Papa Francesco: "No agli abissi dell’odio, vicini alle vittime del terrorismo" di Francesco Antonio Grana Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2016 È il monito che Bergoglio ha rivolto nel messaggio pasquale prima della benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo. Appello per i migranti, la Terra Santa e la Siria. "No al terrorismo, forma cieca ed efferata di violenza che non cessa di spargere sangue innocente in diverse parti del mondo, come è avvenuto nei recenti attentati in Belgio, Turchia, Nigeria, Ciad, Camerun, Costa d’Avorio e Iraq". È il duro monito che Papa Francesco ha rivolto nel messaggio pasquale prima della benedizione Urbi et Orbi, alla città di Roma e al mondo, pronunciato come tradizione dalla loggia centrale della Basilica Vaticana al termine della messa celebrata in piazza San Pietro alla quale erano presenti anche i reali del Belgio. "Di fronte alle voragini spirituali e morali dell’umanità, - ha affermato Bergoglio facendo eco alla sua preghiera-invettiva del venerdì santo - di fronte ai vuoti che si aprono nei cuori e che provocano odio e morte, solo un’infinita misericordia può darci salvezza. Solo Dio può riempire col suo amore questi vuoti, questi abissi, e permetterci di non sprofondare ma di continuare a camminare insieme verso la terra della libertà e della vita". Dopo la lavanda dei piedi compiuta nel centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, un vero e proprio gesto politico per chiedere con forza all’Europa di mettere in campo serie azioni in favore dell’accoglienza dei migranti, il Papa ha voluto rivolgere un nuovo appello in favore dei profughi. L’invito di Bergoglio, che da autorevole leader globale si sta spendendo insistentemente su questo tema con i capi di Stato e di governo del mondo, è "a non dimenticare gli uomini e le donne in cammino alla ricerca di un futuro migliore, schiera sempre più numerosa di migranti e di rifugiati, tra cui molti bambini, in fuga dalla guerra, dalla fame, dalla povertà e dall’ingiustizia sociale. Questi nostri fratelli e sorelle, - ha aggiunto Francesco - sulla loro strada incontrano troppo spesso la morte o comunque il rifiuto di chi potrebbe offrire loro accoglienza e aiuto. L’appuntamento del prossimo Vertice umanitario mondiale non tralasci di mettere al centro la persona umana con la sua dignità e di elaborare politiche capaci di assistere e proteggere le vittime di conflitti e di altre emergenze, soprattutto i più vulnerabili e quanti sono perseguitati per motivi etnici e religiosi". Appello del Papa anche per la Terra Santa affinché si "favorisca la convivenza fra israeliani e palestinesi, come anche la paziente disponibilità e il quotidiano impegno ad adoperarsi per edificare le basi di una pace giusta e duratura tramite un negoziato diretto e sincero". Nel suo messaggio di pace Francesco ha citato i diversi focolai di violenza ancora sparsi del mondo: dalla Siria, "Paese dilaniato da un lungo conflitto, con il suo triste corteo di distruzione, morte, disprezzo del diritto umanitario e disfacimento della convivenza civile"; alle altre zone del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente, in particolare Iraq, Yemen e Libia; all’Ucraina, auspicando "una soluzione definitiva alla guerra" e "iniziative di aiuto umanitario, tra cui la liberazione di persone detenute"; al Venezuela e all’Africa. Monito del Papa, infine, per la terra "tanto maltrattata e vilipesa da uno sfruttamento avido di guadagno, che altera gli equilibri della natura". Terrorismo, perché l’Europa è impotente di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 Uno dei luoghi comuni più radicati della retorica progressista recita più o meno così: è ingiusto e sbagliato trattare in modo eguale soggetti che eguali non sono. Di qui prende lo spunto la critica della "finzione" liberale, colpevole di ignorare che le libertà formali non bastano, in un mondo in cui le condizioni di partenza sono diversissime. C’è molto di ragionevole in questo punto di vista, se non altro perché esso attira l’attenzione su un punto tanto ovvio quanto dimenticato: qualsiasi azione, norma o misura messa in atto dal potere politico esercita effetti diversi, talora profondamente diversi, a seconda dei destinatari. Èstrano, tuttavia, che questo elementare principio sociologico sia così spesso rimosso, e lo sia in modo particolare dai suoi difensori più accesi. Negli ultimi trent’anni, ad esempio, il drastico abbassamento nel livello degli studi ha colpito i ceti deboli, privi di capitale culturale e di relazioni sociali, assai più di quanto abbia colpito i ceti alti, ricchi di risorse materiali, culturali e relazionali. Curiosamente, tuttavia, questa tanto drammatica quanto macroscopica asimmetria non è mai comparsa sul radar della cultura progressista. Qualcosa di simile, a mio parere, sta accadendo nelle discussioni dell’ultimo anno sulla lotta al terrorismo. La cultura progressista appare impegnata in una spasmodica difesa dei valori liberali (che ha sempre criticato per il loro "astratto universalismo"), e del tutto dimentica del principio della asimmetria degli effetti, che pure tanta parte ha avuto nella storia delle idee progressiste. Proclamando in tutte le sedi che non dobbiamo cambiare una virgola del nostro modo di vivere, che dobbiamo continuare ad accogliere ed integrare anche gli islamici, che va evitato ogni trattamento differenziale degli immigrati rispetto ai cittadini europei, che non possiamo cambiare le nostre leggi e i nostri principi di fondo (salvo dichiarare che "l’islam è parte dell’Europa": copyright Federica Mogherini), essa dimentica precisamente le differenze, cui pure in altri contesti appare sensibilissima. Qui non mi riferisco però alle differenze ben note (anche se diversamente valutate) fra valori occidentali e islam, ossia al modo di trattare la donna, o al rifiuto del principio di separazione fra religione e politica. No, la differenza su cui voglio attirare l’attenzione è qualcosa di più sottile, che poco ha a che fare con la religione e l’ideologia, e molto con i comportamenti della vita quotidiana. Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l’immigrato dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro. Ed è cruciale nel contrasto all’illegalità, alla criminalità e al terrorismo, di qualsiasi fede o non fede essi siano. Di che cosa si tratta? Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). È la differenza fra chi ha una bassa e chi un’elevata propensione al rischio. O, se preferite, fra chi è profondamente avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittura lo cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male. Se una ragazza subisce un’aggressione in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è più facile che siano soccorsi da un immigrato che da un civilissimo cittadino europeo. Simmetricamente, nella manovalanza criminale gli stranieri sono sistematicamente sovra-rappresentati rispetto ai nativi, presumibilmente anche per la loro minore avversione al rischio. Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici, ossia realmente convinti che l’unica cosa che li separa dal paradiso di Allah è la cordicella del detonatore che li farà esplodere. Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalità (organizzata e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiamento verso il rischio, l’elemento costantemente dimenticato. I nostri sistemi legislativi, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidentali, ma diventano drammaticamente inadeguati, per non dire patetici, non appena ci si pone il problema di combattere individui e gruppi la cui propensione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazione. Il borghese benpensante e rispettabile, ma anche semplicemente il piccolo artigiano che si è fatto da sé, non possono permettersi neppure una notte in gattabuia, o un blando procedimento penale per qualche reato amministrativo. Ma ladri e criminali, che spadroneggiano nelle nostre città e nei nostri quartieri, se la ridono di gusto di fronte alle nostre procedure, tanto più in paesi-colabrodo come l’Italia e il Belgio. Noi italiani siamo straabituati, quando viene commesso un crimine violento, a scoprire quante volte il suo autore era già stato arrestato, condannato e rilasciato, e non può che averci provocato un sussulto di amara consolazione apprendere che uno dei terroristi dell’ultimo attentato di Bruxelles era già stato condannato a 10 anni di reclusione e scarcerato dopo soli 3 anni, nonostante la gravità dei reati commessi (compreso un conflitto a fuoco con la polizia, a colpi di kalashnikov). Prevenire gli attentati: come funziona l’intelligence (e come migliorarla) di Enrico Marro Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 Hanno acronimi che ai profani suonano assai strani (Osint, Imint, Sigint, Humint e Masint), ma in fondo non potrebbe essere altrimenti, visto che si parla di intelligence. Si tratta di sigle che corrispondono ad altrettanti tipi di raccolta di informazione da parte dei servizi segreti. Più in dettaglio, l’Humint (Human Intelligence) è la più classica e meno tecnologica: in pratica è l’attività di raccolta di informazioni per mezzo di contatti interpersonali, ossia la creazione e la gestione di reti di informatori e di infiltrati. Mentre la SIGINT (Signals Intelligence) è l’attività di raccolta di informazioni attraverso l’intercettazione e l’analisi di segnali, sia emessi tra persone (come le comunicazioni radio) che tra macchine (segnali elettronici). Di fatto insomma è l’intercettazione delle comunicazioni. L’imint invece (Imagery Intelligence) è la raccolta di informazioni attraverso l’analisi di fotografie aeree o satellitari, mentre la Techint (Technical Intelligence) riguarda le informazioni su armi ed equipaggiamenti usati da forze armate straniere e la Masint (Measurement and Signature Intelligence) analizza le "firme" chimiche, spettrografiche e radiologiche di sistemi d’arma e vettori che possano nuocere alla sicurezza nazionale. Ma la più importante si chiama Osint (Open Source Intelligence): è quella che raccoglie informazioni consultando fonti di pubblico accesso. La cosa incredibile, infatti, è che la maggior parte delle informazioni di valore arriva non dalle fonti segrete, ma da quelle aperte (appunto le "Osint"). Secondo Roberto di Nunzio e Umberto Rapetto - quest’ultimo ex generale della Finanza già alla guida del Gruppo Anticrimine Tecnologico e oggi docente universitario - le informazioni open source oscillano addirittura tra il 75% e il 90% di quelle complessivamente analizzate da un servizio di intelligence. E non da oggi, poiché già negli anni Cinquanta - come nota Leonida Reitano, presidente dell’Associazione giornalismo investigativo - il direttore della Cia Allen Dulles e il capo degli analisti Sherman Kent stimavano che l’80% delle informazioni necessarie a garantire la sicurezza nazionale fosse disponibile su fonti aperte. Sulla raccolta e la gestione delle informazioni open source pesano tuttavia due ordini di problemi. Il primo è squisitamente economico. Come scrive l’analista della Cia Stephen Mercado, "malgrado numerosi analisti collochino il contributo delle fonti aperte tra il 35 e il 95% dell’intelligence utilizzata dalle istituzioni governative degli Stati Uniti, la percentuale del budget dell’intelligence destinata all’Osint è stata stimata di poco superiore all’1%". Il secondo problema è quello della gestione delle informazioni raccolta da "fonti aperte", che spesso è carente perché i dati faticano a circolare. Come hanno dichiarato due commissioni d’inchiesta statunitensi, forse non avremmo avuto un 11 settembre se fosse esistito un centro OSINT coordinato, in grado di collegare le informazioni disponibili in maniera efficace, spiega ancora Reitano. L’informatico statunitense Robert Steele, grande supporter dell’open source intelligence, nel suo libro On Intelligence: Spies and Secrecy in an Open World lo scrive senza mezzi termini: "abbiamo un’intera comunità di esperti di Intelligence - brave persone intrappolate in un sistema sbagliato - che sono stati addestrati per rimanere meccanicamente all’interno della loro piccola scatola, e non sono letteralmente a conoscenza dell’enorme ricchezza di informazioni disponibili per loro all’esterno del bunker, spesso per poco più del costo di una telefonata". Intercettazioni, apertura sui "Trojan" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 La notizia è di quelle che fanno illuminare il viso degli investigatori, soprattutto all’indomani degli attentati terroristici di Bruxelles: si è incrinato il muro alzato dalla Cassazione un anno fa contro il "Trojan horse", il virus informatico autoinstallante attivato su computer, smartphone, tablet, che può "intercettare" ogni forma di comunicazione (whatsapp, skype, telegram, facebook, instagram, oltre e-mail ed sms) ma anche videoregistrare l’indagato ovunque vada, con valore di prova a prescindere dalla preventiva individuazione dei luoghi in cui effettuare l’intercettazione. Il muro era stato alzato il 26 maggio dell’anno scorso con la sentenza n. 27100, che aveva escluso, appunto, la possibilità di usare come prova queste "intercettazioni ambientali" anche nei procedimenti di criminalità organizzata, perché troppo invasive della riservatezza. Ma quindici giorni fa - il 10 marzo - la VI sezione penale della Corte non si è allineata a quell’altolà, ritenendolo troppo restrittivo, e, preso atto del contrasto insanabile, ha chiesto l’intervento delle Sezioni unite. In vista del quale sono stati poi congelati altri analoghi processi. Dunque, si apre un varco all’uso di uno strumento che ha un’enorme invasività della sfera privata ma anche un’enorme efficacia nella prevenzione e repressione della criminalità. In particolare, il terrorismo di matrice jihadista ha dimostrato di saper sfruttare ogni piega delle tecnologie più avanzate per pianificare attentati, costruire reti di supporto, fare proselitismo. Le comunicazioni telefoniche sono diventate residuali mentre si moltiplicano quelle in rete o ambientali. Perciò per magistrati, polizia e intelligence è grave bloccare o limitare il valore probatorio di queste captazioni. L’assegnazione alle Sezioni unite spetta al primo presidente della Cassazione Gianni Canzio, che la valuterà nei prossimi giorni, non appena sarà depositata l’ordinanza della VI sezione con la relativa richiesta. Ma il suo via libera dovrebbe essere scontato, tanto più dopo la strage di Bruxelles e la "chiamata alle armi" dell’Europa, che impone anche all’Italia - per quanto ben attrezzata - di aggiornare e affinare una serie di strumenti investigativi, a cominciare dalle intercettazioni, compatibilmente con il rispetto delle garanzie. I tempi di decisione delle sezioni unite non saranno immediati (si parla di maggio-giugno) e la sentenza non è scontata. Ma questa prima "apertura" della VI sezione, tanto più se confermata a sezioni unite, potrebbe fare anche da apripista a un eventuale intervento legislativo sul contestato Trojan, superando gli ostacoli che si frapposero alla sua introduzione con il decreto legge antiterrorismo, un anno fa: allora il governo provò a modificare, senza successo, l’articolo 266 bis del Codice di procedura penale con una norma che consentiva le intercettazioni "anche attraverso l’impiego di strumenti o di programmi informatici per l’acquisizione da remoto delle comunicazioni e dei dati presenti in un sistema informatico". "Troppo invasivo" fu la risposta del Parlamento e anche del Garante della privacy. Stiamo infatti parlando di un virus informatico che viene installato (per esempio con una e-mail o con un sms) in un pc, in uno smartphone o in un tablet e che oltre a clonare il computer è in grado di effettuare - con attivazione da remoto - registrazioni e videoriprese tra presenti. Ovunque. Proprio a causa di questa ubiquità dell’"intercettazione", a maggio 2015 la Cassazione parlò di violazione dell’articolo 15 della Costituzione, sulla tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni. In sostanza, il cellulare (ormai un’appendice di chi lo possiede) si trasforma in registratore e videocamera, e il virus è capace di controllare tutti gli spostamenti e le comunicazioni del "bersaglio", ovunque vada. Secondo la sentenza del 2015, questo tipo di registrazioni configura un’intercettazione ambientale che, per essere legittimamente autorizzata, presuppone che il giudice individui i luoghi in cui dovrà essere effettuata. Quanto alla telecamera, la Corte disse che l’attivazione da remoto va fatta in modo da escludere videoregistrazioni nei luoghi di "privata dimora", pena la loro illiceità e, quindi, inutilizzabilità. Insomma, una barriera, persino nelle indagini su criminalità organizzata e terrorismo, sebbene per questa tipologia di reati esista il cosiddetto "doppio binario" (paletti meno rigidi rispetto ai reati comuni). A un processo di mafia si riferisce anche la diversa decisione della Corte del 10 marzo scorso. In quell’udienza, l’Avvocato generale Nello Rossi ha messo in discussione l’interpretazione del 2015 là dove colloca il Trojan nella "categoria" delle "intercettazioni ambientali" mentre avrebbe dovuto dare rilievo al fatto che la legge parla solo di intercettazioni "tra presenti", senza alcun riferimento ai luoghi, salvo il caso dell’articolo 614 Cp, ovvero i luoghi di "privata dimora", dove l’intercettazione è consentita solo se lì si stia svolgendo un’attività criminosa (limite peraltro non previsto per la criminalità organizzata). Pertanto, secondo Rossi, poiché l’intercettazione "tra presenti" non richiede l’indicazione preventiva dei luoghi, quella effettuata mediante virus intrusivo su smartphone o tablet può ben essere autorizzata sia per la generalità dei luoghi sia per il domicilio del portatore dell’apparecchio. Il collegio della VI sezione (presidente Domenico Carcano, relatore Giorgio Fidelbo) ha probabilmente condiviso quest’impostazione (i motivi si conosceranno con il deposito dell’ordinanza), ovvero la possibilità di usare il Trojan, con valore probatorio, senza indicazione preventiva dei luoghi. Ora la parola passa alle sezioni unite. Federica Mogherini e tutti gli altri: non ci resta che piangere di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2016 Dunque c’è cascata anche lady Pesc, Federica Mogherini. Il ministro degli Esteri (si fa per dire) dell’Unione europea ha pianto durante la conferenza stampa successiva agli attentati di Bruxelles, assurta allo status di capitale della medesima Unione Europea (si fa per dire). L’interessata ha spiegato, su Repubblica, le ragioni della sua reazione: "Tutti hanno provato un dolore enorme, ed è semplicemente umano che questo dolore si possa manifestare. Nei comunicati scriviamo che i nostri pensieri vanno alle vittime e ai parenti, a volte può succedere che questo si esprima in modo meno ufficiale". Bene. Niente come le lacrime asciuga in fretta (frase attribuita a Cicerone) e niente come le lacrime suscita dibattito: la discussione non impegna, tutti possono dire la loro. Perfino i nostri politici. Tra gli aspiranti alla poltrona di sindaco della Capitale le euro lacrime vanno che è una meraviglia. Se Atene piange, è noto, Sparta non ride. Giorgia Meloni: "Quando rappresenti l’Europa intera il segnale di debolezza che dai mettendoti a piangere è un segnale che pagheranno i cittadini" (come non viene specificato). Guido Bertolaso: "Si dirà che sono maschilista. Trovo imbarazzante che il ministro degli Esteri dell’Ue si metta a piangere dopo un attentato del genere: il ministro dovrebbe far vedere che non ci facciamo intimidire". Alfio Marchini: "È sciacallaggio elettorale. Il fatto che una donna possa avere una maggior sensibilità rispetto alle atrocità di questi giorni le fa onore. Si può criticare la Mogherini per le sue azioni politiche, non certo per un eccesso di sensibilità". Anche i ricchi piangono, no? Da destra arriva in soccorso Francesco Storace: "Non comprendo la polemica sulle lacrime della Mogherini. È umanità, è successo anche a Obama". Signora mia, perfino a Barack gli scappa! Ma mica solo a lui o a Putin o a Kohl. Il Corriere della Sera ha messo in fila le lacrime di alcuni leader politici. Ripassino: nel 2003 Silvio Berlusconi pianse davanti alle salme degli italiani uccisi nell’attentato kamikaze a Nassiriya; nel 2007 pianse Piero Fassino per lo scioglimento dei Democratici di sinistra e la confluenza nel Pd; Achille Occhetto pianse nel 1991 a conclusione del XX e ultimo congresso del Partito comunista italiano (e non sapeva ancora che fine avrebbe fatto fare Renzi al Pd). Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano pianse al suo discorso d’insediamento nel 2006: durante il secondo insediamento no (era troppo occupato a sculacciare i parlamentari che lo avevano richiamato alle armi, come scolaretti indisciplinati). Pianse anche nel 2014 durante il collegamento con la stazione spaziale dove si trovava il capitano Cristoforetti, per gli amici Astrosamantha. Diciamo con pudore che pianse anche un altro presidente della Repubblica: Sandro Pertini davanti alla bara di Guido Rossa, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979. Il più recente caso di lacrime ministeriali riguarda Elsa Fornero, in un’indimenticabile conferenza stampa nel dicembre 2011. Mentre tutta Italia giubilava per la Liberazione (dopo l’addio di Silvio Berlusconi), i tecnici del governo Monti si preparavano alla manovrina Salva Italia che sobriamente e austeramente ci sarebbe costata lacrime e sangue. Durante la presentazione, la ministra per il Welfare si commosse a tal punto da non riuscire a pronunciare quella terribile parola: "Sacrifici". L’aiutò il premier: "Credo volesse dire sacrifici". Ma andava bene anche sacrificati o sacrificali (per gli esodati dimenticati). "Risus abundat in ore stultorum", dicevano i latini (ma solo perché non avevano visto i nostri politici con gli occhi umidi). E a noi? Non ci resta che piangere, ma davvero. La sorpresa dei detenuti a Pannella "Stavolta siamo venuti noi da te" di Liana Milella La Repubblica, 28 marzo 2016 Aprono l’uovo di cioccolatata, tagliano la colomba, brindano con la coca cola perché Marco Pannella, per via della sua malattia, non si può permettere altro. Un’ora a colloquio tra le 11 e mezzogiorno con il Guardasigilli Andrea Orlando e quattro detenuti di Rebibbia, e il leader radicale, nella sua casa di via della Panetteria, non rinuncia alle sue eterne sigarette. Quando i quattro, uno alla volta, raccontano chi sono e la loro storia - sono ammessi al lavoro esterno e per venire qui hanno rinunciato al permesso - Pannella gli parla della speranza: "Non bisogna avere la speranza, ma bisogna essere la speranza". Un incontro a sorpresa, pensato e organizzato da Orlando dopo un colloquio con Rita Bernardini che ieri però era in visita alle carceri abruzzesi. Una vera sorpresa per il leader radicale che s’è visto arrivare a casa il ministro della Giustizia con i quattro detenuti, due uomini anziani e due giovani donne, che però hanno preferito non dire il loro nome. Con loro il vice direttore del carcere romano Marco Grasselli e la responsabile del reparto femminile Gabriella Pedote. Tra Orlando, che da sempre vive l’ossessione delle carceri, e Pannella, che ha speso una vita tra diritti dei detenuti e disperate marce e digiuni per le amnistie, la sintonia è immediata. Il botta risposta, intorno al tavolo della cucina-soggiorno, scivola familiare. Il ministro anticipa i temi degli Stati generali dell’esecuzione penale che si svoleranno a Rebibbia tra il 18 e il 19 aprile, vanta come un successo la partenza del Garante nazionale dei detenuti. Pannella lo interrompe. Sa che Orlando viene da La Spezia. Gli chiede: "Conosci Debora Gianfanelli?". Orlando: "Certo, è una radicale della mia città". Pannella non nasconde di essere "molto contento", lo dice anche: "È una bella giornata di sole, e tutti noi siamo dentro questa bella giornata". Orlando è a suo agio, si guarda intorno. Nota che sulla parete c’è una foto della regina Elisabetta. Interroga Pannella: "Come mai l’hai appesa lì?". Lui risponde: "La ragione è semplice. Londra è la patria del diritto e ha cercato anche di esportarlo in tutto il Commonwealth". Tra i due si apre un siparietto internazionale. Orlando spiega che ad aprile andrà a New York per guidare la delegazione italiana che partecipa all’assemblea generale sulla droga. Pannella è pronto a reagire: "Anche lì le cose stanno cambiando. Modificano la rotta rispetto al proibizionismo degli anni ‘80, hanno capito che quella linea non funzionava, che aveva solo un effetto boomerang". Il Guardasigilli a questo punto riconosce i meriti di Pannella: "Quando si parla di carceri non si può prescindere dalle tante battaglie che avete fatto in questi anni". Tant’è che Orlando ricorda come una radicale come Elisabetta Zamparutti è entrata nel Comitato sulla tortura ed Emilia Rossi nel board del Garante dei detenuti in funzione da appena qualche settimana. Pannella sorride soddisfatto: "Eh già... ormai siamo un’istituzione". L’emozione è forte, per tutti. Orlando non la nasconde mentre cerca di seguire il filo dei discorsi di Pannella. Il momento più toccante è quando i quattro detenuti raccontano le loro storie: "Vedi Marco, stavolta siamo venuti noi da te dopo tante volte che tu sei venuto da noi e hai speso una vita per migliorare il carcere". Sono emozionati, e si vede. Raccontano il cammino per reinserirsi nella vita normale. Tre fanno i giardinieri a Rebibbia, uno lavora al bar interno. E qui Pannella pronuncia la sua frase sulla speranza, il vero leit motiv dell’incontro. È passata oltre un’ora. Pannella fuma ancora una sigaretta e saluta Orlando. La commozione fa brillare gli occhi di tutti per quest’uomo malato sì, ma forte della sua storia. Bologna: arrestato per lesioni muore in cella alla Dozza il giorno dopo di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 28 marzo 2016 L’uomo, un ferrarese di 54 anni, era finito in manette sabato per aver aggredito con un martello un tassista. Gli agenti della polizia penitenziaria questa mattina hanno trovato morto in cella alla Dozza, dove si trovava da ieri, Carlo Bellotti, ferrarese di 54 anni, che sabato ha aggredito a Bologna un tassista di 67 anni, Isauro Zarantonello, colpendolo in testa con un martelletto frangivetro, sulle prime scambiato per un piccolo piccone. Bellotti, tossicodipendente, giunto in carcere alla Dozza, ha di prassi incontrato uno psicologo, che l’ha avviato al trattamento con metadone, trovandolo per il resto in condizioni normali. Alle 22 è andato a dormire, sulla parte alta di un letto a castello in una cella che divideva con due stranieri, dove intorno alle 3.30 è stato regolarmente osservato dormire dagli agenti di custodia nel giro di servizio. Stamattina, dopo le 7, i compagni di cella si sono accorti che qualcosa non andava ed è intervenuta l’infermeria del carcere. Alla Dozza si sono recati il magistrato di turno Michele Martorelli e il medico legale Zeva Borin, che ha fatto risalire la morte tra le 5 e le 6 del mattino, escludendo - a un primo esame - cause violente. È stata disposta l’autopsia Roma: bandi milionari per i campi rom, così si riforma l’humus di Mafia Capitale di Carlo Stasolla Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2016 In un mio post del 22 novembre scorso dal titolo "Mafia Capitale e la maledizione dell’Ufficio Nomadi", dopo aver riportato l’elenco di dirigenti e politici che nel passato si erano occupati della cosiddetta "questione rom" all’interno del Comune di Roma finendo per pagare il prezzo della galera o del trasferimento, terminavo scrivendo "eppure l’Ufficio Nomadi ancora sopravvive alla sua "maledizione" e la probabile preoccupazione del prossimo dirigente che sarà chiamato a guidarlo. Visitando il sito del Comune di Roma, in sostituzione del suo nome e cognome, per adesso c’è solo uno spazio bianco…". Da alcuni mesi quello spazio si è riempito con il nome del nuovo dirigente chiamato a gestire la Direzione Accoglienza e Inclusione - nel cui ambito è incluso l’Ufficio Rom della Capitale - e così sono stati sbloccati i bandi "in favore delle popolazioni rom" per promuovere servizi e interventi che, dopo lo scandalo di Mafia Capitale, erano stati congelati. Il primo in ordine temporale è una gara per "l’implementazione di uno sportello di accoglienza, mediazione linguistico culturale e segretariato sociale" attraverso l’istituzione di due unità mobili. La durata dell’appalto è di 21 mesi. Costo previsto: 356.000 euro. Qualche settimana dopo il medesimo ufficio ha sfornato un bando per la gestione e la vigilanza di sei insediamenti formali. Anche qui la scadenza è il 31 dicembre 2017 per un costo superiore ai 6 milioni di euro lordi. Sulla gara sono stati segnalati da alcune organizzazioni aspetti di incostituzionalità che sono al vaglio dell’Avvocatura Comunale e la presentazione è stata per adesso prorogata di 10 giorni. A metà marzo, l’attivissimo dirigente, ha promosso un’indagine di mercato "per individuare strutture idonee da adibire a Centri di Accoglienza per la popolazione Rom, al fine di una eventuale procedura di gara per la loro gestione". Nel bando viene spiegato che tre "centri di raccolta rom" sono vicini alla chiusura e per le 600 persone accolte niente di meglio che reperire almeno 6 strutture da 100 posti ciascuna per prolungare l’accoglienza. Costo totale dell’operazione: 4 milioni e mezzo di euro. Se dividiamo la cifra destinata dalla Direzione Accoglienza e Inclusione a mantenere, gestire e potenziare la ghettizzazione dei rom a Roma (quasi 11 milioni di euro) per le famiglie interessate (542) scopriamo che il Comune di Roma, con atti a firma del nuovo direttore, ha previsto in poche settimane un impegno di spesa di 20.000 euro per ogni famiglia rom. Sono le medesime cifre riscontrate prima dell’inchiesta denominata Mafia Capitale. Si sta così ricreando l’humus su cui è attecchita Mafia Capitale, rappresentato da bandi milionari, azioni lesive dei diritti e prive di adeguata valutazione e monitoraggio esterno, possibilità di partecipazione riservata quasi esclusivamente riservata ai "soliti noti", formule sicuritarie e assistenzialiste volte a mantenere il presente, piuttosto che superarlo. Sono tre gli aspetti da sottolineare. Il primo è il richiamo ossessivo, come incipit di ciascuno dei tre bandi, alla Strategia Nazionale per l’Inclusione dei rom che in realtà ripete più volte l’urgenza di superare i campi e di relegare al passato politiche segregative e discriminatorie per promuovere pratiche inclusive di fuoriuscita dagli insediamenti. Da una parte si assume questo quadro di riferimento, dall’altra si investono risorse economiche per mantenere e gestire spazi per soli rom. Il secondo è che la gestione commissariale a guida Tronca dovrebbe gestire l’ordinaria amministrazione senza sconfinare nel proprio lavoro in scelte politiche di medio-lungo periodo per consentire al nuovo inquilino di Palazzo Senatorio autonomia decisionale; i tre bandi tracciano il solco profondo di un indirizzo politico a cui il nuovo sindaco sarà vincolato. Il terzo è la semplice constatazione che bandi di questo tipo vengono lanciati in occasione delle campagne elettorali perché a Roma, la storia insegna, essi muovono denaro che, a sua volta, sposta i voti. Insomma, ci risiamo; malgrado Tronca si ritorna al passato. È stato nominato un nuovo direttore, spuntano fuori i soldi (e vengono spesi con procedure discutibili), i rom continuano a vivere in ghetti etnici (ed è importante che vi restino), una fetta di lavoro sociale si rivitalizza grazie ad appalti pubblici sui rom. E a giugno andiamo tutti a votare. Firenze: Frescobaldi firma l’olio di oliva della pace che riscatta i detenuti di Sollicciano di Nicola Dante Basile Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 UliviLo hanno chiamato olio degli incontri, ma ben si addice definirlo anche olio della pace. Per via dell’ulivo che è simbolo di pace, e per il concomitante battesimo di mercato avvenuto alla vigilia di Pasqua, festa di resurrezione. E di pace, purtroppo mai come oggi minacciata dal fanatismo religioso. L’olio in questione è un extravergine d’oliva toscano ottenuto da giovani piante. E questo primo raccolto ha permesso di produrre 300 bottiglie da 250 ml, di cui alcune confezioni sono state donate a istituzioni e personalità, tra cui Papa Francesco, il capo dello Stato Sergio Mattarella e il premier Matteo Renzi. Il grosso della partita, viene ceduto a un prezzo di affezione (19 euro) e il ricavato destinato a opere di bene. Il che fa capire che non è solo il nome a rendere la sua storia meritevole di attenzione. Infatti l’olio degli incontri, ancorché avere proprietà qualitative intrinseche proprie di un extravergine d’oliva, è ottenuto con metodi di coltivazione sostenibile e premitura a freddo. Un approccio a cui sempre più aziende agricole si stanno uniformando. Ma ciò che lo rende esclusivo rispetto ad altri oli d’oliva, è la combinazione tra il saper fare di un’azienda agricola di consolidata esperienza, qual è Marchesi dè Frescobaldi; la disponibilità di un’agenzia attiva nel campo della formazione, qual è Cescot di Confesercenti; e la voglia di un gruppo di detenuti ospiti del penitenziario di Sollicciano, in Toscana, di apprendere il mestiere dell’agricoltore. Come dire di imprese private - la prima che produce e vende vini e olio in mezzo mondo in regime di libera concorrenza e a seconda che promuove servizi -, alleate a contadini di nuova generazione che, com’è intuibile, vivono e producono in condizioni tutt’altro che libere. Entità, cioè, quanto mai distanti per vocazione e interessi, eppure così vicine e unite, in quanto partecipi di uno stesso progetto aperto al sociale. Progetto che, nel caso di Frescobaldi, si rifà a un precedente esempio di successo, contestualizzato in altri ambiti e occasioni. Nei fatti, esso si estrinseca in un apporto metodologico che l’azienda agricola applica nelle sue tenute e che, per l’occasione, ha messo a disposizione dell’istituzione carceraria, permettendo così ai reclusi che lavorano i campi circondariali di disporre di consulenze agronomiche qualificate e strumenti idonei a coltivare la terra e produrre olio d’oliva di qualità. Ma anche vino, com’è nel caso del progetto del 2012 avviato con la comunità del penitenziario di Gorgona, uno scoglio dell’arcipelago toscano che ospita l’ultima struttura circondariale rimasta attiva su un’isola italiana. Qui i detenuti trascorrono l’ultima fase della pena da scontare lavorando nei vigneti che hanno contribuito a far crescere, imparando nel frattempo tecniche di coltivazione che diversamente non avrebbero mai potuto apprendere e che, una volta liberi nella società, permetteranno loro la possibilità di reinserirsi con decoro e professionalità nella realtà lavorativa. Non a caso il presidente dell’azienda Lamberto Frescobaldi, parlando dell’olio di Sollicciano e del vino di Gorgona, ha detto che "obiettivo comune dei due progetti, è dare ai detenuti una concreta possibilità di rivalsa e di reinserimento reale nella società". Aggiungendo che la loro evoluzione, "è un segno tangibile del fatto che tra pubblico e privato le cose possono funzionare". Con la speranza che "non rimanga un caso isolato, ma diventi un esempio da praticare ed esportare nel mondo". Pozzuoli (Na): Pasqua solidale, le detenute realizzano le sorprese per le uova Redattore Sociale, 28 marzo 2016 Progetto della Casa famiglia Donna nuova, gestita dalla Caritas diocesana di Pozzuoli. All'interno piccoli oggetti di artigianato fatti dalle donne in regime di detenzione alternativa. Le uova verranno in parte vendute, in parte distribuite nella Casa circondariale femminile. In occasione della Pasqua, è partito dalla Casa Famiglia Donna Nuova, una delle due realtà carcerarie gestite dalla Caritas Diocesana di Pozzuoli, un progetto che prevede la realizzazione da parte delle donne ospiti della struttura di uova con sorpresa. Le uova verranno poi in parte vendute, in parte distribuite alle detenute della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli dal vescovo della città, monsignor Gennaro Pascarella. Non è il primo progetto proposto a Pozzuoli nell’ambito della pastorale carceraria: sono attivi ormai da un paio di anni diversi laboratori tra cui cucito, decoupage e bigiotteria che hanno dato vita ad una vera e proprio laboratorio di produzione di piccolo artigianato, l’Officina Donna Nuova. Le donne aderenti al progetto, detenute sottoposte ad un regime di detenzione alternativo, si cimentano due volte a settimana nella realizzazione di collane, orecchini, bracciali, lavori che vengono poi esposti in piccole mostre. I piccoli oggetti di artigianato interamente realizzati a mano diventeranno le sorprese contenute nelle uova da 200 grammi in finissimo cioccolato artigianale fondente, bianco o al latte realizzate dalla Cioccolateria Golosità di Monte di Procida. Questi progetti, sempre più comuni tra le realtà carcerarie con sistemi di detenzione alternativa e non, hanno lo scopo di dare la possibilità al detenuto di esprimere il proprio talento e la propria creatività. Diverse le realtà che hanno collaborato all’iniziativa, tra queste: Caritas Diocesana di Pozzuoli, Policoro di Pozzuoli, presidio di Libera dei Campi Flegrei "Daniele Del Core", Acli Napoli, Azione Cattolica e Mlac diocesani. Le uova sono acquistabili nella struttura del Centro San Marco in via Sacchini 33, nel centro storico di Pozzuoli, e la cessione di una piccola offerta contribuirà a sostenere le attività di Officina Donna Nuova. Firenze: i movimenti studenteschi "lottiamo per diritti civili, trattati come criminali" Redattore Sociale, 28 marzo 2016 L’accusa di alcuni ragazzi indagati per cui sono stati richiesti oltre due anni di carcere con l’accusa di associazione a delinquere. "Richieste folli costruite sul nulla". Il 9 aprile manifestazione. "Abbiamo lottato per i diritti dei più deboli, ci hanno trasformato in criminali". E’ l’accusa di alcuni esponenti del Movimento di lotta per la casa e dei movimenti studenteschi fiorentini, che sabato 9 aprile manifesteranno in piazza Santa Maria Novella in segno di protesta contro "le assurde richieste della magistratura, che ha richiesto la condanna a due anni e mezzo di carcere per sette persone dei movimenti per le manifestazioni studentesche tenute tra il 2009 e il 2011 a Firenze". L’accusa, spiegano gli imputati, è quella di associazione a delinquere. Complessivamente, sono un’ottantina gli indagati dalla magistratura, prevalentemente accusati di interruzione di pubblico servizio durante i cortei, durante i quali furono bloccati i viali e furono organizzate manifestazioni senza autorizzazione. "In totale ci hanno dato oltre settant’anni di carcere – dice Lorenzo Lorenzo Bargellini del Movimento di lotta per la casa – Quelle della magistratura sono richieste folli costruite sul nulla. Non si possono arrestare le persone che difendono i diritti civili". La sentenza è prevista per fine aprile. Saluzzo (Cn): il 4 aprile cena gourmet "Più stelle meno sbarre" alla Castiglia targatocn.it, 28 marzo 2016 Lunedì 4 aprile l’ex Casa circondariale ospiterà chef prestigiosi per realizzare un’impresa possibile. Il 4 aprile ritorna "Più stelle meno sbarre", la cena gourmet che fa incontrare imprenditori, cittadini e realtà economiche legate al mondo del carcere. Con il patrocinio del Comune di Saluzzo, la cena si terrà nella suggestiva location della Castiglia, sede del vecchio carcere fino al 1992 e dal 2006 ristrutturato e restituito alla funzione pubblica. Come nella prima edizione, saranno il cibo di alta qualità e i grandi vini del territorio italiano a parlare un linguaggio comprensibile a tutti: un gruppo di grandi chef, custodi dei sapori che rendono il nostro paese famoso in tutto il mondo, terranno una lezione stellata ai detenuti del corso di cucina del carcere "Rodolfo Morandi" di Saluzzo e prepareranno - supportati dal servizio in sala offerto dai ragazzi dell’alberghiero Virginio Donadio di Dronero e supervisionati da Luciano Marsaglia dell’Ostu di Djun - una grande cena di solidarietà aperta al pubblico. Gli chef "stellati" che hanno aderito all’iniziativa sono ben 12, rappresentanti di 9 ristoranti di eccellenza: si tratta di Yoji Tokuyoshi (chef del Ristorante Tokuyoshi di Milano - 1 stella Michelin), Giancarlo Morelli (Ristorante Pomiroeu di Seregno (MB) - 1 stella Michelin), Pino Cuttaia (Ristorante La Madia di Licata (AG) - 2 stelle Michelin), Theo Penati e Matteo Boschiero Preto (Ristorante Pierino Penati di Viganò Brianza (LC) - 1 stella Michelin), Christian e Manuel Costardi (Ristorante Christian&Manuel di Vercelli - (1 stella Michelin), Ugo Alciati (Guido Ristorante di Serralunga d’Alba (CN) - 1 stella Michelin), Massimo Camia (Massimo Camia Ristorante di Barolo (CN) - 1 stella Michelin), Cristina Bowerman (Ristorante Glass Hostaria di Roma - 1 stella Michelin), Alessandro Negrini e Fabio Pisani (Ristorante Il Luogo di Aimo e Nadia di Milano - 2 stelle Michelin). Se nell’edizione 2014 erano stati gli chef a entrare in carcere insieme a tutto l’equipaggiamento, quest’anno sarà un gruppo di detenuti a uscire eccezionalmente dalla casa di reclusione per partecipare alla serata e aiutare gli chef nella preparazione dei piatti. Questo è il senso profondo dello scambio dentro/fuori: portare a contatto, e contaminare, luoghi e persone altrimenti lontani, generare percorsi nuovi e opportunità. Nell’organizzazione dell’evento, oltre all’Associazione Antigone, ci sarà in prima fila anche il Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Cuneo, convinto sostenitore dell’idea che il lavoro rappresenti un tema di grande attualità, dentro e fuori. L’obiettivo principale della cena e dell’asta solidale che ne farà da corollario è di raccogliere fondi per cofinanziare il laboratorio di stampa artistica Fine Art Stampatingalera, promosso dall’Associazione Sapori Reclusi e attivo dal 2014 nel carcere di Saluzzo con il sostegno della Compagnia di San Paolo. Ma non meno importanti sono le finalità "collaterali", ossia favorire il coinvolgimento delle aziende per la presa in carico di commesse esterne e soprattutto comunicare il valore che si cela "dentro". La cena si svolgerà in Castiglia, con ingresso da via S. Bernardino, 2 lunedì 4 aprile 2016 alle ore 19. Il costo della cena al pubblico è di 120 Euro. Le aziende interessate possono acquistare un pacchetto di posti da destinare a clienti, fornitori e amici. I privati interessati potranno acquistare biglietti singoli e multipli. Per ragioni organizzative, e data finalità benefica dell’evento, il saldo della cifra avverrà all’atto della prenotazione. Non è previsto un rimborso per la mancata partecipazione alla serata. Per eventuali info e/o prenotazioni, è possibile contattare via email gli organizzatori all’indirizzo prenotazioni@saporireclusi.org. Renzi: la Ue conceda zona franca a Lampedusa Ansa, 28 marzo 2016 Lampedusa "deve essere un luogo vivo e vissuto. Non è la periferia dell’Italia. Per noi l’isola è così centrale che oggi siamo qui. Servono risposte concrete". Lo ha detto il premier Matteo Renzi nel corso dell’incontro con il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. Una riunione operativa che vuol essere anche un messaggio: "Da Lampedusa - ha sottolineato Renzi - arrivi un messaggio all’Europa. Guai a pensare che di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo si possa far finta di niente o essere superficiali. I lampedusani ci hanno insegnato a restare umani. Compito dell’Europa è tenere insieme la nostra identità con i nostri valori" ha detto il premier . Lampedusa simbolo. Non solo emergenza ma luogo bellissimo - "Lampedusa ci ricorda che il compito di tutta l’Europa è affrontare tutte le questioni, tutte le emergenze, tenendo presente quali sono i suoi valori. Questo Lampedusa lo sa fare molto bene" ha detto Renzi nel corso della sua visita sull’isola. "Quando siamo andati a Tunisi ci hanno detto: siamo più vicini noi all’Italia che Lampedusa" ha ricordato Renzi. "Lampedusa - ha sottolineato - non è lontana dagli occhi dell’Europa. È un luogo di rara bellezza che ha unito la bellezza dei luoghi alla bellezza degli abitanti. Che ha consentito di salvare migliaia di vite. Oggi questo luogo chiede di essere visto per ciò che è. Il messaggio è guai che di fronte alla grandi emergenze si possa far finta di niente". Incontrando i giornalisti Renzi ha rimarcato il ruolo di Lampedusa nella gestione dell’emergenza migranti: "Siamo nel cuore dell’Europa. Forse non il cuore geografico, ma il cuore più spirituale. Sicuramente il punto in cui alcuni cittadini europei hanno mostrato più di altri quello che va fatto" ha detto il presidente del Consiglio. La proposta:?l’isola diventi zona franca - "C’è una richiesta storica di zona franca - ha poi aggiunto - che sarebbe molto opportuno da parte dell’Europa concedere. Perché praticamente è una restituzione" ha detto Renzi a proposito del modo in cui l’Europa può aiutare l’isola a gestire l’accoglienza ai migranti. Il sindaco Nicolini, la Ue riduca distanze. Non solo emergenze - "Se si organizza bene il soccorso e la prima accoglienza si può vivere bene qui, ma quello che ci serve è ridurre la distanza dall’Europa, per quello che può essere il riscatto dalla frontiera. Apprezziamo il ruolo che il nostro governo sta avendo nella gestione della crisi perché questo chiede Lampedusa" ha detto il sindaco Giusy Nicolini, in conferenza stampa con il presidente del Consiglio. La visita del premier Renzi ha aggiunto è "un gesto di grande attenzione" verso la comunità di Lampedusa che rappresenta in Europa "un esempio di coraggio e straordinaria fatica nell’accoglienza che per anni ha fatto da sola". "Chiediamo al governo di continuare a starci vicini, sostenere con gesti concreti l’economia dell’isola" e a Bruxelles "chiediamo un riscatto dalla frontiera". Lampedusa, conclude il sindaco, apprezza "le parole del premier in Europa in difesa del lavoro di Lampedusa e dell’Italia. Apprezziamo il ruolo del governo nella crisi nel Mediterraneo e in Libia". Grecia, primi trasferimenti da Idomeni di Simone Sarchi Il Manifesto, 28 marzo 2016 Le autorità greche hanno messo a disposizione tre nuovi campi a circa 120 chilometri da Idomeni: due a Katerini e quello di Veria. Le nuove strutture possono ospitare fino a 1.000 persone: 400 nel campo di Veria, 600 nei due campi di Katarini. A Idomeni restano in oltre 10mila. Decine di persone hanno protestato davanti al nuovo campo profughi di Veria (Grecia) nella serata di venerdì sera quando sei bus sono arrivati da Idomeni carichi di migranti, principalmente Siriani e Iracheni. Inizialmente hanno bloccato i bus per circa 15 minuti, urlando insulti e lanciando diverse teste di maiale contro l’entrata dell’ex caserma militare che attualmente ospita circa 400 migranti. La polizia greca è stata schierata per evitare ogni violenza e calmare la situazione. Il messaggio è stato chiaro, i migranti non sono graditi. Da venerdì pomeriggio, bus carichi di rifugiati lasciano il campo profughi improvvisato di Idomeni, la cittadina greca sul confine con la Repubblica di Macedonia, dove circa 12 mila migranti aspettano di attraversare il confine da oltre un mese. Le autorità greche hanno messo a disposizione tre nuovi campi a circa 120 chilometri da Idomeni: due a Katerini e quello di Veria. Proprio quest’ultimo è stato il primo a riempirsi. Queste strutture possono ospitare fino a 1000 persone: 400 nel campo di Veria, 600 nei due campi di Katarini. La gestione è in mano all’esercito greco, che ha provveduto alle sistemazioni e si occuperà della distribuzione di cibo, coperte, vestiti e di tutto ciò di cui i migranti avranno bisogno. I rifugiati sono stati sistemati in grosse tende, ognuna delle quale può ospitare fino a otto persone. I servizi igienici sono a sufficienza per tutti, le code per il cibo e l’acqua sono veloci e accanto a uno dei campi di Katerini vi è un piccolo parco giochi che verrà sicuramente apprezzato dai bambini. Cristos Vlahos, comandante della sezione immigrazione illegale di Katerini, ci tiene inoltre a sottolineare che anche se vengono registrati "questi non sono campi di detenzione. Sono campi dove i migranti sono liberi di entrare e uscire quando vogliono. Possono anche andarsene senza alcun problema". Inoltre, conferma che chiunque potrà spostarsi da Idomeni, qualsiasi sia la sua nazionalità. "Questa è una sistemazione momentanea migliore che al confine. Qui i migranti, anche quelli economici, possono aspettare finché non verrà presa una decisione sul loro singolo caso dagli uffici greci per l’asilo politico" continua. Nonostante tutto, la maggior parte delle persone arrivate da Idomeni sono Siriani e Iracheni. Marco Buono, capo dell’ufficio di Salonicco dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), spiega che prima di collaborare con le autorità greche, si sono accertati delle condizioni delle strutture e di come saranno assistiti i migranti e rassicura sulla faccenda. "È giusto muoversi in questa direzione frazionando i migranti in più campi. Idomeni è sovraffollato e le condizione sono pessime," conclude. Secondo Babar Baloch, portavoce dell’Unhcr, gli operatori dell’Onu sono già presenti a Veria. Altri raggiungeranno i campi di Katerini mano a mano che si riempiranno. Intanto al campo di Idomeni i migranti sono divisi tra chi è felice di lasciarsi alle spalle le terribili condizioni di vita al confine greco-macedone, e chi non si fida di questo programma di trasferimento iniziato così all’improvviso. La paura è che le condizioni di vita siano ancora peggiori, che possano essere detenuti o addirittura rimandati in Turchia. Per questo rimangono a Idomeni e continuano ad occupare i binari all’urlo "Open the border" (aprite la frontiera). Proprio per questo motivo i trasferimenti stanno procedendo a rilento. Sabato, uno dei due campi di Katerini era completamente vuoto. Un militare dell’aereonautica spiega che c’è poca informazione e afferma: "I migranti non sanno che qui la situazione è migliore e che nessuno verrà portato in Turchia. Se solo vedessero come abbiamo organizzato il campo avremmo la fila all’entrata". Tuttavia rimangono alcuni dubbi sull’efficienza dei nuovi campi aperti in questi giorni nel nord della Grecia. Elisa, siriana, si trova con i suoi tre figli nel campo presso la cittadina costiera Kalivia Varikou a circa 15 minuti di macchina da Katerini. La struttura, aperta da soli cinque giorni e gestita dall’esercito, ospita i migranti provenienti dal porto di Mitilene, sull’isola greca di Lesbo. "Un sandwich striminzito non basta per un bambino. Abbiamo fame e anche le tende non sono adeguate. Ci coprono la testa, ma non avendo il pavimento dormiamo sulla terra umida e abbiamo freddo," spiega. "I dottori vengono qua una volta ogni tanto e non c’è nessuno che ci informi su come richiedere l’asilo politico. Non sappiamo cosa dobbiamo fare". Caso Regeni, governo Egitto: "Noi trasparenti, vogliamo collaborare" Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 L’Egitto "lavora con trasparenza e vuole collaborare a fondo con l’Italia: non abbiamo alcun interesse" che gli italiani abbiano dubbi e ne risentano le relazioni. E ncora: "L’Italia è un partner importante: ciò che sta accadendo è un caso isolato. Non merita questa esagerazione, anche se è una realtà da affrontare". L’identificazione e l’incriminazione dei responsabili servirà a dissipare "le nuvole, proverà che la giustizia egiziana funziona". Così il ministro degli Esteri Sameh Shoukry al quotidiano Al-Youm. Una presa di posizione che sa di tentativo di correre ai ripari, dopo che l’ultima improbabile versione fatta filtrare dalle autorità egiziana sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni (che sarebbe stato ucciso nel tentativo di sottrarsi a una banda di rapinatori specializzata in sequestri di stranieri, uccisi giovedì in un conflitto a fuoco dalle forze di sicurezza) ha sollevato un’ondata di indignazione. Ultima reazione perentoria quella del premier Matteo Renzi che nella sua e-news ieri sera ha scandito: "L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo, potremo fermarci solo davanti alla verità, lo dobbiamo alla famiglia, a tutti noi e alla nostra dignità". "Certo, ci sono molti interrogativi sulle circostanze della scomparsa" di Giulio Regeni il "cui corpo è stato scoperto proprio il giorno in cui il ministro italiano per lo sviluppo economico era al Cairo con una delegazione", ha ammesso il ministro degli esteri egiziano Shoukry, ricordando come questo portò all’interruzione della missione. "Molte preoccupazioni sono seguite in ambienti italiani e certo hanno avuto un impatto negativo sul progresso e lo sviluppo delle relazioni" tra i due paesi, ha proseguito nell’intervista a Al-Youmi, ribadendo che Il Cairo "non ha nessun interesse" che "queste preoccupazioni restino e continuino ad avere un impatto" sui rapporti tra l’Egitto e Roma. L’ultima versione sull’omicidio - Venerdì 25 marzo, una nota del ministero dell’Interno cairota ha parla del ritrovamento dei documenti di Regeni nell’abitazione della sorella del capo di una banda di rapinatori egiziani, ucciso giovedì con quattro suoi sodali in un blitz della polizia del Cairo. E di un presunto ruolo della banda nelle sevizie e nella morte di Giulio. Una versione dei fatti smentita dalla moglie e dalla sorella di Tarek Abdel Fatah, capobanda dei rapinatori, che hanno negato un legame tra Regeni e il gruppo criminale. La moglie di Tarek avrebbe detto che il borsone rosso, con alcuni effetti personali di Regeni tra cui il passaporto "era arrivato" in possesso del marito "da cinque giorni" e lui aveva detto che apparteneva a un amico. La sorella dell’uomo avrebbe riferito che la borsa era stata portata a casa dal fratello "un giorno prima della sua morte", avvenuta giovedì. Dichiarazioni che smentirebbero le informazioni diffuse in un primo momento dalla Procura generale egiziana secondo le quali le due donne avevano confermato che Regeni (scomparso al Cairo lo scorso 25 gennaio e ritrovato cadavere, con evidenti segni di tortura, il 3 febbraio) era stato ucciso nel tentativo di sottrarsi a una rapina. I dubbi della procura di Roma - La Procura di Roma non nasconde il suo scetticismo. E intende chiarire "l’iter della scoperta dei documenti". Di questo si parlerà al vertice previsto per il 5 aprile con le forze di polizia egiziane. Il timore è che il passaggio di documenti possa, in realtà, nascondere un ennesimo depistaggio. Un modo per fornire all’Italia dei colpevoli (i banditi ormai morti) e una verità che allontani i sospetti sulle forze di sicurezza di Al-Sisi, accusate dalla associazioni dei diritti umani di compiere sequestri e torture contro i dissidenti al regime. Una sorte che, secondo ipotesi, potrebbe essere toccata allo stesso Giulio, il quale collaborava con docenti giudicati "contrari" al governo egiziano. Da segnalare che già venerdì sera il ministero dell’Interno aveva fatto una mezza marcia indietro, precisando che il ritrovamento della borsa con i documenti di Regeni nell’abitazione della sorella di Tarek Abdel Fatah non implica necessariamente un coinvolgimento del gruppo nell’assassinio del ricercatore italiano. Fiumicello tappezzata di striscioni per la verità - Intanto Fiumicello, il piccolo centro della Bassa friulana dove vive la famiglia Regeni, è tappezzato degli striscioni gialli con la scritta nera "Verità per Giulio Regeni". A decine sono appesi ai balconi, al municipio, all’ingresso degli esercizi commerciali, su edifici privati e pubblici. Una partecipazione notevole e sentita della comunità di Fiumicello che, a distanza di due mesi circa dalla morte del giovane ricercatore, non si affievolisce. Bruxelles: nella "green zone" dell’Unione europea Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 28 marzo 2016 Nella capitale europea. Un abisso di rabbia e sospetti tra Molenbeek e i palazzi del potere. Passeggiare per la città è osservare stati d’animo opposti, tra solitudine e orrore. La statua dorata di San Michele, uccisore del drago, protegge ancora la Gran Place di Bruxelles con i suoi simboli alchemici e la conchiglia di San Giacomo incastonata nelle pietre del selciato a indicare ai pellegrini l’inizio del cammino per Santiago di Compostela. Ma, anche se i locali che danno sulla piazza sono pieni come sempre, l’aria che si respira trasmette un senso di normalità forzata, sorvegliata dalla presenza delle forze dell’ordine. Un’atmosfera che vira bruscamente verso la tensione quando si passa l’invisibile confine che separa la parte storica da quella degli edifici dell’Unione europea, che appaiono in questi giorni come enucleati dal resto, parte di una geografia del potere che, anche attraverso la militarizzazione del territorio, sembra riaffermare la sua alterità rispetto al resto della città. Percorrendo le strade che collegano il Parlamento alla Commissione, il Consiglio alle sedi delle rappresentanze diplomatiche, si avverte l’aura sinistra di questo gigante ferito, ridotto oramai a un insieme di dispositivi economici che non riescono a spiegare come mai dalle periferie di quella stessa città da cui governa il destino di un intero continente, siano nati i mostri che lo attaccano. L’aria di assedio è palpabile, ma non è generata tanto dai blindati agli angoli delle strade o dai militari all’entrata della metropolitana, né dalla cintura dei quartieri etnici che sembrano circondare come un accampamento permanente gli scintillanti edifici dai nomi che ricordano un ideale di inclusione troppe volte tradito in nome della ragione mercantile per suscitare il rispetto di chi li osserva solo da lontano. Se qualcosa questi attentati hanno svelato, a cui cioè hanno tolto il velo, è invece la distanza tra eurocrazia e cittadinanza, non solo quella immigrata, ma tutta quanta, inclusi i cittadini autoctoni. È da questa separatezza che nasce il senso dell’assedio. La cittadella delle istituzioni comunitarie si arrocca nelle sue prerogative circondandosi di apparati difensivi che la isolano dal flusso della vita corrente. Anche chi condanna senza riserve il terrorismo, infatti, non può non chiedersi come e perché questi stessi palazzi, con le loro logiche, abbiano contribuito a generare l’odio e il fanatismo che ora li prendono di mira. Bruxelles si svela dunque a se stessa come un microcosmo ridotto a una enorme scacchiera, come oramai lo sono tutte le megalopoli del mondo, in cui basta girare l’angolo per cambiare continente e tempo, in cui si confrontano le contraddizioni di una costruzione europea incompiuta, che esclude le sue stesse periferie e si chiude in se stessa senza sapere però chi è veramente. La caccia alle cellule dormienti del Califfato ha scuoiato la pelle superficiale della capitale europea per mostrare i suoi nervi più sensibili, le contraddizioni che vivono tra le maglie dei suoi territori marginali. Avventurarsi poi nei quartieri di immigrazione araba, a Molenbeek, significa sperimentare tutto il peso della distanza che si è accumulata negli anni tra le differenti culture. Mentre in centro, e nella zona dei palazzi europei, le forze dell’ordine si mostrano in modalità "difensiva" qui invece l’attitudine è chiaramente offensiva, deterrente, quasi provocatoria, come muoversi attraverso una perquisizione permanente. Dalle finestre le donne e i bambini scrutano ansiosi le strade, mentre gli uomini restano distanti e taciturni, si allontanano quando un "forestiero" gli si avvicina. Il sospetto e la diffidenza verso i volti sconosciuti si rendono palpabili e fanno capire che qui vigono dinamiche peculiari, che gli attentati hanno fatto degenerare in tutta la loro radicalità. Camminando per le strade sembra che tutta la popolazione si interroghi sul suo essere in quella situazione, colpevolizzata dall’appartenenza religiosa, sospettata per la fede che professa. In certi momenti si rivivono le pagine dello Straniero di Camus. Ma anche la rabbia si sente attraverso i commenti ai fatti di sangue da parte dei residenti. La rabbia per essere stati abbandonati quando si chiedeva invece di essere considerati, prima che l’integralismo mettesse radici nell’esclusione sociale. Tornando a fine giornata verso l’aeroporto ormai riaperto ai voli, si finisce così per ricomporre in un quadro policromo tutte queste situazioni accomunate da un grande senso di spaesamento, l’immagine di una città e dei suoi cittadini che riflettono quelli di tante altre situazioni che ogni giorno rischiano di esplodere in bagni di sangue senza che i sintomi siano rilevati con chiarezza e possibilmente sradicati. Eppure, come sempre, se si va oltre le apparenze e i condizionamenti indotti dalle notizie di seconda mano, mediate dai grandi mezzi di comunicazione di massa che si rivendono il terrore, a Bruxelles si possono, in questi giorni, trovare sguardi limpidi, anche a Molembeek, anche nell’atrio del Parlamento europeo. Sono gli sguardi dei ragazzi che visitano le istituzioni europee, che ascoltano la storia di Spinelli, che vanno oltre il dramma contingente per ritrovare le ragioni fondative di un grande sogno, forse ferito a morte ma che può ancora riservare delle belle sorprese. Bruxelles, criminali di quartiere divenuti jihadisti di Fabio Tonacci La Repubblica, 28 marzo 2016 Dalla gang di Molenbeek agli studenti di Schaerbeek. Furti, violenze e spaccio: così nelle strade si "formarono" i terroristi della cellula di Abaaoud. Radicalizzati da quattro "cattivi maestri. La chiamano la cellula terroristica di Abaaoud, adesso. Ma fino a tre anni fa gli uomini che hanno lordato Parigi e Bruxelles con il sangue di 161 innocenti, erano semplici criminali di quartiere. Divisi in tre bande. C’era il gruppo di Molenbeek, ovviamente. I padroni, i più numerosi. Qualche chilometro verso est sul croissant pauvre, la cintura povera della capitale belga, c’era la Leaken dei fratelli Bakraoui, ladruncoli di macchine col vizio di maneggiare le armi. Un pò più in là, a Schaerbeek, vivevano gli "studiosi". L’universitario Lachraaoui, l’artificiere. E il giornalista freelance Faycal Cheffou, l’attentatore col cappello. Della religione non fregava niente a nessuno. Torniamo al 2013, dunque. Quando i terroristi che hanno sconvolto l’Europa non avevano ancora aderito al fanatismo del Califfato, né alla barbarie della guerra in Siria. Quelli di Molenbeek vivono dentro un chilometro quadrato. Scandiscono le giornate tra rapine, canne, birra e ragazze. Non hanno tempo per la moschea, né per la preghiera. Abdelhamid Abaaoud è il terzo figlio di Omar, commerciante benestante che ha un bel negozio di tessuti a rue du Prado, una traversa della piazza del municipio. L’appartamento dei fratelli Salah e Brahim Abdeslam è all’angolo della stessa piazza, sopra una gioielleria. Alle spalle del caseggiato c’è rue Evariste Pierron, dove vive il belga con origini marocchine Chakib Akrouh, che parteciperà al commando delle Terrasses di Parigi. Si fanno duecento passi e si arriva al 3 di rue Ransfort: in questo dignitoso salone di coiffeur ha investito i suoi risparmi Mohamed Abrini, oggi latitante per aver accompagnato in Francia Salah il giorno prima della mattanza del venerdì 13 novembre. Nella stessa via risiede un altro "arnese" che nel giro di due anni farà parlare di sé: Ayoub El Khazzani, l’uomo che nell’agosto scorso ha ferito tre passeggeri sparando con un fucile d’assalto sul treno Thalys tra Amsterdam e Parigi. In quel chilometro quadrato di Molenbeek, ci sono tutti. "Erano una banda - ricorda Albert R., uno dei vicini di casa degli Abdeslam - con un capo indiscusso: Abaaoud, il ricco. Qualcuno era un più violento degli altri, ma tutti amavano la bella vita". Che ha un costo, e per Salah il salario per il lavoro da meccanico non basta. Così si arrangia spacciando. Ha già conosciuto il carcere: nel 2010 è finito dentro con Abaaoud per rapina a mano armata. Nella gang di Molenbeek, nel 2014, bazzica anche un "forestiero". Ibrahim Bakraoui è di Laeken, e gli altri lo conoscono di fama. "È il matto che ha sparato alla polizia". L’episodio risale al gennaio 2010. Ibrahim viene beccato mentre tenta di rapinare uno sportello Western Union vicino alla casa dei suoi genitori in rue Wauthier. Per fuggire spara e ferisce un agente, ma in cantina gli trovano due kalashnikov. Nove anni di carcere: questa è la condanna, ma esce di prigione dopo quattro con la condizionale. Referenze sufficienti, a Molenbeek, per ottenere da Omar, il padre di Abdelhamid Abaaoud, un impiego part time al magazzino di tessuti. Ibrahim ci lavora per qualche mese e trascina nella "batteria" di Molenbeek il fratello minore Khalid, che il carcere non l’ha ancora assaggiato nonostante la grande passione per guidare le macchine degli altri: da quando ha 15 anni ruba auto, spesso solo per il gusto di farle filare a tutta velocità lungo gli otto chilometri di asfalto del petit ring che circonda il centro storico. Si è guadagnato un soprannome: "Lamborghini". Il 22 marzo 2016 i fratelli Bakraoui si faranno esplodere con due valige imbottite di Tatp: uno all’aeroporto di Zaventem, l’altro alla fermata della metro di Maelbeek. A Schaerbeek Najim Laachraoui, futuro artificiere della cellula, ha lasciato gli studi nel 2010, a 19 anni. Frequentava il Politecnico all’Université libre del Belgio, ma si perdeva nei tornei di frisbee nei weekend. "È sempre stato un bravo studente, Najim". Così lo ricorda la direttrice dell’Istituto cattolico superiore della Santa Famiglia di Helmet. Il ragazzo, per il suo futuro, ha però in mente qualcos’altro. Secondo alcuni, è diventato un attivista filopalestinese. Quel che è certo è che tra il 2012 e il 2013 frequenta i fratelli Othman e Mohamed Ahsynnai, oggi sotto processo per reclutamento di foreign fighter. E conosce l’imam radicale Mohamed Benjiba, che sarà espulso dal Belgio. Sono questi i "cattivi maestri" degli studenti di Schaerbeek, esattamente come lo è, a Molenbeek, Khalid Zarkani, amico di Abaaoud e in contatto diretto con l’Is. Laachraoui conosce Faycal Cheffou, personaggio noto in quel di Schaerbeek non foss’altro perché suo fratello Karim, di professione rapinatore, è stato ucciso lì dalla polizia durante un arresto. Nella sua abitazione nascondeva un kalashnikov. Lo stesso Faycal è stato coinvolto in una storia di omicidio, avvenuto a casa sua mentre era assente. Al giudice ha dovuto spiegare perché in cantina avesse uniformi della polizia, cappucci, manganelli, frutto dei suoi furtarelli. Un piccolo criminale, a quel tempo. Come gli altri gangster della periferia di Bruxelles trasformati in jihadisti. Pakistan: strage di Pasqua, almeno 72 morti, molti cristiani di Marta Serafini Corriere della Sera, 28 marzo 2016 Un kamikaze si è fatto esplodere nell’Iqbal Park, vicino all’aerea bambini. Tra i feriti e le vittime numerosi credenti che erano lì a festeggiare la Pasqua. La rivendicazione dei talebani. Il Vaticano: "Una strage orribile". Arrestati i fratelli dell’attentatore. Stavano festeggiando la Pasqua in un parco di Lahore. Poi, lo scoppio. Un kamikaze si è fatto esplodere a Lahore. I morti accertati sono almeno 72 e oltre 320 i feriti, tra cui donne e una trentina di bambini. Le autorità hanno indetto tre giorni di lutto e la polizia pachistana ha arrestato nelle ultime ore 15 persone. Il kamikaze - Fra gli arrestati, si è appreso, vi sono anche tre fratelli del giovane kamikaze. L’attentatore suicida è stato identificato come Yousuf, 28 anni, figlio di Ghulam Farid e residente nel distretto di Muzzafargarh. Intanto il premier pachistano Nawaz Sharif è giunto a Lahore per visitare i feriti e seguire personalmente le indagini. La rivendicazione - L’attentato è stato rivendicato dal gruppo Jamatul Ahrar, già legato al principale gruppo talebano pachistano Tehrik e Taleban Pakistan (Ttp). "L’obiettivo erano cristiani", ha detto un portavoce della fazione, Ehsanullah Ehsan. "Vogliamo inviare questo messaggio al primo ministro Nawaz Sharif che siamo entrati a Lahore. Possono fare quello che vogliono ma non sarà facile fermarci. I nostri attentatori suicidi continueranno questi attacchi", ha aggiunto. La fuga dal parco giochi - Tra le vittime e i feriti nell’attacco ci sono numerosi cristiani. L’esplosione è avvenuta verso le 19 ora locale nell’Gulshan-e-Iqbal Park, che si trova nella città a nordest del Paese, e che nella giornata domenicale era gremito di gente. I testimoni raccontano di donne e bambini in fuga dalla zona giochi del parco e di numerose autoambulanze accorse sul luogo dell’esplosione. Un portavoce del primo ministro ha parlato di feriti in gravi condizioni. Un portavoce della polizia ha spiegato come siano stati recuperati i resti del kamikaze. "Si tratterebbe di un giovane tra i 23 e i 25 anni. Indossava un giubbetto imbottito con almeno 20 chili di esplosivo". La zona è stata presidiata dalle forze di polizia e lo stato di emergenza è stato dichiarato negli ospedali circostanti. Il Punjab è sempre stato tradizionalmente una zona più tranquilla rispetto ad altre del Pakistan. Gli avversari del premier Nawaz Sharif lo hanno accusato di tollerare la presenza dei militanti in cambio della pace nella sua provincia, accuse che il premier ha sempre negato. Nel 2014, il Pakistan ha lanciato un’offensiva contro talebani e combattenti jihadisti nella regione del Nord Waziristan. Le reazioni - "La strage orribile di decine di innocenti nel parco di Lahore getta un’ombra di tristezza e di angoscia sulla festa di Pasqua. Ancora una volta l’odio omicida infierisce vilmente sulle persone più indifese", ha spiegato padre Federico Lombardi. "Insieme al Papa - che è stato informato - preghiamo per le vittime, siamo vicini ai feriti, alle famiglie colpite, al loro immenso dolore, ai membri delle minoranze cristiane ancora una volta colpite dalla violenza fanatica, all’intero popolo pachistano ferito". Anche il primo ministro indiano Narendra Modi ha condannato la strage e ha offerto le sue condoglianze alle famiglie. "Ho saputo dell’esplosione a Lahore - ha scritto sul suo account Twitter - e intendo esprimere la mia totale condanna di questo atto". E un messaggio di cordoglio è arrivato anche dal premier italiano Matteo Renzi. Siria: la confusa guerra occidentale all’Isis di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2016 Chi fa la guerra all’Isis? La dormiente intelligence occidentale, i ricchi amici arabi dell’Europa, la Turchia di Erdogan, gli Stati Uniti? Pare di no, visto che l’esercito siriano di Bashar Assad con l’appoggio dell’aviazione di Putin sta conquistando Palmira mettendo i fuga i jihadisti del Califfo Al Baghdadi. Il pessimo dittatore Assad con i suoi amici russi e iraniani è forse più utile degli ambigui alleati e complici dei jihadisti dell’Occidente. Ricordiamoci che solo poche settimane fa l’Arabia Saudita e la Turchia, prima che Putin ritirasse le truppe di terra, minacciavano un intervento aereo contro i curdi siriani e il regime, non contro il Califfato, anche se questi due stati dicono di appartenere alla coalizione che fa la guerra allo Stato Islamico. Ma qualche segnale è arrivato anche in Turchia dopo i recenti attentati: la strategia di appoggiare gli islamisti forse è arrivata a fine corsa. Quale guerra all’Isis stiano facendo gli occidentali non si capisce bene: gli Stati Uniti l’hanno dichiarata nell’estate del 2014 ma siamo nel 2016 e sia Mosul in Iraq che Raqqa in Siria sono ancora nelle mani dei jihadisti. Forse anche questa volta qualcun altro condurrà il conflitto contro il Califfato al posto degli occidentali che si limiteranno a meno pericolosi e impegnativi raid aerei. La fanteria la forniscono Assad e i curdi siriani ma poi non ci si deve lamentare di imbarazzanti situazioni diplomatiche e geopolitiche quando torneremo a sentire la litanìa che Assad se ne deve andare. Certo, dopo i massacri del regime, non è più riproponibile come leader della Siria ma intanto si deve trovare un’alternativa: a questo dovrebbero anche servire i negoziati di Ginevra, nel dialogo tra l’opposizione Damasco. C’è tempo però: la guerra del Siraq terminerà soltanto con la caduta di Raqqa e Mosul, operazione politico-diplomatica assai delicata perché da qui scaturirà anche la definizione dei prossimi confini della Mesopotamia e del Levante e delle zone di influenza su cui eventualmente costruire nuovi stati federali. E comunque se cade il Califfato che fine faranno i jihadisti? Verranno sterminati, la legione straniera sarà rimpatriata? Oppure il fronte sunnita troverà un modo per riciclarli? A questi interrogativi per ora non sa rispondere nessuno perché la prossima guerra al terrorismo sarà, come la prima nel 2001, assai confusa. Stati Uniti: e il personal trainer è un detenuto di Andrea Visconti La Repubblica, 28 marzo 2016 Mentre Milano trasforma l’esperienza della reclusione in un ristorante, New York propone una palestra. Si chiama Con-body e sono ex detenuti ad allenare e mettere i clienti sotto pressione per fare ginnastica come se fossero in galera. In parte trovata di marketing, ma per lo più duro regime fisico sperimentato di persona da Coss Marte durante il periodo passato dietro le sbarre. Con-body è un gioco di parole ma neanche troppo. Quelle tre letterine sono un’abbreviazione comunissima per indicare i detenuti: sono "con-victed", con-dannati. Condannato Coss che ha aperto in gennaio questa palestra al 294 di Broome Street. Ma condannati anche Ray Acosta, Shane Ennover e Sultan Malik, gli altri allenatori in questo spazio minimalista dove non ci sono attrezzi, vogatori e cyclette. Qui si sta in forma con niente più che una barra di metallo e qualche sgabello. Tutto il resto sta nella resistenza fisica personale messa alla prova dalla disciplina imposta dagli allenatori. I risultati sono indiscutibili. Coss durante il periodo passato in carcere era riuscito a perdere 35 chili e farsi un fisico da culturista. Niente pesi, attrezzi e macchine. Unici strumenti a disposizione, il tempo e la determinazione. Due strumenti che ora mette a disposizione dei suoi clienti giocando comunque sull’effetto prigione. I clienti sono come detenuti che non possono sottrarsi al volere dei secondini. Un sistema a metà strada fra le regole indiscutibili della galera e quelle ferree dell’addestramento militare. Sono ordini che non si osa contestare una volta passata la reception ed entrati in palestra attraverso un’inferriata da carcere di sicurezza. E via a fare flessioni e piegamenti mentre il filo spinato in cima a tutte e quattro le pareti fa capire che da Con-body non si scappa.