli a bada, il momento potrebbe diventare disastroso. Così Bruxelles stanzia 700 milioni per tre anni dal bilancio Ue. Ma in assenza di azioni politiche nelle capitali non serviranno a salvarsi la coscienza. La seconda manovra è una comunicazione che mira a riportare la normalità nell’Area Schengen entro l’anno. Con tre ricette: trovare un rimedio condiviso per le serie carenze nella gestione della frontiera greca, con nuovi fondi e risorse umane, aiutando Atene anche a livello umanitario (vedi sopra); archiviare la politica del "lasciar passare" applicando le norme sull’asilo a chi ne ha titolo e allontanando chi non ce l’ha; sostituire l’attuale mosaico di decisioni unilaterali di reintroduzione dei controlli con un approccio coordinato e temporaneo che preluda a un rapido ritorno al contesto ante crisi. È comunque cruciale che la Guardia costiera e di confine europea sia operativa entro settembre. Bruxelles invita gli stati a prepararsi "già adesso" a dislocare le risorse e, al contempo, a rafforzare volontariamente il contributo all’agenzia Frontex, sui cui la "Coast & Border Guard" sarà costruita. Entro il 12 marzo Atene dovrà presentare il suo piano di azione ed entro il 12 maggio bisognerà verificare la tenuta della linea dell’Egeo, programma che - insieme col funzionamento dell’intesa coi turchi per bloccare i flussi - servirà a decidere se autorizzare l’estensione del ripristino delle frontiere in Germania e Austria, cosa che si preferirebbe evitare. Con tutto questo in mente, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, è in tour per tessere la sua tela in vista del Vertice a Ventotto più uno (i turchi) del 7 marzo. Oggi è Zagabria e Skopje. Domani giornata chiave ad Ankara e Atene. Colloqui in corso fra tutte le capitali. Pressing dei tedeschi, soprattutto. Frau Merkel spinge per un’intesa. La solleticano ragioni politiche interne e una certa qual preoccupazione per la tenuta dell’Europa. Qui rischia di crollare tutto, non solo la solidarietà uccisa dall’effetto domino scatenato dal ripristino dei controlli alle frontiere. Il costo per noi tutti potrebbe essere incommensurabile. Quello per l’Area Schengen è già calcolato, almeno in bozza. La Commissione diffonde stamane un quadro organico del conto da pagare per la perdita della libera circolazione nello spazio europeo. La bozza parla di costi diretti compresi fra i 7 e i 18 miliardi l’anno, tre e mezzo dei quali sarebbero solo per gli extra oneri del trasporto stradale. Paesi come Germania, Olanda e Polonia - da soli - avrebbero maggiori spese per 500 milioni, con impatto speciale nei settori dove i margini sono più ridotti. Gli 1,7 milioni di pendolari transfrontalieri si ritroverebbero fra i 2,5 e i 4,5 miliardi di aggravio per colpa del tempo perso alla frontiera. Potrebbero inoltre essere perse 13 milioni di notti passate dai turisti negli alberghi europei, con 1,2 miliardi di perdita per il comparto alberghiero. Infine, si dovrebbe aggiungere almeno 1,1 miliardi di esborsi amministrativi per ripristinare la vigilanza alle frontiere. Posto che, alla lunga, la bolletta potrebbe diventare ancora più salata. A parte credere o no nell’Europa, conviene davvero? Migranti: la Ue vara piano umanitario di 700 milioni per la Grecia di Alberto D’Argenio La Repubblica, 2 marzo 2016 I fondi distribuiti in tre anni "a favore dei paesi che si trovano in emergenza per la crisi profughi". Il via domani. Parte dei finanziamenti andrà direttamente ad Atene, la fetta più grossa alle Ong presenti sul territorio. È pronto il piano di aiuti umanitari europeo in favore della Grecia. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale viene approntato un intervento urgente per evitare una vera e propria tragedia umanitaria in territorio europeo. Il piano verrà approvato domani dalla Commissione e porterà la firma del presidente Jean-Claude Juncker e del responsabile agli Aiuti umanitari, il cipriota Christos Stylianidis. Prevede settecento milioni in tre anni in favore dei Paesi che si trovano in emergenza per la crisi migranti. Il testo non cita direttamente la Grecia ma è chiaro che la gran parte dei soldi saranno diretti proprio ad Atene. Tanto che la bozza di decisione di Bruxelles parla chiaramente di destinare gli aiuti a paesi che già stanno affrontando una grave crisi economica che potrebbe peggiorare vista la situazione dei migranti. Solo parte dei fondi andrà direttamente al governo Tsipras per finanziare specifici programmi di assistenza, il grosso sarà versato all’Onu e alle altre Ong presenti sul territorio greco. La necessità di un piano di aiuti alla Grecia era stata evocata dai capi di Stato e di governo durante il summit europeo del 19 febbraio a Bruxelles. La Commissione ha proceduto d’urgenza e domani approverà il testo. Da gennaio 2015 sono arrivati più di 1,1 milioni di richiedenti asilo in territorio europeo. La Grecia è diventata un vero e proprio hub dei migranti che per mesi hanno attraversato l’Egeo in arrivo dalla Turchia, sono sbarcati sulle isole greche e una volta raggiunta la penisola ellenica si sono incamminati sulla rotta balcanica diretti verso Austria, Germania o Svezia. Poi le limitazioni a Schengen, i controlli, le barriere, le quote di ingresso e infine la Macedonia che ha chiuso il confine Sud. E i migranti che sono rimasti intrappolati in Grecia. Che da inizio 2016 ha già accolto 111mila persone. Con la situazione che da qui a qualche mese può solo peggiorare se la penisola ellenica verrà sigillata del tutto fuori da Schengen. Per questo Bruxelles ritiene che l’Unione per la prima volta nella sua storia debba affrontare una situazione dalle conseguenze umanitarie catastrofiche all’interno del suo territorio. Tanto che l’Europa non ha uno strumento adatto a rispondere alla situazione. Per questo domani verrà istituito un nuovo Meccanismo europeo per gestire la crisi. Per partire serviranno 300 milioni nel 2016 e 200 rispettivamente nel 2017 e 2018. I soldi verranno raschiati da altre voci del bilancio comunitario e andranno alle organizzazioni specializzate che già operano in Grecia: Unhcr, Croce Rossa e altre Ong. Serviranno per aumentare la capienza delle strutture di accoglienza, aprirne di nuove, pagare i voucher degli hotel dove è ospitata parte dei migranti. E ancora, operazioni per salvare vite umane, alleviare le sofferenze e salvaguardare la dignità umana con programmi di educazione, servizi, acqua, medicinali e programmi sanitari. Con la primavera alle porte e i flussi destinati ad aumentare, Bruxelles chiederà ai governi di dare rapidamente il via libera al piano per poter intervenire il prima possibile. A quegli stessi governi, a partire da quelli dell’Est, che con il loro egoismo hanno impedito all’Unione una gestione comune della crisi facendo vacillare Schengen e portando allo stremo la Grecia. Certo il sì dei paesi guidati da un esecutivo socialista, visto che il Pse da tempo spinge per aiutare Atene con il capogruppo a Strasburgo Gianni Pittella che ancora oggi ha chiesto un "intervento umanitario urgente" per la Grecia. Tsipras: "Greci volto umano della Ue, ora solidarietà o sarà la fine" di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 2 marzo 2016 Il leader di Atene richiama agli impegni condivisi. E propone un dialogo tra i progressisti. È la più grave crisi migratoria in Occidente dalla Seconda guerra mondiale. Oggi la Commissione europea presenta un piano d’emergenza per le operazioni di soccorso con una proposta di finanziamenti per 700 milioni di euro da destinare ai Paesi più esposti su un arco di tre anni. La prima linea è la Grecia di Alexis Tsipras. Primo ministro Tsipras, dopo l’inasprimento dei controlli e la chiusura dei confini lungo la rotta balcanica ha dichiarato che il suo Paese non può diventare un "deposito d’anime". In Grecia l’Europa si gioca l’anima? "In una crisi di dimensioni umanitarie la Grecia e il popolo greco rivelano il volto umano dell’Europa. E lo fanno di fronte a un’Unione che chiude le frontiere, dove crescono la xenofobia e la retorica intollerante dell’estrema destra. La Grecia è il territorio nel quale l’Europa confermerà i suoi principi e valori fondanti, come l’umanesimo e la solidarietà, o li tradirà. Sono convinto che non possa esistere un’Europa unita senza il rispetto assoluto per le lotte e i valori comuni, ma anche per le responsabilità e gli impegni condivisi. Dobbiamo affrontare insieme le difficoltà. Tutti insieme riusciremo, o tutti insieme falliremo". Vienna rimprovera ad Atene "mancanza di volontà politica per ridurre il flusso". Il suo governo chiede che l’onere dell’accoglienza sia equamente ripartito tra le capitali, in un contesto dove si procede in ordine sparso e Paesi come la Grecia, già stremata dalla crisi economica, restano penalizzati dal sistema di Dublino che assegna allo Stato di primo ingresso il compito di curare le domande d’asilo. Cosa impedisce il decollo di una strategia coordinata? "Noi non pretendiamo nulla più della solidarietà, che è un principio fondamentale dell’Unione Europea. Esigiamo che sia condivisa dagli Stati la gestione di una crisi che è superiore alle nostre forze. Dobbiamo passare a un impegno vincolante di tutti e per tutti, orientato alla ripartizione obbligatoria della responsabilità dei flussi, in proporzione - sottolineo - alle rispettive capacità. Perché l’Unione non può essere costruita su una logica che prevede regole per alcuni e solo benefici per altri, una logica profondamente anti-europea, in netto contrasto con il principio dell’integrazione. È impensabile che Paesi che non hanno accettato di accogliere nemmeno un profugo puntino il dito contro di noi. Riguardo alle accuse di non fare quanto dobbiamo sulle frontiere marittime, le considero un pretesto per giustificare azioni unilaterali che violano decisioni europee assunte collegialmente. Su Dublino, penso che sia ormai chiaro e accettato da tutti gli Stati che la sua riforma è necessaria. Inoltre è stupefacente dover ricordare così di frequente l’obbligo di rispettare il diritto internazionale ed europeo. Quando ci sono persone che rischiano la vita in acque greche, vale a dire europee, la Guardia costiera è obbligata al soccorso". In concreto, come evitare le morti nell’Egeo? "Dobbiamo individuare e reprimere il circuito dei trafficanti che agisce sulla costa turca. In questo ambito rafforziamo la collaborazione con Ankara. Sosteniamo con fermezza il piano d’azione Ue-Turchia e abbiamo concordato il supporto delle forze Nato per gestire la situazione. Speriamo che queste misure nonché il cessate il fuoco in Siria contribuiscano alla riduzione degli sbarchi". In Europa i confini tornano linee di frattura in un generale rimescolamento di alleanze, dall’asse Berlino-Atene al blocco centro-orientale all’intesa Austria-Balcani. Italia e Grecia affrontano crisi incrociate. È immaginabile un compattamento del fronte mediterraneo sul doppio fronte dell’immigrazione e della flessibilità economica? "Le alleanze non devono servire ad approfondire le contrapposizioni. Ora vedo la possibilità di una stretta vicinanza politica tra Grecia e Italia, perché condividiamo rivendicazioni e inquietudini. Abbiamo una visione comune. Credo che sul tema dell’equa ripartizione dei migranti ci sarà una buona collaborazione. Non intendo però sovrapporre le crisi facendo leva sull’emergenza migranti per ottenere flessibilità, non è il mio obiettivo". Vede la necessità di un diverso approccio delle forze della sinistra europea? "Chi deve cambiare approccio è l’Europa. Il linguaggio dell’odio trova terreno fertile perché negli ultimi anni hanno prevalso politiche di austerità che hanno generato povertà ed emarginazione. Ma per cambiare questo, occorre modificare gli equilibri politici. Quello che viviamo oggi è un conflitto di idee, tra progressisti e conservatori, tra la Sinistra e la Destra. A mio avviso, la Sinistra è in prima linea nella difesa dei valori europei di democrazia, giustizia e coesione sociale e costituisce l’unica valida alternativa alla destra estrema e populista. Ma è necessario che tutte le forze progressiste, indipendentemente dalla famiglia politica alla quale appartengono, comincino un vero dialogo per riportare l’Unione a questi principi. Credo che noi, i progressisti europei, possiamo ritrovare un’andatura comune verso un obiettivo comune: erigere un muro contro chi alza muri e divide l’Europa". Protezione internazionale, valanga di ricorsi di Gabriele Ventura Italia Oggi, 2 marzo 2016 In arrivo un conto salato per lo stato dal diniego di protezione internazionale verso i cittadini extracomunitari. Le oltre 40 mila istanze rigettate nel 2015, ben 27 mila in più rispetto al 2014, rischiano infatti di finire per buona parte sui banchi dei tribunali italiani: alimentando ulteriormente il contenzioso civile da un lato e pesando sulle casse dello stato dall’altro. Sì, perché i ricorsi vengono presentati sistematicamente tramite lo strumento del gratuito patrocinio a spese dello stato. E considerando che la parcella dell’avvocato, per questo tipo di attività, si attesta di base sulle 600 euro (una nota del Tribunale di Milano determina un range tra i 650 e i 900 euro a seconda dell’attività svolta), la spesa per lo stato potrebbe superare i 10 milioni di euro l’anno solo in avvocati. La prova di questo nuovo filone di contenzioso arriva dai numeri "monstre" denunciati dalla maggior parte degli ordini degli avvocati nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario, riguardo le istanze di ammissione per la protezione internazionale, che da sole hanno fatto salire le richieste totali di gratuito patrocinio almeno del 30% e spesso più del 50%. Solo a Milano, nel 2015, le istanze per ricorsi contro il rigetto della domanda di asilo sono state 1.532, cinque volte superiori alle 390 del 2014. E in questi primi due mesi del 2016 siamo già a quota 500. Se si pensa che, in totale, le richieste di ammissione al patrocinio ricevute dal Coa di Milano sono salite del 40% nel 2015, passando da 4.404 a 6.171, si capisce il peso decisivo dei ricorsi contro il diniego di protezione internazionale. Non è da meno l’ordine di Bologna, dove le pratiche di immigrazione si sono più che triplicate, passando dalle 303 (su 1.390 istanze di ammissione) del 2014 alle 949 (su 2.685) del 2015. Ma andiamo con ordine, a partire dai dati nazionali per poi vedere l’impatto in termini di nuovo contenzioso. I dati nazionali. Consultando gli ultimi dati Eurostat sulle istanze di asilo presentate dai cittadini extracomunitari allo stato italiano ci si rende conto della portata del fenomeno: nel 2015 l’Italia ha rigettato 41.730 istanze a fronte di 71.345 domande esaminate, seconda solo alla Germania in Europa, che ne ha rigettate 108.370 esaminandone però 249.280. Nel 2014, i dinieghi dell’Italia erano invece a quota 14.600 e nel 2013 addirittura 9.175. I dati dei Coa. Dalle relazioni dei presidenti degli ordini degli avvocati in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario si evince un filo comune: il grande aumento delle istanze di gratuito patrocinio, dovuto in particolar modo al ramo della protezione internazionale. L’ordine di Ancona è passato dalle 905 istanze pervenute nel 2014 alle 1.663 nel 2015. Il Coa di Genova ha esaminato 2.218 istanze nel 2015, 1.601 da cittadini italiani e 617 da cittadini stranieri, in aumento rispetto al 2014 di quasi il 30% (518 unità). L’ordine di Reggio Calabria ha ricevuto negli ultimi mesi "ben 411 pratiche per la concessione del patrocinio legale a spese dello stato per azioni di tutela in sede giurisdizionale ordinaria contro provvedimenti di non accoglimento di istanze di asilo politico". Il Coa di Roma non ha ancora a disposizione i dati del 2015 ma nel 2014 ha gestito circa tre mila istanze di ammissione riguardanti la protezione internazionale e ipotizza, per il 2015, "un deciso incremento soprattutto per le istanze pervenute in favore di stranieri". L’ordine di Torino ha esaminato oltre 5 mila domande, lamentando l’onere di "un’attività molto complessa e costosa per l’ordine, un’attività che va dalla informativa allo sportello, alla completa istruttoria, alla deliberazione in Consiglio e alla comunicazione alle parti interessate". L’ordine di Trieste ha ricevuto invece 1.376 domande di ammissione al gratuito patrocinio nel 2015 mentre il Coa di Venezia è passato dalle 1.142 istanze del 2014 alle 2.086 del 2015. "Ben 814, pari al 39% del totale, sono costituite dalle istanze relative ai ricorsi presentati avverso i provvedimenti di diniego di protezione internazionale dalle persone provenienti da paesi extracomunitari". Le associazioni del Tavolo Asilo: "illegali gli hot spot e i respingimenti differiti" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 2 marzo 2016 Pochi interpreti, discriminazioni in base alla nazionalità: la denuncia delle Ong del Tavolo asilo. Luigi Manconi, Filippo Miraglia e Christopher Hein in conferenza stampa al Senato chiedono al governo investimenti per l’accoglienza e rispetto dei diritti umani. "Cerchi lavoro?", è la domanda trabocchetto. L’immigrato appena salvato dal barcone deve barrare in fretta il foglio precompilato con le domande, scritto in italiano, letto in fretta in italiano da un funzionario di polizia, con qualche breve tentativo di spiegazione, soprattutto su quella domanda esiziale. Nessuno o quasi dice di no, non vuole protezione gratis, pane senza lavoro. E via, classificato come "migrante economico", anche se la categoria non esiste in nessuna legge e anzi una circolare del Viminale vieta alla polizia espressamente di operare questo supposto discrimine per escludere dalla procedura per lo status di rifugiato. Secondo le associazioni riunite sotto la sigla "Tavolo nazionale asilo" - ieri in conferenza stampa nella sala Nassiriya del Senato - è questa una delle modalità di respingimenti arbitrari che vengono praticate negli hot spot, le strutture che l’agenda della Commissione europea chiede all’Italia e alla Grecia di implementare al più presto per controllare e selezionare gli arrivi nelle frontiere esterne dell’Ue. Secondo le ong del Tavolo(incluse Sant’Egidio, Acli, Centro Astalli, Caritas e altre), che hanno monitorato negli ultimi quattro mesi il funzionamento dei primi tre hot spot in funzione (Lampedusa, Pozzallo e Trapani) insieme al presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani Luigi Manconi e al presidente emerito del Consiglio europeo dei rifugiati Christopher Hein, queste strutture sono "il perno di un sistema di discriminazione suggerito dall’Europa ma illegale". Alla fine è la nazionalità a decidere: se sei "Sia" o non sei "Sia" - la sigla viene usata dalle guardie di frontiera macedoni per indicare chi viene da Siria, Iraq e Afghanistan e ha maggior possibilità di vedersi riconoscere l’asilo in Germania, e tutti gli altri, "migranti economici" da respingere. Anche la polizia italiana divide i migranti in base alla nazionalità, anche se da noi questa selezione non ha alcun senso, l’Italia - in coerenza con le sue leggi - non ha adottato neanche una lista di paesi considerati sicuri di provenienza. E poi, come ricorda Hein, oltre alla Convenzione internazionale di Ginevra del 1951 anche il testo unico sull’immigrazione chiarisce senza ombra di dubbio che si deve valutare la posizione del singolo richiedente asilo che fugge da una situazione personale di rischio per persecuzioni e situazioni violente all’interno di una comunità, una nazione o un clan familiare. Sono 1.200 attualmente le persone che si trovano negli hot spot italiani e tra poche settimane dovrebbero raggiungere i 2.100 per l’entrata in funzione di altri tre centri (Porto Empedocle, Augusta e Taranto). Più altri hot spot che potrebbero aggiungersi nei prossimi mesi in Puglia se, sigillata la rotta balcanica, i profughi dalla Grecia si dovessero aprire una strada verso il Nord Europa dall’Albania attraverso l’Adriatico. Finora la rotta del Mediterraneo centrale riguarda pochi siriani o iracheni e in maggioranza africani. A parte gli eritrei, che hanno buone possibilità di ottenere il modulo 3C per l’asilo, la maggior parte vengono raggiunti, una volta compilato il foglio notizie precompilato della polizia, da un provvedimento di "respingimento differito" non dissimile dal vecchio foglio di via: obbligo di lasciare l’Italia entro 7 giorni dall’aeroporto di Fiumicino. "Naturalmente non si dice con quali soldi e con quali documenti", precisa il vice presidente dell’Arci Filippo Miraglia. Molti di questi giovani non trovano altra via che finire sotto traccia, fuori dalla legalità, alcuni anche minorenni, come quelli che l’Arci di Palermo ha trovato a vagabondare per le strade. Ragazzini del Gambia, del Senegal, della Nigeria che ieri, riuniti dal circolo Colpo Grosso di Palermo hanno parlato in videoconferenza al Senato, raccontando in un inglese molto incerto la loro odissea. "Investire su interpreti e mediatori culturali - fanno presente Miraglia e Manconi - sarebbe un risparmio per lo Stato, eviterebbe i costi di ricorsi e di una integrazione più difficile". Eutanasia, lettera all’Istat "la Camera dei deputati conosca la verità sui suicidi dei malati" Public Policy, 2 marzo 2016 La richiesta di Castellina, Rapaccini, Lizzani e Troilo. "L’Istat renda noti alla Camera dei deputati - che inizia l’esame delle proposte di legge sulla eutanasia - i dati da cui risulta che per più di 1.000 degli oltre 3mila suicidi che ogni anno si registrano in Italia il movente è la malattia, fisica o psichica: il che dimostra che se per questi malati esistesse l’alternativa della eutanasia, gran parte dei 1.000 suicidi sarebbe evitabile". È quanto chiedono al presidente dell’Istat Giorgio Alleva, in una lettera aperta, le compagne di Lucio Magri (Luciana Castellina) e di Mario Monicelli (Chiara Rapaccini), il figlio di Carlo Lizzani, Francesco e il dirigente della Associazione Luca Coscioni Carlo Troilo, in memoria del fratello Michele. Gli autori della lettera non condividono la motivazione della decisione dell’Istat (evitare l’effetto di emulazione dei suicidi) e ritengono "essenziale" che i parlamentari conoscano questi dati "nel momento in cui iniziano la discussione su un tema delicato e controverso - la legalizzazione della eutanasia - che comunque incontra il favore del 70% degli italiani". La lettera - Egregio Presidente, domani inizierà alla Camera, presso le commissioni Giustizia e Affari sociali, l’esame delle varie proposte di legge in tema di scelte di fine vita presentate in questi ultimi anni, fra cui quella di iniziativa popolare depositata nel settembre del 2013 dalla Associazione Luca Coscioni, con 67mila firme di cittadini/elettori: una proposta che noi abbiamo pubblicamente sostenuto, anche in considerazione delle drammatiche scelte di fine vita di persone a noi care. I presentatori di questa proposta di legge ritengono che l’impossibilità di ricorrere legalmente alla eutanasia abbia come conseguenza, in molti casi, la decisione di cercare nel suicidio una "uscita di sicurezza". Questa convinzione trova una base di comprovata autorevolezza nelle tabelle dell’Istat sui suicidi in Italia, che fino al 2009 fornivano, assieme ad altre voci (maschi e femmine, Nord e Sud, livello culturale, mezzi di esecuzione), anche quella relativa al movente. Dalla voce "movente" risultava - arrotondando le cifre - che su poco più di 3.000 suicidi l’anno, per oltre 1.000 il movente erano le "malattie" (fisiche o psichiche): più delle "morti bianche" dei lavoratori, che giustamente suscitano nel Paese dolore e riprovazione. Un rapporto quantitativo molto simile si registrava per i tentativi di suicidio (più di 3.000), dovuti anch’essi, in oltre 1.000 casi, al movente "malattie". La lettera prosegue: a partire dalle tabelle relative al 2010, l’Istat ha però deciso di eliminare la voce "movente". In una nota dell’agosto 2012 ("I suicidi in Italia: tendenze e confronti, come usare le statistiche") l’Istituto, partendo da "linee guida" dell’OMS, sottolinea la forza del fattore emulativo nel caso dei suicidi e raccomanda la massima cautela nella diffusione dei dati. Ci chiediamo, se questa è la ratio della decisione, se non sarebbe stato opportuno eliminare semmai la voce "modalità di esecuzione", che per la sua obiettiva brutalità può più facilmente provocare fenomeni emulativi rispetto alla voce "movente". E proprio in questa direzione ci sembra orientato uno studio recente dell’Oms, che raccomanda "responsible reporting of suicide in the media, such as avoiding language that sensationalizes suicide and avoiding explicit description of methods (=mezzi di esecuzione) used". È comunque un dato di fatto che i deputati si troveranno ora privi della sola serie di dati che consentiva di ragionare non in astratto su una ipotesi che a noi, non "addetti ai lavori", sembra comunque degna di valutazione: quella secondo cui circa un terzo dei suicidi potrebbe essere evitato se vi fosse, per i malati, l’alternativa della eutanasia o del suicidio assistito, che consentono una "morte degna" anziché quella "indegna" e atroce di chi è costretto a gettarsi nel vuoto o ad impiccarsi, per citare due delle "modalità di esecuzione" che sono in testa alla graduatoria dell’Istat. Comunque la si pensi nel merito delle soluzioni legislative, ci sembra evidente l’importanza di disporre di dati obiettivi di valutazione, anche se in una minoranza di casi (ma non, ad esempio, in quelli riguardanti le persone a noi care) si può avere qualche incertezza nella valutazione della motivazione al suicidio. Per queste ragioni, Le saremmo veramente grati se volesse consentire ai membri della Camera di conoscere, con le modalità e per il tramite che Ella riterrà opportuni, i dati degli ultimi anni sui moventi dei suicidi, che certamente i Suoi uffici hanno continuato a raccogliere. In attesa di un Suo cortese cenno di riscontro, La ringraziamo e La salutiamo con viva cordialità. Luciana Castellina, Chiara Rapaccini, Franceso Lizzani, Carlo Troilo. Onu e droghe, appuntamento con le Ong di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 2 marzo 2016 Su stimolo della Civil Society Forum on Drugs (l’organismo di interlocuzione tra l’associazionismo impegnato nel settore e la Commissione Europea), l’Unione Europea ha chiesto ai singoli Stati membri di consultare la società civile in previsione della imminente scadenza della sessione speciale dell’Assemblea Generale Onu (Ungass 2016) sulla strategia di contrasto alle droghe (New York,19-21 Aprile 2016). La richiesta di un gruppo rappresentativo di associazioni italiane, riunite nel Cartello di Genova "Sulle orme di don Gallo", che, per tutto il 2015, ha insistito col Governo italiano per ottenere l’incontro di consultazione, ha trovato risposta nella responsabile del Dipartimento antidroga della Presidenza del Consiglio, dott.ssa Patrizia De Rose, che è riuscita nell’organizzazione dell’iniziativa, prevista per venerdì 4 marzo dalle 9.30 alle 17.30 presso la Sala Polifunzionale di Via di Santa Maria in Via 37. Saranno presenti, nel garantire la robustezza dell’impegno istituzionale: Mario Giro,Vice Ministro agli Affari Esteri; Vito De Filippo, sottosegretario del Ministero della Salute; Gennaro Migliore, sottosegretario del Ministero della Giustizia; Giuseppe Sean Coppola, Consigliere della Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite di Vienna, Stefano Berterame dell’Incd (International Narcotics Control Board), Gilberto Gerra dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime). Il Cartello, tramite i rappresentanti delle associazioni che lo compongono, chiederà che il Governo Italiano sostenga l’appello di Bank Ki Moon, perché l’anticipata sessione speciale dell’Onu sulle politiche sulle droghe 2016, richiesta con urgenza da alcuni Stati latino-americani per l’insostenibile situazione creatasi al loro interno, costituisca l’occasione "per un dibattito intellettualmente onesto e aperto a tutto campo". Si intende evitare il rischio che l’avvenimento venga invece ingessato nelle maglie delle procedure e dei rituali tradizionali, con concessioni e chiusure già pre-pilotate, come purtroppo la "zero draft", la bozza del documento base finale per la discussione, lascia già in parte intravedere. Al Governo Italiano si suggerisce di assumere una posizione che faccia leva: - sull’affermazione dei diritti umani, che le attuali politiche mondiali sulle droghe mettono a repentaglio nelle varie parti del mondo,sia per i coltivatori che per i consumatori; - sulla riconsiderazione della priorità dell’approccio penale, per l’ormai ampia evidenza della prevalenza delle conseguenze negative della rigidità di tale approccio, ampiamente dimostrate, anche in Italia, dai nove anni di applicazione della Fini-Giovanardi; - sulla necessità di riequilibrare la spesa a favore degli interventi sanitari e sociali, partendo dalla decriminalizzazione dell’uso personale di droga e dal principio della proporzionalità delle pene, focalizzandosi sulla priorità della cura della salute e sugli indispensabili interventi di riduzione dei danni. L’incontro di consultazione di venerdì prossimo costituisce anche, da parte del mondo associativo che a vario titolo si occupa di "droga", la prima interlocuzione diretta col Governo dopo l’abrogazione, ad opera della Corte Costituzionale, degli articoli più repressivi della legge Fini- Giovanardi. Ci si augura che il confronto possa proseguire per giungere all’auspicata Conferenza Nazionale, in debito da sette anni, e fortemente richiesta da tutti gli operatori del settore. *portavoce del Cartello di Genova, Presidente onorario Gruppo Abele Egitto: verità e dignità su Regeni, richiamiamo il team in Italia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 marzo 2016 Serve un segnale chiaro e forte per far comprendere che non si può più tergiversare, contro i depistaggi e le versioni oltraggiose che hanno segnato questi trenta giorni. Nell’appello pubblico che Irene Regeni ha rivolto qualche giorno fa c’è una frase che colpisce più delle altre. Perché in questa disperata ricerca della verità, la sorella di Giulio ha esortato tutti ad "appendere striscioni, condividere le foto". E poi ha chiesto di farlo per lui, per la sua famiglia, ma soprattutto "per il mondo intero". Ecco, è proprio questa la posizione che il governo italiano dovrebbe fare propria per sapere chi ha catturato lo studente in una strada del Cairo e poi lo ha tenuto segregato per giorni, seviziandolo fino a farlo morire. Per scoprire quali mani esperte abbiano infierito sul suo corpo e quali menti abbiano creduto di poter umiliare la sua memoria facendo ritrovare il suo cadavere seminudo in un fossato. Pretendere la reale ricostruzione dei fatti e così conoscere i nomi degli assassini di Giulio Regeni non è una questione che investe esclusivamente i rapporti tra Italia ed Egitto. È un problema che riguarda "il mondo intero", come del resto si è capito con le prese di posizione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna quando hanno "mostrato attenzione alle indagini in corso". Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto esplicitamente di non volersi "accontentare di una verità artificiale e raccogliticcia" spiegando che "non c’è verità di comodo, non c’è business, non c’è diplomazia che tenga". Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha dichiarato più volte, ribadendolo anche ieri, che "il nostro Paese farà rispettare la propria dignità". Quella delineata dal titolare della Farnesina è una strada dalla quale non si può tornare indietro. Se davvero si vuole mantenere la dignità, non è consentito alcun cedimento rispetto a questa posizione. Entro qualche settimana il nostro Paese potrebbe trovarsi in prima linea nelle operazioni militari in Libia, addirittura assumere il Comando della coalizione impegnata in una missione antiterrorismo dai rischi altissimi. Il ruolo che in questa partita gioca l’Egitto è noto, perché il presidente Abdel Fattah al Sisi si è schierato - almeno pubblicamente - contro i fondamentalisti dell’Isis e al fianco dell’Occidente. Ma questo non è un motivo sufficiente per pensare che l’Italia possa arretrare rispetto alla richiesta di verità, tantomeno che una mossa diplomatica forte possa minare irrimediabilmente il rapporto tra i due Stati. Anzi. Soltanto se riusciremo a tenere un atteggiamento deciso, saremo credibili rispetto a tutti gli altri governi, a quel "mondo intero" di cui ha parlato Irene Regeni. Un mese è trascorso da quando il corpo di suo fratello è stato fatto ritrovare. Pochi giorni dopo l’Italia ha inviato al Cairo un gruppo di investigatori per collaborare con le autorità locali, seguire le indagini, partecipare a controlli e verifiche. Per questo bisogna "richiamarli", farli rientrare al più presto a Roma. Sarebbe un primo segnale, efficace, per far comprendere che non si può più tergiversare. Di fronte ai depistaggi che hanno segnato questi trenta giorni, alle versioni oltraggiose offerte per tentare di chiudere la vicenda, l’Italia deve lanciare un messaggio preciso. E il "ritiro" della squadra investigativa sarebbe la dimostrazione che il tempo è davvero scaduto, soprattutto servirebbe a far comprendere che non possiamo partecipare (neanche da testimoni) ad alcuna messinscena. È un atto che si deve alla famiglia di Giulio, alla dignità del nostro Paese e al "mondo intero". Egitto: i depistaggi di Abdel Ghaffar, l’ex uomo forte dei servizi segreti di Carlo Bonini La Repubblica, 2 marzo 2016 Ha scalato l’intelligence servendo tutti i presidenti. Chi è il capo degli Interni che già nel 2012 accusava la American Univesity di attività sospette. Chi sta lavorando al sistematico occultamento della verità sulla morte di Giulio Regeni? Quale mano, quale apparato sta intossicando da un mese a questa parte ogni potenziale traccia, indizio, testimonianza, evidenza documentale in grado di mettere l’indagine su un giusto binario? Le smentite con cui i ministeri di Giustizia e Interno egiziani aggrediscono l’ultimo leak sugli esiti dell’autopsia effettuata al Cairo sul corpo di Giulio Regeni, nel provare ad annichilire quanto lascia filtrare e accredita la procura di Giza, documentano in modo nitido quale infernale scontro di apparati si stia consumando da quattro settimane all’interno del Regime. Soprattutto, ripropongono, inconfondibili, le stimmate di Magdi Abdel Ghaffar. Il ministro dell’Interno. L’uomo che, in questa vicenda, sta giocando un esiziale ruolo di depistaggio, manipolazione, dissimulazione. Che ha trasformato un’indagine per individuare i responsabili di un omicidio in un’inchiesta sulla vittima di quell’omicidio. Sul suo lavoro di ricercatore, sul contesto accademico in cui veniva svolto (l’American University del Cairo), sulla sua rete di amicizie, frequentazioni, tali da poter accreditare un calunnioso movente comune ("delitto a sfondo omosessuale", ovvero "vendetta per fatti di droga"). Del resto, che Magdi Abdel Ghaffar, della partita cominciata il pomeriggio del 3 febbraio con il ritrovamento del cadavere di Regeni, sia non tanto una variabile quanto il key player è nella sequenza delle mosse che, dal primo istante, devono soffocare sul nascere il protagonismo "inatteso" di Ahmed Nagi, il procuratore capo di Giza. Il magistrato che, per primo, parla di "evidenti torture", di "morte lenta" e che quindi denuncia la "scomparsa del cellulare" di Giulio, contribuendo ad accreditare la cornice che rende prima plausibile e quindi evidente il movente politico dell’omicidio. È il ministro Magdi Abdel Ghaffar che, nei giorni in cui Giulio è ancora ufficialmente uno "scomparso", si rifiuta di incontrare il nostro ambasciatore al Cairo. È lui che confeziona la prima, oltraggiosa, versione della "morte per incidente stradale". È lui che sistematicamente indirizza e orienta le domande che la polizia giudiziaria egiziana pone a oltre venti testimoni sulle inclinazioni sessuali di Giulio, sul tipo di ricerca che conduceva. È lui che lascia filtrare ai quotidiani del Cairo la notizia che, "sfortunatamente", le immagini registrate dalle telecamere a circuito chiuso nella zona di Dokki dove Giulio è stato sequestrato la sera del 25 gennaio "non sono più disponibili" perché automaticamente cancellate dalla memoria degli apparati. Salvo omettere di chiarire le ragioni per le quali nell’acquisizione di quelle immagini si siano persi almeno dieci giorni. Ed è ancora lui, il ministro, che ha piazzato nella procura di Giza il generale Khaled Shalaby, capo della polizia giudiziaria, ufficiale con una condanna per tortura alle spalle che deve accompagnare l’indagine ad approdi innocui per il Regime. C’è evidentemente del metodo e qualcosa di più di un indizio nelle mosse del ministro Ghaffar. Ed entrambi hanno che fare con la sua storia, con gli apparati di cui è figlio, e - singolare coincidenza - con un conto aperto con la American University del Cairo. Scelto da Al Sisi nel marzo del 2015 come ministro dell’Interno, Ghaffar, 63 anni, ha infatti trascorso trent’anni di vita e carriera nella Sicurezza dello Stato, il Servizio segreto interno del Paese, di cui, tra il 1977 e il 2012 scala l’intera catena gerarchica, fino a diventarne direttore. Nel Servizio, Ghaffar è uomo di tutte le stagioni e servitore di tutti i padroni. Con Mubarak è direttore della divisione antiterrorismo del Cairo e, nel 2011, quando Mubarak viene rovesciato dalla rivolta di piazza Tahrir, diventa vicedirettore di un Servizio cui la rivoluzione ha nel frattempo imposto un cambio di nome (da Sicurezza dello Stato ad Agenzia per la sicurezza nazionale), senza per questo riuscire a modificarne i metodi. Ghaffar è l’uomo della "continuità". E, infatti, del Servizio diventa direttore nel dicembre del 2011. In pubblico, l’uomo racconta di un "nuovo Servizio" che avrebbe dismesso i suoi abusi. Di fatto, Ghaffar è il figlio legittimo di quella stessa cultura paranoica che condannerà a morte Regeni. E la prova - singolarmente - è nell’obiettivo che, nel 2012, da direttore del Servizio, indica al Paese come "nemico interno". L’American University del Cairo. L’università cui Giulio Regeni si appoggerà come ricercatore per il suo dottorato. L’8 aprile di quel 2012, intervistato dal giornale kuwaitiano Al Jareeda, Ghaffar denuncia infatti l’università americana come "luogo impegnato in attività sospette, potenzialmente in grado di minacciare la sicurezza e la stabilità dell’Egitto". Di più, la indica come la "mandante di manifestazioni violente che si sono tenute al Cairo" e "sostenitrice morale, finanziaria e intellettuale dell’agenda di Paesi stranieri". Cosa è cambiato da allora nelle valutazioni di Ghaffar? È lui l’uomo che avrà l’ultima parola nell’indicare gli assassini di un ricercatore dell’American University? Gran Bretagna: "migranti detenuti per periodi troppo lunghi, fra sudiciume e scarafaggi" Ansa, 2 marzo 2016 Rapporto denuncia condizioni più grande Centro raccolta d’Europa. Migranti detenuti per periodi troppo lunghi, in condizioni "squallide", fra il sudiciume e gli scarafaggi. Un rapporto redatto dall’ispettore capo delle carceri inglesi, Peter Clarke, denuncia in questi termini quanto accade all’interno dell’Harmondsworth Immigration Removal Centre, il più grande centro di raccolta per immigrati d’Europa, situato vicino all’aeroporto londinese di Heathrow. Nel centro, gestito da un contractor privato per conto dell’Home Office, vengono ospitati fino a 660 uomini, fra cui richiedenti asilo ma anche stranieri condannati per reati nel Regno Unito in attesa di essere espulsi. In teoria dovrebbero restare lì per "il minore tempo possibile" ma non è così: alcuni sono rimasti fra quelle mura fatiscenti più di un anno, in un caso addirittura cinque. "L’Home Office e i suoi contractor hanno la responsabilità di assicurare che questo non accada più", ha affermato Clarke. Siria: Assad promette l’amnistia, Ankara viola la tregua di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 marzo 2016 La cessazione delle ostilità regge e l’Onu pianifica il negoziato per il 9 marzo. L’Isis giustizia 8 jihadisti olandesi disertori a Raqqa e il proprio "ministro" delle Finanze a Mosul. Baghdad lancia la controffensiva a nord della capitale. La tregua siriana regge a metà. Governo e opposizioni chiudono ogni giornata con la lista delle reciproche violazioni, ma né Damasco né l’Hnc pensano a metterla in serio pericolo. Chi la viola è la Turchia che, auto-esentatasi dalla cessazione delle ostilità, continua i raid contro i kurdi di Rojava. Ieri a denunciare Ankara è stato il Ministero della Difesa russo: 4 giornalisti stranieri (parte di un gruppo di 33 reporter) sarebbero stati feriti nella provincia di Latakia da missili lanciati dal Fronte al-Nusra dal confine turco. Non è possibile verificare le accuse che si aggiungono alle condanne russe nei confronti turchi: non solo bombardamenti contro le Ypg, ma anche il solito traffico di uomini e armi alla frontiera. Interviene anche il presidente Assad, nella prima intervista rilasciata dopo l’entrata in vigore della cessazione delle ostilità: "Faremo la nostra parte per far funzionare le cose", ha detto alla tv tedesca Ard, definendo l’accordo "un barlume di speranza". Alle sue dichiarazioni non credono le opposizioni che ieri denunciavano la caduta di volantini su Ghouta, zona di Damasco roccaforte di Jaysh al-Islam e Esercito Libero: il governo chiederebbe ai residenti di espellere dal quartiere i miliziani in cambio di un corridoio sicuro e dell’amnistia. È lo stesso Assad a confermare l’intenzione di graziare i combattenti delle opposizioni che abbandoneranno le armi: "Lasciate le armi, sia che vogliate partecipare al processo politico sia che non ne siate interessati. Noi vi garantiremo la piena amnistia". Sull sfondo stanno le agende delle due super potenze, intenzionate a proseguire con il negoziato che secondo l’inviato Onu de Mistura partirà il 9 marzo. Mosca e Washington sono consapevoli della necessità di una stabilizzazione, confermata dall’avvicinamento delle posizioni in merito al governo di unità e al ruolo temporaneo del presidente Assad. Le reciproche accuse di violazioni servono, in questo momento, solo a rafforzare il rispettivo potere negoziale. Lo stesso obiettivo dell’Arabia Saudita che veste i panni dell’incendiario con poca convinzione: lunedì il generale saudita Asseri, capo della coalizione sunnita in Yemen, ha fatto sapere di aver discusso con la Casa Bianca un possibile intervento via terra in Siria, ma è ormai chiaro che i Saud non intendono imbarcarsi in un’impresa senza sostegno internazionale. Lo dimostra anche la reazione delle opposizioni sul terreno, guidate e finanziate da Riyadh, che non reagiscono alle violazioni che denunciano. La calma che regna in molte zone della Siria sta permettendo all’Onu di proseguire con la consegna degli aiuti: da sabato sono stati raggiunti 116mila civili, altre 150mila riceveranno cibo entro la settimana e 700mila entro la fine del mese. Così si spera di portare sollievo alle persone sottoposte, dice l’Alto Commissario ai Diritti Umani Onu Zeid Ràad al-Hussein, "ad una deliberata denutrizione". Anche qui risponde Assad: "Come possiamo tagliare fuori queste aree dalla consegna del cibo se non possiamo impedire l’arrivo di armi? Il paese non è più del tutto sovrano". Per questo, aggiunge, ha bisogno di russi, iraniani e libanesi. Tanti sono i combattenti stranieri impegnati nel campo di battaglia. Secondo le intelligence straniere quelli tra le fila dell’Isis sono, però, in diminuzione: se ne vanno per paura della possibile controffensiva internazionale. E vengono puniti: secondo il gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently, 8 jihadisti olandesi sono stati giustiziati e 3 arrestati nella provincia di Raqqa perché avrebbero tentato di disertare. A Mosul l’Isis avrebbe invece giustiziato Ahmed Abdulsalam al-Obeidi, il proprio "ministro" delle Finanze per tradimento, e imprigionato 11 leader in Iraq. Il segno di un indebolimento interno del gruppo? Lo smentirebbero gli attentati di questi giorni intorno Baghdad dove riparte la controffensiva governativa: preoccupata per la tenuta della capitale, l’esercito ha dispiegato 7mila uomini in un’ampia operazione per riassumere il controllo delle zone a nord di Baghdad, da Samarra a Baiji, corridoio di terre che permette all’Isis di collegare Mosul al sud dell’Iraq. Spagna: il leader filo Eta esce dal carcere e accusa "ci sono ancora detenuti politici" di Francesco Olivo La Stampa, 2 marzo 2016 Otegi era in cella per aver tentato di ricostituire Batasuna, il braccio politico del movimento terrorista dei Paesi Baschi. Doveva essere il giorno della fine dell’incertezza politica, oggi comincia il dibattito sull’investitura del governo, ma la Spagna torna a fare i conti con l’Eta e i suoi fantasmi. È uscito dal carcere stamattina Arnaldo Otegi, leader indiscusso della cosiddetta sinistra Abertzale, considerata vicina all’Eta. Otegi ha scontato sei anni di galera per aver tentato di ricostituire Batasuna, il braccio politico del movimento terrorista dei Paesi Baschi, dissolto per via giudiziaria. L’evento è stato tutt’altro che discreto, il leader è stato accolto da almeno 500 militanti, e ha improvvisato un comizio, prima in basco e poi in castigliano: "La Spagna continua ad avere detenuti politici", ha esclamato ricordando la battaglia per i membri della banda armata tuttora nelle carceri spagnole e francesi. Otegi non ha mai condannato esplicitamente le violenze dell’Eta, che nel frattempo ha cambiato strategia: stop agli attentati, ma senza autodissoluzione. Sul tema è intervenuto il leader di Podemos Pablo Iglesias: "La libertà di Otegi è una buona notizia - ha scritto su Twitter - nessuno deve andare in carcere per le proprie idee". Albert Rivera di Ciudadanos ha risposto rinfacciando la vicinanza politica di Podemos con il regime venezuelano: "Otegi era in carcere per appartenenza a una banda armata, per le proprie idee è stato arrestato Leopoldo López". Tunisia: "colpevoli terrorismo reclusi in modo da non influenzare gli altri detenuti" Nova, 2 marzo 2016 Il giudice Kamel Eddine Ben Hassan, funzionario del ministero della Giustizia tunisino, ha spiegato oggi che le persone condannate per terrorismo sono recluse con particolari accorgimenti rispetto agli altri detenuti per evitare che possano influenzarli con le loro idee diffondendo l’estremismo nelle carceri. Hassan ha anche precisato che le persone condannate per terrorismo sono classificate in base al loro grado di indottrinamento e detenute in diverse prigioni o blocchi. Hassan ha poi spiegato che coloro che si mostrano meno collaborativi sono reclusi in isolamento, mentre gli altri sono monitorati e controllati da psichiatri e psicologi e separati dagli altri detenuti in modo che non possano influenzarli con le loro idee. "Lavoriamo con il ministero degli Affari religiosi, e docenti vengono a dialogare con questi prigionieri", ha aggiunto il giudice, sottolineando che tutto il sistema è impostato per riabilitare i detenuti e permettere il loro reinserimento nella società. Nel corso del 2015 la Tunisia ha subito tre gravi attentati terroristici. Il primo il 18 marzo al Museo del Bardo: due giovani, armati di kalashnikov, sono entrati nella struttura che si trova vicino all’Assemblea dei rappresentanti del popolo tunisino (Arp), il parlamento di Tunisi. Il bilancio dell’attentato sarà di 18 morti e decine di feriti. A rivendicare l’attacco Daesh (acronimo arabo per Stato islamico in Iraq e Siria). Il secondo attentato avviene il 26 giugno. Un giovane armato si reca nell’albergo Marhaba Riu, nel resort turistico di Susa (Souse) e spara a sangue freddo contro i presenti. Il bilancio sarà di 38 morti, per lo più turisti britannici, e centinaia di feriti. Dopo questo attacco il turismo tunisino registrerà un vero e proprio crollo. Il terzo attentato terroristico avviene il 24 novembre a Tunisi a pochi metri dal ministero dell’Interno e viene portato ai danni della Guardia presidenziale. Un kamikaze si fa esplodere al passaggio dell’autobus che sta trasportando le forze di sicurezza provocando la morte di 12 persone.