Giustizia: nella riforma il taglio di Tribunali e Corti d’Appello di Giacomo Di Girolamo Il Mattino, 29 marzo 2016 Una corte d’appello per regione e conseguenti ulteriori tagli ai tribunali e relative procure della Repubblica. Così, andando oltre la "regola del tre", già applicata sin dal 2012, sarà riorganizzata la nuova geografia giudiziaria. Prende corpo infatti la fase due della riforma visto che il lavoro della commissione guidata dall’ex vicepresidente del Csm, Michele Vietti, è quasi ultimato. La prima fase, iniziata nel 2012, ha portato all’eliminazione delle sezioni distaccate, al taglio drastico e all’accorpamento degli uffici del giudice di pace, nonché alla soppressione di 30 tribunali e procure annesse, riducendo il numero complessivamente a 135. Ma non ha toccato gli uffici di secondo grado che attualmente ammontano a 26, cui si aggiungono le tre sezioni distaccate di Bolzano, Sassari e Taranto. Ora la fase due dovrà finire il lavoro superando i due criteri di base già previsti sin dal 2012: conservare i tribunali con sede nei circondari dei comuni capoluogo di provincia e almeno tre tribunali per distretto di corte d’appello. La regola del tre, appunto. Il fine, come sempre, è quello del "risparmio" in termini di spesa e di calo dell’arretrato, e la fase uno sembra, a detta del gruppo di lavoro della commissione abbia già contribuito al calo delle pendenze (di circa il 20% in 11 Corti) ma può ancora essere perfezionata andando oltre i limiti precedenti e puntando ad un decisivo restyling. Anche perché le performances non mostrano certo dati incoraggianti (le simulazioni sul fronte civile mostrano, infatti che, anche senza nuovi procedimenti, con gli attuali livelli di rendimento si impiegherebbero circa due anni e otto mesi per smaltire tutto l’arretrato in grado di appello). A tal fine, la riforma non apporta solo tagli ma prevede anche l’arrivo di una task force di giudici che possa garantire un pronto intervento nelle situazioni più critiche e anche una riorganizzazione delle procure. Ecco, in sintesi, come sarà delineata la nuova geografia del sistema giustizia. Una corte d’appello per regione può bastare - La riduzione porterà dunque ad una corte d’appello per ogni regione. La riforma però dovrà tenere conto di una realtà che vede una decina di maxi-distretti amministrare da soli il 70% della popolazione (e 19 ad amministrare meno di 2 milioni di abitanti per ciascuno). Tra questi ci sono i 6 distretti di Milano, Roma, Venezia, Napoli, Torino e Bologna che superano i 4 milioni di abitanti amministrati e i 4 di Firenze, Brescia, Bari e Palermo che superano i 2 milioni (pari al 13% del totale). In base alla bozza si prevede di eliminare le sezioni distaccate e ridurre tramite "attribuzione di circondari o porzioni di circondari di tribunali appartenenti a distretti limitrofi, il numero delle Corti di appello esistenti, secondo i criteri oggettivi dell’indice delle sopravvenienze, dei carichi di lavoro, del numero degli abitanti e dell’estensione del territorio, tenendo comunque conto della specificità territoriale del bacino di utenza". I tagli ai tribunali - Con i medesimi criteri delle corti d’appello andrà operata la cura dimagrante per gli uffici giudiziari di primo grado. Il taglio dovrà essere effettuato contestualmente a quello delle corti di secondo grado e all’insegna dell’efficienza degli uffici, della specializzazione delle funzioni e, ovviamente, dei risparmi di spesa. La task force - Viene prevista l’istituzione di un ruolo speciale di giudici (giudicanti e requirenti), una sorta di task force da destinare (con delibera del Csm) per non oltre un quinquennio agli uffici che presentano maggiore sofferenza. Anche le procure vedranno un netto restyling, con un maggiore riconoscimento dei ruoli di procuratori aggiunti e procuratore generale, entrambi chiamati al confronto sui progetti della nuova organizzazione. Stop anche alla discrezionalità del procuratore capo nell’assegnazione della delega al procuratore aggiunto per la gestione di specifici affari. Giustizia: ecco la riforma secondo Vietti di Stefano Rizzi lospiffero.com, 29 marzo 2016 Renzi e il ministro Orlando hanno affidato al politico torinese l’incarico di "cambiare verso" al sistema giudiziario. Dopo otto mesi di lavoro il testo della commissione è pronto. Nessuna rivoluzione, ma "al centro non sono più i magistrati bensì i cittadini". Per capovolgere l’immagine della Giustizia da magistrato-centrica, com’è fino ad oggi intesa nel suo complesso ordinamento e non meno complicata geografia, a cittadino-centrica sono state sufficienti poco più di cento pagine. O meglio, lo saranno se da Governo e Parlamento arriverà la volontà politica di tradurre in norme il lavoro ormai pressoché terminato dalla commissione di 17 esperti (giuristi e magistrati) guidata dall’ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il torinese Michele Vietti. Ad affidargli l’incarico di elaborare una tra le più attese, ma anche complesse (e osteggiate) riforme dell’era renziana era stato, nell’agosto dello scorso anno l’esecutivo tramite il Guardasigilli Andrea Orlando, anche se la decisione della scelta dell’uomo politico piemontese (natali democristiani, una lunga carriera in Parlamento nei banchi di Ccd prima e Udc poi, e nei governi Berlusconi come sottosegretario) è da ricondurre allo stesso premier. Il feeling tra Matteo Renzi e Vietti non è cosa recente, come lo è invece (pur con radici lontane) l’endorsement dell’ex numero due di Palazzo dei Marescialli nei confronti di un altro ex titolare del dicastero, Piero Fassino, in vista delle imminenti comunali. E i convivi al Garamond non sono che l’appendice negli assetti dei poteri locali. Era il luglio del 2013 e l’allora sindaco di Firenze ospitò a Palazzo Vecchio il vicepresidente in carica del Csm per la presentazione del suo libro Facciamo giustizia: istruzioni per l’uso del sistema giudiziario. Un testo - quello che Vietti scelse (non a caso) di presentare nella città dell’allora rottamatore - per molti versi anticipatore dell’altro, di cui sarebbe stato incaricato al termine del suo mandato a Palazzo dei Marescialli. Dopo meno di un anno, la commissione (che dovrebbe dichiarare ufficialmente concluso il suo compito dopodomani) ha consegnato nelle mani del ministro quelle 108 pagine che, come spiega lo stesso Vietti in una intervista al Foglio, rovescia "l’ottica in cui ci si è mossi fino ad ora. L’ordinamento giudiziario veniva concepito come Statuto dei magistrati, con al centro diritti e tutele della magistratura, a cominciare dalle sempre citate autonomia e indipendenza". Per Vietti (e per Renzi) è arrivato il momento di mettere come obiettivo primario e fulcro della riforma "un servizio giustizia per cittadini e imprese". E se questo è un punto su quale Renzi batte fin dalla sua ascesa alla guida del Pd e poi del governo, tra le molte innovazioni contenute nella relazione destinata a tramutarsi in ddl da far approvare alle Camere prima della fine della legislatura non c’è traccia di quello che fu il cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, ma non certo osteggiato da Renzi, e oggetto di un dibattito mai concluso, ovvero la separazione delle carriere dei magistrati. "Per farlo avremmo dovuto modificare la Costituzione" spiega Vietti. Per il quale, tuttavia, "ci avviciniamo all’obiettivo nel riorganizzare gli uffici requirenti di primo e secondo grado, riaffermando la natura gerarchica del pm e accentuando le responsabilità dei vertici, con obiettivi di efficienza". Nel testo di riforma si prevedono, inoltre materie e tipologie di reati da affidare in automatico a quel o quei magistrati, limitando di molto "la discrezionalità da parte dei procuratori capi a delegare ai loro aggiunti o altri magistrati la cura di specifici affari", così come viene attribuita al Procuratore generale presso la Corte d’Appello la "facoltà di acquisire dati e chiedere notizie alla Procura che è tenuta a rispondere tempestivamente". C’è anche e soprattutto la ridefinizione della geografia giudiziaria nel dossier arrivato in via Arenula, dove fino a qualche settimana fa a capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria c’era Mario Barbuto, l’ex presidente della Corte d’Appello di Torino, chiamato a Roma da Orlando anche per i successi organizzativi ottenuti proprio sotto la Mole con una velocizzazione dei processi e lo smaltimento degli arretrati (che nel frattempo, in verità, sono tornati a livelli allarmanti). La giustizia lumaca è un problema annoso, quasi strutturale della giustizia italiana: "Al 30 giugno 2015 i procedimenti pendenti nelle Corti d’Appello - elenca Vietti - erano 334.928, solo 38.073 in meno rispetto all’anno prima". Secondo una simulazione fatta dalla commissione, se non vi fosse nessun procedimento nuovo, per smaltire questa mole di arretrati servirebbero 2 anni e 8 mesi. E la geografia racconta di un distretto come quello di Milano che serve oltre 6 milioni di abitanti, contro altri che ne contano poco più di 100mila. Per questa ragione, l’ex vicepresidente del Csm su un punto è categorico: "I magistrati devono essere pronti a trasferirsi dove c’è lavoro da svolgere, non a costruirsi carriere in sedi alle quali rischiano di affezionarsi troppo". Parole che è facile prevedere non saranno accolte con entusiasmo da tutte le toghe. Oltre alla mobilità, lo schema di riforma prevede per i magistrati specializzazioni per settori: dal lavoro all’ambiente, dalla criminalità organizzata ai reati economici, solo per citarne alcuni. Previsto anche l’accesso agevolato alla carriera per studenti laureati con almeno 108 e media di esami non inferiore a 28, così come una serie di incompatibilità tra toghe ed entrata in politica. Vietti, non nuovo a questo genere di incarichi avendo presieduto quindici anni fa la commissione istituita dal Governo per la riforma del diritto societario, adesso ha messo nelle mani di Orlando il risultato di otto mesi di lavoro. Il testo per la riforma della giustizia è, di fatto, pronto. Dopo aver affidato a Barbuto la riorganizzazione della macchina giudiziaria, un altro torinese è stato chiamato a dare il suo contributo per migliorare la Giustizia. Ora tutto è nelle mani di Renzi. Che, da sindaco, disse: "Il libro di Vietti ci spinge a riflettere sul fatto che si è perduta l’occasione di riformare la giustizia. E ci aiuta perché mette in riga tutte le questioni". Adesso sono nero su bianco, anche le (possibili) soluzioni. Giustizia troppo vecchia, ci vuole un Erasmus per svegliare i pm di Stefano Zurlo Il Giornale, 29 marzo 2016 Il presidente del gruppo Riso Gallo Mario Preve striglia i magistrati italiani: "Il sistema non funziona, ecco perché le multinazionali non investono più qui". Da buon imprenditore non si perde in preamboli, ma va dritto al punto: "Ci vorrebbe un Erasmus dei giudici. Prima i nostri ragazzi stavano chiusi nelle loro università, poi finalmente hanno scoperto l’Europa. Ora ci vorrebbe una scossa analoga per i nostri magistrati che se ne stanno rintanati dietro le loro scrivanie". Chi l’avrebbe mai detto: Mario Preve, presidente del gruppo Riso Gallo, era seduto martedì alla tavola apparecchiata a Villa Taverna dall’ambasciatore americano John R. Phillips. Si discuteva di giustizia, della giustizia che non funziona e che blocca lo sviluppo della calamita Italia. C’erano, fra gli altri, l’ex ministro Paola Severino e l’evergreen Edward Luttwak, ma al loro fianco si notava anche lui, il solitamente defilato signore del chicco made in Italy. Alla testa di un gruppo che fattura 120 milioni di euro ed è leader di mercato con una quota del 24 per cento. "Certo, la giustizia non è il mio campo e io non sono un tecnico del diritto, ma con questo sistema giudiziario malandato e malfunzionante devo fare i conti tutti i giorni". Così Preve ha deciso di uscire dal suo riserbo e di partecipare alla colazione e al varo del movimento Fino a prova contraria (Until proven guilty) lanciato in quel contesto dalla giornalista e scrittrice Annalisa Chirico. "Io sono per la concorrenza, la concorrenza è tutto per noi, ma poi il nostro lavoro viene rallentato dalla giustizia che non arriva, dalla burocrazia che ci soffoca, dal fisco che è una foresta impenetrabile. E allora ho deciso di impegnarmi anch’io, per quel poco che posso fare, dando il mio contributo alla nascita di Fino a prova contraria". Il progetto di Annalisa Chirico è ambizioso: fare pressione sulla classe politica perché ricostruisca un edificio che non sta in piedi: i diritti vengono calpestati, la carcerazione preventiva viene inflitta in dosi massicce, le sentenze arrivano tardi, spesso fuori tempo massimo e le multinazionali stanno alla larga da un Paese che non garantisce quello che promette. È proprio questo il capitolo che più sta a cuore a Preve: "I nostri giudici non capiscono che anche loro sono in concorrenza con i loro colleghi di Francia, Germania, Gran Bretagna. Per questo penso che l’Erasmus, geniale per allargare le teste dei nostri figli, debba essere replicato per la magistratura. Per quelle toghe che non hanno mai messo il naso fuori di casa. Così il sistema verrebbe svecchiato e diventerebbe più rapido ed efficiente, finalmente al passo con l’Europa che corre e con il mondo più progredito". A Villa Taverna circolava un dato: l’Italia è solo ottava nella classifica degli investimenti americani in Europa e questo a causa di un sistema giudiziario ritenuto non affidabile. Se la giustizia funzionasse a dovere, il nostro Paese attirerebbe i capitali americani, risalendo fino alla seconda o alla terza posizione. Non è un problema di ideologia ma di mentalità. "È la mentalità la nostra palla al piede, qualcosa sul piano legislativo sta cambiando ma quel che conta è il modo di ragionare dei nostri magistrati. E poi a cascata dei burocrati, dei dipendenti dello Stato, dei funzionari del fisco. Un compito immane". E Preve sorride: "Io ormai da molti anni vivo a Lugano e ho ceduto le responsabilità operative ai miei figli, la sesta generazione di una storia cominciata nel 1856 e che quest’anno sarà celebrata anche con l’emissione di un francobollo speciale. Ma vede, il confronto con gli altri paesi è sempre impietoso, umiliante, mortificante. Mi ricordo quando all’anagrafe di Lugano si è posto il problema del nome del mio primo figlio che è nato in Argentina: le autorità elvetiche mi hanno detto che potevamo scegliere Carlos o Carlo senza S. Tutto bene, ma quando Carlo è arrivato all’università a Milano il dramma è esploso. Gli italiani sostenevano che si trattava di due persone diverse: Carlos e Carlo. Un manicomio. Dobbiamo uscire da questo labirinto e allora ben venga la lobby della giustizia. Altrimenti l’Italia è condannata ad andare indietro". Il vizio di cancellare la volontà popolare di Alberto Lucarelli (Ordinario di Diritto Costituzionale, Università Federico II, Napoli) Il Manifesto, 29 marzo 2016 In Commissione ambiente della Camera, in merito alla proposta di legge sull’acqua pubblica, nel giro di pochi giorni, la VIII commissione di Montecitorio ha chiuso l’esame dei 110 emendamenti presentati, approvandone una decina del Pd che hanno sostituito di fatto il provvedimento originario. Tra le novità apportate al testo della legge sull’acqua, del quale subito dopo Pasqua è calendarizzata la discussione in Parlamento, se ne segnalano, in particolar modo, almeno due principali. La prima: è soppresso il richiamo alla nozione di bene comune, contenuto nella versione originaria, ed è proclamata la natura di servizio pubblico locale di interesse economico generale, contrariamente alla versione originaria, che parlava di servizio privo di rilevanza economica. Modifiche non sono simboliche, o soltanto nominali, ma tese a spostare l’impianto del testo dalla dimensione del comune ad altra mercantile e proprietaria. La seconda novità: nel testo emendato vi è un evidente favor per lo strumento societario e le conseguenze giuridico-economiche che ciò comporta: il richiamo alla disciplina mercantile e privatistica dell’istituto societario. Infatti, in via prioritaria, è disposto l’affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate da tutti gli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale. Il richiamo prioritario allo strumento societario (Spa), ancorché pubblico, quale modello di gestione del servizio idrico, non soltanto limita l’autonomia di scelta da parte delle autorità d’ambito e di conseguenza dei singoli comuni, trascurando qualsivoglia tipo di riferimento alla Città metropolitana, ormai costituzionalmente necessario dopo la riforma Del Rio, ma soprattutto sembra dimenticare l’esito del secondo quesito referendario che negava agli enti gestori la remunerazione del capitale investito. Questo limite, com’è noto, non è immediatamente compatibile con gli istituti del diritto societario, ancorché in presenza di una società a capitale pubblico. In sostanza, rispetto al testo originario, si sopprime il richiamo ad una gestione realmente pubblica del servizio (mediante enti di diritto pubblico), in favore dell’affidamento diretto, in via prioritaria, a società pubbliche munite dei requisiti per la cosiddetta gestione in house. In altri termini, si azzerano gli spazi per il ricorso al modello dell’azienda speciale (a maggior ragione alle sue forme partecipate e comuni come l’ABC di Napoli), non essendo notoriamente le società in house degli enti di diritto pubblico. Il modello dell’Azienda Speciale, voluto nella sostanza dal referendum e ancor prima dalla legge popolare, risulterebbe così definitivamente escluso dal novero delle ipotesi previste. La nuova disciplina stabilirebbe, rispetto all’articolo 23-bis del decreto Ronchi abrogato dal referendum, soltanto un’inversione delle priorità dei modelli organizzativi, privilegiando, rispetto alle società private o miste, le società pubbliche. Da quest’ultima manipolazione della volontà referendaria, risulta evidente come il referendum non riesca da solo a farsi interprete in toto della democrazia partecipativa e/o diretta. Il referendum lo si allontana dal suo spirito originario, trasformandolo in uno strumento "concesso dall’alto" e proprio "dall’alto" ne può essere indegnamente depotenziata la sua efficacia, la sua portata, trasformandolo in uno strumento ancillare della democrazia della rappresentanza, che lo utilizza per smaltire le sue tossine. La battaglia referendaria, da ultimo quella importantissima che si terrà il 17 aprile per l’abrogazione della legge che consente la trivellazione dei fondali marini, verso la quale, in spregio dei principi costituzionali di partecipazione politica, la maggioranza parlamentare invita all’astensionismo, dovrà rappresentare l’occasione per far ripartire, con vigore, il dibattito sui beni comuni. Se si vuole andare oltre la strada referendaria - che, in ogni caso, andrebbe rafforzata con l’approvazione di un vero e proprio "Referendum Act" attraverso la previsione di referendum confermativi, già previsti, tra l’altro nel dibattito in Assemblea Costituente, - bisognerebbe scegliere altri percorsi capaci di intercettare e frequentare l’antagonismo, ma anche l’agonismo. Alle comunità va riconosciuto la volontà di eliminare dal mondo giuridico determinati atti normativi ed amministrativi, incapaci di rappresentare gli effettivi orientamenti culturali, sociali ed economici dei cittadini. Il diritto di resistenza può e deve assumere forme normative attraverso l’affermazione delle consuetudini contra legem. Occorre, partendo da una dimensione locale e di prossimità della democrazia, sperimentare, così come si sta facendo in diverse realtà locali, pratiche "dal basso" di auto rappresentazione e autogestione. Salviamo la legge anti-lobby di Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 29 marzo 2016 Il governo deve decidere se si possono sviluppare le nuove piattaforme tecnologiche o se preferisce proteggere i vecchi rentier: tassisti, albergatori o presidenti di enti pubblici. Dopo un anno di discussioni, il Parlamento è prossimo a votare la legge sulla concorrenza. Il testo originale, scritto dal ministero per lo Sviluppo economico tenendo conto dei consigli dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, era una buona legge. Finalmente si cominciavano ad abbattere alcune barriere all’attività economica. A cancellare norme che danneggiano soprattutto i giovani impedendo loro di aprire nuove imprese in settori in cui la legge protegge aziende inefficienti che vi lucrano ricche rendite. Un esempio è la liberalizzazione della vendita dei farmaci "da banco" attuata dal governo Prodi nel 2006: in un decennio, grazie a quelle norme, sono nate migliaia di parafarmacie spesso gestite da giovani farmacisti che non erano riusciti ad ottenere la licenza per aprire un’attività regolare. Diversamente dalla legge che un anno fa rivoluzionò le banche popolari, il governo non ha avuto il coraggio di varare queste liberalizzazioni per decreto. Si è limitato ad approvare un disegno di legge e inviarlo al Parlamento. Lì abbiamo assistito ad un assalto alla diligenza condotto da tutte le lobby che rischiavano di perdere un po’ di rendita. E così quella buona proposta di legge è stata via via svuotata. Lasciar perdere e far decadere la legge sarebbe tuttavia un errore. Qualcosa di buono nella legge è rimasto e c’è ancora tempo per migliorarla. L’alternativa è rimandare tutto alla prossima legislatura: questa sì sarebbe la vittoria delle lobby. Ma per salvare la legge le battaglie che il governo deve vincere non sono poche. Nel testo sopravvissuto ci sono alcune misure utili. Ad esempio la fine, dal prossimo anno, del monopolio di Poste Italiane sul recapito degli atti giudiziari. La possibilità di costituire srl senza un notaio e di effettuare alcuni atti societari (come la cessione di quote nelle srl) semplicemente con una firma digitale, anche qui senza notaio. Si consente l’ingresso nelle farmacie di società di capitali (oggi le farmacie possono essere di proprietà dei soli farmacisti) e viene rimosso il tetto di 4 licenze per titolare, allo scopo di consentire economie di scala. A partire dal 2018 cade anche ogni forma di regolamentazione dei prezzi al dettaglio dell’energia. Alcune norme invece devono essere corrette. Una di queste riguarda i costi dell’Rc Auto. Le compagnie di assicurazione potranno offrire sconti a chi installa nella propria auto una "scatola nera", cioè un dispositivo satellitare che registra informazioni sul percorso e sul comportamento alla guida del conducente. Questo dovrebbe ridurre le frodi, spesso dovute alla falsa ricostruzione degli incidenti. Ma la norma è stata emendata dal Senato in stile "sovietico" prevedendo che lo sconto sia uguale per tutti. Quale sia lo sconto dipende dal modello di pricing (e di rischio) delle singole compagnie, e riflette la composizione delle particolari clausole contrattuali. Lo sconto unico rischia di essere troppo alto o troppo basso: se troppo basso sarebbe inutile; se troppo alto disincentiverebbe le compagnie dall’offrire la scatola nera. Un altro emendamento prevede che gli automobilisti "virtuosi" godano del medesimo sconto, indipendentemente dalla provincia in cui abitano. Questo assume che la probabilità di avere un incidente dipenda solo da caratteristiche soggettive del guidatore e non dall’ambiente circostante: come dire che guidare a Merano o a Caserta sia lo stesso. Va ripristinato il testo originale dell’articolo. La Camera ha introdotto una norma "anti booking.com". Oggi gli alberghi possono fare di tutto (ad esempio offrire sconti a categorie particolari di clienti) ma non vendere la stessa camera, sul proprio sito internet, a un prezzo inferiore a quello offerto a siti quali booking.com. Consentirlo vuol dire sancire per legge il diritto degli hotel a fare free riding sull’investimento pubblicitario di booking e piattaforme simili: i clienti confrontano gli hotel su booking e poi acquistano la camera sul sito dell’albergo. È evidente che siti come booking.com in Italia sparirebbero. Questa norma è sostenuta dal ministro Franceschini su richiesta di Federalberghi, il cui presidente, Bernabò Bocca, è un senatore di Forza Italia: prima o poi dovremo riflettere sui presidenti di ordini professionali e associazioni imprenditoriali che mantengono la carica pur essendo deputati o senatori. Questo articolo deve semplicemente essere cancellato. Poi vi sono le norme che erano scritte nel testo originale e sono scomparse. Innanzitutto il superamento della pianificazione numerica delle farmacie, che è la vera fonte di limitazione della concorrenza. E poi la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, quelli prescritti dal medico ma non mutuabili: antidolorifici, antinfiammatori, antidepressivi, anticoncezionali, etc. Per l’acquisto di questi farmaci le famiglie italiane spendono ogni anno circa 3 miliardi di euro. L’esperienza della liberalizzazione di farmaci da banco suggerisce che se anche questi medicinali potessero essere venduti nelle parafarmacie - dove comunque è c’è l’obbligo della presenza di un farmacista - questa spesa potrebbe essere ridotta in maniera significativa. Da cancellare anche i vincoli sui saldi. Oggi i saldi devono avvenire in ogni regione nello stesso periodo: la piena liberalizzazione delle vendite promozionali sarebbe l’ultimo tassello della liberalizzazione del commercio. E poi - e sono forse le norme più importanti da aggiungere - gli appalti pubblici, tanto spesso fonte di procedure poco trasparenti e talvolta di corruzione. Basterebbe completare la legge con due commi: "Dalle gare per i servizi pubblici di qualunque genere, sono esclusi i soggetti partecipati dall’ente concedente"; "Nel caso di affidamenti in-house è fatto divieto di sub-appaltare il servizio". Il primo per evitare la commistione fra concessionario ed ente vigilante (accade ad esempio in alcune società che gestiscono le banchine dei porti). Il secondo per impedire una pratica dove spesso si annida la corruzione: la Regione, ad esempio, assegna un’opera ad una propria società e poi consente che la stessa la sub-appalti a privati. Dovrebbe essere la Regione a gestire in prima persona l’appalto a privati. Infine Uber. Baba, un ragazzo di 24 anni che vive a Bobigny, nella banlieu parigina, ha detto alcuni giorni fa al Financial Times: "Prima di Uber stavamo tutti qui a pendolare da mattina a sera, senza lavoro e senza soldi. Prima o poi finivamo in prigione. Uber mi ha cambiato la vita: oggi ho una bella macchina e un vestito di Zara. Mi piace guidare per le strade di Parigi, mi impegno perché voglio che i clienti, alla fine del viaggio, mi diano sempre il massimo dei voti". Sì perché Uber ti chiede di dare un voto al guidatore che ti ha accompagnato, e dopo un paio di voti scadenti, quel guidatore viene licenziato. Proprio come i nostri tassisti! Per ragazzi come Baba, Uber ha fatto più di decenni di politiche sociali. Augustin Landier e David Thesmar, due economisti francesi, hanno pubblicato un’analisi approfondita dei guidatori di Uber ("Une analyse des chauffeurs utilisant Uber en France"): calcolano che se il governo chiudesse Uber il 20 per cento dei guidatori che perderebbero il lavoro rimarrebbero disoccupati per almeno due anni. Questo perché Uber ha aperto un mercato del lavoro nuovo, non sostituibile con lavori più tradizionali. Scrive, in un’altra analisi, Alan Krueger, che è stato presidente del Council of economic advisers di Barack Obama: "Il sistema di valutazione introdotto da Uber aiuta la crescita professionale dei ragazzi perché li abitua al fatto che la loro reputazione sia di dominio pubblico". È bastata l’ennesima minaccia di uno sciopero dei tassisti, la scorsa settimana, perché il governo facesse marcia indietro re-introducendo la norma che obbliga i guidatori di Uber a rientrare in garage dopo ogni corsa. Si parla dell’Uber più tradizionale, cioè le auto nere NCC: di Uber-X nemmeno si parla. Il governo dovrebbe riflettere e decidere quale progetto vuol promuovere per il futuro di questo Paese. Vuole consentire che anche in Italia si sviluppino le nuove piattaforme tecnologiche, o preferisce proteggere i vecchi rentier, siano essi tassisti, albergatori o presidenti di enti pubblici locali? Le statistiche della Corte Ue 2015: a Lussemburgo il record produttività di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Boom di produttività, nel 2015, della Corte di giustizia dell’Unione europea. Con ben 1.755 cause definite, Lussemburgo supera il suo tasso di produttività di sempre. Non solo. Il 2015 è stato anche un anno record per il numero di cause promosse: ben 1.711 dinanzi ai tre organi giurisdizionali Ue (Corte di giustizia, Tribunale, Tribunale per la funzione pubblica), con 700 cause avviate dinanzi alla Corte di giustizia. Segno evidente della crescente fiducia che i giudici nazionali e i cittadini hanno verso l’apparato giurisdizionale dell’Unione europea. Che subisce, però, come effetto collaterale, l’incremento del carico di lavoro degli eurogiudici, con la conseguenza che, malgrado la produttività crescente, diminuisce il numero di cause definite. E questo anche per la complessità dell’oggetto dei procedimenti che ha portato la Corte di giustizia a pronunce storiche come quella del 6 ottobre 2015 (C-362/14) con la quale Lussemburgo ha bocciato il sistema Ue di trasferimento dati personali verso terzi. Vediamo in dettaglio i numeri. Nel 2015, le cause promosse dinanzi alla Corte di giustizia sono state 713 a fronte delle 622 del 2014 che vuol dire +15%. Scomponendo il dato, sono aumentate le domande in via pregiudiziale (436) e il numero di impugnazioni delle sentenze rese dal Tribunale Ue (215, circa il doppio di quelle del 2014 pari a 111). Le cause definite sono state 616: una diminuzione rispetto alle 719 del 2014 dovuta - scrive Lussemburgo - al numero meno elevato di cause promosse nel 2014, con la conseguenza che meno procedimenti erano pronti per la decisione. Effetto collaterale, l’aumento delle cause pendenti arrivate a 884 (787 nel 2014). Situazione rosea per quanto riguarda i tempi dei processi: la durata media dei procedimenti in via pregiudiziale è stata di 15,3 mesi, quella dei ricorsi diretti di 17,6 mesi, delle impugnazioni di 14 mesi. Produttività eccezionale del Tribunale che, proprio nel 2015, è stato oggetto di modifiche significative con il regolamento n. 2015/2422, pienamente operativo dal 2019. Nel 2015 le cause definite sono state 987 (un aumento del tasso di produttività pari al 90% rispetto al 2010 e del 20% rispetto al 2014). Le cause promosse sono state 831 e, malgrado il crescente carico di lavoro, il Tribunale ha tagliato il numero delle cause pendenti che da 1.423 del 2014 arriva 1.267 nel 2015. Senza dimenticare i tempi: la durata media dei procedimenti è stata di 20,6 mesi nel 2015 contro i 23,4 del 2014 che, in percentuale, fa segnare una riduzione di oltre il 10%. Segni positivi anche per il contenzioso dinanzi al Tribunale per la funzione pubblica, anche se è aumentato il numero delle cause promosse (167 contro le 157 dell’anno precedente). Con una diminuzione, però, dei tempi per arrivare a sentenza: 12,1 mesi nel 2015, contro i 12,7 del 2014. Legge Pinto: la mancata comunicazione del creditore non ferma l’azione di ottemperanza di Antonino Masaracchia Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Tar Campania - Sezione VIII - Sentenza 29 febbraio 2016 n. 1089. La sentenza che si commenta è particolarmente interessante perché giunge fra i primi pronunciamenti del giudice amministrativo in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo (ai sensi della legge n. 89 del 2001, meglio nota come Legge Pinto) dopo le modifiche legislative che sono state introdotte con la legge n. 208 del 2015 (cosiddetta "legge di stabilità 2016"). I risarcimenti da Legge Pinto - Deve anzitutto premettersi che i risarcimenti da Legge Pinto costituiscono una cospicua fetta del contenzioso dinnanzi ai Tar: capita infatti molto spesso che, di fronte a un decreto che riconosca il diritto al risarcimento per la durata non ragionevole di un processo (in genere civile, ma anche penale, tributario o amministrativo) - decreto che, ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 89 del 2001, è emesso dal presidente della Corte d’appello o da un magistrato a tal fine designato -, l’amministrazione della Giustizia rimanga inerte e non provvede alla liquidazione di quanto dovuto, così innescando una perversa spirale processuale. Il decreto della Corte d’appello, infatti, qualora non eseguito spontaneamente, è suscettibile di attuazione con l’ordinario rimedio del giudizio di ottemperanza dinnanzi al Tar, ai sensi dell’articolo 112, comma 2, del codice del processo amministrativo: tale decreto - come anche ricorda la sentenza qui in commento - ha natura decisoria in materia di diritti soggettivi ed è quindi, sotto tale profilo, equiparato al giudicato, con conseguente idoneità a fungere da titolo per l’azione di ottemperanza (così, di recente, tra le tante, Consiglio di Stato, sezione IV, n. 1484 del 2012). Dunque, l’ordinamento provvede a sostenere il cittadino vittima del disservizio derivante da una durata irragionevole del processo mediante l’apertura di un nuovo processo, appunto quello amministrativo per ottemperanza, all’esito del quale - finalmente - l’amministrazione pagherà quanto dovuto mediante l’intercessione del commissario ad acta. In questo già complesso e farraginoso meccanismo è intervenuta la novella di fine anno per complicare ulteriormente il percorso che il cittadino-creditore deve affrontare per ottenere quanto dovuto: incombenze e adempimenti lunghi e snervanti. Legge Pinto, gli ostacoli sulla via dell’equa riparazione di Antonino Masaracchia Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 I nuovi ostacoli sono statti introdotti dal legislatore con la speranza che il creditore preferisca rinunciare alla propria pretesa, mandando così esente l’erario da questa posta passiva. Il quadro normativo - Bisogna partire da un presupposto: il decreto della Corte d’appello, almeno nell’originaria intenzione del legislatore, doveva funzionare come una vera e propria ingiunzione nei confronti dell’amministrazione della giustizia, alla quale adempiere senza indugio. Chiaro è (era) il dettato dell’articolo 3, comma 5, della legge n. 89 del 2001: "Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all’amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione": si tratta, dunque, di un titolo di pagamento immediatamente esecutivo. E invece, anzitutto, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile a questa disciplina l’articolo 14, comma 1, del decreto legge n. 669 del 1996, convertito dalla legge n. 30 del 1997, a norma del quale sono concessi all’amministrazione debitrice ben 120 giorni (pari a 4 mesi!) per completare le procedure di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali pur aventi efficacia esecutiva e che comportano l’obbligo di pagamento di somme di denaro: solo alla scadenza dei 120 giorni, per espresso dettato di legge, sarà quindi possibile azionare il giudizio esecutivo, ivi compreso - secondo la giurisprudenza - quello di ottemperanza. Dunque, e per tornare al giudizio di equa riparazione: ottenuto il decreto della Corte d’appello, pur se immediatamente esecutivo, il creditore dovrà notificarlo all’amministrazione e attendere ben 120 giorni prima di poter (eventualmente) azionare il rimedio dell’ottemperanza dinnanzi al Tar. Gli ulteriori adempimenti - Ma adesso il nuovo articolo 5-sexies della legge n. 89 del 2001 (introdotto, appunto, dalla legge di stabilità 2016) onera il creditore di ulteriori adempimenti. Si prevede, anzitutto, che per poter ottenere il pagamento delle somme liquidate, il creditore dovrà rilasciare all’amministrazione debitrice una dichiarazione, da rendersi nelle forme di cui agli articoli 46 e 47 del Dpr n. 445 del 2000, nella quale si attesti "la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere (e) la modalità di riscossione prescelta". Davvero curioso questo adempimento: il creditore deve informare il debitore di qualcosa che ben è a conoscenza di quest’ultimo, ossia del fatto che il credito non è ancora stato riscosso e che è pendente un’azione giudiziaria per il suo pagamento. Peraltro, la dichiarazione deve essere resa non in forme liberamente scelte dal creditore, ma secondo modelli che dovranno essere approvati dalla stessa amministrazione debitrice (il ministero della Giustizia, in accordo con il ministero dell’Economia: così il comma 3) ovvero, nelle more di tale approvazione, mediante modelli già reperibili sui siti istituzionali delle singole amministrazioni (comma 12). Oltre a questa dichiarazione, inoltre, il creditore dovrà recapitare all’amministrazione l’ulteriore "documentazione necessaria" a dar corso al pagamento (così il comma 1), documentazione che spetterà ancora ai ministeri della Giustizia e dell’Economia stabilire con appositi decreti (comma 3). Se la dichiarazione non viene compiuta, "l’ordine di pagamento non può essere emesso" (così il comma 4 dell’art. 5-sexies). Addirittura si stabilisce (comma 2) che questa dichiarazione ha una validità temporanea - vale solo sei mesi - e deve pure essere rinnovata a semplice richiesta dell’amministrazione (dunque, anche in pendenza del periodo di validità semestrale). Nell’ipotesi in cui il creditore effettui la dichiarazione, peraltro, si concede all’amministrazione un ulteriore spatium deliberandi pari a 6 mesi per effettuare il pagamento (comma 5). Una situazione paradossale - Siamo dunque in presenza di una situazione che, dal punto di vista del creditore, e nell’ordinario rapporto civilistico di credito-debito, non potrebbe che essere definita paradossale, nella quale - detto in poche parole - la legge fa di tutto per ritardare il diritto del cittadino all’equa riparazione: ciò, come è evidente, in barba ai postulati della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (che pure dovrebbe costituire il fondamento del diritto di cui alla Legge Pinto) e non senza evidenti contraddizioni interne alla stessa legge n. 89 del 2001. Come detto, quest’ultima dapprima disegna l’obbligo per l’amministrazione debitrice nei sensi di una vera e propria ingiunzione di pagamento e la obbliga a pagare "senza dilazione" una volta emesso il decreto della Corte d’appello (così l’articolo 3, comma 5); ma poi si assoggetta la procedura di liquidazione all’adempimento di plurimi e defatiganti oneri da parte del creditore (articolo 5-sexies), così ritardando la prestazione dovuta, nonostante l’esistenza dell’ordine del giudice, e quindi finendo col vanificare la portata immediatamente precettiva di quest’ultimo. Tuttavia è anche evidente - se si sposta la prospettiva dal lato dell’amministrazione debitrice - che la legge, in realtà, ha voluto proteggere le già disastrate finanze pubbliche: e però questo viene fatto non già curando i mali alla radice (ossia, predisponendo un servizio-giustizia più celere ed efficace) ma intervenendo al capezzale del malato, ossia cercando vilmente di dissuadere, per quanto possibile, l’esecuzione delle condanne. Il Tar corre in soccorso dei cittadini Di fronte a questo desolante scenario, la sentenza qui in epigrafe cerca meritoriamente di correre in soccorso del creditore derelitto mediante alcuni accorgimenti ermeneutici. I rimedi ermeneutici del Tar Campania - Anzitutto, viene proposta un’interessante lettura interpretativa, in chiave per così dire evolutiva, che consenta di non rinunciare "all’esigenza che il giudicato trovi pronta esecuzione": ciò, in modo da salvaguardare - per quanto possibile - il principio costituzionale di pienezza della tutela giurisdizionale di cui all’articolo 24 della Costituzione, così come i principi in tema di equità del processo ed effettività della tutela, di cui agli articoli 6 e 13 della Convenzione Cedu. Premesso che le nuove norme sono sicuramente applicabili anche alle fattispecie per le quali sia già attualmente pendente un giudizio di ottemperanza (posto che l’articolo 5-sexies, comma 12, delinea un’apposita disciplina transitoria per l’adempimento degli obblighi di comunicazione anche in assenza dei decreti ministeriali attuativi), i giudici dell’VIII sezione del Tar di Napoli escludono che, in mancanza dei prescritti nuovi adempimenti, il giudizio di ottemperanza debba essere respinto o dichiarato improcedibile: al contrario, esso può ben essere accolto, se ne ricorrono tutti i presupposti sostanziali e processuali, dal momento che le nuove disposizioni si riferiscono unicamente alle modalità con le quali l’amministrazione deve effettuare il pagamento. Detto altrimenti: l’amministrazione è pur sempre inadempiente a un ordine del giudice (quello di pagare una somma a titolo di equa riparazione), e quindi ben potrà risultare soccombente nel giudizio di ottemperanza, e però, nonostante quest’ultimo, il pagamento potrà concretamente avvenire unicamente secondo le condizioni imposte dalla novella del 2015. In secondo luogo, il Tar Campania esclude che, in pendenza di giudizio di ottemperanza, debba essere concesso all’amministrazione il termine di sei mesi di cui al comma 5 dell’articolo 5-sexies. Ciò deriva dal fatto - osservano i giudici - che le modalità di pagamento, in pendenza del giudizio di esecuzione, sono compiutamente disciplinate dal solo comma 11 dell’articolo 5-sexies il quale, per tale evenienza, prevede unicamente che il creditore effettui le previste dichiarazioni, e non ribadisce che sia necessario lo spatium deliberandi di sei mesi. Ciò, sulla scorta dell’insegnamento giurisprudenziale per cui, in sede di giudizio di ottemperanza, le azioni sostitutive poste in essere dal giudice o, per esso, dal commissario ad acta per eseguire il giudicato, possono anche esulare dal rispetto delle ordinarie procedure cui è tenuta l’amministrazione nell’ambito della sua azione, anche in ipotesi riguardanti il pagamento di somme di denaro. In terzo luogo, la sentenza qui in commento percorre con decisione la strada delle astreintes. Nel richiamare il recente arresto dell’Adunanza plenaria n. 15 del 2014 - secondo la quale le penalità di mora, di cui all’articolo 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo, sono ammissibili anche per le condanne al pagamento di somme di denaro, "atteso che l’istituto assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto non è volto a riparare il pregiudizio cagionato dalla non esecuzione della sentenza, ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento" - il Tar Campania qui ricorda che, sempre con la legge di stabilità 2016, si è stabilito che le penalità di mora, all’esito del giudizio di ottemperanza, non possono considerarsi manifestamente inique quando sono stabilite in misura pari agli interessi legali (così il nuovo articolo 114, comma 4, lettera e), seconda parte, del codice del processo amministrativo). Ne consegue - conclude il Tar nella sentenza qui in commento - che l’astreinte non potrà più essere considerata iniqua qualora stabilita in detta misura, neanche facendo appello alle esigenze di bilancio e allo stato di crisi finanziaria della finanza pubblica (argomenti che, invece, finora la giurisprudenza era solita valorizzare al fine di ritenere "manifestamente iniqua" l’astreinte e, così, rigettarne la richiesta). In sostanza, nella nuova cornice normativa si può ipotizzare un più ampio ricorso allo strumento delle astreintes da parte della giurisprudenza amministrativa, anche in considerazione del fatto che, adesso, risulta più difficile, per il creditore, ottenere tempestivamente il pagamento di quanto dovuto, essendo necessari, per legge, tutti i nuovi adempimenti introdotti dalla legge di stabilità 2016. In ogni caso - precisa opportunamente il Tar Campania - il termine di decorrenza dell’astreinte non può che partire dalla data di intervenuta comunicazione o notificazione dell’ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza (così come precisa il nuovo articolo 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo), purché però siano già stati integralmente ottemperati, dal creditore, gli obblighi di comunicazione suindicati; in caso contrario, la penalità inizierà a decorrere dal momento in cui i suddetti obblighi saranno stati adempiuti. Per i giornalisti il carcere è un’eccezione di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 17 marzo 2016 n. 11417. Con sentenza 11417 del 2016 la V sezione penale della Cassazione ha stabilito che se il periodico viene utilizzato come strumento dalla criminalità organizzata per commettere il reato di diffamazione, la gravità dei fatti e l’eccezionalità della fattispecie giustificano la scelta della sanzione detentiva. Con questo principio, contenuto in verità in poche righe della pronuncia in commento, la Corte ha il merito di sancire una regola e, al contempo, individuare un’ipotesi concreta a cui applicarla. La questione della opportunità di applicare in concreto - o di prevedere in astratto - la pena detentiva per i reati a mezzo stampa è, invero, assai dibattuta, soprattutto da quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che una simile sanzione non è di regola compatibile con la libertà di espressione riconosciuta dall’articolo 10 della Cedu. La Corte di Strasburgo, infatti, ha più volte sottolineato che, in materia di diffamazione, una pena troppo severa o anche un risarcimento non proporzionato al reddito - rischiano di avere l’effetto di frenare eccessivamente la libertà di informazione. Per questa ragione, la minaccia della detenzione dovrebbe essere limitata ai casi più gravi, individuati dalla giurisprudenza di Strasburgo in quelli, ad esempio, di istigazione all’odio razziale e di incitamento alla violenza. Nel nostro Paese la diffamazione, aggravata dal mezzo della stampa e dall’attribuzione di un fatto determinato (articolo 13 della legge sulla stampa), ovvero il reato classicamente contestato ai giornalisti, è punita con la reclusione fino a sei anni. La ragione per cui, nonostante una simile "tariffa" penale, non vi siano giornalisti in carcere risiede nel meccanismo di bilanciamento fra aggravanti e attenuanti previsto dal codice penale. L’aggravante di cui all’articolo 13, infatti, viene quasi sempre ritenuta almeno equivalente alle attenuanti generiche; aggravante e attenuanti si eliminano a vicenda, sicché l’orizzonte sanzionatorio è quello della diffamazione semplice, che è punita con pena alternativa: la reclusione o la multa. Tra la pena detentiva e quella pecuniaria, i giudici assai di frequente scelgono questa seconda. La sostanziale assenza di condanne a pene detentive in Italia è il risultato della interpretazione del tutto discrezionale di due meccanismi per l’individuazione della pena in concreto. In questo contesto, nel 2013 la Corte Europea ha sanzionato l’Italia poiché il direttore di un giornale era stato condannato a un elevato risarcimento e a quattro mesi di reclusione (sia pure sospesi condizionalmente). Una simile condanna avrebbe provocato un chilling effect, ovvero una sorta di autocensura da parte dei giornalisti. Alla luce della giurisprudenza europea, autorevoli commentatori sostengono che la pena detentiva debba essere bandita dal nostro ordinamento per i reati a mezzo stampa. Un indirizzo che sembra essere stato fatto proprio anche dal legislatore nel disegno di legge approvato nel giugno 2015 dalla Camera e attualmente all’esame del Senato. Noi restiamo convinti, viceversa, che la Corte di Strasburgo raccomandi di limitare la previsione della pena detentiva ai soli casi più gravi, non necessariamente solo quelli portati ad esempio dalla stessa Cedu. Ad esempio, ci pare possano essere comprese in questo elenco le diffamazioni seriali; quelle commesse con l’intento di rovinare la reputazione altrui; quelle assistite dalla consapevolezza della falsità del fatti narrati. E anche l’ipotesi individuata da ultimo dalla Cassazione sembra rientrare a buon diritto in questo pur piccolo "insieme". Primo arresto per il reato di omicidio stradale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Primo arresto, dopo la nuova legge sull’omicidio stradale entrata in vigore sabato scorso. Stesso giorno nel quale è avvenuto lo scontro tra due auto nel napoletano, in cui è morto un giovane di 28 anni, il conducente dell’altra auto è ai domiciliari in ospedale per omicidio stradale. L’uomo 37anni, guidava senza patente e aveva superato i limiti di velocità. Molte le infrazioni commesse: dalla guida malgrado la revoca della patente dal 2011, al superamento dei limiti di velocità, circa 100 chilometri all’ora invece di 40. L’auto aveva oltrepassato completamente la mezzeria, invadendo la corsia opposta, dove la vittima marciava regolarmente. Le indagini, svolte anche alla luce dell’entrata in vigore della nuova legge sull’omicidio stradale - sottolinea la procura di Nola - si sono concluse con l’arresto del 37enne ora ai domiciliari in ospedale, con le accuse di omicidio stradale e lesioni personali stradali. Il Pm Paolo Mancuso, ha richiesto la convalida dell’arresto al Gip del Tribunale di Nola. La nuova legge stabilisce infatti che per l’omicidio stradale è sempre consentito l’arresto in flagranza di reato, mentre nei casi più gravi l’arresto diventa obbligatorio. E tra le circostanze che prevedono l’aggravamento della pena, l’omicidio e le lesioni di altre persone (fino a un massimo di 18 anni), si conta il superamento dei limiti di velocità e la guida senza patente, nel qual caso la forbice della pena base del reato aumenta, passando da 2 a sette anni, da 5 a 10 anni. Un’ulteriore variante dell’omicidio stradale contempla da 8 a 12 anni di carcere per chi provoca la morte di una persona sotto effetto di droghe o in stato di ebbrezza grave. Guida in stato di ebbrezza: estinzione del reato dopo lavoro di pubblica utilità Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Guida in stato di ebbrezza - Positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità - Estinzione del reato - Valutabilità del fatto di reato ai fini della "recidiva nel biennio" ex art. 186, comma secondo, lett. c) Cod. strada - Legittimità. In tema di guida in stato di ebbrezza, l’estinzione del reato a seguito del positivo espletamento del lavoro di pubblica utilità, presupponendo l’avvenuto accertamento del fatto, non impedisce al giudice di valutarlo in un successivo processo quale precedente specifico ai fini del giudizio circa la "recidiva nel biennio", prevista dall’art. 186, comma secondo, lett. c) Cod. Strada. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 18 gennaio 2016 n. 1864. Guida in stato di ebbrezza - Sanzione - Sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità - Positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità - Estinzione del reato - Revoca della patente - Esclusione. In tema di guida in stato di ebbrezza, il giudice nel dichiarare l’estinzione del reato per il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, non può disporre la revoca della patente. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 17 gennaio 2014 n. 1907. Guida in stato di ebbrezza - Applicazione sanzione sostitutiva - Sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità - Settore diverso da quello della sicurezza e della educazione stradale - Estinzione del reato - Ammissibilità. L’estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza dopo lo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità può essere dichiarata anche nel caso in cui l’attività in favore della collettività sia svolta in un settore diverso da quello della sicurezza e dell’educazione stradale, indicato dal legislatore come prioritario. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 17 dicembre 2013 n. 50909. Guida in stato di ebbrezza - Applicazione sanzione sostitutiva - Lavoro sostitutivo ex art. 186, comma nono bis, Cod. Strada - Condizioni di applicabilità a fatto commesso sotto la previgente normativa. Per l’applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore e concernenti guida in stato di ebbrezza, occorre considerare che, per il reato di cui all’art. 186, comma secondo, lett. c), Cod. Strada, pur trattandosi di norma complessivamente più favorevole all’imputato, il favor è determinato dalla previsione dell’estinzione del reato nel caso di buon esito della misura sostitutiva, mentre nella nuova previsione la durata della sanzione principale è superiore a quella previgente. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 20 settembre 2012 n. 36291. No alla confisca indifferenziata anche se il dominus delle due società è unico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 25 marzo 2016 n. 12653. Se il dominus di due società "distrae" i fondi regionali, il giudice non può disporre una confisca indifferenziata sui beni dei due enti senza tenere conto del diverso profitto conseguito dall’una e dall’altra. La Cassazione, con la sentenza 12653, torna sulla responsabilità degli enti disegnata dalla legge 231/2001 e lo fa respingendo il ricorso dell’amministratore unico di due Srl, ma accogliendo le richiesta di queste ultime limitatamente alle modalità di confisca. Alla base della contestazione c’era il reato di malversazione ai danni dello Stato (articolo 316-bis) scattato dopo che l’amministratore aveva "dirottato" i fondi ottenuti per realizzare un lavoro di interesse pubblico, sull’acquisto dei beni di una società in fallimento andati all’asta. I giudici di merito avevano riconosciuto sia la responsabilità del vertice delle due società sia di queste ultime, per il profitto tratto dalle somme incamerate nelle casse, denaro che si era perso in mille "rivoli". In prima battuta la Cassazione respinge il ricorso dell’amministratore che negava il "dolo" nella sua condotta. Secondo il ricorrente non c’era stata predeterminazione nel distrarre le risorse: queste erano state usate per altro perché la burocrazia regionale aveva ostacolato la realizzazione dei lavori. Inoltre l’elemento soggettivo veniva meno perché il dominus aveva prestato della garanzie, in relazione alle risorse ottenute, offerto ipoteche e spontaneamente restituito parte delle somme. Giustificazioni che non passano. La Cassazione spiega che il reato previsto dall’articolo 316-bis ha natura istantanea e si consuma nel momento esatto in cui le sovvenzioni pubbliche vengono distratte dalla loro destinazione origina. Per il dolo generico basta che l’agente sia consapevole di fare un uso diverso dei denaro ottenuto. Nessun rilievo hanno gli ostacoli burocratici inerenti al rilascio di titoli abitativi, visto che la "commissione" per comprare i beni all’asta era stata data prima di iniziare l’opera. Nè pesano le garanzie fideiussorie, le ipoteche e la parziale restituzione delle somme: ciò che conta è la verifica del soddisfacimento del pubblico interesse. Per i giudici sono responsabili anche le due società a meno che non siano in grado di dimostrare di non aver avuto nella distrazione né un interesse né un vantaggio. Nel concreto però l’azione illecita dell’organo apicale era stata funzionale all’interesse dei due enti, dotati di una liquidità di cui avevano potuto disporre secondo la gestione dell’amministratore e il tutto si era risolto anche in vantaggio, soprattutto per una della due società, che era divenuta titolare di un cospicuo patrimonio immobiliare di cui era sprovvista. E anche il patrimonio delle società è soggetto alla confisca salvo per le somme restituite. I giudici hanno però sbagliato nel tenere conto dell’entità complessiva del profitto delle erogazioni. Nei confronti delle due Srl sono state mosse distinte contestazioni a fronte di autonome erogazioni. Ciascun ente ha dunque conseguito un corrispondente profitto sul quale va commisurata la confisca. Non vale il principio solidaristico che, nel caso di illecito plurisoggettivo, "implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente". I giudici escludono il concorso tra le due Srl,che rispondono autonomamente della condotta del dominus. Ora la Corte d’Appello deve distinguere la "quota" imputabile all’una e all’altra società, ai fini del valore sul quale tarare la confisca per equivalente. Abruzzo: Rita Bernardini visita le carceri "ancora molta strada ancora da fare" news-town.it, 29 marzo 2016 Durante la settimana di Pasqua, la candidata radicale a Garante dei detenuti abruzzesi Rita Bernardini ha visitato le carceri abruzzesi con le compagne e i compagni di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. Dopo aver incontrato i detenuti di Lanciano e Vasto, venerdì, sabato è stata a Chieti e Pescara per poi spostarsi a Teramo e L’Aquila, nel giorno di Pasqua, e chiudere il suo viaggio ieri, nel giorno di Pasquetta, ad Avezzano e Sulmona. Bernardini ha voluto toccare con mano lo stato delle case circondariali della nostra Regione, i livelli di accoglienza della popolazione carceraria. "Le carceri in Abruzzo - ha spiegato - sono come in tutta Italia: ci sono direttori bravi e personale preparato, ma si tratta comunque di istituzioni criminogene e chi fa il suo percorso in carcere non esce migliore. Quindi c’è molto da lavorare, anche con gli Uffici di Esecuzione penale esterna e con gli Uffici di Sorveglianza, per il reinserimento sociale di queste persone; ma deve collaborare tutta la collettività, dalle istituzioni ai cittadini volontari, perché molta strada deve essere fatta ancora". Di quanto visto nelle carceri visitate, Rita Bernardini discuterà con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al quale ha inviato una dettagliata relazione. In particolare, la candidata radicale ha voluto sottolineare l’anomalia abruzzese, dove, a seguito della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, non sono state aperte le Rems che avrebbero dovuto sostituire quelle strutture. "Qui in Abruzzo non ci sono Rems. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlò, a proposito degli OPG, di orrore: ora però ci ritroviamo con i pazienti che vengono mandati in carcere. Bisognerà approfondire la questione, a partire da questa Regione". Bologna: trovato morto in cella il giorno dopo l’arresto per l’aggressione a un tassista di Ilhame Hafidi La Repubblica, 29 marzo 2016 Gli agenti e i compagni di cella lo hanno sentito russare e muoversi nella sua branda domenica notte alle 4.30, e dunque a quell’ora era ancora vivo. Ma poche ore dopo, al successivo controllo della Penitenziaria, sul letto c’era un corpo senza vita. Accanto, la pastiglia sostitutiva del metadone, che il detenuto non aveva assunto. Da questo particolare partono le indagini per chiarire le cause della morte di Carlo Bellotti, 55enne ferrarese senza fissa dimora, spirato domenica mattina alla Dozza. Era rinchiuso lì da poco più di una giornata: venerdì sera aveva ferito con un piccolo martello un tassista bolognese di 67 anni, Isauro Zarantonello. Il quale commenta in questo modo l’improvviso decesso del suo aggressore: "Meglio così, era un pericolo per l’umanità. Io ho rischiato di morire a causa sua. Per come funziona il sistema giudiziario italiano, temevo che dopo un paio di giorni lo avrebbero rilasciato, e l’idea mi turbava. Un folle. Ciò che è accaduto a me poteva capitare a chiunque". Bellotti era conosciuto come tossicodipendente. Assumeva diverse tipi di sostanze. Per questo subito dopo l’arresto era stato sottoposto ai controlli medici nel penitenziario: era stato visitato da uno psicologo e gli era stato fornito un farmaco sostitutivo del metadone. Che però lui non ha assunto. Il mattino dopo è stato trovato morto nella cella che divideva con altri due detenuti, i primi a lanciare l’allarme. Sul corpo nessun segno di violenza. Ma un decesso all’interno di una struttura carceraria è una questione sempre molto delicata. L’ipotesi del suicidio è stata subito stata scartata. E il pm Michele Martorelli ha immediatamente disposto l’autopsia, allo scopo di chiare in modo definitivo un decesso che ha ancora qualche aspetto oscuro. Di più, gli inquirenti ascolteranno ancora una volta i compagni di cella di Bellotti, e sempre attraverso l’esame autoptico si tenterà di capire se il detenuto avesse fatto uso di sostanze stupefacenti prima di varcare i cancelli della Dozza. L’ipotesi prevalente per ora è quella di una morte improvvisa, forse un cedimento cardiaco, circostanza non infrequente in persone che fanno uso di droghe da tempo. Pochi giorni prima dell’attacco a Isauro Zarantonello, un altro tassista aveva subito un’aggressione con modalità simili: questo dettaglio non è sfuggito alla procura, che ora farà indagini per scoprire se i due episodi sono collegati in qualche modo. Bologna: la Garante; prime 48 ore decisive, maggiore sorveglianza per i nuovi ingressi di Valerio Varesi La Repubblica, 29 marzo 2016 "Occorre grande attenzione e sorveglianza per i detenuti che entrano in carcere, almeno per le prime quarantotto ore e in special modo per chi viene rinchiuso la prima volta" spiega l’avvocato Desi Bruno, garante regionale per i detenuti. Questo non è un suicidio, ma non le sembra strano che uno possa morire in una cella, vale a dire in un luogo sorvegliatissimo? "Su questo caso sono in attesa di capire meglio parlando con le autorità della Dozza, ma in generale occorre una sorveglianza a vista i primi giorni di carcerazione". I primi giorni cosa succede? "Succede che uno perde i rapporti col mondo esterno, è privato della libertà e tutto gli precipita addosso. La crisi psicologica può portare a istinti suicidi". Quindi sorveglianza a vista? "I suicidi non manifestano mai l’intenzione di uccidersi e per questo occorrono controlli molto attenti. Proprio perché sfuggono, non dànno segnali di nessun tipo". I dati dicono che le morti in carcere sono in calo da 60-70 a 30-40 l’anno su scala nazionale. Qualcosa è migliorato? "È intervenuta l’autorità penitenziaria con una circolare e per questo è cresciuta l’attenzione, ma non ancora a sufficienza, visto che anche lo scorso 10 febbraio abbiamo avuto un suicida alla Dozza. E anche in questo caso nei primi giorni dopo la convalida dell’arresto". Questo caso come lo inquadra? Sembrerebbe un infarto o un malore. In ogni caso una morte non per le cause che lei individuava poc’anzi... "Bisogna dire che purtroppo ci sono anche morti inevitabili come forse il caso di specie, ma in generale l’attenzione di cui parlavo è necessaria e va incrementata evitando altre morti". Oltre alla sorveglianza a vista, cosa occorrerebbe attuare? "Ci vogliono presidi di tipo psicologico o psichiatrico perché la perdita di rapporto con il mondo può essere fatale". Bologna: il Sindacalista; noi guardie carcerarie lasciate sole a gestire le emergenze di Valerio Varesi La Repubblica, 29 marzo 2016 "Di detenuti morti ne abbiamo purtroppo tanti, specie per suicidio" commenta Giovanni Battista Durante, rappresentante del sindacato Sappe a cui aderisce una parte delle guardie carcerarie. Che idea si è fatto sulla morte di Carlo Bellotti, trovato morto domenica mattina alla Dozza? Poteva essere salvato? "Credo che le procedure siano state rispettate, compreso il fatto che gli è stata fornita la terapia prevista per i tossicodipendenti. Qui, però, non siamo di fronte a una morte per suicidio". Che tipo di vigilanza viene attuata sui detenuti a rischio? "Abbiamo circa mille casi all’anno di tentato suicidio nelle carceri italiane su una popolazione tra le 53 e 54mila persone. La maggior parte viene salvata dall’intervento della polizia penitenziaria. Ultimamente abbiamo incrementato la sorveglianza, tant’è che dai 60-70 morti all’anno siamo scesi a 30-40. L’anno scorso abbiamo avuto 39 vittime". Nel carcere di Bologna la situazione qual è? "Abbiamo una media di 3-4 casi l’anno, se non ricordo male, su una popolazione penitenziaria che è scesa da 1.200 a circa 700 detenuti. Ma quello di Bellotti non è un suicidio: si fa l’ipotesi di un infarto". Qual è la procedura che viene avviata quando entra un detenuto? "Nel caso di Bellotti è stato visitato da un medico, ma l’esame non è per forza sommario. E se c’è una patologia cardiaca, per fare un esempio, non la si può rilevare. È persino difficile da riscontrare negli sportivi professionisti, a volte. Però, se è necessaria una visita specialistica, il detenuto la ottiene nel giro di una settimana. Spesso molto prima di un comune cittadino". In questo caso il medico cos’ha fatto? "Da quel che so io l’ha visitato e trattandosi di un tossicodipendente, e gli ha prescritto una terapia sostitutiva a base di metadone. In questo caso non credo potesse fare di più". Bologna: il Cappellano; il Vescovo in carcere con gli ultimi per dare loro speranza di Valerio Varesi La Repubblica, 29 marzo 2016 Due giorni dopo il suo arrivo a Bologna, l’arcivescovo Matteo Zuppi si era recato in visita al carcere e il giorno di Pasqua v’è tornato per celebrare la messa assieme al parroco della Dozza Don Giovanni Nicolini. C’è molto di simbolico in questa sua vicinanza agli "ultimi", dopo aver riscontrato che a Bologna albergano "cuori chiusi e aggressivi", come Zuppi ha rimproverato nell’omelia del Venerdì Santo. "Invece, nella messa celebrata nella chiesetta della Dozza, il vescovo Matteo ha usato più volte l’espressione "tirar fuori" ispirandosi a un dipinto alle spalle dell’altare che rappresenta il Signore che aiuta a uscire da una grotta un uomo e una donna tendendo loro la mano" spiega don Nicolini. Il Signore che, al contrario dei "cuori chiusi", aiuta, fa uscire dal buio Adamo ed Eva quali simbolo dell’umanità intera. "Insomma - riprende don Nicolini - il vescovo ha voluto restituire speranza, quella che ci dona il Signore nel significato più profondo della Pasqua, il passare dalla morte alla vita e quindi anche dal buio del carcere a un’esistenza migliore dopo". In ossequio allo stile colloquiale e amichevole dell’arcivescovo, la messa e la cerimonia a latere sono state molto informali, quasi colloquiali. "Papa Francesco non si stanca di dire che è soltanto per grazia del Signore che uno sta dentro" ha citato il presule con uno scherzoso invito a perseverare nella strada del miglioramento di se stessi. Nel contempo, sempre riferendosi al Papa, Zuppi ha regalato ai detenuti la "misericordina" che lo stesso pontefice ha indirizzato a essi per affrontare con più forza le pene. "Questa è la Pasqua - ha detto - quando tutto sembra finito, quando qualcuno ti dice che sei uno sbaglio, non c’è più niente da fare, è andata così, il Signore ti riaccende la speranza perché non vuole mai che la vita degli uomini finisca". Il presule ha poi ricevuto e salutato anche la sezione femminile del carcere. "C’erano tante persone commosse per il modo con cui il vescovo Matteo ha accolto i presenti" aggiunge don Nicolini. "Lui ama il rapporto quasi personale, si è fermato con tutti e a tutti ha chiesto il nome e il luogo di provenienza. È stato, come al solito, fraterno e amichevole secondo il suo stile". Zuppi, al di là della sua vicinanza ai carcerati, ha voluto altresì mantenere viva una tradizione che è appartenuta anche ai suoi predecessori. Il cardinal Carlo Caffarra, di cui ha preso il posto, celebrava la messa pasquale in carcere ogni anno. Ed è proprio a Caffarra che si è rivolto Zuppi annunciando ai detenuti di averlo invitato a pranzo promettendo di portargli anche i loro saluti. Napoli: intervista a Giuseppe Nese "entro aprile chiuderà anche l’Opg di Aversa" Il Mattino, 29 marzo 2016 Giuseppe Nese è il medico che guida il processo regionale per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, come disposto da una legge nazionale. Quanto manca? "All’Opg di Aversa sono presenti 16 persone e la chiusura è prevista nelle prossime settimane, entro aprile, quando saranno aperte nuove Rems nel Lazio e in Abruzzo". L’iter é cominciato nel 2012, quando si è stabilito che le persone internate avrebbero essere ricoverate esclusivamente nelle nuove strutture sanitarie attrezzate dalle Regioni. Un percorso poi perfezionato con la legge81 del 2014, ancora non è del tutto applicata. Perché? "Non ci sono stati problemi in questi anni per la dimissione dei pazienti dagli Opg. Sapevamo però sin dall’inizio di affrontare un percorso impegnativo". Quante persone continuano a essere inviate nelle strutture che hanno preso il posto degli Opg? È cambiato il loro profilo? "Sono sempre persone con difficoltà di accesso ai servizi sociosanitari, giovani e con gravi problematiche socio-economiche, personali e familiari. Il loro numero si è stato ridotto di molto, ma ancora troppe continuano ad essere inviate nelle Rems che dovrebbero essere usate come ultima e transitoria soluzione, privilegiando la cura e la riabilitazione in luoghi normali e con le stesse modalità adottate per tutti gli altri pazienti". Insomma, la riforma è ancora in bilico tra sicurezza e assistenza. "Richiede ancora molto impegno per essere pienamente realizzata, e soluzioni assistenziali analoghe a quelle nel 1978 disposte con la legge Basaglia per la chiusura dei manicomi Nel caso del superamento degli Opg è però essenziale che il miglioramento dell’attività dei servizi di salute mentale si associ alla collaborazione operativa con la magistratura". C’è questa collaborazione? "Da più di un anno stiamo lavorando con i magistrati di tutti i Tribunali e le Procure della Campania proprio per definire e stabilizzare le migliori forme di sinergia, e siamo prossimi al traguardo". In base alle nuove indicazioni, chi viene accompagnato nelle Rems? "Esclusivamente pazienti psichiatrici ritenuti dal giudice socialmente pericolosi; mentre le persone condannate o in attesa di giudizio, non in misura di sicurezza, devono essere accolte in carcere. Prima anche i detenuti spesso venivano assegnati agli ex Opg, che erano sostanzialmente istituti penitenziari e accoglievano tutti, malati e sani". Quali difficoltà si riscontrano? "Anzitutto, occorre abolire al ricorso alle misure di sicurezza provvisorie: questa è la condizione di quasi l’80 per cento delle persone presenti in Rems, solo temporaneamente ritenute pericolose, che devono invece essere considerate e trattate per quello che sono, persone per le quali non è accertato in via definitiva ne che abbiano commesso un reato ne che siano pazienti psichiatrici incapaci di intendere e di volere. Così, le Rems sostanzialmente sparirebbero". Le strutture campane hanno più posti di quanti previsti in origine. "Le 4 Rems hanno 68 posti letto tra Avellino e Caserta. L’attuale offerta aggiuntiva (28 in più) deriva dalla necessità di dare soluzioni alle criticità, tra cui c’è appunto un incremento del ricorso alle misure di sicurezza provvisorie". In strutture isolate come a Roccaromana c’è il rischio di riproporre meccanismi di esclusione dell’Opg? "Le altre tre Rems sono tutte nel pieno centro, una è addirittura a 100 metri dal Municipio". Tutti piccoli centri. "È vero, ma evidentemente in questi contesti esistono forme sociali di maggiore integrazione e accoglienza. Inoltre, con la prossima apertura della Rems definitiva a Calvi Risorta verrà meno la necessità che ha determinato l’attivazione provvisoria nel sito poco integrato. Ma, per evitare il rischio di isolamento ed esclusione, in Campania si è stabilito fin dal 2012 che devono essere create particolari condizioni con le comunità locali per favorire progetti e sono previste risorse per il reinserimento socio-lavorativo dei pazienti". Progetti nel cassetto. Perché? "Il protocollo d’intesa ha già prodotto i primi inserimenti lavorativi a Mondragone ed è in fase di attivazione negli altri comuni". Roma: detenuti all’Ospedale "Bambino Gesù", ma solo per lavorare al Cup di Giuseppe Picciano ladiscussione.com, 29 marzo 2016 "La collaborazione tra Bambino Gesù e Rebibbia offre ai detenuti molto motivati e competenti una valida possibilità di reinserimento lavorativo e permette all’ospedale di accrescere la qualità dei servizi offerti ai piccoli pazienti e alle loro famiglie". Mariella Enoc, presidente dell’ospedale pediatrico romano commenta con soddisfazione la conferma, per il quinto anno professionale, della convenzione con il penitenziario della Capitale e la Cooperativa sociale "e-Team" che coniuga l’inserimento professionale dei detenuti con il miglioramento dei servizi di prenotazioni sanitarie. Ogni giorno al Centro Unico Prenotazioni dell’Ospedale (Cup) arrivano centinaia di telefonate, una media di 20mila richieste al mese, per un totale di prestazioni ambulatoriali che ogni anno supera il milione. Oltre il 30% di questa mole di prenotazioni viene gestito proprio nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Il servizio è svolto da un gruppo di detenuti selezionati con una serie di colloqui di idoneità e preparati al lavoro dal personale del Bambino Gesù: da quasi 5 anni accolgono le telefonate dei genitori che vogliono prenotare una visita per i propri figli, verificano l’impegnativa, fissano l’appuntamento. L’obiettivo della convenzione è offrire un’opportunità professionale retribuita a detenuti che altrimenti rischierebbero di restare esclusi dal tessuto produttivo e ottimizzare le prestazioni del Cup dell’Ospedale Pediatrico della Santa Sede. Dal 2011 a oggi sono stati formati e impiegati circa 30 reclusi. Attualmente il servizio è affidato a 10 detenuti (9 operatori e un coordinatore) che lavorano all’interno del carcere attraverso collegamenti telematici forniti dall’ospedale insieme al supporto tecnico per il funzionamento dei programmi utilizzati. "Questa iniziativa - aggiunge la presidente Enoc - dimostra che l’impegno dell’ospedale è declinato su diversi fronti sociali oltre a quello profuso nella ricerca e nella cura dei bambini. È una sinergia tra due sofferenze. La sofferenza di chi è privato della libertà e di chi deve risolvere un problema di salute. È una sensibilità tutta particolare, quella con cui queste persone rispondono". Milano: ex detenuti imparano a riparare bici con la "Ciclofficina Zona Loreto" italpress.com, 29 marzo 2016 A Milano, in uno stabile confiscato alla mafia in via Paisiello nasce la "Ciclofficina Zona Loreto". Grazie alla presenza di un maestro biciclettaio, l’Associazione Gruppo volontari A.G.V. insegnerà a ragazzi dell’Istituto penale minorile Beccaria a riparare e biciclette. I ragazzi saranno monitorati da operatori del Comune durante tutto il loro percorso di reinserimento nella società. "È molto positivo che un bene tolto alla mafia diventi uno strumento per sostenere percorsi di legalità e progetti utili per il futuro dei giovani milanesi - dicono gli assessori Marco Granelli, Pierfrancesco Maran e Pierfrancesco Majorino. È importante che all’interno di questi locali sia sorta una ciclofficina, un servizio che promuove l’uso delle due ruote e della mobilità sostenibile in una città dove i ciclisti sono sempre più numerosi". A Milano i beni confiscati e poi riassegnati sono complessivamente 161: sono stati destinati ad associazioni del Terzo Settore e del Volontariato e utilizzati per numerose attività di sostegno alla persona e per la promozione della socialità: assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, laboratori di quartiere per giovani, abitazioni per famiglie in difficoltà, negozi solidali, spazi per iniziative culturali. Reggio Calabria: detenuti "mosaicisti" aiutano anche Kaulon di Domenico Marino Avvenire, 29 marzo 2016 "La bellezza salverà il mondo! Mosaici in Carcere" è il titolo dato al progetto mirato alla riabilitazione civica e lavorativa dei detenuti della casa circondariale di Reggio Calabria. Tutti impegnati in laboratorio tra tessere e colla, draghi, delfini e tanta pazienza, per riprodurre con materiale di risulta i meravigliosi mosaici conservati nella villa romana di Monasterace, tra quello che resta della Kaulon magnogreca lungo lo Jonio reggino. L’iniziativa, promossa dalla consigliera di parità della Provincia, Daniela De Blasio, è stata possibile grazie alla collaborazione della direttrice del carcere Maria Carmela Longo. Fondamentale l’impegno dei reclusi, che si sono messi a lavorare con passione per curare in ogni dettaglio le opere, veri "falsi" di qualità presentati al pubblico nei giorni scorsi con un evento cui hanno preso parte, tra gli altri, la stessa consigliera di parità, il presidente della Provincia, Giuseppe Raffa, l’assessore alla Cultura e alla Legalità, Eduardo Lamberti Castronuovo, e il presidente del Tribunale, Luciano Gerardis. L’ottimo lavoro dei detenuti permette, tra l’altro, di riaccendere i riflettori sulle condizioni dell’area archeologica di Kaulon, ormai da anni vittima delle mareggiate e della trascuratezza delle amministrazioni. Coi draghi e i delfini del grande mosaico alla Casamatta costretti a osservare malinconicamente l’abbandono in cui sono dimenticati, probabilmente mai conosciuto negli oltre duemila anni d’esistenza. Eppure, ne hanno viste e passate tante, durante tutti questi secoli. Terrorismo. Il Viminale: fondi alle periferie e imam moderati nelle carceri di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 L’incubo di un attacco jihadista in Italia accelera i progetti di integrazione e di collaborazione con la comunità islamica. Non si mettono in piedi in un giorno e al ministero dell’Interno fino a non molto tempo fa languivano senza molti sostenitori. Adesso le spinte a riprenderli sono numerose: il rischio che sia troppo tardi è dietro l’angolo. Se il dipartimento di Ps, guidato da Alessandro Pansa, sollecita prefetti e questori a verificare ogni situazione di minaccia annidata nelle periferie e le marginalità sociali, da qualche giorno il ministro Angelino Alfano ha rimesso in moto anche una macchina destinata a un obiettivo preciso: prevenire, ridimensionare e ove possibile eliminare le forme di radicalizzazione islamica. Possibili, probabili e numerose. Statistiche vere non ce ne sono ma le potenzialità sono come minimo elevate. Le direttrici dell’azione di governo, non solo del Viminale, sono due. "Un lavoro capillare nelle carceri; un intervento in tutte le situazioni di degrado e povertà", come spiega il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico (Pd). Dall’esterno, può apparire un pannicello caldo. In realtà l’azione repressiva delle forze dell’ordine poco o nulla può contro la crescita di quelle che sono state chiamate le Molenbeek d’Europa, i quartieri in Belgio e anche in Francia inaccessibili ai tutori della legge dove è cresciuto negli anni l’odio islamico contro la cultura occidentale, terreno fertile per il reclutamento dell’Isis. Occorre scongiurare questi scenari e risolverli dove sono presenti anche solo in fase embrionale. Nessuno può giurare che in Italia non ci sia nulla del genere. "Nelle carceri oggi abbiamo le maggiori evidenze dei rischi di radicalizzazione in Italia. Sono molte e diffuse. È lì, insieme al ministero di Grazia e Giustizia, che dobbiamo fare un lavoro più urgente e puntuale", dice senza giri di parole Bubbico. Gli esempi di reclutamento e di conquista alla jihad dietro le sbarre, del resto, ormai non si contano nelle inchieste giudiziarie; l’ultimo caso in un’indagine del Ros dei Carabinieri resa nota due settimane fa dalla procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone. La scorsa settimana al Copasir il generale Arturo Esposito, direttore dell’Aisi (il servizio segreto interno), ha spiegato con dovizia di particolari le potenzialità informative e i risultati finora ottenuti proprio nell’azione di ricognizione, ormai a largo raggio, degli agenti tra gli istituti penitenziari di tutt’Italia. L’attenzione, insomma, è più alta di quanto si immagini. Forse anche perché finora non è stata così capillare com’era necessario. Spiega Bubbico: "Ora si tratta di inviare negli istituti penitenziari soggetti esterni, in grado di professare l’Islam moderato e non violento. Devono essere, in sostanza, imam riconosciuti non solo dalle nostre autorità ma anche dalla comunità islamica in Italia con cui siamo in dialogo e confronto. È un’operazione che dovrà passare anche da un esame con l’organismo ufficiale di consultazione presso l’Interno". La realtà attuale è inquietante: i cosiddetti imam in carcere sono anch’essi soggetti reclusi. Il rischio che predichino un Islam violento è impossibile da escludere. Così nello scorso novembre il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), guidato da Santi Consolo, ha stipulato un protocollo d’intesa con l’Ucoii (Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia) proprio per "favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari". Al Viminale, con Beppe Pisanu e Giuliano Amato, era nata una Consulta per l’Islam italiana finita tra non poche polemiche su un binario morto. Alfano, dopo gli attacchi di Parigi di fine 2015, ha istituito e riunito il 24 febbraio scorso un "Tavolo permanente di consultazione" affidato al sottosegretario Domenico Manzione (Pd): già allora si ipotizzò un albo di imam e il varo di una campagna web contro il radicalismo religioso. Il ministro dell’Interno ha annunciato che presenterà il piano anti-radicalizzazione a Palazzo Chigi, dunque all’attenzione del presidente del Consiglio Matteo Renzi. In ballo c’è anche un "centro di ascolto" da istituire in ogni prefettura per aprire al dialogo con le comunità religiose locali in una forma coordinata e istituzionale. Ma l’impegno anti-radicalizzazione, sottolinea Bubbico, non è di ieri. "Il 29 luglio presso l’Istituto superiore di Polizia abbiamo svolto il vertice internazionale Countering violent extremism summit e, in partner con gli Stati Uniti, siamo stati capofila di un progetto che coinvolge 60 Paesi". La seconda sfida, la lotta contro la marginalità nelle periferie, "sta nella legge di stabilità che stanzia 500 milioni in proposito". Ma se i tempi sono brevi, è una scommessa a dir poco difficile. Terrorismo. Dopo Bruxelles, l’état d’urgence e la realtà materiale del crimine di Marina Calculli e Francesco Strazzari Il Manifesto, 29 marzo 2016 Sicurezza e terrorismo. Il dibattito seguito agli attacchi di Bruxelles tradisce in primo luogo un problema gigantesco: l’incapacità della sfera pubblica rispetto alla volontà, a parole sbandierata da tutti, di difendere i principi che rendono distinti il nostro sistema politico e la nostra società. Davanti all’inevitabilità della minaccia terrorista nell’era della guerra asimmetrica, il nostro apparato politico-mediatico si rivela in tutta la sua vulnerabilità e la sua pochezza. Si direbbe che una settimana di dibattito televisivo raffazzonato su Islam e terrorismo faccia parte del pacchetto completo cui siamo condannati dopo ogni attacco stragista. Si tratta di un loop catodico che sulle pagine di questo giornale abbiamo definito "meta-terrorismo": la replica non-stop di immagini di attacchi passati unita alla speculazione continua su cellule dormienti e attacchi in preparazione, il tutto animato dall’apparizione politici-surfisti dell’onda emotiva, improbabili inviati che cercano di strappare al musulmano di turno frasi ambigue o rassicuranti sull’atteggiamento della presunta "zona grigia" rispetto ai kamikaze Sullo sfondo, immagini di panico dopo le bombe, le forze speciali incappucciate, i volti dei terroristi, le strade deserte. In linea con la necessità di preservare il clima di allerta, urgenza ed eccezione - una sorta di palliativo rassicurante al brancolare nel buio della politica - le autorità belghe hanno di fatto bloccato la marcia "contro la paura" che era stata indetta a Bruxelles, lasciando però che un centinaio di nazisti sfilassero per le telecamere davanti al memoriale delle vittime. Eppure davanti alla rapidità d’innesco pret-à-porter del terrorista suicida, anche il repertorio da destra golpista, con le sue invocazioni di pena di morte e militari per le strade, offre armi ormai spuntate, e deve ripiegare sui biechi istinti da pogrom e tortura dei sospetti - le migliori speranze di reclutamento per Isis e compagnia. Più difficile da decodificare - camuffato dietro l’assenza di lettura politica della minaccia - il lessico dei "sicurocrati" impegnati a mostrarci che stanno agendo, annunciando nuovi sistemi informatici "di formidabile potenza": nuovi algoritmi che, associando fatti a intenzioni attraverso l’elaborazione dei big data che le nostre vite quotidiane producono (quando acquistiamo un biglietto o interveniamo in un dibattito online) consentiranno di identificare la minaccia prima che sia troppo tardi. Tale computo consentirebbe di spostare l’azione repressiva sul versante della prevenzione, abilitandola proprio là dove incertezza e allerta sono costanti, e la possibilità non rappresenta più un ostacolo ad agire. Ecco che il politico o il funzionario di turno, a cui una compagnia cyber o un consulente, dopo il consueto lobbying, hanno piazzato il programma top di gamma del momento, sono sgravati di una pesante responsabilità. Il problema resta però squisitamente politico e si articola su più dimensioni. Partiamo dalla dimensione intra-europea, dove peraltro un consenso univoco tra i diversi ordinamenti nazionali su cosa giuridicamente costituisca "terrorismo" non esiste (così come non esiste per il diritto internazionale): lo stesso ufficio del coordinatore anti-terrorismo europeo, Gilles de Kerchove, manovra fra compiti di mera facilitazione e supporto. La ragione non è tecnica, ma ha piuttosto a che vedere con il nesso profondo che vincola politica, violenza e terrorismo in un mondo in cui non esiste ormai più guerra né regime autoritario in cui il nemico/oppositore non sia etichettato come terrorista. Il clima da état d’urgence e magnificazione ideologica dell’attacco non permette di focalizzarsi lucidamente sulla realtà materiale del crimine, sul carattere locale della banda criminale che lo ha perpetrato, sulla dimensione di rapporti familiari, di vicinato, di connivenza da quartiere che - bypassando l’ascolto dei sofisticati programmi di raccolta dati - riducono l’entità spettacolare dei tragici eventi di Bruxelles ad una banalità disarmante. Su questi vicinati, perfettamente incastonati nel tessuto urbano e sociale d’Europa, la politica ha a lungo glissato e continua a glissare. Enfatizzandone il carattere ideologico e religioso - che è tuttavia il pericoloso sfogo congiunturale di un malessere nichilista, per dirla con Olivier Roy, che esisteva ben prima la proclamazione del sedicente Stato Islamico - non facciamo che riprodurne il messaggio, fallendo nell’articolare una risposta che ne delegittimi politicamente l’azione, riducendone i protagonisti a quello che essenzialmente sono, ovvero criminali di quartiere alla ricerca di un adrenalinico senso mistico-salvifico a vite sciupate. Sulla stessa linea, il prevedibile esito dell’ennesimo vertice straordinario Ue convocato d’urgenza giovedì scorso, ci riporta l’impegno dei 28 paesi membri a scambiarsi più dati (abbiamo forse qualcosa da nasconderci?), un sostanziale accordo sul registro dei passeggeri dei voli e sul pattugliare i confini, soprattutto le coste - notoriamente prese d’assalto da pericolosi terroristi. Insomma, l’ostinato rifiuto di ammettere che la minaccia non si articola affatto nello scarto tra un "dentro" sicuro e un "fuori" insicuro, ma è - ed è sempre stata - una questione articolata internamente. Eppure una connessione tra "dentro" e "fuori" esiste eccome, ed è il secondo aspetto a cui non danno riconoscimento politico i nostri ministri - fermi a contemplare le frontiere criticando "l’Europa che è lenta" (loro che fino a ieri auto-incensavano per aver riportato l’enfasi su "sicurezza nazionale" e "interesse nazionale"). Il legame tra la sicurezza dell’Europa e l’insicurezza dei vicini europei - alimentata dalle poco utili bombe europee, dal rafforzamento dei legami con i dittatori amici, dall’abbandono della condizionalità democratica nel gestire le relazioni estere, dalla rinuncia a mettere ordine alle alleanze anche dopo gli attacchi di Parigi - non può che alimentare la macchina nichilista che produce cinture esplosive nei vicinati fuori controllo delle nostre città, e questo non può che travolgere - in ultima istanza - le premesse liberal-democratiche dell’Europa stessa. La direttiva Ue anti-terrorismo, che dovrebbe essere approvata entro giugno, va a toccare meccanismi estremamente delicati per le libertà fondamentali dei cittadini europei, senza prevedere un meccanismo di valutazione del suo impatto. La tanto invocata super-procura europea, se ci si arriverà, non sarà un ufficio tecnico, ma un luogo in cui giustizia e politica si frequenteranno quotidianamente, per il semplice fatto che non agirà in un ordinamento omogeneo. E questi sviluppi si annunciano proprio mentre Idomenei si trasforma nella Guantanamo greca, mentre la Turchia, paese che ha appena incassato un incoraggiamento nel suo percorso di candidato Ue, non solo impone sistematicamente bandi su informazione e internet, ma annuncia modifiche alla propria normativa anti-terrorismo, così da procedere a più ampi criteri di incriminazione atti a tenere sotto ricatto parlamentari, giornalisti, accademici e attivisti. Il dibattito seguito agli attacchi di Bruxelles tradisce in primo luogo un problema gigantesco: l’incapacità della sfera pubblica rispetto alla volontà, a parole sbandierata da tutti, di difendere i principi che rendono distinti il nostro sistema politico e la nostra società. Davanti all’inevitabilità della minaccia terrorista nell’era della guerra asimmetrica, il nostro apparato politico-mediatico si rivela in tutta la sua vulnerabilità e la sua pochezza. E mentre veicola il proprio attaccamento ai propri valori illudendosi con eccezioni e crisi di passaggio, il sistema politico è già cambiato. Terrorismo. Bruxelles: il free lance non è terrorista e gli altri errori Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 29 marzo 2016 Anche l’algerino arrestato a Salerno potrebbe essere innocente. Il giallo dell’agente ucciso. È stato scarcerato con non pochi imbarazzi Fayçal Cheffou. Non sarebbe lui l’"uomo col cappello" che accompagnava i fratelli el Bakraoui la mattina degli attentati di Bruxelles. "Gli indizi che avevano portato all’arresto di Cheffou non sono stati supportati dall’evoluzione dell’istruttoria in corso. Di conseguenza, l’interessato è stato rimesso in libertà dal magistrato", ha scritto la procura in un comunicato. Niente conferenze stampa, stavolta, per giustificare l’ennesimo errore investigativo, che appare figlio, stavolta, dell’esigenza di recuperare la figuraccia di non aver saputo prevenire gli attacchi e di dare una risposta immediata all’opinione pubblica. La stessa procura chiederà l’estradizione dell’algerino arrestato domenica per strada a Bellizzi, un comune del salernitano alle porte di Battipaglia, nella piana del Sele. Djamal Eddine Ouali sarebbe collegato alla cellula di Molenbeek e avrebbe fabbricato passaporti usati anche da Salah Abdeslam, l’ex "primula rossa" degli attentati di Parigi del 13 novembre. Le autorità starebbero appurando se abbia fornito documenti anche agli attentatori del 22 marzo. Ma anche questo arresto potrebbe risultare un errore. Oual, 40 anni, detenuto in isolamento nel carcere di Salerno, sarebbe ricercato dal 6 gennaio, ma è stato arrestato in maniera poco consona a un superlatitante. L’uomo ha infatti accompagnato sua moglie, incinta, all’ufficio immigrazione della Questura per chiedere un permesso di soggiorno per motivi di salute per lei e un altro per lui, in modo da poterla assistere. I poliziotti lo hanno riconosciuto, dopo una serie di comparazioni, e domenica pomeriggio è scattato il blitz della Digos a una fermata del bus. Ouali si è dichiarato innocente, ma quel che colpisce ulteriormente è che a difenderlo è sceso in campo perfino il sindaco della cittadina salernitana, Domenico Volpe, che non ha escluso un "furto d’identità" ai danni dell’algerino. La catena di errori non si ferma qui. La tv di Srato greca Ert ha rivelato che le autorità greche avevano trasmesso a quelle belghe tutti i risultati delle perquisizioni di gennaio 2015 nell’appartamento di Abbaoud ad Atene, grazie alle quali furono ritrovate mappe e disegni dell’aeroporto di Zaventem. Secondo Ert, le autorità greche avevano convenuto con quelle belghe di procedere insieme alle perquisizioni dell’appartamento di Pagrati, dove Abbaoud aveva vissuto a gennaio 2015. Ma la collaborazione è saltata e i belgi hanno chiesto ai greci di procedere da soli. Con quali risultati è sotto gli occhi del mondo. L’ennesimo pasticcio riguarda invece la presunta minaccia alle centrali nucleari. Secondo un esperto interpellato dall’agenzia di stampa russa Tass, l’obiettivo della cellula jihadista sarebbe stato quello di entrate in possesso di isotopi radioattivi per creare "bombe sporche" piuttosto che organizzare un attacco a una centrale nucleare. Secondo l’esperto, i terroristi "stavano spiando il capo della ricerca nucleare belga" proprio per questa intenzione. L’idea dell’attentato alla centrale, come riportato da alcuni media, non avrebbe invece senso perché gli impianti di questo tipo hanno standard di sicurezza "molto alti" e gli esplosivi di tipo rudimentale usati dalla cellula di Bruxelles non avrebbero potuto causare danni "significativi". Al contrario, "bombe sporche" esplose nel centro delle città avrebbero causato un "disastro". Proprio isotopi radioattivi produce la Ire di Fleurus, dove lavorava Didier Prospero, l’agente di sicurezza ucciso giovedì scorso al quale sarebbe stato sottratto il badge (ma il furto è stato smentito e l’omicidio è stato catalogato come un furto finito male). L’agente lavorava per la G4S Belgio, filiale di una grossa multinazionale che opera nei servizi di sicurezza in tutto il mondo, finita nel mirino di una interrogazione alla Commissione Ue, nel 2011: l’europarlamentare irlandese Nessa Childers (Socialisti democratici) voleva sapere perché proprio a quest’ultima era stato assegnato un contratto per i servizi di sicurezza degli edifici della Comunità europea in Belgio, essendo risultato che la stessa ditta forniva attrezzature e servizi di sicurezza per le carceri della Cisgiordania occupata, per la polizia israeliana lì operante e anche per l’esercito israeliano che presidia i varchi del muro di separazione dichiarato illegittimo dalla Corte di giustizia internazionale. In questo scenario si innesta la revoca del badge e l’allontanamento di undici dipendenti della centrale nucleare di Liegi. Non è una novità. Già nel 2013 un tecnico che lavorava presso la centrale nucleare di Doel fu licenziato formalmente per diverbi con un superiore, in realtà perché si scoprì essere il cognato di Azzedine Kbir Bounekoub, un noto jihadista aggregatosi all’Isis nel 2012. Terrorismo. La strategia segreta dell’Isis di Manlio Dinucci Il Manifesto, 29 marzo 2016 "Il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra" (come lo definì nel 2001 il presidente Bush) continua a mietere vittime, le ultime a Bruxelles e a Lahore. È il terrorismo, un "nemico differente da quello finora affrontato", che si rivelò in mondovisione l’11 settembre con l’immagine apocalittica delle Torri che crollavano. Per eliminarlo, è ancora in corso quella che Bush definì "la colossale lotta del Bene contro il Male". Ma ogni volta che si taglia una testa dell’Idra del terrore, se ne formano altre. Che dobbiamo fare? Anzitutto non credere a ciò che ci hanno raccontato per quasi quindici anni. A partire dalla versione ufficiale dell’11 settembre, crollata sotto il peso delle prove tecnico-scientifiche, che Washington, non riuscendo a confutare, liquida come "complottismo". I maggiori attacchi terroristici in Occidente hanno tre connotati. Primo, la puntualità. L’attacco dell’11 settembre avviene nel momento in cui gli Usa hanno già deciso (come riportava il New York Times il 31 agosto 2001) di spostare in Asia il centro focale della loro strategia per contrastare il riavvicinamento tra Russia e Cina: nemmeno un mese dopo, il 7 ottobre 2001, con la motivazione di dare la caccia a Osama bin Laden mandante dell’11 settembre, gli Usa iniziano la guerra in Afghanistan, la prima di una nuova escalation bellica. L’attacco terroristico a Bruxelles avviene quando Usa e Nato si preparano a occupare la Libia, con la motivazione di eliminare l’Isis che minaccia l’Europa. Secondo, l’effetto terrore: la strage, le cui immagini scorrono ripetutamente davanti ai nostri occhi, crea una vasta opinione pubblica favorevole all’intervento armato per eliminare la minaccia. Stragi terroristiche peggiori, come a Damasco due mesi fa, passano invece quasi inosservate. Terzo, la firma: paradossalmente "il nemico oscuro" firma sempre gli attacchi terroristici. Nel 2001, quando New York è ancora avvolta dal fumo delle Torri crollate, vengono diffuse le foto e biografie dei 19 dirottatori membri di al Qaeda, parecchi già noti all’Fbi e alla Cia. Lo stesso a Bruxelles nel 2016: prima di identificare tutte le vittime, si identificano gli attentatori già noti ai servizi segreti. È possibile che i servizi segreti, a partire dalla tentacolare "comunità di intelligence" Usa formata da 17 organizzazioni federali con agenti in tutto il mondo, siano talmente inefficienti? O sono invece efficientissime macchine della strategia del terrore? La manovalanza non manca: è quella dei movimenti terroristi di marca islamica, armati e addestrati dalla Cia e finanziati dall’Arabia Saudita, per demolire lo Stato libico e frammentare quello siriano col sostegno della Turchia e di 5mila foreign fighters europei affluiti in Siria con la complicità dei loro governi. In questo grande bacino si può reclutare sia l’attentatore suicida, convinto di immolarsi per una santa causa, sia il professionista della guerra o il piccolo delinquente che nell’azione viene "suicidato", facendo trovare la sua carta di identità (come nell’attacco a Charlie Hebdo) o facendo esplodere la carica prima che si sia allontanato. Si può anche facilitare la formazione di cellule terroristiche, che autonomamente alimentano la strategia del terrore creando un clima da stato di assedio, tipo quello odierno nei paesi europei della Nato, che giustifichi nuove guerre sotto comando Usa. Oppure si può ricorrere al falso, come le "prove" sulle armi di distruzione di massa irachene mostrate da Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 5 febbraio 2003. Prove poi risultate false, fabbricate dalla Cia per giustificare la "guerra preventiva" contro l’Iraq. Terrorismo. L’Fbi sblocca l’iPhone del killer di San Bernardino senza l’aiuto di Apple Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2016 È ufficiale: la polizia federale americana non ha più bisogno di Apple. È infatti riuscita a sbloccare l’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due attentatori che lo scorso dicembre aprirono il fuoco a San Bernardino (California) uccidendo 14 persone e ferendone una ventina. Di conseguenza il dipartimento di Giustizia ha deciso di chiudere il caso legale contro il gruppo produttore dello smartphone, che si era rifiutato di adeguarsi a un ordine di un giudice in base al quale avrebbe dovuto creare un software capace di abbassare le difese di quell’iPhone, permettendo all’Fbi di bombardarlo con una marea di password fino a quando sarebbe stata trovata quella giusta. Quel rifiuto aveva avviato un braccio di ferro tra il governo Usa e l’azienda che avrebbe dovuto portare a un’udienza, il 21 marzo scorso posticipata perché il dipartimento di Giustizia disse di avere trovato una possibile soluzione per lo sblocco del dispositivo grazie all’aiuto di un "soggetto terzo" che resta tutt’ora sconosciuto (nei giorni scorsi era emerso il nome dell’azienda israeliana Cellebrite). Una settimana esatta dopo, il dipartimento stesso ha comunicato che quella soluzione ha funzionato rendendo inutile un’udienza futura. "Il governo ha con successo avuto accesso ai dati conservati nell’iPhone di Farook e di conseguenza non richiede più l’assistenza di Apple", recita un documento depositato ieri dal dipartimento di Giustizia. Le autorità competenti "hanno con successo recuperato i dati" e ora l’Fbi li sta analizzando "in linea con le procedure standard di indagine". La speranza è quella di trovare informazioni utili che spieghino potenziali legami di Farook con gruppi terroristi. La battaglia tra il governo e Apple non è comunque finita. I legali del gruppo guidato da Tim Cook avevano già detto di volere sapere quale metodo è stato usato per sbloccare l’iPhone ma non è affatto detto che Washington voglia condividere questa informazione. Se il metodo diventasse top secret, si solleverebbero dubbi sulla sicurezza dei prodotti Apple. Il timore è che i suoi utenti potrebbero essere esposti a parti terze che potrebbero usare la vulnerabilità dei suoi dispositivi per accedervi a fini illeciti. Inoltre il dibattito sulle tecnologie di crittazione resta comunque aperto: gli Stati Uniti "continueranno a perseguire tutte le opzioni a disposizione" per permettere alle autorità di mettere le mani su quanto salvato su un dispositivo considerato rilevante. Una tale missione verrà portata avanti "sia cercando la cooperazione dei gruppi manifatturieri sia facendo affidamento sulla creatività nei settori pubblico e privato", ha spiegato una portavoce del dipartimento di Giustizia. Resta il fatto che il dipartimento di Stato aveva originariamente sostenuto che "l’assistenza cercata poteva essere fornita soltanto da Apple". Cosa evidentemente non vera. Migranti. La carovana di aiuti tra le tende di Idomeni di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 29 marzo 2016 Hanno superato il blocco della polizia greca e portato generi di prima necessità ai migranti al confine con la Macedonia. Hanno lasciato il segno a Idomeni, nella mega tendopoli della vergogna europea, come lungo le strade di Salonicco, seconda città della Grecia che annaspa nella crisi. E di notte si sono imbarcati a Igoumenitza nel traghetto "veloce" che oggi pomeriggio arriverà a Ancona. Già pronti a raggiungere il confine del Brennero, dove domenica è in programma la nuova iniziativa di #Overthefortness. In poco meno di 300 hanno partecipato alla carovana che ha attraversato il sottile confine fra Europa e altri mondi, diritti sulla carta e disperati esodi, governi di palazzo e persone abbandonate lungo un binario morto. È un viaggio che sarà difficile da dimenticare. Ciascuno riporta in Italia ciò che ha visto di persona, toccato con mano e ascoltato senza guardare uno schermo al plasma. Tutti testimonieranno e nessuno dimenticherà. Fino all’ultimo gli "artigiani" sono rimasti a Idomeni, nel cuore di un campo profughi dove sopravvivono oltre 11 mila "fantasmi" - per lo più siriani e curdi - che la Macedonia non vuole e Atene ha abbandonato lungo la ferrovia al confine. Il drappello ha lavorato per illuminare finalmente l’area di fronte ai bagni chimici, garantire un po’ più di elettricità e "saponette" wi fi, regalare un generatore alla tenda infopoint, montare un gazebo anche a beneficio dei bambini. E sono ripartiti con la lista di nuovi impegni concordati con Medici senza frontiere, volontari e ong "di base". Contemporaneamente davanti alla prefettura di Salonicco sono arrivate le altre pettorine arancioni della carovana. Con la rete studentesca Antarsya e i migranti dell’orfanatrofio occupato di Salonicco hanno richiamato l’attenzione sulle conseguenze del recente accordo fra Unione europea, Grecia e Turchia. Poi in corteo hanno attraversato la città all’insegna dello slogan No borders, no nations. Ma è impossibile archiviare in fretta la giornata di domenica. Sintetizza Tommaso Gregolin di Melting Pot che ha coordinato "sul campo" le iniziative di #Overthefortness: "Arrivare così in tanti al campo di Idomeni ha creato un sacco di aspettative. E qualcuno molto stupidamente aveva fatto girare la voce che avremmo fatto varcare il confine che, invece, resta sempre blindato. Così all’inizio c’è stata molta agitazione, perfino fra alcune ong. Ma alla fine abbiamo semplicemente fatto quello per cui siamo venuti: distribuire tutto il materiale raccolto in Italia e realizzare nuovi servizi indispensabili. E dai migranti e dai volontari abbiamo ricevuto apprezzamento per come ci siamo comportati, al di là delle sciocchezze rimbalzate in televisione". Del resto, insieme agli attivisti dei centri sociali del Nord Est e delle Marche si sono rimboccati le maniche studenti di Parma, siciliani NoMuos, il "team legale", gli amici del Baobab, la delegazione di Welcome Taranto, l’associazione lgbt Anteros, la Federazione europea dei giovani Verdi, interpreti di arabo, sanitari, insegnanti e le donne della carovana per i diritti dei migranti (che partirà da Torino il 2 aprile per concludersi a Palermo il 18). Ma domenica di Pasqua i bus della carovana sono stati bloccati sul ponte dalla polizia greca in assetto antisommossa. Tre ore di inspiegabile "respingimento" della stessa carovana che sabato pomeriggio aveva già raggiunto il campo. Sull’asfalto schierati polemicamente gli scatoloni di medicinali, decine di paia di scarpe, coperte, vestiario. Generi di prima necessità che intanto arrivavano anche nei "campi satellite" di Policastro. Alla fine, #Overthefortness ha guadagnato l’accesso alla stazione ferroviaria e da lì, con i furgoni, dentro la tendopoli. Finché c’è stata luce la distribuzione si è alternata tenda per tenda, ma anche nella zona delle vecchie stalle con i tetti d’amianto. I bambini (che rappresentano il 40% dei "residenti") hanno giocato, disegnato, corso e scherzato. Le donne hanno ricevuto sostegno, non solo materiale. Gli uomini hanno confessato le conseguenze atroci della guerra in Iraq, Siria e Afghanistan. "In due giorni al campo ho scattato adesso solo questa…" ammette con il cellulare in mano e gli occhi lucidi Stella. Con Barbara e Valentina per settimane hanno scommesso su questa "missione popolare" che è diventata un piccolo grande miracolo di auto-organizzazione, consapevolezza e disciplina. Sembrava un azzardo per pochi "militanti". È diventata una risposta imprevedibile, dopo le prime 150 iscrizioni. Sarà una lunga eco, ben oltre i riscontri immediati nei social. "Scrivete di questo posto dimenticato da tutti, tranne che da chi rivendica libertà di movimento e movimento in libertà" esige il pastafariano Jacopo che si è già scatenato nella sua testimonianza sul limbo dell’umanità di Idomeni. Ha lasciato un segno. Sulla carovana delle pettorine arancioni. È il timbro invisibile nel passaporto di migliaia di profughi e migranti. Il segno manifesto dell’indelebile vergogna d’Europa. Egitto: caso Regeni, al-Sisi gioca l’ultima carta di Nello Scavo Avvenire, 29 marzo 2016 Le autorità egiziane consegneranno "tutta la documentazione richiesta" dagli inquirenti italiani. Lo ha confermato al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone il procuratore generale della Repubblica Araba d’Egitto, Nabil Sadeq nel corso di una telefonata in vista del vertice a Roma di martedì prossimo. Il magistrato egiziano ha "ribadito l’impegno di continuare le indagini in ogni direzione - si legge in una nota di Pignatone, sino all’accertamento della verità". Una promessa non nuova ma che stavolta difficilmente può essere elusa senza incorrere in gravi ripercussioni nei rapporti tra i due Paesi. Dal 5 febbraio, quando il corpo del ricercatore italiano è stato rinvenuto, si sono susseguite versioni e depistaggi che fanno dubitare sulle reali intenzioni del governo egiziano. L’ultima "ipotesi", quella di un sequestro per rapina, deve scontrarsi con una serie di domande senza risposta. Come sono arrivati i documenti di Giulio Regeni nell’abitazione di Tarek Abdel Fatah, il presunto capo della banda di sequestratori coinvolta secondo le autorità cairote nella morte del ricercatore? Chi è l’"amico" che li ha portati? Chi li ha tenuti dal 25 gennaio, giorno della scomparsa di Giulio fino alla settimana scorsa quando, secondo la moglie di Fatah, sono "arrivati" nelle mani del marito? Perché sostenere che lo zainetto rosso con il tricolore italiano fosse di Regeni, sapendo che la bugia sarebbe stata scoperta in poche ore? L’ennesimo depistaggio egiziano è una gruviera. Ecco perché gli inquirenti italiani, sia quelli della procura di Roma che il team di investigatori inviato al Cairo, ribadiscono che non c’è alcuna prova concreta del coinvolgimento della banda, mettendo in fila tutte le incongruenze dell’ultima versione: dai soldi mai spariti dal conto di Regeni, nonostante la banda avesse il bancomat (su cui non risultano neanche tentativi di prelievo), al perché i sequestratori avrebbero tenuto i documenti; dalle torture subite per giorni dal ricercatore all’assoluta mancanza di un movente credibile fino alla sparatoria in cui sarebbero stati uccisi cinque membri della banda ma di cui si conosce solo il nome del presunto capo. Incongruenze che è lo stesso Egitto ad alimentare, con versioni che cambiano a distanza di poche ore dagli annunci ufficiali con i quali si vorrebbe far credere che il caso è chiuso. Fonti della procura generale hanno fatto trapelare, ad esempio, una "confessione" della moglie e della sorella di Fatah, poi del tutto smentita. E in queste ore circola un’ulteriore versione, che gli italiani non prendono neanche in considerazione: Fatah e i suoi erano una banda di ricattatori che, una volta ottenuti i documenti di Regeni, volevano farci dei sol- di ricattando qualcun altro dietro la minaccia di farli trovare nelle loro abitazioni. Anche la vicenda dell’"italiano" che sarebbe stato rapinato dai sequestratori, tale David K., è tutta da chiarire. Secondo il portavoce del ministero dell’Interno egiziano l’uomo sarebbe stato costretto dalla banda a ritirare da una banca 10mila dollari e avrebbe presentato denuncia il 23 febbraio scorso, ma all’ambasciata italiana non risulta nulla. Secondo il portavoce, inoltre, in quell’occasione all’italiano sarebbe stato detto che "aveva rapporti con gruppi terroristi e persone sospette". Una frase apparentemente senza senso, ma che al contrario si addice ai "Baltagiya", letteralmente "i banditi", il nome con cui sono noti gli squadroni della repressione, utilizzati per il lavoro sporco e non ufficiale degli apparati di sicurezza. Il ricercatore friulano è scomparso il 25 gennaio al Cairo in circostanze che la Farnesina ha definito subito "misteriose". Il 6 febbraio le forze di Sicurezza egiziane fanno sapere diaver arrestato due persone, poi rilasciate. Per diversi giorni, il Cairo si esercita in svariate ricostruzioni: dall’omicidio a sfondo omosessuale, al regolamento di conti per fatti di droga, all’atto criminale, all’uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani, compiuto per creare imbarazzo al governo di Al Sisi. L’1 marzo indiscrezioni sull’autopsia egiziana rivelano che Giulio è stato torturato per almeno cinque, e forse addirittura sette giorni, ad intervalli di 1014 ore, ma il Cairo smentisce. Il 14 febbraio arriva in Egitto il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, dove incontra il collega, Nabil Sadeq. Entrambi affermano che "i colloqui sono stati positivi". Nello stesso giorno, un testimone riferisce che Regeni ebbe un’accesa discussione "con un ‘altro straniero" dietro la sede del consolato italiano al Cairo. I media parlano anche di un video in possesso del consolato italiano. Falso: le videocamere della sede diplomatica sono disattivate da luglio. Infine, il 24 marzo, il vano tentativo di chiudere l’inchiesta con l’uccisione dei cinque presunti sequestratori. Cresce in Israele il sostegno al soldato-killer di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 marzo 2016 Si moltiplicano gli appelli a sostegno del militare che giovedì scorso aveva ucciso a sangue freddo un palestinese che aveva ferito un israeliano a Tel Rumeida. È un "eroe" per gran parte dell’opinione pubblica. Critiche a Netanyahu e all’Esercito che hanno approvato il suo arresto. "Riuniamoci tutti alle 18 all’incrocio grande, statale 38, per affermare che il nostro soldato è un eroe".Questo annuncio apparso nella cittadina di Beit Shemesh, alle porte di Gerusalemme, è solo uno dei tanti apparsi in questi ultimi giorni a sostegno del militare israeliano che giovedì scorso ha ucciso a sangue freddo un palestinese ferito e immobile sull’asfalto, Abdel Fattah al Sharif, 21 anni, responsabile dell’accoltellamento (senza gravi conseguenze) di un soldato a Tel Rumeida, ad Hebron. La vicenda, emersa grazie al filmato girato da un attivista palestinese del centro per i diritti umani B’Tselem, mostra una società schierata in maggioranza dalla parte del soldato-killer che, dicono e scrivono tanti israeliani, avrebbe fatto "la cosa giusta" e sarebbe un eroe. La petizione pubblica che chiede di assegnare al militare la "medaglia d’onore" ieri sera era stata firmata già da 51.900 israeliani. Intanto il palestinese che dalla propria abitazione ha ripreso l’uccisione a freddo di Abdel Fattah al Sharif denuncia di essere stato minacciato di morte da parte dei coloni israeliani di Tel Rumeida che si sarebbero detti pronti a bruciare la sua abitazione se non lascerà subito Hebron. Il caso del soldato-killer, di cui non si può rendere nota l’identità, ha innescato proteste contro il premier Netanyahu e i vertici delle Forze Armate che la scorsa settimana, avevano condannato l’uccisione sommaria del palestinese e approvato l’arresto del militare. I ministri ultranazionalisti, a cominciare da quello dell’educazione Naftali Bennett (Casa ebraica), criticano il primo ministro, che pure è ideologicamente vicino alla destra radicale, perché ha condannato "troppo in fretta" un soldato che "ama la sua patria" e "ha fatto il suo dovere". Oggi gli arresti del militare saranno prolungati e alcuni deputati ed esponenti dell’estrema destra, fra cui l’ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman, saranno presenti al dibattito per incoraggiarlo. Messaggi di dolore e di protesta vengono diffusi in continuazione dalla famiglia, dall’avvocato e dagli amici del militare che, secondo una tesi, avrebbe ucciso il palestinese a sangue freddo perché temeva che potesse azionare un corpetto esplosivo nascosto sotto la giacca. Tesi smentita dalla testimonianza di un altro militare il quale ha riferito al suo comandante che prima di sparare il soldato sotto inchiesta gli aveva confidato "che il terrorista aveva ferito un suo amico e meritava di morire". A nulla erano valse le rassicurazioni offerte dal testimone sulle condizioni del soldato, ferito solo leggermente dalla pugnalata subita. Inoltre dopo aver ucciso il palestinese il militare è andato a stringere la mano a Baruch Marzel, esponente dell’ala più radicale del movimento dei coloni, accusato più volte in passato di aver preso parte ad azioni violente contro la popolazione palestinese che vive intorno alle colonie ebraiche a Hebron. Le motivazioni del soldato, vere o false, in realtà contano poco in un clima che, ha notato Natasha Roth del sito d’informazione +972, sostiene e non scoraggia questo tipo di azioni. Un sondaggio della rete televisiva Channel 2 mostra che il 57 per cento degli israeliani è contro l’arresto del soldato ordinato dalla procura militare. La pluralità degli intervistati, il 42 per cento, descrive la sua azione "responsabile" mentre un altro 24 per cento pensa che l’uccisione del palestinese sia stata una reazione naturale. Solo il 19 per cento ha detto che il soldato è andato oltre gli ordini ricevuti e appena il 5 per cento parla di omicidio e approva la posizione presa da Netanyahu e dall’esercito che hanno condannato l’uccisione sommaria del palestinese (contro il 68% per cento). Sui social i commenti sono persino più radicali delle risposte riferite dal sondaggio. Pagine e profili di Facebook sono colmi di inni al soldato e al suo "coraggio" e che esortano a seguire il suo esempio. Il punto centrale è quello degli input che ricevono la società israeliana e i militari più giovani, dal mondo politico e da quello religioso più oltranzista. Il rabbino capo sefardita di Israele, Yitzhak Yosef, qualche settimana fa aveva definito un "precetto religioso" uccidere gli assalitori palestinesi anche se il capo di stato maggiore e la Corte suprema possono pensarla diversamente. Ora lo stesso Yosef ricorda ai "gentili", i non ebrei, che potranno vivere in Israele solo se rispetteranno i "sette principi" etici della legge religiosa ebraica. Contano anche le continue proposte di legge della ministra della giustizia Ayelet Shaked (Casa ebraica) ben inserite in questa atmosfera. L’ultima, approvata due giorni fa dagli altri ministri, è volta a permettere ai giudici di punire con il carcere i palestinesi minori di 14 anni condannati per "terrorismo", un reato dai margini larghi in Israele poiché include anche il lancio di sassi contro jeep militari e auto dei coloni. "Il terrorismo non ha età - ha commentato la ministra Shaked - e oggi non ci sono pene corrispondenti alla crudele realtà che abbiamo di fronte. Se vogliamo creare un deterrente e un cambiamento della realtà, allora dobbiamo apportare le modifiche necessarie". In casa palestinese l’esecuzione di Hebron è considerata la regola e non l’eccezione da quando è cominciata l’Intifada di Gerusalemme lo scorso ottobre. L’opinione pubblica nei Territori occupati perciò non sembra seguire lo sviluppo del caso con particolare attenzione. Esprimono oltraggio invece tutte le forze politiche e il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, che ha comunicato di aver chiesto alle Nazioni Unite "l’apertura di un’indagine ufficiale sulle esecuzioni extragiudiziali israeliane contro i palestinesi" dopo l’incontro avuto con l’inviato dell’Onu Nickolay Mladenov.