Carceri meno affollate, ma occorre un diverso modello di detenzione di Chiara Sirianni Il Foglio, 27 marzo 2016 Per il consigliere Palma, il problema non si misurano in metri quadri, serve una riforma per responsabilizzare e reinserire i detenuti. A tre anni di distanza dalla condanna europea per aver sottoposto i detenuti "a trattamenti inumani e degradanti" a causa del sovraffollamento carcerario, le misure intraprese dall’Italia per risolvere il problema - definito "sistemico", e non occasionale - sono state giudicate positive dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Figura chiave di questo risultato è Mauro Palma, consigliere per le Politiche penitenziarie del ministro della Giustizia Andrea Orlando, recentemente nominato Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Palma era stato prima membro e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Consiglio europeo per il coordinamento dell’esecuzione penale, e nel 2013 è stato messo a capo della Commissione creata ad hoc per ridurre, il più rapidamente possibile, i numeri della detenzione. Schivo ma combattivo, accoglie il risultato di Strasburgo con soddisfazione, "anche se i problemi dei detenuti non si misurano a metri quadri. E ora spero che si apra una fase riformista", dice Palma in un’intervista con il Foglio. Ma è possibile che l’Italia - come ha detto il ministro Orlando - da paese simbolo del sovraffollamento delle carceri, possa trasformarsi in modello per altri paesi? "L’insieme di provvedimenti normativi adottati e i primi balbettanti passi italiani per cambiare il modello detentivo hanno convinto Strasburgo", dice Palma. "Abbiamo ridotto i numeri. Ma i numeri sono condizione necessaria e non sufficiente per dichiarare che una situazione è accettabile. Se un detenuto dorme in una cella che non è più sovraffollata, ma non ha nulla da fare durante il giorno, il sistema non sta aiutando il suo reinserimento nella società". Nel 2013 è stato stilato un piano d’azione operativo: "Ci siamo basati su quattro linee guida. La prima riguardava la rimozione, sul piano legislativo, di tre leggi alla base dell’incremento della popolazione carceraria: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, e la ex Cirielli, che non permetteva misure alternative alla detenzione per i recidivi, indipendentemente dalla gravità del reato. La seconda direttrice riguarda l’incremento delle misure alternative: nel 2013 avevamo 66 mila detenuti contro 19 mila persone in strutture esterne, oggi siamo a 52.800 detenuti e quasi 35.000 persone in misure alternative. Infine, è stata prevista una forza giurisdizionale per i ricorsi: il reclamo va fatto al magistrato di sorveglianza, che ha il potere di agire". Secondo Palma, l’introduzione di rimedi risarcitori per chi ha subìto una lesione di diritti in passato è confortante, ma c’è ancora da fare su un punto: "Il modello di vita all’interno del carcere. Il sistema italiano è passivizzante, dispendioso, con alti tassi di recidiva. Il detenuto è trattato come un bambino, che deve solo rispettare le regole. Se un sistema non mette il soggetto detenuto nelle condizioni di assumersi responsabilità, esso non genera sicurezza. Occorre cambiare una serie di regole della quotidianità", dice Palma. Altra questione è quella della presenza di bambini in carcere, sotto la custodia attenuata delle madri: "Ritengo impensabile che non si riesca a risolvere il problema. Inoltre, ogni anno sono ottantamila i minori che varcano la soglia di un carcere per visitare i genitori. Per molti si tratta del primo rapporto con un’istituzione. Andrebbe prevista per i piccoli un’accoglienza specifica, che non sia terrorizzante, ma il più possibile umana. Non va dimenticato che, fatta esclusione per peculiari profili criminali e reclusi in alta sicurezza, l’80 per cento della popolazione carceraria è connotato da grande marginalità sociale, e ci sono forti problemi di alfabetizzazione. Anche sul tema del lavoro penitenziario i risultati sono lievemente incoraggianti, ma distanti dall’essere soddisfacenti. Spero che gli sforzi di questi mesi svolti dagli Stati generali dell’esecuzione penale, che hanno visto dialogare soggetti con visioni molto diverse, portino i suoi frutti. Stiamo per liquidare un documento che ha lo scopo di ispirare il legislatore. Esprimerà la volontà di intervenire su un diverso modello di detenzione", conclude Palma. Il rispetto della legge è un dovere, l’integrazione è un diritto di Emanuele Giordana Il Manifesto, 27 marzo 2016 Tutte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male. Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo "provincializzare l’Europa", renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro. L’integrazione fallita. Far rispettare la legge sarebbe la prima vittoria di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 marzo 2016 Il ministro della giustizia, Orlando, ha lanciato l’allarme contro il rischio di proselitismo terroristico nelle nostre carceri. I detenuti musulmani - ha detto il guardasigilli - sono 7500. Bisogna evitare che diventino le nostre "banlieue". Sono parole sagge, che vanno comunque interpretate. Perché i problemi posti da questa massiccia e incontrollata irruzione di detenuti sono due, diversi e simmetrici. Il primo, che la contiguità tra "moderati" e radicali può favorire l’attivismo di questi e la conversione di quelli. Il secondo, che una separazione netta tra gli uni e gli altri, oltre a essere difficile nell’individuare le reali tendenze politiche dei singoli, rischierebbe di esasperare quella ghettizzazione che si mira, giustamente, a evitare. A ciò si aggiunga che se da un lato il nostro ordinamento deve garantire il rispetto dei costumi e delle religioni, ad esempio fornendo cibo compatibile con i precetti delle varie fedi, dall’altro è così sopraffatto da carcerati di etnie e usanze diverse, e spesso conflittuali, da rischiare nel migliore dei casi la paralisi, e nel peggiore la rivolta. Chi ha contatti diretti con gli agenti penitenziari sa bene, al di là dei proclami rassicuranti delle autorità, che l’incapacità di comprendere, negli anni passati, le conseguenze di un’immigrazione irruenta e disordinata, ha determinato una rivoluzione del sistema carcerario, che rischia di esplodere. Sta alla intelligenza e alla capacità del governo evitare che qualcuno accenda la miccia nella polveriera. È già comunque un bene che il ministro ne abbia avvertito il pericolo. Questa nuova e benvenuta avvedutezza, unita alle ferme parole del ministro dell’Interno sulle procedure di accoglimento ed espulsione, e a quelle ancor più vigorose del primo ministro sui doveri dell’Europa, non deve tuttavia farci dimenticare che per anni il problema è stato sottovalutato e negletto, e che ancora oggi esiste una scollatura, se non un’antitesi, tra quanto viene detto e quanto viene fatto. E che il banco di prova non tanto della sincerità delle intenzioni del governo, quanto della sua capacità di attuarle, risiede nella inflessibiltà, o nella flessibilità, nel far applicare le leggi esistenti, e nei casi di incertezza di chiarirne il contenuto. Perché nulla è più pernicioso di proclamar rigore nel far rispettare le regole, e poi dimostrarsi timidi nel denunciarne le violazioni. Ebbene, ora il governo ha una immediata e facile occasione per dimostrare se, oltre alla mente per comprendere, ha anche il cuore per risolversi e il braccio per eseguire. La Regione Veneto intende promulgare una legge che vieti l’uso del burqua (il velo che copre l’intero volto rendendo impossibile l’identificazione)nei luoghi pubblici. In realtà una legge in questo senso già esiste: è l’art 85 del Testo Unico di Pubblica sicurezza. Ma il governatore è esasperato perché nessuno la fa applicare. Forse la Polizia ha avuto disposizioni di chiudere un occhio. O forse, come è più probabile, poiché la norma, pur chiarissima, è stata diversamente interpretata, nessuno ha il coraggio di esporsi a una bocciatura del giudice di turno. Ebbene, il Governo emetta una direttiva chiara e inequivoca. Oppure, per evitare difformità applicative, promulghi un decreto legge con l’interpretazione autentica della norma: può farlo in una settimana. Qualcuno dirà che è questione da poco, e che gli attentatori di Bruxelles erano a volto scoperto. E invece no, è questione fondamentale, perché la forza di un paese si vede anche, e soprattutto nell’affermazione dei principi apparentemente secondari, che invece sono essenziali alla sua identità e al suo orgoglio culturale. Gli inglesi dicono che se ti prendi cura dei penny, le sterline si prenderanno cura da sole. Anche per la legalità è così. Non esistono norme da rispettare e altre da ignorare. Esistono norme e basta. Lo Stato dovrebbe essere il primo a saperlo. I suoi nemici lo sanno già. No dell’Italia a superprocura europea antiterrorismo "come ipotizzata non serve a nulla" di Fancesco Grignetti La Stampa, 27 marzo 2016 I magistrati non avrebbero avuto la possibilità di indagare. Altro che Fbi europea contro il terrorismo islamista. Gli ultimi incontri tra i 28 ministri della Giustizia e dell’Interno autorizzano il massimo pessimismo. Persino l’annunciata direttiva contro il terrorismo della Commissione europea, promessa per giugno, difficilmente vedrà la luce in tempo. Già, perché c’è un largo schieramento di Paesi che non hanno alcuna intenzione di cedere sovranità sul versante delle indagini di polizia e penali, tantomeno su quell’embrione di codice penale comune che sarebbe la novità della direttiva antiterrorismo. La Commissione sta lavorando infatti ad armonizzare alcune fattispecie di reato. L’associazione terroristica, ad esempio, diventerebbe reato in sé. Per la tradizione giuridica italiana, nulla di strano. Non è così, invece, per molti Paesi del Nord Europa. Si sono sentiti alcuni distinguo, all’ultimo incontro tra ministri, che non annunciano nulla di buono. "In Europa - ha ammesso il ministro Andrea Orlando in una recente intervista - non riusciamo a dotarci di norme comuni ed efficaci. La differenziazione normativa tra Paesi complica le indagini, complica la cooperazione giudiziaria e dà spazi imprevedibili al terrorismo". Non c’è da meravigliarsi dell’impasse. A dispetto delle sante parole che s’ascoltano ad ogni attentato, la cooperazione tra intelligence non prosegue d’un passo. Nel campo degli 007, prevalgono le gelosie nazionali. Inimmaginabile un’agenzia d’intelligence unitaria (come aveva chiesto il Belgio qualche mese fa), si potrebbero almeno scambiare le informazioni. Eppure Angelino Alfano da mesi propone inutilmente d’istituire un tavolo permanente tra capi delle polizie e delle agenzie d’intelligence per la condivisione in tempo reale delle notizie. Qui non si procede d’un passo. Due giorni fa Alfano si lamentava appunto di quanto fosse lenta l’Europa: "È la seconda o terza volta che viene redatto un indice delle cose da fare e poi la questione non va mai avanti". Stesso stop sul versante della superprocura europea. Qui il governo Renzi ha addirittura sbattuto i pugni sul tavolo. Pochi sanno infatti - anche perché mai detto esplicitamente - che nel dicembre scorso l’Italia ha esercitato il potere di veto sulla Superprocura europea. Era talmente deludente il risultato di un anno di trattative (gli italiani avevano cominciato durante il Semestre chiedendo di dare ai procuratori europei la possibilità di indagare e non solo di coordinare le indagini nazionali, la possibilità di intercettare, la competenza sul terrorismo internazionale oltre che sulle frodi al bilancio comunitario), che il nostro governo ha preferito bloccare tutto. Disse Orlando in quell’occasione: "Non nascondo la profonda delusione, che ho manifestato, perché noi abbiamo sempre seguito la linea del "meglio qualcosa che niente", ma quando il "qualcosa" coincide col "niente" questa linea non può più essere conseguita". Con la superprocura europea, insomma, così come con la concertazione permanente tra intelligence, e come si va profilando il dibattito sulla direttiva antiterrorismo, lo scontro è sempre lo stesso: tra chi pensa che certi fenomeni si possano battere soltanto con un’azione comune europea, e chi teme questa cessione di sovranità. Terrorismo o non, la disputa ruota attorno a un’idea di Europa. E i Paesi contrari all’integrazione temono che l’emergenza degli jihadisti possa aprire una crepa nella diga della rigida difesa delle prerogative nazionali. Omicidio stradale, ecco le novità in dieci punti (più uno) di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 27 marzo 2016 Carcere fino a 18 anni e arresto per chi consuma alcol e droghe. Tutte le modifiche introdotte al Codice della strada in "Gazzetta Ufficiale" da venerdì 25 marzo. La nuova legge è la numero 41 del 23 marzo 2016, è stata pubblicata il 24 marzo sulla Gazzetta Ufficiale numero 70. Da 3 giorni quindi nel nostro Codice penale è presente il reato di omicidio stradale, all’articolo 589-bis. Ecco tutte le novità, illustrate da una circolare emanata dal ministero dell’Interno il 25 marzo. 1. Omicidio stradale colposo - Oggi è un reato autonomo, graduato su tre varianti: resta la pena già prevista (da 2 a 7 anni, articolo 589 C.P.) per l’ipotesi base, quando la morte sia stata causata violando il Codice della strada; la seconda variante prevede da 8 a 12 anni di carcere per chi provoca la morte di una persona sotto effetto di droghe o in stato di ebbrezza grave (con un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro); la terza fattispecie contempla la reclusione da 5 a 10 anni se l’omicida si trova in stato di ebbrezza più lieve (tasso alcolemico oltre 0,8 grammi per litro) o abbia causato l’incidente dopo condotte pericolose (eccesso di velocità - oltre i 70 km/h in strada urbana e superiore di 50km/h rispetto alla velocità consentita in strada extraurbana - guida contromano, sorpassi, inversioni a rischio, ecc.). 2. Omicidio stradale plurimo - Nel caso il conducente provochi la morte di più persone oppure la morte di una persona e lesioni, anche lievi o lievissime, di un’altra persona o più persone, il limite massimo di pena stabilito è di 18 anni. 3. Arresto in flagranza - La nuova legge stabilisce che per l’omicidio stradale è sempre consentito l’arresto in flagranza di reato. In presenza delle aggravanti l’arresto diventa sempre obbligatorio. Un’altra novità è rappresentata dall’arresto consentito in flagranza di reato anche nel caso in cui il conducente responsabile dell’incidente si sia fermato ed abbia prestato soccorso. 4. Fuga del conducente - In caso di fuga, l’arresto è sempre consentito. Se il conducente scappa dopo l’incidente scatta l’aumento di pena da un terzo fino a due terzi: in ogni caso non potrà mai essere inferiore a 5 anni per l’omicidio e a 3 anni di reclusione per le lesioni. 5. Lesioni stradali - Invariata la pena base (se provocate per violazione al codice della strada), rialzi notevoli invece se il guidatore è ubriaco o drogato. Previsti, infatti, da 3 a 5 anni per le lesioni gravi e da 4 a 7 per quelle gravissime. In ogni caso, se il conducente si trova in stato di ebbrezza lieve (sopra la soglia di 0,8 g/l) o se ha causato l’incidente per via di condotte pericolose scatta la reclusione da un anno e 6 mesi a 3 anni per le lesioni gravi e da 2 a 4 anni per quelle gravissime. 6. Mezzi pesanti - L’ipotesi più grave di reato (omicidio e lesioni) si applica a camionisti, autisti di autobus e in genere ai conducenti di mezzi pesanti. Per costoro, anche in presenza di ebbrezza lieve (tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l ma inferiore a 1,5) saranno applicati gli aggravi di pena. 7. Diminuzione della pena - La pena è diminuita fino alla metà quando l’incidente è avvenuto con il concorso di colpa della vittima o di terzi. 8. Prescrizione raddoppiata - Per il nuovo reato è previsto il raddoppio dei termini di prescrizione. 9. Perizie coattive - Se il conducente rifiuta di sottoporsi agli accertamenti circa lo stato d’ebbrezza o di alterazione correlata all’uso di droghe la polizia giudiziaria può chiedere al pm di autorizzarla (anche oralmente) ad effettuare un prelievo coattivo laddove il ritardo possa pregiudicare le indagini. 10. Revoca della patente - Nei casi di condanna o patteggiamento (anche con condizionale) viene automaticamente revocata la patente, che potrà essere conseguita dopo almeno 5 anni (nell’ipotesi di lesioni) e 15 anni (nell’ipotesi di omicidio). Il termine è aumentato nei casi più gravi: se il conducente è fuggito, infatti, potrà riavere la patente almeno 30 anni dopo la revoca. 11. Sospensione cautelare - Nelle more del giudizio, salvo che per il caso di omicidio stradale semplice (qui la sospensione può arrivare fino a un massimo di 3 anni ma non è prorogabile) il Prefetto può disporre la sospensione provvisoria della patente fino a un massimo di 5 anni. In caso di condanna non definitiva la sospensione può essere prorogata fino a un massimo di 10 anni. L’allarme della Privacy sulle falle del sistema: buchi nella sicurezza di Andrea Bassi Il Messaggero, 27 marzo 2016 L’anagrafe tributaria, quella che contiene i dati fiscali di tutti gli italiani, compresi quelli dei conti correnti e delle carte di credito, dovrebbe essere, dal punto di vista della sicurezza, a prova di bomba. Le informazioni vitali che sono conservate al suo interno non dovrebbero poter essere viste se non da chi è autorizzato. E si tratta di pochissime persone. La realtà, però, rischia di essere diversa. Il sistema è "vulnerabile". A lanciare l’allarme, qualche settimana fa, era stato il Garante della Privacy, Antonello Soro, che aveva inviato una lettera al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, elencando nel dettaglio tutti i "bug", i buchi, riscontrati nel sistema gestito dall’Agenzia delle Entrate. Uno dei principali punti deboli, secondo il garante, è il sistema di controllo degli accessi alla banca dati. Per esempio, spiega Soro, se due utenti accedono con le stesse credenziali, anche da due indirizzi internet diversi, non c’è modo di accorgersene. Ma il punto più delicato, è proprio quello che riguarda la consultazione dell’archivio dei rapporti finanziari, la porzione della banca dati nella quale sono conservate le informazioni sui conti correnti dei contribuenti italiani. Il protocollo, molto rigido, prevede che per poter accedere ai dati, sia necessaria l’autorizzazione di un soggetto gerarchicamente superiore a chi ne fa richiesta. In pratica servirebbe una doppia chiave per aprire la serratura. Peccato che il software, spiega il garante, identifichi con lo stesso codice fiscale sia chi chiede l’accesso che chi lo deve autorizzare. Di chiave per entrare nell’archivio dei conti correnti, insomma, ne basta anche una sola. Un altro punto debole riguarda gli accessi effettuati dalle forze di polizia e da chi svolge funzioni di giustizia e di sicurezza. Per questi non solo non esistono per niente sistemi di alert che mettano in guardia da accessi anonimi, ma il software non richiede nemmeno di indicare le motivazioni per le quali in questi casi viene effettuata l’interrogazione alla banca dati. La polemica - Le anomalie, sempre secondo i risultati dell’indagine del Garante della Privacy, non sono mancate. Dall’analisi degli accessi, per esempio, è emerso che alcuni Comuni hanno effettuato anche 4 mila interrogazioni in un giorno all’anagrafe tributaria, inserendo oltre mille codici fiscali differenti. Un flusso anomalo, ma che non ha generato in automatico, come dovrebbe accadere, il blocco delle utenze. Dopo l’invio della lettera a Padoan, il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, aveva provato a tranquillizzare, sostenendo che molte delle criticità esposte erano già state risolte. Una dichiarazione che aveva fatto alzare il sopracciglio a Soro, che aveva sottolineato come, per il momento, da parte del Fisco fossero arrivate solo delle generiche rassicurazioni che in futuro si sarebbe provveduto a sistemare le cose. Ad oggi, alla vigilia dell’arrivo nell’anagrafe tributaria dei dati sui movimenti dei conti correnti e delle carte di credito del 2015, la questione non sarebbe ancora stata risolta. Orlando visita Pannella con quattro reclusi di Daniela Preziosi Il Manifesto, 27 marzo 2016 La sorpresa di Pasqua: il Guardasigilli va a trovare il leader malato che questa volta non può andare in visita alle carceri. La risposta: "grazie, grazie, grazie, a detenuti e detenente". Non se l’aspettava, Marco Pannella, era stato informato solo di una visita "speciale". Ma del resto non sarebbe stata una novità: da due settimane a casa sua, in via della Panetteria vicino a Fontana di Trevi, vengono a salutarlo e omaggiarlo senza interruzione le più alte cariche dello stato, a partire dal presidente del consiglio Matteo Renzi; oltreché politici, vecchi amici e militanti. Così alle 11 di mattina chi era presente racconta che il vecchio leone radicale, consumato nel fisico ma lucido nella mente e persino pronto nelle battute, ha cambiato faccia quando ha visto entrare nel suo salotto il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Anche perché era accompagnato da quattro detenuti di Rebibbia. Il fatto è che ogni anno Pannella fa una visita in carcere per Pasqua (anche per Natale e Capodanno). Stavolta la malattia non glielo permetteva, e per questo il ministro ha avuto l’idea di portare un pezzetto di carcere da lui. "Ci è sembrato il modo migliore per ricordare chi vive nelle carceri e l’impegno di Pannella, nel corso degli anni, su questo fronte", ha detto Orlando. I quattro detenuti, due uomini e due donne scelti dal carcere romano di Rebibbia fra quelli che già lavorano all’esterno e accompagnati da Marco Grasselli e Gabriella Pedote (rispettivamente vicedirettori del carcere e del femminile) hanno ringraziato il leader radicale dell’impegno di una vita a favore della popolazione "ristretta". La visita è durata un’ora, con tanto di colomba e uovo di Pasqua. "Grazie grazie grazie ai detenuti e ai detenenti, e al ministro Andrea Orlando per la splendida riunione di oggi", è quello che alla fine della mattinata ha postato Pannella sul suo profilo twitter. Per il ministro le visite a sorpresa non sono finite là. Nel pomeriggio il guardasigilli si è presentato nella casa circondariale di La Spezia, la sua città. Auguri a detenuti e polizia penitenziaria e giro nel carcere, nell’infermeria e nel reparto dedicato ai bambini quando vanno a trovare i genitori, ristrutturato di recente sulla base del lavoro degli studenti del liceo artistico di Carrara. È la terza struttura che Orlando visita a sorpresa dopo quella di Poggioreale e quella di Regina Coeli il giorno dell’Epifania. Misericordia e giustizia di Lorenzo Mondo La Stampa, 27 marzo 2016 La tradizionale Via Crucis del Venerdì santo al Colosseo assumeva questa volta un particolare significato. La cerimonia si svolgeva infatti all’indomani delle stragi di Bruxelles e sotto un inedito spiegamento delle forze di polizia. Ma si connetteva anche, dal punto di vista ideale, all’anno giubilare intitolato alla Misericordia. Una parola che sembrava fuori posto, inadatta ad accompagnare questi tragici eventi, meno che mai ad assolvere o attenuare le colpe dei criminali che li hanno provocati. Mentre un solo sentimento dovrebbe imporsi, la straziata pietà per le vittime innocenti. Non dico dunque che fossero messe alla prova le riflessioni del vescovo di Perugia sulle 14 stazioni della via dolorosa e il messaggio conclusivo del Papa, ma certo si attendeva di cogliere in esse la risonanza dei fatti che hanno colpito il cuore dell’Europa. Papa Francesco non ha deluso nella sostanza le aspettative. Dopo avere seguito la cerimonia in mesto raccoglimento, sillabando via via le parole del Padre Nostro, ha esalato una serie di alte invocazioni alla Croce: piantata come segnacolo doloroso in troppe vicende umane ma anche come ispiratrice di generosi impulsi, di religioso e civile riscatto. Non c’è male del mondo, e della stessa Chiesa, che sia sfuggito alla sua appassionata denuncia, dove il fuoco centrale era rappresentato dalla tragedia dei popoli migranti e dalle atrocità del fondamentalismo islamico. La Croce viene drammaticamente "eretta nelle sorelle e nei fratelli uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche e il silenzio vigliacco". A contrasto di tante malvagità e triste omissioni, il Papa esaltava, al grado più alto, coloro che "trovano nella misericordia l’espressione massima della giustizia e della fede". Ma come si accordano misericordia e giustizia? Certo il Dio cristiano condanna lo spirito di vendetta, non contempla la morte del peccatore ma che si converta e viva. Alla base di questo processo salvifico sta dunque il pentimento, non superficiale ma convinto e macerante. È il motivo per cui viene perdonato il figliol prodigo (che pure si è macchiato di colpe irrilevanti rispetto ai carnefici dell’Isis) e viene promesso il Paradiso al buon ladrone crocifisso. Questa pietra d’inciampo non sfugge ovviamente a Papa Francesco che, anche in aderenza al tema dell’Anno Santo, ha voluto concentrarsi sull’orizzonte capitale, per molti versi misterioso, della misericordia divina. Ma non può essere occultata e resiste, anche tra i credenti, nella coscienza di un male che, nelle sue più acute espressioni, si teme irredimibile. Abruzzo: Rita Bernardini in visita nelle Case Circondariali del territorio di Fabio Lussoso rete8.it, 27 marzo 2016 La candidata radicale alla carica di Garante dei detenuti abruzzesi, prosegue le visite nelle case circondariali del territorio. Dopo Lanciano e Vasto, oggi a Chieti e Pescara. Domenica di Pasqua nelle carceri di Teramo e L’Aquila ed infine lunedì di Pasquetta in quelle di Avezzano e L’Aquila. Una serie di visite per valutare personalmente lo stato delle case circondariali abruzzesi ed i livelli di accoglienza della popolazione carceraria. Tra i principali problemi segnalati dai detenuti, il mal funzionamento dei Magistrati di Sorveglianza, responsabili del percorso fatto da ogni singolo detenuto durante la sua pena detentiva. In merito alla visita nella Casa Lavoro ex Carcere di Torre Sinello a Vasto la Bernardini ha aggiunto, è un luogo dove si crea disoccupazione. Rita Bernardini, candidata radicale alla carica di Garante dei detenuti abruzzesi, eletta alla Camera dei Deputati con il gruppo del Pd, è stata anche nel carcere di Lanciano dove ha iniziato il suo giro insieme ai rappresentanti di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzo. Di fatto il ruolo di ‘garantè della popolazione carceraria della regione già lo esercita, seppure la sua nomina - di cui si parla e discute da tempo - non viene ancora formalizzata dalla Regione. "Le carceri in Abruzzo, ha affermato l’esponente dei radicali, sono come in tutta Italia: ci sono direttori bravi e personale preparato, ma si tratta comunque di istituzioni criminogene e chi fa il suo percorso in carcere non esce migliore. Quindi c’è molto da lavorare, anche con gli Uffici di Esecuzione penale esterna e con gli Uffici di Sorveglianza, per il reinserimento sociale di queste persone; ma deve collaborare tutta la collettività, dalle istituzioni ai cittadini volontari, perché molta strada deve essere fatta ancora". Di quanto già visto nelle Case Circondariali visitate Rita Bernardini ha parlato con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al quale ha inviato una dettagliata relazione. Taranto: "chiarezza sulla morte di Antonio Fiordiso", un’interrogazione parlamentare leccenews24.it, 27 marzo 2016 I deputati Salvatore Capone ed Elisa Manno, entrambi esponenti alla Camera del Partito Democratico, chiedono un’interrogazione parlamentare ai Ministri di Giustizia e Salute sulle cause che portarono alla morte Antonio Fiordiso, giovane salentino morto a Taranto dopo il carcere. "Troppe ombre sulla morte di Antonio Fiordiso". Torna di attualità la vicenda del trentunenne di San Cesario detenuto nel Carcere di Taranto dopo essere stato prima a Lecce poi a Taranto e dunque ad Asti, e deceduto l’8 dicembre dello scorso anno presso il Reparto di rianimazione dell’Ospedale "San Giuseppe Moscati" di Taranto. Qualcosa secondo qualcuno ancora non quadra sul decesso del salentino che nel lontano dicembre 2011 rapinò una farmacia di Galugnano insieme a un complice, all’epoca dei fatti appena ventenne. Per queste ragioni Salvatore Capone ed Elisa Mariano, deputati pugliesi Partito Democratico e componenti della Commissione Affari sociali della Camera, hanno annunciato di volere procedere ad una interrogazione ai Ministri della Giustizia Andrea Orlando e della Salute e Beatrice Lorenzin affinché si possa far luce sulle condizioni dell’uomo non solo durante il suo ricovera nell’Ospedale di Taranto, ma anche e nei mesi che hanno preceduto il suo arrivo nel nosocomio del capoluogo jonico. "A quanto emerge dalle ricostruzioni di stampa - affermano Capone ed Elisa Mariano - questa vicenda presenterebbe più di qualche interrogativo particolarmente tragico. Leggiamo di una situazione fisica al limite e di cartelle cliniche che parlerebbero di crollo epatico, setticemia, disidratazione, blocco renale, shock settico in paziente psicotico, tetra paresi spastica. La famiglia parla di mancato avvertimento sui trasferimenti di Antonio Fiordiso e sul suo reale stato di salute. Sapere la verità - concludono i due democratici - è un diritto dei familiari e di tutti noi. In carcere non si può e non si deve morire". Oristano: dopo le proteste dei detenuti la Camera penale annuncia una visita nel carcere di Elia Sanna L’Unione Sarda, 27 marzo 2016 L’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane visiterà nei prossimi giorni il carcere di Massama (Oristano). Lo ha annunciato il presidente della camera penale, l’avvocato Rosaria Manconi, dopo le proteste dei detenuti. In particolare di coloro che sono reclusi nelle sezioni di alta sicurezza. In alcune lettere inviate all’avvocato Manconi i detenuti di essere ristretti in condizioni tali che violano l’articolo 3 della Cedu, la convezione europea per i diritti dell’uomo. In particolare lamentano il sovraffollamento delle celle, che riduce lo spazio disponibile sotto i parametri legali, una regolamentazione dei colloqui con i familiari che penalizza i detenuti provenienti dalle altre regioni d’Italia, la mancata fruizione di attività ricreative, rieducative e culturali e la totale assenza di contatti con il magistrato di sorveglianza e le associazioni di volontariato. L’Osservatorio ha già programmato l’accesso alla Casa circondariale per verificare le reali condizioni in cui versano i detenuti. Paola (Cs): visita ispettiva dei Radicali e della Camera penale alla Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 27 marzo 2016 Sabato santo, come annunciato, una Delegazione dei Radicali Italiani e della Camera Penale di Paola aderente all’Unione delle Camere Penali Italiane, composta dai radicali Emilio Enzo Quintieri e Valentina Moretti e dagli Avvocati Carmine Curatolo e Salvatore Carnevale del Foro di Paola, ha effettuato una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di Paola in Provincia di Cosenza, giusta autorizzazione rilasciata dal Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Massimo De Pascalis su richiesta del Senatore della Repubblica Francesco Molinari. La delegazione visitante è stata ricevuta dagli Ispettori Ercole Vanzillotta e Attilio Lo Bianco, sottufficiali del Reparto di Polizia Penitenziaria comandato dal Commissario Maria Molinaro, che l’hanno accompagnata durante la visita in tutti i padiglioni detentivi dell’Istituto in cui, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti, vi erano ristretti 171 detenuti, 42 dei quali stranieri aventi le seguenti posizioni giuridiche : 117 condannati, 11 imputati, 18 appellanti e 26 ricorrenti. Tutti uomini ed appartenenti al Circuito Penitenziario della Media Sicurezza. A 15 condannati il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente ha concesso un permesso premio previsto dall’Art. 30 ter dell’Ordinamento Penitenziario per trascorrere le festività pasquali all’esterno del Carcere unitamente ad i propri familiari. È stato riscontrato che, ancora oggi, nonostante da circa un anno siano stati effettuati i lavori prescritti dall’Autorità Giudiziaria, non è stata dissequestrata la lavanderia e non se ne comprendono i motivi. Su tale circostanza, nei prossimi giorni, il Senatore Molinari, rivolgerà una precisa Interrogazione al Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando per conoscere quali siano le ragioni che impongano il mantenimento del vincolo giudiziario sulla lavanderia dell’Istituto e, se non si ritenga doveroso, procedere con sollecitudine al dissequestro ed alla restituzione della stessa all’Amministrazione Penitenziaria. Nell’ambito della visita ispettiva Radicali e Penalisti hanno, altresì, accertato che sono in corso i lavori di rifacimento dei cortili esterni adibiti al "passeggio" dei detenuti che erano abbastanza malridotti, anche a causa della vicinanza con il mare e che il Reparto di Isolamento allo stato è chiuso e non funzionante poiché sono iniziati i lavori di ristrutturazione dello stesso al fin di adeguarlo ai dettami del "nuovo" Regolamento di Esecuzione Penitenziaria (D.P.R. nr. 230/2000) che prevede la sistemazione della doccia direttamente all’interno della camera di pernottamento e non in locali comuni. Fino alla riapertura del Reparto, l’isolamento dei detenuti per motivi giudiziari, disciplinari e sanitari avverrà nelle camere site all’interno dell’aletta esistente nella Prima Sezione a piano terra che sono state separate dal resto delle altre. Una delle "criticità" constatate dalla delegazione riguarda le cattive condizioni delle scale di accesso ai piani detentivi riservate al personale di Polizia Penitenziaria ed agli stessi detenuti. Pertanto è necessario che, in breve tempo, si provveda alla sostituzione di tutti i rivestimenti delle rampe e dei pianerottoli delle scale al fin di tutelare l’incolumità dei soggetti che le utilizzano. Tanti detenuti hanno lamentato, quasi esclusivamente, l’inefficienza del Servizio Sanitario Penitenziario di competenza della Regione Calabria il quale non riesce a garantire prestazioni efficaci ed appropriate agli stessi. In particolare è stato accertato il caso di un detenuto di Diamante che, al fin di vedersi riconosciuti i propri diritti, ha dovuto rivolgersi al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza il quale, secondo quanto riferito dal personale di Polizia Penitenziaria, avrebbe recentemente dato precise disposizioni in merito ai Sanitari che operano nell’Istituto. Questa situazione verrà comunque rappresentata nell’Interrogazione che verrà effettuata al Ministro della Giustizia Orlando. Nell’atto ispettivo verrà sollecitata anche l’attenuazione del regime custodiale tramite l’apertura delle celle affinché tutti i detenuti trascorrano un numero sufficiente di ore al giorno fuori dalla cella anche perché è noto che una maggiore quantità di tempo trascorsa fuori dalle celle ha comprovati effetti positivi per la prevenzione della recidività e per la risocializzazione. I Radicali Italiani e la Camera Penale di Paola, all’esito della visita, hanno rinnovato un giudizio positivo sullo stabilimento penitenziario gestito dal Direttore Caterina Arrotta. Porto Azzurro (Li): servono indumenti, saponi ed altro per i detenuti quinewselba.it, 27 marzo 2016 L’associazione "Dialogo" Volontariato Carcere si rivolge a cittadini e commercianti per donare indumenti e oggetti per l’igiene personale. L’associazione impegnata in varie forme di assistenza ai detenuti della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, fra le quali quella di fornire oggetti di uso quotidiano che spesso non possono procurarsi, confida nello spirito di solidarietà e generosità dei cittadini e rivolge ai commercianti elbani un invito a donare a queste persone meno fortunate oggetti a loro utili anche recuperabili dall’invenduto. I generi più richiesti, destinati solo agli uomini, sono biancheria intima, abbigliamento in genere quali felpe, tute, camicie, magliette, maglioni, giacconi, pantaloni, berretti, calze, scarpe, asciugamani, oggetti per l’igiene personale come sapone, sapone da barba, dentifricio, spazzolini da denti, ecc. Per aderire alla richiesta dell’associazione "Dialogo" basta contattare i numeri 338 7665889 - 335 7113889 - 347 9223157 ed un volontario passerà a ritirare la merce. Roma: Cisl-Fns; a Regina Coeli agente e infermiere aggrediti da un detenuto La Repubblica, 27 marzo 2016 "Anche oggi registriamo un’aggressione nelle carceri laziali, avvenuta ieri pomeriggio, ai danni di un poliziotto penitenziario nel carcere romano di Regina Coeli. A quanto ci viene riferito, un detenuto ha preso a testate un agente di polizia penitenziaria, il quale, dopo aver sentito delle urla provenienti da una cella del reparto del centro clinico, si è avvicinato. Il detenuto gli si è avventato addosso prendendolo a testate e procurandogli lesioni guaribili in circa 7 giorni. Successivamente lo stesso detenuto ha aggredito un infermiere che era andato in soccorso del poliziotto penitenziario, prendendolo a morsi". Lo dichiara, in una nota, Massimo Costantino, Segretario Generale Aggiunto Cisl-Fns. "Attualmente - aggiunge - vi sono nel carcere di Regina Coeli 930 detenuti rispetto ai previsti 624. Solidarietà al personale coinvolto. Occorre porre rimedio a tali situazioni, oltre ad applicare sanzioni disciplinare nei confronti del detenuto, occorre inasprire la pena detentiva dei detenuti che si rendo partecipi di tali aggressioni". Un assedio lungo vent’anni che accelera il declino europeo di Massimo Franco Corriere della Sera, 27 marzo 2016 L’immigrazione è al centro dell’ultimo libro di Massimo Franco, "L’assedio": un’analisi del fenomeno che sta mutando il volto dell’Europa. Anticipiamo un estratto dall’ultimo libro di Massimo Franco, "L’assedio", in uscita martedì 29 aprile per Mondadori, in cui l’autore racconta ambiguità e contraddizioni dell’immigrazione, una "parola-matrioska" che porta in sé tanti significati diversi. La rivelazione risale all’inizio di settembre 2015, esattamente il 4. Quel giorno, l’Europa seppe ufficialmente che l’emergenza dell’immigrazione non era tale; che si trattava di un fenomeno "strutturale", come si definiscono quelli destinati a durare e che spesso colgono impreparati quasi tutti. In particolare si rese conto che sarebbe andato avanti per una ventina d’anni almeno, cambiando la visuale e le priorità del Vecchio continente; e segnando la vita e la cultura di un’intera generazione. Il dettaglio singolare è che a ufficializzare questa verità scomoda non furono un esponente politico, uno studioso o un militare europei. La notizia arrivò da Oltre Atlantico. Toccò agli Stati Uniti far sapere che veniva dibattuta segretamente da mesi negli incontri delle élites strategiche riunite nell’Alleanza atlantica, la Nato. Martin Dempsey, allora capo degli stati maggiori congiunti, definì l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi in Europa attraverso il mar Mediterraneo e le rotte balcaniche "una vera crisi". Dempsey lo spiegò alla giornalista Martha Raddatz, di Abc News. "La mia personale convinzione" scandì il generale "è che dobbiamo affrontare questo fenomeno, sia unilateralmente sia con i nostri interlocutori, come un problema di generazioni, e organizzarci per trovare risorse a un livello tale da permetterci di fronteggiarlo per i prossimi vent’anni." Quell’allarme rimase come una specie di parola d’ordine per addetti ai lavori. Poco ascoltata, poco diffusa. Tenuta sullo sfondo di una situazione psicologica dominata dallo spavento di fronte a un fenomeno nuovo, dall’uso strumentale del tema dei profughi, dai timori di un nuovo impatto negativo su una crisi economica che già mordeva i ceti medi e quelli più popolari. Invece, la prospettiva è quella di una grande migrazione che avrà poche pause; e che non ha provocato ma piuttosto rivelato le fragilità, le crepe, le contraddizioni dell’identità europea; che ha fatto vacillare all’improvviso le sue certezze di "Continente perfetto", democratico, pacifico, aperto agli altri. Il generale Dempsey rivelava una verità sgradevole: che il tema dei profughi ai confini marittimi e terrestri dell’Europa era stato "l’argomento di discussione più importante" trattato dai capi militari di Stati Uniti e Nato nei mesi precedenti. E qualche mese dopo, l’8 febbraio 2016, è riaffiorato nei colloqui alla Casa Bianca tra Barack Obama e il capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella. "Abbiamo parlato a lungo del problema dei profughi e dei migranti" ha confermato il presidente statunitense... Significava che, oltre all’aspetto umanitario, il più vistoso e palpabile, ce n’erano altri più nascosti e certamente più inquietanti. Riguardavano la sicurezza dell’Europa, e le implicazioni strategiche di questo assedio per l’Occidente. Dempsey constatava che i Paesi europei affacciati sul Mediterraneo sentivano di non essere aiutati abbastanza, perché fino a quel momento "le nazioni del Centro e Nordeuropa avevano ritenuto che si trattasse di un problema che dovevano maneggiare nel Sud" continentale. Forse era un colpevole errore di valutazione, o forse un’inconscia rimozione: come se le ondate di umanità disperata potessero essere fermate dalla geografia, e segregate in una sorta di Europa di serie B, periferica ed economicamente marginale, destinata a diventare una gigantesca discarica geopolitica e sociale, dopo il collasso di quelle nordafricane. Quei cambi di regime che dovevano portare la democrazia, nelle illusioni o nel cinismo di gran parte dei governi europei e degli Usa, avevano solo accelerato la destabilizzazione delle dittature laiche dell’area. E i fragili equilibri del passato recente si erano sbriciolati, spezzando qualunque diaframma tra l’Africa e il suo miraggio europeo: il miraggio che mostrava, al di là del Mediterraneo, una sorta di Eden senza guerra e senza fame, abitato da una popolazione vecchia e bisognosa di sangue giovane, e di braccia forti a buon mercato. È un Eden inquinato dalla paura, dal timore di perdere un benessere che da anni comincia a essere eroso. Il paradiso europeo, che sembrava aver vinto i nazionalismi abbattendo i confini, è piombato in un purgatorio di incertezze crescenti. La parola magica è "confini". Come se bastasse sbarrare il territorio per scoraggiare un assedio visto solo come pericolo, minaccia. I confini come surrogato di una politica inesistente, di un’imprevidenza colpevole; e soprattutto dell’incapacità di capire che un esodo di queste dimensioni rappresenta una questione epocale, che si può tentare di gestire ma non di scansare e bloccare. O governare l’immigrazione o subirla: il dilemma è questo. Dunque, o affrontarla come potenziale opportunità; oppure contrastarla con un atteggiamento di chiusura che renderebbe comunque l’Europa "posteuropea", nonostante la pretesa di garantirne l’integrità culturale, la tradizione cristiana. E di mantenerne la ricchezza. (...) Ascoltare politici e intellettuali che si ergono a difensori della religione in un continente che ha fatto per decenni della secolarizzazione il biglietto da visita della propria modernità sa di paradosso e di ipocrisia. Ma sono gli stessi paradossi di ecclesiastici che fingono di non sapere quanto le stesse Chiese cristiane siano parte del problema. L’evocazione dei "confini da difendere" diventa dunque un mantra emotivo e insieme debole. Buono per alimentare i populismi più beceri e piegare le agende di politica interna verso scenari di impossibile autarchia, ma non per affrontare e risolvere il problema dell’"assedio dei vent’anni" in modo corale, strategico, "europeo". (...) "Come tutti sappiamo per l’esperienza dell’Impero romano, i grandi imperi crollano se i loro confini non sono protetti" ha affermato nel novembre 2015 Mark Rutte, primo ministro olandese, sottolineando l’esigenza di fermare "l’afflusso massiccio" di rifugiati da Medio Oriente e Asia centrale. Per paradosso, la "sindrome da Impero romano" espressa da Rutte non è il manifesto di una controffensiva per rompere lo stato d’assedio. Suona piuttosto come l’annuncio involontario, perfino inconscio, della resa di una classe politica inadeguata a una situazione da cui ci si sente sul punto di essere travolti. Anche se le cause della fine temuta non sono da cercare fuori ma dentro i confini e i limiti dell’"impero europeo". I migliori reclutatori dell’odio di Marco Revelli Il Manifesto, 27 marzo 2016 Terrorismo. Nella guerra in corso dovremmo allearci con i migranti anziché perseguire la strategia dell’odio. Più passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle donne e agli uomini le cui vite sono state cancellate come fossero cose, sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o appena filtrati al suo interno, che ne avranno - ne hanno già! - la vita sconvolta. E con loro i 20 milioni di musulmani che abitano le città d’Europa, a cui con voci sempre più sguaiate si chiede di negare status di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite di coloro nel nome del cui dio dice di combattere). Dovrebbero essere loro, migranti vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza strategica) c’illuminasse. Quelli più interessati, in nome della tutela del proprio "stile di vita", a disseccare questa radice velenosa dell’odio da cui hanno tutto da perdere. Così come, simmetricamente, dovrebbe essere chiaro che i migliori alleati dei nostri nemici, quelli che ne moltiplicano le potenzialità di reclutamento e ne consolidano l’illusoria identità non sono tanto, o comunque non sono solo, i "loro" imam radicali, i predicatori di banlieu facilmente controllabili anche dal più scalcinato servizio d’intelligence, ma i "nostri" seminatori d’odio. Quelli della guerra santa simmetrica e reciproca. Sono loro a precostituire nell’immaginario collettivo le condizioni per la crescita esponenziale di Daesh come materializzazione della guerra. A costituirne le basi psicologiche per l’arruolamento. Se è vero che la "guerra" in corso è, soprattutto e in primo luogo, una guerra di "narrative" (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in rapporto alla forza d’attrazione di un "racconto". E se il "racconto" del nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra preventiva con i seguaci dell’unico e vero dio - retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica, allora ogni parola di guerra pronunciata dal nostro campo, tanto più se non sostenuta da azioni conseguenti ed efficaci (e come potrebbero esserlo oggi?), è manna dal cielo per quell’identità ostile. Ne fornisce la materia prima di cui strutturarsi e consolidarsi. Non per nulla Daesh usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo stesso potrebbe fare con quelli di Matteo Salvini. E di Marine Le Pen. O dei variopinti demagoghi populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla retorica degli "stivali sul terreno" rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate di un Hollande in stile guerriero nonostante se stesso. Sono loro oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo dirlo con chiarezza. Sono loro i ghost writer della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno - nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale - i materiali linguistici per la trama di una storia infinita e sempre uguale, che batte sempre sullo stesso tasto: la distruzione dell’Altro. E che prima o poi quel vaso di Pandora che ha riempito di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di "vertigine". Torna in mente un vecchio saggio di Roger Caillois, scritto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, intitolato appunto Vertiges, dove s’intendeva con quel termine l’irresistibile attrazione per cui "l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione stessa del proprio annientamento" che "lo priva del potere di dire di no". È lo stesso istinto autodistruttivo per cui l’insetto è attratto dalla fiamma che lo ridurrà in cenere, l’uccello dallo sguardo del serpente che lo divorerà. E l’uomo dalla fascinazione del vuoto. La forza cieca della sorte per il giocatore coattivo. L’inaccessibile impassibilità della femme fatale per l’innamorato senza speranza, nel campo dei comportamenti individuali. Per le società, invece, la Guerra. Il punto zero dell’esistenza in cui ciò che si considera inevitabile trova infine compimento nel trionfo del nulla. In ogni caso il denominatore comune della vertigine è innanzitutto la distruzione dell’autonomia: una "fatale paralisi" di fronte alla sollecitazione dell’abisso. E l’antidoto - risorsa rara - è una volontà capace di restare "padrona di sé", conservando "l’indipendenza, l’energia e l’iniziativa". Cioè quello che dovrebbe essere la Politica (il condizionale è d’obbligo), quando fosse capace di rimanere fedele al proprio profilo più nobile: la vocazione a perseguire il "bene comune", per arduo che ciò sia. Per questo noi de l’Altra Europa con Tsipras abbiamo messo al centro della nostra recente assemblea nazionale a Milano la riflessione su cosa voglia dire "fare politica in tempi difficili". Che non sono i tempi in cui l’avversario contro cui lottiamo è infinitamente più forte di noi, a questo siamo in fondo abituati da sempre. Ma quelli in cui il quadro politico e sociale - persino culturale, e potremmo dire antropologico - in cui ci muoviamo si decompone e si sfarina. Quando i fronti lungo i quali si definiscono gli amici e i nemici mutano rapidamente, si spezzano e ricompongono, e la nostra stessa comunità rischia di decomporsi e sfarinarsi, i rapporti di fiducia di logorarsi e spezzarsi, e si stenta a vedere gli alleati e i compagni di strada. Quando si finisce per non riconoscersi più… l’un l’altro! Sono i tempi in cui si passa da una situazione che Gramsci avrebbe chiamato di "guerra di posizione" - in cui si confrontano blocchi ancora strutturati (neoliberismo contro resistenza sociale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia - a una di "guerra manovrata" o "di movimento" in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità di pensiero. In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni 40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno dell’odio tra i popoli, ricordava come, un tempo, Atene avesse saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, "rompere solennemente con quella tradizione che metteva le nazioni le une contro le altre" perché nessuno potesse accusarla di preferire "gli interessi di Atene al diritto altrui" ("Nella lotta contro Filippo avrebbe avuto le mani pulite"). E avesse così proposto "ai forti, agli audaci, agli austeri di unirsi su tutta la terra per instaurare il loro governo sulla moltitudine dei soddisfatti e dei mediocri". Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di quella rinascita. Un solo vuoto: l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente. Una tendopoli sul binario morto di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 27 marzo 2016 Grecia. C’è chi accetta di essere trasferito in un campo del governo e chi spera ancora di riuscire ad arrivare in nord Europa. Il futuro di Idomeni a un bivio. Alexandra è una ragazza greca che studia giurisprudenza a Bologna. Era a bordo del traghetto Ancona-Igoumenitza "monopolizzato" dalla carovana #Overthefortness con tanto di assemblea sul ponte più alto. Ha deciso di non proseguire il viaggio con il padre verso Atene. Si è aggregata a Igoumenitza alla carovana italiana e ieri ha portato a destinazione due borse cariche di pannolini, medicinali e scarpe in una delle centinaia di tende del campo. Con la pettorina arancione, a gruppetti controllati anche dall’elicottero della polizia greca, la delegazione di attivisti e volontari italiani è approdata a Idomeni nel primo pomeriggio. Ciascuno con un compito preciso a seconda delle attitudini: distribuire aiuti, far giocare i bambini, verificare legalmente la situazione dei profughi, tradurre dall’arabo o dall’inglese, monitorare la solidarietà. In 150 a darsi da fare, anche se il furgone con il materiale atteso dai profughi (a cominciare dalle scarpe) ha subito una perquisizione da parte della polizia. Nella tendopoli, che resta l’emblema del calvario europeo senza resurrezione, il clima sembra come il cielo sempre sospeso fra la minaccia di un temporale o il sole che combatte con le nuvole. È nato un bambino da una parte, mentre dall’altra la piccola folla assalta il vecchio camion con il cibo. Nella tenda curda si sorseggia tè con la musica tradizionale, ma al confine con la Macedonia la protesta non si smorza. Si improvvisa una "vera" partita a calcio con la polisportiva San Precario, tuttavia nella strada che scende dal piccolo paese si gioca sempre il business nel bazar dei disperati. Chi conosce la "città dei migranti" parla della possibilità di un esodo dei siriani verso le strutture che il governo Tsipras ha concordato con Bruxelles e barattato con Erdogan. Tuttavia, il resto del Medio oriente in quest’angolo di Grecia rinnova la promessa di trovare un pertugio verso Skopje se non addirittura la rotta verso Tirana. Le famiglie, tantissime, dignitose nonostante tutto, provano comunque a nutrire la speranza "europea" con la cena nei vassoi di plastica. Idomeni, tendopoli sul binario morto resta comunque la residenza di non meno di 10 mila persone cui bisogna aggiungere la decina di campi cresciuti intorno alle stazioni di servizio, fino a quelli "ufficiali" intorno a Salonicco. Qui la vita quotidiana si misura con la preghiera nella moschea improvvisata, la spola delle squadre con badili e sacchi neri (Medici senza frontiere garantisce così pulizia e igiene), il censimento legale cui partecipano anche gli studenti del corso di protezione internazionale Asgi di Roma, i bambini che continuano a sorridere e giocare, l’infopoint che offre il testo dell’ultimo accordo Ue con altre notizie in arabo per chi vuol aggiornare la bussola, l’odore pervasivo della cenere di ogni genere di fuoco alimentato con tutti i materiali a disposizione. Finché c’è luce, ci si sforza tutti di immaginare la "normalità" dentro questa specie di follia. Ma da troppo tempo profughi di guerra, migranti d’ogni tipo, volontari più o meno accreditati e perfino Unhcr sanno bene che sarà impossibile perpetuare lo stato d’eccezione autogovernata. È scritto, prima o poi, anche il destino di Idomeni: come la giungla di Calais. Dipenderà dal governo di Atene, che per il momento continua a trattenere gli agenti in assetto anti-sommossa: venerdì c’erano i primi bus a beneficio dei siriani, usciti a spinta dal fango ma pur sempre un precedente su cui far leva… Con la carovana #Overthefortness sono tedeschi, catalani, inglesi, francesi (e perfino giapponesi) a far da specchio all’Europa che non discrimina né piazza cavalli di frisia. Bruxelles è davvero lontanissima, anche se qui i cartelli di "scuse" rispuntano puntuali a rimarcare la differenza abissale fra chi sopporta le conseguenze delle guerre e chi terrorizza anche l’esodo biblico. Quando cala il buio, arriva puntuale il freddo. Soprattutto nell’anima della tendopoli emblema d’Europa. Lo si combatte con l’ultimo girotondo di decine di ragazzini, accendendo il simulacro di un focolare davanti a "casa", con il pellegrinaggio al generatore che carica i cellulari ultimo filo di affetto per tante famiglie divise o stringendo le spalle nella notte che si ripete uguale. Nemmeno oggi i diritti fondamentali risorgeranno a Idomeni. Ma almeno dall’alba si ricomincia a mantenere vivo il rispetto della vita di tutti: anche solo con un paio di scarpe, matite colorate, pannolini e cibo caldo. Egitto: caso Regeni. Renzi cCi fermeremo solo davanti alla verità" Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2016 Ricostruire ed approfondire l’iter che ha portato i documenti di Giulio Regeni nella disponibilità della persona presso la quale sono stati trovati. È quanto inquirenti e investigatori romani chiederanno alla polizia egiziana nell’incontro che si terrà a Roma il 5 aprile così come concordato in occasione della trasferta del 14 marzo al Cairo del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco. Renzi: Italia si fermerà solo davanti a verità - Sul fronte politico, il governo ha ribadito oggi che non si accontenterà di verità di comodo. "L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo. Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. Ma proprio per questo potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo dobbiamo a quella famiglia. E, se mi permettete, lo dobbiamo a tutti noi e alla nostra dignità". Così il premier Matteo Renzi nella sua E-news. Pm Roma: ricostruire iter scoperta documenti Regeni - Tra gli inquirenti suscita non poche perplessità la versione egiziana secondo cui i documenti del ricercatore italiano sono stati rinvenuti nell’abitazione della sorella di uno dei cinque presunti rapinatori egiziani coinvolti nell’uccisione di Regeni (secondo una versione prima accreditata e poi parzialmente smentita dal ministero dell’Interno egiziano) uccisi in uno scontro a fuoco. Chi indaga fa notare come tra gli effetti personali mostrati dalle autorità del Cairo siano riconducibili a Regeni solo le due tessere universitarie, il passaporto e la carta di credito. Il resto, e cioè lo zainetto, gli occhiali da sole, il portafoglio e un pezzetto di hashish, non era di proprietà della vittima. Chi indaga a Roma, inoltre, è sempre in attesa, come ricordato ieri dallo stesso Pignatone, della documentazione completa relativa agli accertamenti eseguiti al Cairo, considerato che il materiale finora consegnato risulta parziale. Già ieri il procuratore Pignatone aveva dichiarato che "gli elementi finora comunicati dalla Procura egiziana al team di investigatori italiani presenti al Cairo non sono idonei per fare chiarezza". Moglie e sorella capobanda ucciso negano legame con morte ricercatore - La moglie e la sorella di Tarek Abdel Fatah, il capo della banda di rapinatori sospettati dalle autorità egiziane di essere responsabile dell’omicidio di Regeni, sono state arrestate per favoreggiamento ma hanno negato, nel corso dell’interrogatorio, che la gang abbia ucciso il giovane ricercatore italiano, scomparso al Cairo lo scorso 25 gennaio e ritrovato cadavere, con evidenti segni di tortura, il 3 febbraio. Lo riferiscono fonti dell’inchiesta citate dal sito del quotidiano Al Masry Al Youm che smentirebbero così le informazioni trapelate ieri dalla Procura generale secondo le quali le due avevano riferito che Regeni era stato ucciso per una rapina. La moglie di Tarek - riferisce la stessa fonte - ha detto che il borsone rosso, con alcuni effetti personali di Regeni tra cui il passaporto "era arrivato" in possesso del marito solo "da cinque giorni" e lui aveva detto che apparteneva a un suo amico. La sorella dell’uomo, inoltre, avrebbe riferito che la borsa era stata portata a casa dal fratello "un giorno prima della sua morte", avvenuta giovedì scorso. Legale famiglia Regeni: sgomento per infamanti depistaggi - Anche se il caso al Cairo non è stato dichiarato formalmente risolto, il rilancio della pista ‘criminalè al posto di quella degli apparati di sicurezza deviati è stato accolto da tutti in Italia come un potenziale nuovo depistaggio. A partire dalla famiglia Regeni. "Credo che il nostro sgomento sia quello dell’Italia intera, rispetto a infamanti depistaggi che si susseguono in questi giorni" ha detto l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, che ha aggiunto: "La cosa che ci ha colpito di più è l’insulto, la mancanza di rispetto non solo nei confronti di Giulio ma di tutto il Paese, delle istituzioni, come se potessimo accontentarci di queste menzogne". Serracchiani: governo collabori, no a ricostruzioni inverosimili - Le indagini sulla morte di Regeni devono fare "piena, totale luce, senza ombre o aloni", è stata ieri la reazione di Palazzo Chigi: l’Italia, ha fatto sapere il governo ribadendo il proprio sostegno alla procura di Roma e ai familiari del ragazzo, "non si accontenterà mai di niente di meno della verità, di tutta la verità". "Il Governo egiziano si decida a collaborare. Verità chiara e completa sull’assassinio di Giulio #Regeni, non ricostruzioni inverosimili" ha ribadito oggi su twitter la vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani. Boldrini: ennesima versione Egitto scoraggiante - Netta anche la presa di posizione della presidente della Camera Laura Boldrini, che su twitter: "L’ennesima versione dei fatti sull’omicidio di Giulio Regeni è scoraggiante e getta un’ombra sul rigore delle indagini svolte in Egitto". Egitto: caso Regeni, da Renzi solo parole sulla farsa del Cairo di Daniela Preziosi Il Manifesto, 27 marzo 2016 Le reazioni italiane. Boldrini: ennesima versione scoraggiante. E le opposizioni ora chiedono di riferire in aula. Cresce di ora in ora l’imbarazzo del governo italiano di fronte alle verità-farsa apparecchiata dal governo "amico" del dittatore al Sisi sulla tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni. Negli scorsi giorni il presidente Matteo Renzi, dopo le promesse di collaborazione "da padre" del generale golpista a Repubblica, aveva parlato di "passi avanti". Come uno sberleffo, una macabra beffa, dal Cairo sono arrivate le presunte prove dell’uccisione di Regeni da parte di una banda di cinque rapitori, a loro volta uccisi. Ieri dagli stessa media egiziani sono piovute smentite definitive a questa versione. Per il nostro paese lo smacco è profondo. "L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo" assicura Renzi nella sua e-news. Ma sono parole, per ora. "Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. Ma proprio per questo potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo dobbiamo a quella famiglia. E, se mi permettete, lo dobbiamo a tutti noi e alla nostra dignità". Le cose però non stanno così. Persino ai vertici del partito del presidente del consiglio la versione corrente è tutt’altra. "Il governo egiziano si decida a collaborare", dice la vicepresidente Pd Debora Serracchiani. E sul fronte della mancanza totale di cooperazione e persino di dialogo fra inquirenti dei due paesi è stato proprio il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a ammettere, con tanto di un comunicato ufficiale, che i magistrati italiani stanno ancora aspettando "le informazioni e gli atti da tempo richiesti e sollecitati". Una smentita chiara alla versione della collaborazione delle due magistrature che il premier prova ad accreditare per non dover ammettere una verità lampante: che negli scorsi due mesi nessun reale "passo avanti" è stato fatto nelle indagini; e che l’Italia non ha ottenuto nulla dal generale golpista, se non "l’oltraggio" - così lo definiscono molte forze politiche - di una "messa in scena" - questa definizione invece è della famiglia Regeni - di una storia che non sta in piedi. In un incontro che si terrà il prossimo 5 aprile gli inquirenti romani chiederanno alla polizia egiziana di ricostruire ed approfondire l’iter che ha portato i documenti di Regeni "nella disponibilità della persona presso la quale sono stati trovati". Quelli fotografati su un piatto d’argento e mostrati alla pubblica opinione. Sarebbe già accertato invece che il borsone rosso ugualmente mostrato dai media egiziani, di Giulio non era, né il tocco di fumo "ritrovato" fra i suoi effetti personali. "Infamanti depistaggi" di fronte ai quali lo sgomento è "nostro e dell’Italia intera", secondo l’avvocata della famiglia Regeni Alessandra Ballerini. Che però non dubita dell’azione italiana: "Allo sgomento si unisce la soddisfazione e la fierezza di essere italiani e di avere il sostegno delle istituzioni, delle tante associazioni umanitarie e soprattutto dei cittadini". Una convinzione che sembra vacillare persino nelle massime autorità dello stato. "L’ennesima versione dei fatti sull’omicidio di Giulio Regeni è scoraggiante e getta un’ombra sul rigore delle indagini svolte in Egitto", dice la presidente della camera Laura Boldrini. Ma la parola ‘ombrà è un chiaro eufemismo del linguaggio istituzionale. Ma in questione non è solo l’atteggiamento del Cairo. È piuttosto quello del governo italiano nei confronti di al Sisi e dei suoi. La "messa in scena" dimostra che poco è stato fatto per ottenere la verità sull’atroce morte di Giulio, e quel poco non è stato efficace. "L’ultima versione offerta dalle autorità egiziane non solo è priva di ogni credibilità, ma è un’offesa alla famiglia di Giulio e all’intelligenza di tutti coloro che attendono la verità", attacca Alfredo D’Attorre (Si), e "la reazione del governo italiano è burocratica e inadeguata". Palazzo Chigi attutisce i colpi, ma è ormai evidente che ha nutrito un eccesso di fiducia nella già discutibile "amicizia" con il dittatore. Ora deve trovare una maniera per uscirne fuori. Ora che però le prove dell’omicidio sembrano fatalmente svanite o inutilizzabili. A questo punto serve un dibattito in aula secondo Alessandro Di Battista (m5s): "Ministro Gentiloni, ti degni di venire in Parlamento per dirci due parole su Regeni? Senza fare il democristiano possibilmente". Turchia: la prima sconfitta di Erdogan nella sua battaglia contro la libertà di Bernardo Valli La Repubblica, 27 marzo 2016 I diplomatici europei e i deputati dell’opposizione presenti all’udienza contro i giornalisti che il presidente vuole in carcere Dopo la manifestazione, i giudici hanno deciso un rinvio. Istanbul per i giornalisti imputati è stato un trionfo, per il presidente censore è stato un affronto. Nella sua guerra contro la libertà di stampa il potere ha subito ieri una sconfitta sotto gli occhi degli osservatori internazionali, dei diplomatici occidentali presenti in tribunale per controllare come l’alleato turco, candidato all’Unione europea, rispetta lo stato di diritto. Per Recep Tayyip Erdogan non è stata una giornata gloriosa: da un punto di vista democratico la sua immagine di leader politico ha subito un’ulteriore ferita. L’intemperanza l’ha condotto a creare un Tribunale, designando giudici e procuratore, al fine di annullare una decisione della Corte costituzionale. Decisione che lui stesso ha già pubblicamente condannato perché ha fatto uscire dal carcere i giornalisti imputati, mentre lui li voleva detenuti e sotto la minaccia dell’ergastolo, vista la pesantezza delle imputazioni. I giudici e il procuratore, nominati da lui, dovrebbero rinviare in carcere i giornalisti. L’avrebbero fatto volentieri ieri, ma la manifestazione davanti al Palazzo di giustizia e la protesta in aula hanno fatto rinviare tutto al primo aprile quando riprenderà il processo. Come capo dello Stato Erdogan è andato ben al di là dei suoi poteri, dicono gli oppositori. E una manciata di loro, una decina di deputati, presenti in aula, hanno denunciato i suoi abusi. I rappresentanti ecologisti e pro curdi del partito liberale, e del partito socialdemocratico, appoggiati da un folto gruppo di avvocati, hanno rifiutato di andarsene quando i giudici hanno deciso di proseguire l’udienza a porte chiuse ("trattandosi di segreti di Stato"). Gli stessi deputati hanno fatto anche da scudo ai giornalisti imputati temendo che venissero arrestati. I toni erano quelli di una pacifica ma decisa rivolta. Davanti al Palazzo di giustizia c’era una folla agitata, oscillante tra la collera e la festa. La festa era riservata agli accusati. La collera si è scaricata sul governo. L’indignazione si è manifestata con slogan ripetuti e severi. Le televisioni si sono ben guardate dal dare risalto a quelle immagini e se hanno osato l’hanno fatto con discrezione. Lo si capisce. L’avvenimento aveva un netto risvolto politico ed è destinato a pesare sull’agitata situazione del paese. Esso vive il cruento conflitto interno con i curdi; sente la vicina guerra in Siria, di cui accoglie tre milioni di profughi; non è più confortato dalla crescita economica; ed è spesso sconcertato dallo stile presidenziale. La Turchia, porta dell’Europa, in un momento in cui l’Europa è assediata da problemi angosciosi, è ancora ben ferma sui suoi cardini. Ma è sottoposta a spallate che la mettono a dura prova. Quello di ieri, davanti e dentro il Palazzo di giustizia, era un episodio della guerra contro la libertà di stampa in corso da tempo. Era in gioco la credibilità democratica del governo turco, con il quale l’Unione Europea ha appena concluso un accordo sul problema dei migranti. Accordo contestato da molti nelle capitali occidentali per la scarsa affidabilità dell’attuale esecutivo di Ankara. Quel che è accaduto al Palazzo di giustizia moltiplica le perplessità, anche se la collaborazione della Turchia resta preziosa. La sua posizione è strategica: è un saldo bastione in un’area terremotata. È destinato a restarlo? Nell’aula, dove si svolgeva l’udienza, c’erano appunto numerosi diplomatici europei, tra i quali l’ambasciatore tedesco e i consoli generali d’Italia e di Francia. Rappresentavano una giuria silenziosa ma non di scarso rilievo. Can Dundar, direttore di Cumhuriyet (La Repubblica), e Erdem Gul, capo della redazione di Ankara del quotidiano d’opposizione, liberale di sinistra e soprattutto laico, sono accusati da mesi, con una requisitoria di 473 pagine, di spionaggio, di divulgazione di segreti di Stato, di tentativo di colpo di Stato e di assistenza a un gruppo terroristico. Imputazioni da prigione a vita dovute a fatti che riguardano articoli in cui si rivelava, con la prova di video, che i servizi segreti turchi (Mit) avevano lasciato passare carichi d’armi destinati ai jihadisti in Siria. La Turchia membro anziano della Nato, alleato negli Stati Uniti nella coalizione contro i jihadisti dello "stato islamico" e di Al Nusra, emanazione di Al Qaeda, riforniva dunque quelli che ufficialmente combatteva. L’avversione per i curdi nemici dei jihadisti potrebbe essere una spiegazione. Nemici su un fronte, i jihadisti diventavano complici su un altro fronte. La situazione è ancor più paradossale se si pensa che i curdi sono al tempo stesso la preziosa fanteria dell’aviazione americana. La notizia diffusa da Cumhuriyet era ed è incandescente per il governo turco. Lo dimostrava ieri in aula un avvocato di parte civile rappresentante Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro e oggi presidente della Repubblica. Non è frequente che un capo dello Stato si impegni a tal punto in un processo che è in sostanza sulla libertà di stampa. Ma la posta in gioco è in questo caso importante. Smentire il giornale socialdemocratico significa rassicurare anche gli alleati. Erdogan giustifica il fatto di essere parte civile con l’accusa di tentativo di colpo di Stato basata sui rapporti che gli imputati laici avrebbero avuto con un suo acerrimo nemico, un tempo stretto alleato, il religioso Fethullah Gulen. Gulen vive negli Stati Uniti ma dirige una fitta rete di interessi in Turchia, tramite una vasta setta e numerose attività economiche. Erdogan ha preso di mira i beni di Fethullah Gulen, in particolare i giornali. Il nemico d’America ha radici nella società musulmana turca su cui si basa la forza politica del presidente, pure lui rigoroso osservante dei precetti dell’Islam. I due giornalisti di Cumhuriyet sono dei laici, dei kemalisti (la loro redazione è piena di ritratti di Ataturk, il fondatore della Repubblica), ed è quindi assai improbabile una loro complicità con il religioso Gulen. Il direttore, Can Dundar, era noto e rispettato nel paese, benché il suo quotidiano abbia una limitata tiratura (52 mila copie). È diventato famoso da quando è stato arrestato, insieme a Gul il 26 novembre. Entrambi sono stati rinchiusi nel carcere di Silivri, a una abbondante ora da Istanbul. Erdogan non ha nascosto il suo rancore. Di Dundar ha detto alla televisione: "Non lo mollerò, lo inseguirò e gli farò pagare la fattura". In febbraio la Corte costituzionale ha deciso la scarcerazione dei due giornalisti ritenendo che non erano usciti dai confini della libertà di stampa. Ma Erdogan li vuole rimettere in prigione. Giordania: Amnesty International denuncia violazioni dei diritti umani Ansa, 27 marzo 2016 Amnesty International ha criticato oggi in un rapporto la Giordania per quelle che giudica violazioni dei diritti umani, compreso il mancato accesso dei rifugiati siriani alle cure mediche, il maltrattamento di detenuti e la repressione della libertà di stampa. Amman, si sottolinea tra l’altro nel rapporto, "ha negato l’ingresso ad oltre 12.000 rifugiati dalla Siria, che sono rimasti bloccati in difficili condizioni in un’area desertica sul versante giordano della frontiera con la Siria". Per quanto riguarda la libertà di espressione, Amnesty lamenta che i giornalisti siano spesso arrestati e processati per la pubblicazione di commenti critici verso le autorità. "Le autorità - afferma l’organizzazione - hanno ristretto i diritti alla libertà di espressione, associazione e raduno usando leggi che criminalizzano le proteste e altre forme di espressione pacifiche. Decine di giornalisti e attivisti sono stati arrestati". Indonesia: rogo nel carcere di Malabero, muoiono 5 detenuti Ansa, 27 marzo 2016 Cinque detenuti sono morti nel carcere di Malabero, nell’isola Indonesiana di Sumatra, a causa di un incendio scoppiato a seguito di disordini. Lo ha reso noto la polizia. La rivolta era scoppiata dopo che agenti dell’antidroga erano entrati nella struttura e avevano portato via un boss della droga. L’Indonesia ha leggi molto severe sugli stupefacenti, fino alla pena di morte per i trafficanti.