Orlando: "Le carceri sono le nostre banlieue. C’è il rischio di proselitismo" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 marzo 2016 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando striglia i Paesi europei che fanno resistenza a norme comuni. "Le polizie e i servizi non si parlano". "I Paesi che più gridano al pericolo terrorismo, sono quelli che più spesso ostacolano la soluzione. Col vestito di Arlecchino l’Europa non lo sconfiggerà mai". Nel giorno in cui il Consiglio dei ministri vara la banca dati del Dna, per incrociare le informazioni su criminali e crimini risolti e insoluti, il ministro della Giustizia Andrea Orlando striglia i Paesi europei che fanno resistenza a norme comuni. Punta il dito sul pericolo di radicalizzazione nelle carceri: "Da noi sono 7.500 i detenuti che professano la fede musulmana, anche se l’attenzione non deve essere rivolta soltanto a loro". E sulla "svolta" delle indagini per la morte di Giulio Regeni dichiara: "Attendiamo i riscontri necessari, con la ferma determinazione a sapere la verità. Non dei surrogati". Ministro Orlando, gli attentati di Bruxelles hanno mostrato ancora un’Europa inerme. C’è chi pensa che i terroristi abbiano goduto di coperture. "Non servono tesi complottiste. Basta il fatto che le polizie e i servizi non si parlano a giustificare il fatto che non sono stati presi subito". Che cosa serve? "Lo diciamo da anni. Serve lo scambio di informazioni e norme comuni: sulla tracciabilità dei flussi finanziari che alimentano anche il terrorismo, sul traffico di armi. E una cooperazione maggiore". Delle intelligence? "Anche giudiziaria. Per noi è urgente una procura europea che partendo da reati come le frodi, arrivi ad assumere una regia contro il terrorismo. Ma così come è ipotizzata ora rischia di essere contro producente". Perché? "Scritta in un modo troppo barocco. C’è sempre il timore che si intacchi la sovranità nazionale. Ma la diffidenza è un lusso che non possiamo permetterci". Il garantismo? "Non possiamo derogare ai nostri principi e alle nostre costituzioni, sarebbe una sconfitta. Anche per questo è importante avere un soggetto giurisdizionale unico che guidi l’attività di polizia. Non abbiamo bisogno di leggi più dure. Ma più efficienti". Che cosa avete deciso nel vertice tra ministri della Giustizia e degli Interni europei? "C’è l’impegno alla cooperazione. Speriamo si traduca in qualcosa di fatto". Cosa intende? "La direttiva antiterrorismo nata dopo Bataclan ancora non c’è. In più c’è l’arma di distrazione di massa". Ovvero? "Si continua a dire, cosa di per sé necessaria, tuteliamo i confini quando è dimostrato ormai che i terroristi sono nati e cresciuti in Europa". E dunque? "Non voglio fare polemiche, ma i Paesi che più si oppongono a Schengen si sono trovati, pare, il terrorista Salah che varcava il confine tra Austria e Ungheria. Si costruiscono muri, ma il terrorismo lo abbiamo in casa". Indagini faticose di terrorismo sono finite con espulsioni di soggetti che poi hanno continuato l’attività. Che fare? "Da noi si tratta di un numero contenuto. Ma è per questo che serve scambiarsi le informazioni. Noi sappiamo quanto sia importante una mappa di tutti coloro che sono potenziali criminali. Per questo abbiamo varato la banca dati del Dna. È un passo fondamentale per la sicurezza. Ma è anche uno strumento risolutivo per le indagini in corso e per i cold case". Noi non abbiamo ancora banlieue, quanto è sotto controllo il rischio di radicalizzazione dell’Islam? "La seconda generazione di immigrati, quella che in altri Paesi ha più subito l’influenza delle predicazioni estremiste ed è più esposta alla radicalizzazione, nel nostro Paese è molto giovane. Per questo possiamo evitare quella deriva investendo sulla scuola e sulle periferie a rischio. Contemporaneamente vigilando e contrastando il fenomeno della jihadizzazione di ogni forma di radicalismo violento". Quali sono le dimensioni di questo fenomeno? "Stiamo facendo un accurato monitoraggio. Sono 34 le persone detenute per fatti in qualche modo legati al terrorismo di matrice jihadista, 208 sono quelle monitorate. Diciamo che sottoposte a vari tipi di controllo sono circa 350. Ci sono 10.500 detenuti che provengono da Paesi di fede musulmana e 7.500 che la professano. In un ambiente come il carcere c’è il rischio di una zona grigia di proselitismo. Per questo troviamo positivo l’impegno preso a finanziare progetti di deradicalizzazione da parte dell’Europa". Su Giulio Regeni l’Egitto tira fuori un’altra verità, comoda per il governo. Cosa ne pensa? "Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, quando è stato in Egitto rappresentava le nostre istituzioni. Per l’Italia ha il compito di valutare l’attendibilità delle informazioni che ci arrivano. Il governo italiano vuole la verità non dei surrogati". Sicurezza, via libera in Cdm alla Banca dati nazionale del Dna di Nino Amadore Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2016 Ok definitivo del Cdm al regolamento sulla banca dati nazionale del Dna. Un database atteso da anni e finalmente pronto al decollo sull'onda dell'emergenza terrorismo. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano (che si è detto contrario alla proposta di Massimo D'Alema sul contributo statale, tramite l’8 per mille, da concedere per la costruzione di moschee) ha parlato di strumento in campo "di formidabile potenza dal punto di vista informatico". E ha aggiunto: "Non possiamo considerare che tutto sia come prima. Non possiamo decidere e poi non realizzare le decisioni perché ciò sarebbe un regalo ai terroristi ed il fallimento dell'Europa". Lo ha detto all’indomani del consiglio straordinario dei ministri di Interno e Giustizia europei, riunitosi ieri dopo gli attentati a Bruxelles, al termine del quale i Ventotto si sono impegnati su un maggiore scambio di informazioni e hanno esortato il Parlamento europeo a dare un via libera rapido a una banca dati dei passeggeri aerei. Alfano ieri aveva annunciato un piano nazionale anti-radicalizzazione. Viminale: più posti blocco e controlli caselli - Intanto una circolare inviata in seguito agli attacchi di Bruxelles dal capo della polizia, Alessandro Pansa, a prefetti e questori, prevede l'attivazione di "mirati e frequenti posti di blocco", nonché "l'intensificazione dei controlli su strade e autostrade, soprattutto in prossimità di caselli, barriere e snodi stradali maggiormente congestionati". Non solo. Prefetti e questori sono invitati a predisporre ogni misura anche di "soccorso tecnico e sanitario, per gestire efficacemente eventuali emergenze". Lo stato di allerta 2, si sottolinea, comporta "una fase di pre allarme per probabili o imminenti atti terroristici". Alfano: ok definitivo a banca dati del Dna, pochi precedenti in Ue - La banca dati nazionale del Dna sarà istituita al ministero dell'Interno per raccogliere i profili genetici di tutti i condannati, prevede un software organizzato su due livelli: il primo impiegato ai fini investigativi a livello nazionale, il secondo per le finalità di collaborazione internazionale di polizia. Con un ritardo di sei anni dalla legge 85/2009, che l'aveva previsto, il database è finalmente pronto al decollo, sull'onda dell'emergenza terrorismo. Il Consiglio dei ministri aveva dato lo scorso luglio il prima via libera allo schema di regolamento. "Si tratta di uno strumento di formidabile potenza dal punto di vista informatico. Insieme al ministro Andrea Orlando, abbiamo realizzato un passo in avanti che ha pochi precedenti in Europa e che consentirà l'archiviazione di dati, dal punto di vista scientifico e del Dna, che saranno importantissimi sia nella lotta al terrorismo che nella lotta criminalità organizzata e nel contrasto all'immigrazione irregolare" ha detto Alfano al termine del Cdm tenutosi questa mattina. Orlando: con banca dati Dna aumenta sicurezza - "In un momento come questo, in cui la sicurezza è al centro dell'attenzione, credo sia giusto dire che questo è un passo fondamentale per aumentare il livello di sicurezza del Paese" ha aggiunto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha aggiunto: "Nei prossimi giorni partirà il laboratorio per la raccolta dei dati. La banca dati che lo conserverà, con tutte le garanzie di riservatezza previste dalla legge sulla privacy, consentirà non solo di prevenire e agevolare la realizzazione di indagini, ma anche di affrontare casi che sono considerati irrisolti alla luce della strumentazione disponibile" Marocchino espulso, pronto a combattere in Siria - Intanto proseguono le espulsioni di persone sospettate di legami con il terrorismo. L’ultima, ieri, di un cittadino marocchino residente a Chieti. "Col marocchino rimpatriato ieri da Chieti sono 9 gli espulsi quest'anno, 75 dal 2015", ha detto il ministro dell'Interno, che ha aggiunto: "Il marocchino è stato presidente del centro islamico locale, era noto per le sue posizioni integraliste ed aveva più volte espresso l'intenzione di andare a combattere in Siria". Banca nazionale del Dna: prelievo di campioni biologici di detenuti e arrestati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2016 A 7 anni dalla legge si completa il quadro normativo che renderà possibile l’istituzione di una banca dati del Dna anche nel nostro Paese. Già prevista dal trattato di Prum del 2005, recepito nel 2009 dalla legge n. 85, la banca dati si avvia a diventare realtà dopo che il consiglio dei ministri di ieri ha approvato definitivamente (a 9 mesi dal primo via libera del luglio scorso) il regolamento attuativo. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al termine della riunione dell’Esecutivo ha sottolineato che "in un momento delicato come questo, credo sia giusto dire che questo è un passo fondamentale per aumentare il livello di sicurezza del Paese. La banca dati consentirà non solo di prevenire e agevolare la realizzazione di indagini, ma anche di affrontare casi che sono considerati irrisolti alla luce degli strumenti sinora disponibili. Nei prossimi giorni partirà il laboratorio per la raccolta dei dati". E per il ministro dell’Interno Angelino Alfano "si tratta di uno strumento di formidabile potenza dal punto di vista informatico. Abbiamo realizzato un passo avanti che ha pochi precedenti in Europa e che consentirà l’archiviazione di dati, dal punto di vista scientifico e del Dna, che saranno importantissimi sia nella lotta al terrorismo sia nel contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione irregolare". Superando la parcellizzazione delle banche dati attuali potrà adesso prendere corpo un unico archivio nazionale alimentato innanzitutto attraverso il prelievo di campioni biologici di 4 categorie di soggetti: - gli arrestati in flagranza o sottoposti a fermo perché indiziati di delitto; - i detenuti per effetto di condanna relativa a reato non colposo; - chi è sottoposto a misura alternativa alla detenzione per delitto non colposo; - chi è oggetto in via provvisoria o definitiva di una misura di sicurezza detentiva. Va ricordato però che sono anche previste esclusioni. Per esempio, non sarà possibile procedere a prelievo nel caso dei più frequenti reati dei "colletti bianchi", quelli tributari e quelli societari in primo luogo. Inoltre è prevista la cancellazione dalla banca dati dei profili acquisiti in seguito ad assoluzione con formula piena e anche quando si è arrivati a definire le generalità di un cadavere in precedenza privo di identità. Il regolamento approvato ieri definisce anche i tempi di conservazione dei profili: 30 anni dalla data dell’ultima registrazione oppure 40 quando in caso di condanna è stata riconosciuta anche la recidiva. La banca dati agevolerà in particolare le attività di identificazione delle persone scomparse, mediante acquisizione di elementi informativi della persona scomparsa allo scopo di ottenere il profilo del Dna e di effettuare i conseguenti confronti. Sarà collocata presso il Dipartimento della Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, mentre il Laboratorio centrale sarà presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Definite con il regolamento anche le procedure da seguire nell’ipotesi in cui il reperto biologico venga acquisito nel corso di procedimenti penali, nel caso di denuncia di persone scomparse e nel caso di ritrovamento di cadaveri non identificati. In particolare, nei casi di denuncia di scomparsa di una persona, la polizia giudiziaria acquisisce, se necessario, gli elementi informativi della persona interessata compresi gli oggetti da questa utilizzati in maniera esclusiva, in maniera tale da avere un utile punto di riscontro traendone il profilo del Dna da utilizzare per i confronti. La banca dati è a disposizione degli investigatori nazionali ma, con il regolamento, vengono previste disposizioni per la consultazione per finalità di cooperazione internazionale, disciplinando lo scambio di informazioni e la protezione dei dati personali trasmessi o ricevuti, attraverso l’individuazione della finalità del trattamento dei dati e la previsione di verifiche sulla qualità degli stessi e sulla legittimità del relativo trattamento. Chi predica ai predicatori? Domanda su islam e carceri di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 marzo 2016 In prigione si allena l’estremismo, dice Orlando. Allora al governo conviene fare luce su un’intesa con l’Ucoii È il momento di un’intesa tra stato italiano e comunità islamiche. Anzi no, meglio ancora: diamo l’otto per mille alle moschee. Da giorni si rincorrono proposte, a volte cervellotiche, tutte unite dalla convinzione naïf e costruttivista (nel migliore dei casi) che per il nostro paese sia possibile comprare, con un tratto di penna o con un po’ di soldi pubblici, un modello d’integrazione funzionale. Che eviti di scoprire un giorno la Molenbeek che è in noi, tanto per citare il caso di un quartiere europeo in cui vigono regole altre da quelle dello stato di diritto e della democrazia liberale. Con tale obiettivo in mente, ogni sforzo di creatività è benvenuto, ben inteso, specie se esula dal solito vaniloquio degli appelli all’unità o di quelli a continuare a vivere come abbiamo sempre fatto. Si potrebbe partire, per esempio, dall’analizzare ciò che è stato fatto finora in Italia a proposito di integrazione, verificare genesi ed efficacia di queste misure. Si prenda il caso delle carceri. Intervistato mercoledì scorso dal Foglio, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha osservato che "il carcere è un luogo dove la propaganda d’odio trova amplissima audience". "Il rischio" di radicalizzazione dei detenuti di fede islamica "esiste": "Noi garantiamo l’accesso al culto nelle carceri. Si è dimostrato che dove questa possibilità è negata c’è più probabilità di radicalizzazione. Ma controlliamo e vigiliamo sull’attività di culto". Circa 10 mila detenuti nel nostro paese provengono da paesi islamici, ha aggiunto il ministro, su 54 mila detenuti complessivi. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) ha fatto sapere che sono almeno 200 gli osservati speciali negli istituti penitenziari del nostro paese. Sull’analisi, insomma, l’esecutivo è chiaro. Quando si tratta però di garantire l’accesso al culto in cella, tutto si fa più difficile. A volte inspiegabile. Alla fine dello scorso anno, il ministero della Giustizia decise che sarebbe stato utile superare la situazione, durata a lungo, in cui era rimesso al buon cuore dei singoli direttori di carcere far accedere un imam dove ce ne fosse bisogno. Superare quello status quo va bene, ma in quale direzione? Il caso ha voluto che il 5 novembre 2015 - cioè a pochi giorni dall’attacco terroristico di Parigi che ha fatto 130 morti, e dunque prima che si tornasse a discutere in maniera approfondita di terroristi made in Europe - il mistero della Giustizia e il Dap abbiano deciso di indicare una direzione di marcia. I media generalisti non ne hanno praticamente discusso prima, né parlato dopo. Il Parlamento della Repubblica non risulta che ne abbia nemmeno dibattuto. Eppure la scelta del ministero non è stata di poco conto: ha deciso infatti di firmare un "protocollo d’intesa" con l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Sarà quest’ultima, dunque, a stendere una lista di possibili ministri del culto e mediatori culturali. Per certo si tratta di una vittoria politica dell’associazione islamica che è solo una fra le tante esistenti ed è considerata dagli osservatori come orbitante nell’alveo dei Fratelli musulmani, accusata in passato di ambiguità: così ottiene un forte riconoscimento istituzionale. Perché e con quali criteri si è deciso di "appaltare" alla sola Ucoii le selezioni per un ruolo tanto delicato nelle carceri italiane? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a tutta la Consulta per l’Islam italiano, più ecumenica e con un’intesa già in essere con il ministero dell’Interno? È sufficiente dire che l’Ucoii ha i numeri dalla sua parte, in termini di moschee e imam sul territorio? Educazione e controllo dei predicatori si possono gestire a colpi di maggioranza? Meglio discutere, pubblicamente, di chi predicherà ai predicatori. Noi, l’Islam e il rispetto dalla legge di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 marzo 2016 I seguaci di Allah che vogliono vivere in Italia non devono contrastare i valori della nostra Costituzione che difende il ruolo delle donne e la libertà di culto e conversione. Prima di pensare a fare la guerra contro la minaccia islamista fuori dai propri confini i Paesi europei farebbero bene a garantirsi innanzi tutto la sicurezza delle proprie retrovie. La sicurezza di non essere colpiti alle spalle da persone nate o cresciute sul proprio territorio. Che cosa vuol dire? A me pare che oggi, e in questo particolarissimo tipo di scontro, la sicurezza del territorio significhi due cose: innanzi tutto essere ragionevolmente sicuri della lealtà costituzionale delle comunità musulmane residenti qui in Italia - in genere in Europa. Al tempo stesso essere ragionevolmente sicuri della loro disponibilità all’integrazione (dove è evidente il legame sostanziale tra i due aspetti). Si tratta di due condizioni importantissime che hanno a loro volta una conseguenza di grande portata ideale e pratica: e cioè che se ci sono aspetti della religione islamica o del costume da essa influenzati che sono in contrasto con i valori della nostra Costituzione, tali aspetti devono essere inevitabilmente abbandonati o cambiati. Pena, in caso contrario, l’essere combattuti anche con la durezza della legge. Non si tratterebbe in alcun modo di un trattamento discriminatorio verso l’Islam in quanto adottato unicamente nei suoi confronti. È il medesimo trattamento, infatti, che il Piemonte liberale adottò a partire dal 1850, lasciandolo poi in eredità al Regno d’Italia, in armonia con quanto stava facendo tutto il liberalismo europeo in quel secolo. Il governo di Torino, allora, con apposite leggi - arrivando a rispondere con la prigione alle proteste del clero - cancellò il foro ecclesiastico, la validità civile del matrimonio religioso, la "mano morta", e altri aspetti che la Chiesa cattolica e molti suoi fedeli (per fortuna non tutti) consideravano essenziali alla vita del Cattolicesimo. Ma che in un modo o nell’altro costituivano invece dei privilegi o violavano l’eguaglianza dei cittadini. Ebbene, oggi nelle comunità islamiche di più o meno recente immigrazione che si trovano in Italia (e in Europa) vigono sicuramente consuetudini di vita e rapporti sociali che i fedeli considerano ispirate a precetti religiosi (che forse le stesse autorità religiose considerano tali) ma che sono evidentemente contrari ai valori della Costituzione della Repubblica (oltre che in un buon numero di casi a delle leggi vere e proprie). Le più importanti di queste consuetudini mi sembrano quelle legate al ruolo delle donne: molto spesso tenute segregate in casa, impedite nella libertà di uscire e di muoversi a loro piacere, impossibilitate quindi ad apprendere l’italiano, oggetto di molteplici angherie. Ancora più oppressiva, come si sa, è in molti casi la condizione delle giovani, alle quali troppo spesso s’impedisce di proseguire gli studi, di frequentare i coetanei e viene imposto un rimpatrio forzato preludio a matrimoni combinati contro la loro volontà, quando non addirittura alla pratica delle mutilazioni genitali. Mi chiedo: è ammissibile che lo Stato italiano come del resto ogni altro Stato europeo tolleri virtualmente queste vere e proprie isole di extra legalità? Che nessuno abbia finora fatto nulla per cancellarle? Sta di fatto che finora non si è mai saputo che una qualsiasi autorità di governo abbia sollecitato ai carabinieri e alla polizia, ai servizi sociali sul territorio, alle procure della Repubblica, un intervento in tal senso, organico, continuo, incalzante. Così come non risulta che alcuna autorità abbia mai pensato finora a possibili interventi legislativi specificamente mirati ai problemi di cui sopra. Con la necessaria, eventuale, adozione di pene adeguate. Eppure un intervento del genere varrebbe più di tanti discorsi a trasmettere in modo incisivo almeno tre messaggi importantissimi: 1) in Italia si può essere di qualunque religione (o di nessuna) ma a condizione che i precetti di tale religione o i costumi da essa suggeriti non violino i principi di base della comunità politica nazionale; 2) la violazione di tali principi comporta sempre sanzioni severe; 3) ogni dimensione comunitaria è lecita purché rispetti però la libertà individuale degli uomini e delle donne. Ogni vincolo religioso è subordinato a tale libertà, e quindi è lecita la conversione religiosa come l’apostasia. Non mi sembrano messaggi di poco conto. Essi aiuterebbero a far emergere o rafforzare dentro l’Islam una visione dell’Islam stesso liberale e conciliabile con la modernità. Varrebbero poi soprattutto a rompere l’isolamento sociale e il discorso culturale totalmente autoreferenziale in cui troppo spesso sono rinchiuse non solo quelle comunità ma specialmente quelle unità familiari. Si tratta di un elemento decisivo anche ad un altro fine: se non si verifica la rottura anzidetta, che razza d’integrazione potrà mai esserci? Una cosa va fatta capire comunque con la necessaria chiarezza e senza falsi pudori pseudodemocratici a chi arriva nel nostro Paese dalle terre dell’Islam: in Italia non si può essere musulmani nel modo come lo si è in Iraq, in Senegal, o in Eritrea. Lo si può essere solo in modo diverso: pena, per l’appunto, saggiare la durezza della legge. I messaggi di cui sto dicendo servono infine a un altro scopo ancora, forse ancora più importante. Servono a evitare che di fronte alla grande migrazione in corso e a quella ancor più grande che si annuncia, di fronte al terrorismo islamista, di fronte all’arrivo di popolazioni così diverse avvertite come totalmente e minacciosamente estranee rispetto alla storia, alla cultura e alle tradizioni europee, le masse autoctone del continente si sentano totalmente indifese e abbandonate dalle classi dirigenti democratiche attuali. E reagiscano trovandosene altre, violente e intolleranti, ma decise in qualche modo a prendere le loro parti, ad assumerne il punto di vista. La partita che oggi si è iniziata a giocare ruota intorno a questa alternativa, non illudiamoci: se da qui a qualche decennio l’Europa assomiglierà ancora a quella che noi conosciamo, o se invece comincerà ad avere i contorni di quella che più o meno accarezzava nei suoi sogni un certo Adolf Hitler. Vietti: "Una giustizia con al centro il cittadino, non il magistrato" di Renzo Rosati Il Foglio, 26 marzo 2016 Pm responsabilizzati, riordino delle sedi giudiziarie, mobilità dove serve (basta sprechi), no separazione fra pm e giudici. Parla M. Vietti. La commissione ha concluso i lavori inviando al ministro della Giustizia Andrea Orlando un testo di 108 pagine e centinaia di articoli e commi che modificano le norme in vigore su questi aspetti: geografia giudiziaria, in particolare per le corti d’appello e relative procure generali; accesso alla magistratura; illeciti disciplinari e incompatibilità dei magistrati; valutazioni di merito e carriera; mobilità sia di sede sia di funzione; riorganizzazione degli uffici del pubblico ministero. Il Foglio ha letto gli articolati e la relazione di 28 cartelle, e ne ha ricavato l’idea di una notevole rivoluzione che tiene fede a ciò che dice Vietti, anche se deluderà chi si aspettava la separazione delle carriere tra giudici e accusatori. "Non c’è nella forma - dice Vietti - e tra l’altro avremmo dovuto toccare la Costituzione. Ma ci avviciniamo a quell’obiettivo nel riorganizzare gli uffici requirenti di primo e secondo grado, riaffermando la natura gerarchica del pubblico ministero e accentuando le responsabilità dirette dei vertici, con obiettivi di efficienza. Gerarchizzazione che finora nella prassi ha incontrato difficoltà ad affermarsi: come dimostra da ultimo lo scontro del procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati con il suo aggiunto Alfredo Robledo". Testualmente si prevede: "a) le figure apicali degli uffici requirenti stabiliscono criteri di organizzazione dell’ufficio; criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai magistrati del proprio ufficio, individuando eventualmente settori di affari da assegnare ad un gruppo di magistrati; tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento siano di natura automatica; b) l’eliminazione della discrezionalità del procuratore capo nell’assegnare la delega al procuratore aggiunto o in sua mancanza, ad altro magistrato per la cura di specifici settori di affari; c) l’innovazione del ruolo di coordinamento e vigilanza del procuratore generale della corte di cassazione, che, al fine di favorire l’adozione di criteri organizzativi omogenei e funzionali da parte dei procuratori della repubblica e la diffusione di buone prassi negli uffici requirenti, è chiamato a coordinare periodiche riunioni tra i procuratori generali presso le corti di appello all’esito delle quali vengono formulate linee guida organizzative da trasmettere al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione; d) l’attribuzione al procuratore generale presso la corte di appello della facoltà di acquisire dati e richiedere notizie alla procura della repubblica, che è tenuta a rispondere tempestivamente". L’efficienza viene anche dal riordino delle sedi giudiziarie, soprattutto le corti d’appello che verranno riorganizzate su base essenzialmente regionale, avendo la mini- riforma del 2012 già ridotto il numero dei tribunali; ma anche qui si dovrà rimediare al vincolo provinciale, visto che le province non esistono più. Con la nuova disciplina della mobilità si vuole eliminare l’autoreferenzialità dei magistrati, in base alla quale solo le sedi richieste o gradite garantivano autonomia. "Questo - nota Vietti - è proprio il punto sul quale confliggono lo ‘statuto del magistratò e il principio di efficienza". Dice la riforma: "Si è stabilito, senza possibilità di equivoco, che il vincolo di legittimazione si applica per tutti gli incarichi conferiti e per ogni tipo di trasferimento, compresi quelli direttivi e semi-direttivi, quelli ufficiosi o altrimenti speciali". Questo "avendo la giurisprudenza amministrativa talvolta continuato, per limitarne l’applicazione ai soli casi di trasferimento a domanda, a valorizzare la locuzione "sede da lui chiesta". Si è reputato pertanto opportuno espungere detta locuzione, onde chiarire che il vincolo di legittimazione non si applica ai soli trasferimenti richiesti dal magistrato". Commenta Vietti: "D’altra parte si tratta di circa 9 mila civil servant che richiedono molti investimenti per la loro formazione, e dunque devono essere pronti a trasferirsi dove c’è lavoro da svolgere, non a costruirsi carriere in sedi alle quali rischiano di affezionarsi troppo". A sostegno di questa rivoluzione Vietti porta non solo l’affermazione di un principio, ma i dati statistici del ritardo della giustizia: al 30 giugno 2015 i procedimenti pendenti nelle corti d’appello erano 334.928, solo 38.073 in meno rispetto a un anno prima. Spiega il testo: "Da una simulazione sui dati relativi al settore civile emerge che se fosse possibile non incamerare alcun nuovo procedimento il sistema, con gli attuali livelli di rendimento, impiegherebbe circa 2 anni e 8 mesi per smaltire tutto l’arretrato in grado di appello". D’altra parte la Corte d’appello di Milano, il distretto più grande d’Italia per popolazione amministrata, eroga servizi giudiziari per oltre 6 milioni di abitanti; all’opposto quella di Campobasso serve meno di 314.000 abitanti, con tre tribunali e una media ogni 100.000 abitanti, la soglia di un giudice di pace. Egualmente Piemonte e Val d’Aosta hanno un distretto giudiziario, la Lombardia due, la Puglia tre e la Sicilia quattro. "È la dimostrazione - osserva Vietti - che il focus va trasferito dal magistrato, con lui al centro del sistema, alla giustizia al servizio del cittadino. Che poi oltre all’efficienza richiede un altro requisito: la prevedibilità. Si devono cioè ottenere sentenze omogenee in base a casistiche consolidate e competenza, non affidate al caso, a protagonismi o improvvisazione". Quindi oltre alla mobilità e alla fine del "vincolo di legittimazione", la riforma prevede un secondo cardine, la specializzazione per settori - economico, di criminalità comune e organizzata, del lavoro e così via - "perché solo con la specializzazione dei magistrati si ha la prevedibilità, che altro non è che la certezza del diritto". Nella proposta di delega ci sono molte altre cose, dall’accesso agevolato per gli studenti con laurea di almeno 108 e media di esami di 28, "perché si inizia troppo tardi e la carriera è troppo breve", fino all’ampliamento dei casi di incompatibilità per i magistrati in politica, a cominciare da quella geografica. Ora però serve la volontà politica. Di Renzi innanzi tutto. Omicidio stradale, carcere fino a 18 anni di Silvio Scotti Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2016 Arresto obbligatorio in caso di consumo di alcolici o stupefacenti. L’omicidio stradale, dopo un iter legislativo complesso, è finalmente legge dello Stato. Da ieri con l’entrata in vigore della legge n.41/2016 un sinistro stradale con esito mortale o con lesioni gravi o gravissime sarà soggetto alle nuove pene, previste rispettivamente dagli articoli 589 bis e 590 bis del Codice penale. Pene tutt’altro che leggere: in caso di omicidio, la pena base va da 2 a 7 anni, mentre il conducente di veicoli a motore rischia fino a 12 anni di reclusione in caso di guida in stato di ebbrezza o di stupefazione, per arrivare fino a 18 anni in caso di morte di più persone. Anche in materia di lesioni personali stradali il legislatore fa sentire il suo pesante monito, con previsioni fino a 7 anni di reclusione. Le condotte più gravi I nuovi articoli 589 bis e 590 bis puniscono qualunque violazione del Codice della strada che causi un incidente mortale o con lesioni, ma contempla specificamente alcune ipotesi, punite in modo più grave: - guida di veicolo a motore in stato di ebbrezza in ipotesi qualificate; - guida di veicolo a motore sotto l’effetto di sostanze stupefacenti; - veicolo a motore che proceda in un centro urbano a una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/ h, ovvero su strade extraurbane a una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita; - veicolo a motore che attraversi un incrocio con semaforo rosso; - veicolo a motore che circoli contromano; - veicolo a motore che inverta il senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi; - veicolo a motore che sorpassi in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua. La polizia stradale Per la polizia stradale l’impegno sarà davvero notevole, tanto che il ministero dell’Interno ha già emanato una corposa circolare (n. 300/A/2251/16/124/68 del 25 marzo 2016). In primo luogo, ogni sinistro stradale con lesioni gravi o gravissime diviene un reato perseguibile d’ufficio, mentre in precedenza era necessaria la presentazione della querela. Questo significa una diversa organizzazione dei servizi di polizia stradale, poiché i verbali di rilevamento dovranno essere trasmessi alla competente Procura della Repubblica secondo la tempistica del Codice di procedura penale. L’introduzione dei casi di arresto, sia obbligatorio, sia facoltativo, metteranno a dura prova le forze di polizia, che dovranno porre particolare attenzione nel raccogliere gli elementi qualificanti del sinistro stradale. I casi di arresto obbligatorio previsti dalla nuova legge, in caso di esito mortale, sono: - conducente di veicolo a motore sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l; - conducenti che esercitano l’attività di trasporto di persone o di cose, di autoveicoli di massa complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t, o trainanti un rimorchio che comporti una massa superiore a 3,5 t, di autobus e di altri autoveicoli destinati al trasporto di persone il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, è superiore a otto, nonché di autoarticolati e di autosnodati, con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l. In tutti gli altri casi di omicidio o di lesioni stradali gravi o gravissime è previsto l’arresto facoltativo, con l’eccezione del primo comma dell’articolo 590 bis, che riguarda le lesioni gravi o gravissime generiche. Peraltro, anche in quest’ultimo caso (lesioni gravissime) potrebbe scattare l’arresto in caso di fuga del responsabile. La patente Le misure in ordine alla sospensione della patente sono ispirate al massimo rigore. Una volta ritirata la patente a seguito di omicidio o lesioni stradali, misura già prevista, la sospensione temporanea disposta dal prefetto, potrà arrivare a 5 anni, prorogabili a 10 in caso di intervenuta sentenza di condanna non definitiva. La condanna definitiva, poi, prevede non solo la revoca del documento, ma anche l’impossibilità di conseguire una nuova patente che, nei casi più gravi, può arrivare a 30 anni. Il prelievo coattivo La legge n. 41 non solo ribadisce l’obbligatorietà degli accertamenti per stabilire se il conducente si trovasse sotto l’effetto di stupefacenti o in stato di ebbrezza, ma ne prevede l’esecuzione coattiva in caso di rifiuto dell’interessato. Pertanto, già da ieri, la polizia stradale, su disposizione del pubblico ministero, può accompagnare all’ospedale il conducente sul quale sorgano dubbi di stupefazione o ebbrezza per sottoporlo coattivamente ai prelievi del caso. Omicidio stradale. Per la nuova disciplina un cammino a ostacoli di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2016 L’applicazione delle norme sull’omicidio e lesioni personali stradali non ha di fronte a sé una strada priva di ostacoli. La prima criticità è legata all’introduzione dell’arresto obbligatorio in flagranza per l’omicidio stradale se il conducente guida in stato di alterazione conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, o ha un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro. Si tratta di una misura simbolica, i cui effetti possono cessare nel giro di poche ore. L’arrestato può essere infatti ulteriormente privato della propria libertà personale, mediante l’applicazione di una misura coercitiva da parte del giudice all’esito dell’udienza di convalida dell’arresto, solamente in contemporanea presenza di gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari (pericolo di fuga, reiterazione del reato e rischio di inquinamento probatorio). Che non appaiono ipotizzabili nel caso di imputato che non si è dato alla fuga, che è incensurato e che non si è mai reso responsabile di infrazioni al Codice della strada. Non sarà, inoltre, facile superare lo scoglio dei gravi indizi di colpevolezza. La limitazione della libertà personale non può infatti essere frutto di presunzioni o inversioni dell’onere probatorio. Tanto è che la Cassazione ha sottolineato che "perché possa affermarsi la responsabilità dell’agente non è sufficiente provare che, precedentemente al momento in cui lo stesso si è posto alla guida, egli abbia assunto stupefacenti, ma altresì che egli guidava in stato di alterazione causato da tale assunzione" (n. 3623/16). Senza contare la rilevante incidenza, al di là delle condizioni fisiologiche del conducente, che possono avere concause presenti negli incidenti stradali, come la condotta di guida non adeguata alle situazioni contingenti del conducente di un altro veicolo. Ciò vale, a maggior ragione, per il delitto di lesioni colpose stradali, che prevede l’arresto facoltativo in flagranza anche nei casi di inversione del senso di marcia, circolazione contromano o attraversamento di un’intersezione stradale con semaforo rosso e superamento delle soglie di velocità in strada urbane ed extraurbane. Altrettante perplessità suscita la decisione di impedire al giudice di concedere, in regime di prevalenza o anche solo equivalenza, le attenuanti all'imputato - al di fuori di quella dell’età minore di anni 18 e della minima partecipazione nei casi di concorso di più soggetti nella causazione dell’incidente - in tutte le ipotesi aggravate dei reati di omicidio e lesioni stradali. Per quanto non sia una novità nel nostro ordinamento, è altrettanto vero che è la prima volta che la discrezionalità del giudice viene bloccata unitamente a un aumento significativo delle pene in relazione al quale tale vincolo opera. Si aggiunga che la natura del reato è colposa - dunque involontaria - e che la Consulta ha ricordato che "il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena" (n.183/11). Toscana: Sel denuncia "chiusura degli Opg, scontro politico sulla pelle dei detenuti" gonews.it, 26 marzo 2016 "È inconcepibile che Governo e Regione Toscana facciano il gioco delle tre carte sulla pelle dei detenuti psichiatrici per un mero scontro politico". Questo il commento delle parlamentari toscane di Sel-Sinistra Italiana, sen. Alessia Petraglia e on. Marisa Nicchi, e dei consiglieri regionali di Si-Toscana a Sinistra Paolo Sarti e Tommaso Fattori, circa la richiesta di dimissioni per la "presunta incompatibilità" del neocommissario agli Opg, Franco Corleone, arrivata dal presidente del Consiglio Regionale Eugenio Giani. Corleone era stato nominato dal Governo commissario per il superamento degli Opg della Toscana e di altre cinque regioni lo scorso 19 febbraio. Il 15 marzo, Giani scrive a Corleone sollevando un problema di presunta incompatibilità, evidentemente ignoto al Governo, tra la sua nomina a commissario e il ruolo che già deteneva come garante dei detenuti della Toscana. "È evidente come il formalismo di Giani su una vicenda così delicata come il superamento di quel buco nero dei dirtitti che sono gli Opg nasconda altro: il Pd toscano, e soprattutto quello renziano, non poteva accettare di essere commissariato, come la sinistra ha chiesto più volte, dal suo stesso governo. Ma che tra Governo e Regione - proseguono - sia in atto uno scontro tutto politico lo dimostra un altro particolare: la lettera di Giani è arrivata a Corleone prima che la nomina gli fosse consegnata. Insomma, la Regione ha chiesto a Corleone di dimettersi da una delle due cariche prima che il Governo fosse in grado formalmente di nominare il commissario. In pratica, è come se non avessimo mai avuto il commissario. Non solo: per l’atteggiamento della Regione siamo alla commedia dell’assurdo. Corleone è costretto a dimettersi da commissario per non lasciare i detenuti toscani senza un garante. Un ruolo, anche questo, assolutamente necessario considerate le condizioni dei nostri istituti. Il Pd cerchi di fare pace con se stesso e stare sereno: la legge dello Stato impone il commissariamento per le regioni inadempienti. La realtà delle cose non può cedere il passo alle misere beghe di partito". Roma: progetto "Libertà e sapere", così i detenuti tornano a scuola di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2016 Da oltre un decennio porto avanti il progetto scolastico "Libertà e sapere" con cui cerchiamo di mettere in relazione il pianeta carcere con la società esterna. Per lo più, agli inizi, si trattava di portare tra i nostri studenti detenuti testimonianze ed esperienze di importanti esponenti della cultura, non solo accademica, e delle istituzioni. Col tempo, abbiamo cominciato a far partecipare alle nostre conferenze rappresentanze di ragazzi delle scuole esterne. Quindi, abbiamo avviato i primi esperimenti di accompagnare alcuni detenuti tra gli studenti di fuori. Quest’anno stiamo organizzando un grande evento che riguarda la Terza Casa di Rebibbia, settore speciale a custodia attenuata riservato a persone mediamente giovani (sotto i 40 anni) con trascorsi di tossicodipendenza. Lì abbiamo da poco aperto una sezione del nostro Istituto scolastico "J. von Neumann". Alcuni dei nostri studenti detenuti fanno parte del gruppo di teatro e musica "Doppia mandata", dove si esibiscono insieme a un paio di agenti di polizia penitenziaria, un professore e una suora. L’idea è quella di portare tutti una mattinata nella sede centrale della nostra scuola "esterna" di San Basilio. Per prima cosa dovremo presentarci ai ragazzi riuniti in aula magna e rispondere alle loro domande con un dibattito aperto. Non è facile interagire con adolescenti di un quartiere disagiato ma, conoscendo i detenuti, le loro storie e la loro capacità di comunicare in un rapporto alla pari, senza paternalismo o pedanteria, sono pronto a scommettere su un buon coinvolgimento. Altri carcerati che non sono nelle condizioni (di legge) di poter uscire, stanno preparando un video in cui manderanno i loro messaggi ai ragazzi. E anche qui, grazie all’entusiasmo che ci stanno mettendo e alla collaborazione di una volontaria video-maker che curerà il montaggio, non potrà che uscire un buon lavoro. A quel punto ci sarà il vero e proprio spettacolo dei "Doppia mandata", con il loro mix di musica e recitazione. Difficilmente dal di fuori si può immaginare quale sforzo comporti organizzare una simile manifestazione, non solo per noi della scuola ma soprattutto per le autorità carcerarie: Direzione, Area educativa, Polizia penitenziaria. Nondimeno, in questo caso la finalità rieducativa della pena (principio costituzionale su cui si incardina tutto ciò che ruota intorno al carcere) sembra sposarsi perfettamente alla funzione preventiva e dissuasiva di nuovi reati. Le precedenti esperienze, infatti, dimostrano che l’incontro tra detenuti e studenti possa portare grandi benefici per tutti in termini di educazione alla legalità e prevenzione dei comportamenti devianti. Taranto: Sappe; tentati suicidi e carenza di personale, situazione del carcere al collasso tarantosette.it, 26 marzo 2016 Ancora due tentati suicidi nel carcere di Taranto, che si aggiungono ad una lunga catena che sembra non voler mai finire. È di mercoledì 23 marzo, la notizia che verso le 15.30, un cittadino di origine egiziana di circa 30 anni, in attesa di giudizio (sembrerebbe uno scafista di profughi), avrebbe tentato il suicidio attraverso una corda rudimentale attaccata alle inferriate del bagno. "In questo caso il pronto intervento dell’agente che ha dato subito l’allarme seguito dal personale medico, ha evitato che ci fossero gravi conseguenze, tanto è vero che il detenuto dopo un po’ si sarebbe ripreso - spiega il segretario nazionale Sappe, Federico Pilagatti. Cosa diversa, purtroppo, per un detenuto italiano, sembrerebbe originario di Massafra, anch’esso in attesa di giudizio per reati contro la famiglia, il quale verso le 18 circa, avrebbe tentato il suicidio attraverso il solito metodo (corda rudimentale). In questo caso nonostante il rapido intervento dell’addetto alla vigilanza e dei sanitari, il detenuto è apparso molto grave tanto da essere trasportato presso il locale ospedale per essere ricoverato in rianimazione. Due facce di uno stesso problema che affligge il carcere di Taranto per cui il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, da tempo chiede risposte che continuano a non arrivare. Eppure - continua il segretario - qualche settimana fa ci sarebbe stato un pezzo grosso del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che sarebbe arrivato nel carcere di Taranto e che ci dicono, per alcuni giorni avrebbe indagato su tutto alla ricerca di chissà quali mancanze o negligenze da parte dei vertici dell’Istituto che, nonostante il disinteresse dell’amministrazione e con l’aiuto dell’organico di polizia penitenziaria ormai ridotto all’osso, cercano di tenere a galla una barca che fa acqua da tutte le parti. Nulla invece per quanto riguarda la carenza di poliziotti che sembra non interessare nessuno nelle stanze ovattate del Dap a Roma. Da tempo - afferma Pilagatti - chiediamo a questi signori come sia possibile continuare a costringere un solo poliziotto penitenziario a vigilare su tre reparti detentivi contemporaneamente per un totale di quasi 200 detenuti? Come sia possibile soprattutto nelle ore serali, gestire tutta una serie di attività che prevedono l’apertura dei detenuti, senza un numero adeguato di poliziotti? Come pure, come sia possibile gestire il tutto con un briciolo di sicurezza, se nelle sezioni detentive circolano liberamente detenuti con gravi problemi psichiatrici che, creano disagio e malessere oltreché ai poliziotti, anche alla popolazione detenuta. Senza dimenticare la presenza di pericolosi detenuti appartenenti alla criminalità organizzata regionale. Ma dobbiamo aspettare che i detenuti prendano il controllo dell’Istituto, o che decidano per evasioni di massa, per correre ai ripari? Perché a tutt’oggi - continua a domandare il segretario - l’importante dirigente del Dap non si è preoccupato di rinforzare con urgenza, l’organico di poliziotti penitenziari di Taranto di almeno una trentina di unità per fronteggiare l’emergenza? Ora basta, Noi non ci stiamo più. Se non ci saranno risposte a breve, il Sappe capeggerà delle iniziative di protesta, anche eclatanti con l’astensione dalla mensa, con la consegna in caserma dei lavoratori a fine turno, con una grande manifestazione di protesta al centro della città in cui inviteremo il sindaco, il consiglio comunale, esponenti politici, e tutti i cittadini che lo vorranno, poiché dalla sicurezza del carcere, dipende la sicurezza della città di Taranto e dei suoi cittadini, e tanto altro ancora". Detenuto tarantino tenta suicidio e finisce in coma Ha tentato il suicidio in carcere ed è ora in coma nel reparto di Rianimazione del Santissima Annunziata di Taranto il 33enne tarantino arrestato martedì, con l’accusa di evasione dagli arresti domiciliari per andare a picchiare i propri genitori. L’uomo, dopo una notte passata apparentemente senza dare problemi, ha approfittato dell’isolamento per tentare di togliersi la vita, impiccandosi con le lenzuola nella cella dove era stato rinchiuso in attesa della convalida dell’arresto. Immediatamente soccorso dagli agenti di custodia e dal personale sanitario dell’infermeria interna, prima, e dai soccorritori del 118, l’uomo, che era stato trovato oramai esanime, ha ripreso il battito cardiaco dopo diversi minuti di manovre rianimatorie. Caricato sull’ambulanza e intubato, è stato successivamente trasportato al Santissima Annunziata dove le sue condizioni sembrerebbero disperate. Ad arrestarlo erano stati i Carabinieri, chiamati in via Japigia, dove era stata segnalata una lite in famiglia. Giunti sul posto i militari lo avrebbero sorpreso in casa dei genitori, precedentemente aggrediti e feriti, soprattutto il padre 60enne. Non si conoscono le ragioni del litigio, anche se pare che l’uomo soffrisse per il distacco dai propri figli avuti da un matrimonio in crisi. Livorno: il Garante; carcere delle Sughere, troppi detenuti nell’Alta sicurezza di Alessandro Farulli Il Tirreno, 26 marzo 2016 Il Garante Marco Solimano: ecco la situazione all'interno. Se ne parlerà in consiglio comunale. Situazione critica nella sezione di alta sicurezza del carcere delle "Sughere". Tutto è precipitato in pochi mesi. A novembre si salutava con soddisfazione il fatto che le celle del nuovo padiglione (sette anni di attesa) avessero solo due brande. Spazio adeguato quindi per i detenuti come da leggi europee (l'Italia era stata condanna dalla corte Ue). Poi l'improvviso arrivo della terza branda, ma con rassicurazioni che non sarebbe stata utilizzata. Invece a dicembre ecco i primi 4 arrivi e poi, nonostante la rassicurazione formale che tutto sarebbe stato fermato - con tanto di firma di circolare da parte di Santi Consolo, capo del Dap (dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) - l'arrivo di altri detenuti. Sedici in tutto. E con la prospettiva che si possa arrivare a 48, che significa 156 detenuti potenziali contro il massimo di 120 previsti per questa sezione. Lo ha raccontato Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti a Livorno. "Queste persone fino ad ora hanno solo protestato in modo tutto sommato civile, ma già gli agenti sono dovuti intervenire con gli strumenti che hanno a disposizione: isolamento; denunce per resistenza; niente campo sportivo per tre giorni. Parliamo di diritti e di persone che sono consapevoli dei gravi reati fatti ma che in queste celle dovranno restare ancora per molto, molto tempo. Qui ci sono ragazzi tra i 38 e i 40 anni, che hanno già scontato almeno 10-12 anni per delitti legati a organizzazioni criminali e ne hanno ancora 30 o 40 da passare dentro". Solimano, sostenuto anche dalla vicesindaco Stella Sorgente, ha spiegato che il carcere ha già dei problemi, quali la chiusura di ben due padiglioni - lavori assegnati pochi giorni fa - con una cucina nuova che non si sa perché ancora non si può utilizzare e anche il nuovo reparto ha delle gravi pecche. "Sicuramente le celle rispondono agli standard previsti - continua- ma gli spazi di socialità sono stati progettati in modo assurdo. I passeggi sono stretti e non ci si può neppure giocare a calcio. Pensate cosa succederebbe nel caso ci fosse sovraffollamento come si sta rischiando di creare con la terza branda nelle celle... Qui non chiediamo privilegi, ma solo il rispetto di quelle che sono le leggi e i riferimenti per un carcere moderno. La situazione è veramente a rischio. Basta niente in questi casi per far sì che accada qualcosa di grave, per questo io vado lì spessissimo". La situazione delicata è stata conferma anche dall'avvocato Ettore Puppo della camera penale di Livorno e dall'allenatore della squadra di calcio dell'AS3 Pino Burroni. Presenti alla conferenza stampa anche il presidente del consiglio comunale Marco Esposito, Marco Cannito di Città Diversa, Marco Valiani del Gruppo Misto, Marco Bruciati di Buongiorno Livorno e vicepresidente della V commissione (politiche sociali) che terrà una seduta in carcere dopo Pasqua. In consiglio comunale il 4 aprile verrà votata una mozione presentata da Bl proprio sulla situazione precedentemente descritta, inoltre verranno chieste al Ctt più corse dei bus verso il carcere; e la rimozione della grate alle finestre delle celle che impedisce quasi di poter veder fuori. I capigruppo in accordo con Solimano hanno deciso inoltre di incontrare il nuovo provveditore regionale ai carcere Martone per discutere della situazione delle "Sughere". Alessandria: i detenuti cercano un editore per pubblicare la loro graphic novel di Piero Bottino La Stampa, 26 marzo 2016 Con un gruppo di alunni hanno creato una graphic novel che vorrebbero pubblicare. L’inchiostro è libero, gli stampatori no. Anche se le strade verso la libertà possono a volte superare le mura e le sbarre di un carcere utilizzando un semplice torchio costato poco più di mille euro e diventato fulcro di una delle più recenti iniziative attuate nella casa di reclusione di San Michele ad Alessandria. La xilografia è arte antica: il disegno s’imprime tramite blocchi di legno opportunamente incisi. Ma per inciderli, appunto, ci vogliono strumenti taglienti, le sgorbie, che ai detenuti non possono essere affidati a cuor leggero. Perché in carcere tutto ciò che non è permesso è vietato, ogni cosa va ottenuta per gradi, con caparbietà, seguendo percorsi che agli "esterni" possono apparire sfiancanti. Per questo ogni risultato vale il doppio. Da settembre, grazie al contributo dell’associazione Ics onlus, alla collaborazione della direttrice del carcere, Elena Lombardi Vallauri (a cui adesso è subentrato Domenico Arena) e di tutti gli educatori, è nato un laboratorio di incisione e stampa: si chiama appunto "Inchiostro Libero" e la presentazione ufficiale all’esterno è avvenuta l’11 marzo al Club Print Torino dove tre ragazzi "ospiti" del reclusorio, che frequentano il corso di xilografia da 7 mesi, hanno aiutato tutte le persone che lo desideravano a sperimentare la tecnica. In totale all’interno del carcere sono una ventina a dedicarsi alla stamperia: "L’attitudine è quella di chi si applica a un mestiere, ma la retribuzione ovviamente no" dice Pietro Rodolfo Sacch i. Sacchi, con la vulcanica grafica Valentina Biletta, con il fotografo Mattia Marinolli e l’artista Massimo Orsi, da sei anni ha dato vita all’interno del carcere a un laboratorio di pittura e foto in cui è nato il progetto della stamperia. È di Sacchi l’idea iniziale di una graphic novel "Secur World" che è stato il primo lavoro realizzato con la tecnica xilografica: un racconto corale a cui hanno partecipato anche alcuni bambini di una scuola alessandrina e ora è in attesa di un editore. L’obiettivo finale è produrre stampe d’arte (xilografie, puntesecche, acqueforti), piccola oggettistica di cartoleria, tirature limitate su commissione di artisti. "Perché le attività devono essere auto sostenibili" chiosa Sacchi. Inoltre si sta lavorando a un workshop nei quali i detenuti possano diventare tutor. Un primo stage di un giorno è in programma dopo il 20 marzo: la curiosità è che si terrà nella casa di reclusione, quindi saranno gli "stagisti" a entrare e non i detenuti-insegnanti a uscire. Benché in prospettiva il progetto voglia svilupparsi sia all’interno che all’esterno "una metodologia di estrema importanza nella terapia rieducativa e nell’apertura verso l’opinione pubblica". Il laboratorio di pittura-foto-stampa non è che una delle tante iniziative realizzate in questi anni dalla casa di reclusione di San Michele. L a formazione scolastica, ad esempio, va dalle elementari all’Università, passando dallo storico corso per geometri e da tutte le attività professionali. Alcune delle quali hanno cambiato in meglio la vita dentro le mura, grazie ad esempio al detenuto capo-cuoco, di provata esperienza nella ristorazione ma soprattutto nella pasticceria, che ha trasmesso la sua passione ad altri compagni. Udine: pubblicato il bando per il Garante comunale dei detenuti nordestnews.it, 26 marzo 2016 Il Garante, che sarà eletto dal Consiglio comunale, è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. Le candidature dovranno essere presentate in Comune entro il 26 aprile- È in pubblicazione dal 24 marzo, sul sito del Comune di Udine, il bando per l'elezione del nuovo Garante dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Gli interessati potranno presentare la propria candidatura entro il 26 aprile. Il nuovo Garante resterà in carica per tre anni e succederà a Maurizio Battistutta, eletto nel 2012 come primo Garante dei detenuti in regione. Per l’incarico non è prevista alcuna indennità, salvo il rimborso di spese di viaggio effettivamente sostenute. Alla carica di Garante, che sarà poi eletto dal Consiglio comunale, è preposto un cittadino italiano di comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o, più in generale, nelle attività sociali di Istituti di prevenzione e pena. Non possono assumere la funzione di Garante coloro che si trovano in una delle condizioni di ineleggibilità previste per la carica di consigliere comunale. L'ufficio del Garante, istituito dal Consiglio comunale di Udine nella seduta del 22 dicembre 2011, è incompatibile con qualsiasi altra attività tale da pregiudicare l'efficace svolgimento e il libero esercizio delle funzioni proprie dell'istituzione. In particolare non è eleggibile chi ricopre un ruolo di amministratore o legale rappresentante di associazioni e organismi operanti per la tutela dei diritti alla persona e interessate ai problemi penitenziari. Ma quali sono i compiti di un Garante? Si tratta di un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. In particolare, i garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. I diritti che il Garante deve tutelare sono: il diritto al lavoro, alla formazione, alla crescita culturale, alla tutela della salute, alla cura della persona, anche mediante la pratica di attività formative, culturali e sportive. Il Garante deve, soprattutto, attivarsi per il rispetto della dignità delle persone ristrette in carcere, per migliorare le loro condizioni di vita e sociali. Oltre a ciò deve anche svolgere attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena, avvicinando la comunità locale al carcere. Le candidature a ricoprire il ruolo di Garante dei diritti dei detenuti, redatte in carta semplice o sul modello scaricabile dal sito del Comune (www.comune.udine.gov.it) devono essere presentate di persona o arrivare tramite raccomandata all’ufficio Protocollo, via Lionello 1 (in caso di raccomandata farà fede la data di spedizione), o anche tramite PEC all'indirizzo protocollo@pec.comune.udine.it, entro il 26 aprile. Le candidature dovranno essere corredate da un dettagliato curriculum e contenere la dichiarazione specifica di non trovarsi in alcuna delle condizioni ostative alla carica. Trapani: all’Asp la medicina penitenziaria delle tre carceri della provincia trapaniok.it, 26 marzo 2016 All’Asp la cura e l’assistenza medica dei detenuti negli istituti penitenziari di Trapani, Favignana e Castelvetrano passano in carico all’Azienda Sanitaria Provinciale di Trapani. Il Consiglio dei ministri, con il decreto legislativo n.222/2015, "Norme di attuazione per il trasferimento delle funzioni di medicina penitenziaria dallo Stato alla Regione Siciliana", entrato in vigore il 6 febbraio 2016, ha infatti disposto il passaggio al servizio sanitario regionale, per il tramite delle Aziende sanitarie provinciali, di tutte le funzioni sanitarie svolte nell’ambito del territorio siciliano dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e da quello per la giustizia minorile del ministero della Giustizia. "L’Asp dovrà garantire - ha spiegato il direttore generale dell’Asp Fabrizio De Nicola - gli interventi a tutela della salute e i Lea, i livelli essenziali di assistenza, dalle emergenze-urgenze, alle prestazioni specialistiche, alle vaccinazioni e patologie infettive, fino alla cura e riabilitazione delle dipendenze". Con il provvedimento entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, viene trasferito all’Asp il personale medico, infermieristico e tecnico, di ruolo, in servizio nei tre istituti di pena della provincia, a cui l’azienda dall’1 aprile 2016 dovrà corrispondere il relativo trattamento economico. Un’apposita convenzione infine è in corso tra il direttore generale dell’Asp di Trapani e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, per individuare il personale medico cui affidare le prestazioni medico- legali in favore del personale del Corpo della Polizia penitenziaria. Milano: un seminario per "conoscere il pluralismo religioso nelle carceri italiane" agensir.it, 26 marzo 2016 È il titolo del seminario di formazione che sarà presentato in conferenza stampa mercoledì 30 marzo alle ore 11, presso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, a Milano, in via Pietro Azario, 6. "La religione, come indicato dall’ordinamento penitenziario - si legge in una nota -, è uno dei fattori del reinserimento sociale a cui punta l’esecuzione penale. La conoscenza delle diverse pratiche religiose deve dunque entrare a far parte del bagaglio di competenze degli operatori che prestano servizio negli istituti". Per questa ragione Caritas Ambrosiana ha collaborato alla realizzazione del seminario di formazione sul pluralismo religioso promosso dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Alla presentazione dell’iniziativa mercoledì 30 marzo interverranno funzionari del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, monsignor Pier Francesco Fumagalli, responsabile per i rapporti con l’ebraismo della diocesi di Milano e dottore della Biblioteca Ambrosiana, rav David Sciunnach, rabbino, Hamid Di Stefano per la Coreis (Comunità religiosa islamica italiana), Silvio Ferrari dell’Università degli Studi di Milano, Paolo Branca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Oltre a Caritas Ambrosiana, sono partner dell’iniziativa la diocesi di Milano, la Comunità ebraica di Milano, Coreis, Università del Sacro Cuore di Milano, Università degli studi di Milano - Dipartimento di scienze giuridiche "Cesare Beccaria", la Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Il seminario, articolato in tre giornate, è preparato da un gruppo di lavoro interculturale e interreligioso a supporto dell’attività di assistenza penitenziaria. Il lavoro di gruppo deriva da valori condivisi tanto dalle tradizioni abramitiche (ebrei-cristiani-musulmani) quanto da altre tradizioni religiose o filosofiche. Imperia: Giornata Nazionale del Teatro, detenuti in scena con il nuovo spettacolo sanremonews.it, 26 marzo 2016 Ancora una volta l'Istituto ha voluto che i detenuti di cimentassero nel teatro, una disciplina dalla fondamentale vocazione trattamentale ed educativa, importante nel suo percorso didattico e ricreativo sul gruppo e sulla persona al di là di un pur apprezzabile risultato finale, molto gradito dal pubblico, formato dai ristretti e da personale civile. In occasione della 54esima Giornata Mondiale del Teatro, contestualmente alla Terza Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, oggi venerdì 25 marzo, alle ore 14 presso l'area trattamentale dell' Istituto si è tenuto lo spettacolo di fine corso della compagnia Teatro Brigante del Carcere di Imperia, dal titolo "Se tu fossi stato me". I sette detenuti attori, diretti da Davide Barella, hanno messo in scena uno spettacolo da loro scritto e ispirato a una storia vera. Due ragazzi, amici fin da bambini, vivono in ambienti completamente diversi. Uno fatto di agi e privilegi, l' altro di stenti e criminalità. La vita li separa per vie opposte finché non trovano la loro reciproca dimensione; uno intraprende una brillante carriera nel mondo della giurisprudenza, l' altro invece finisce in una spirale criminale. Ma il destino in agguato fa sì che i due si rincontrino in un' aula di tribunale dove l' amicizia lascia il passo al diritto. Senza tuttavia indifferenza. Infatti i due restano in contatto attraverso un fitto scambio epistolare. Sospeso fra un presente di detenzione e un passato di dolorosi vissuti personali lo spettacolo si è soffermato a fare riflettere lo spettatore sul ruolo dell' ambiente di vita, e sul tipo di impronta a volte indelebile che questo può dare all' esistenza di un individuo. Ancora una volta l'Istituto ha voluto che i detenuti di cimentassero nel teatro, una disciplina dalla fondamentale vocazione trattamentale ed educativa, importante nel suo percorso didattico e ricreativo sul gruppo e sulla persona al di là di un pur apprezzabile risultato finale, molto gradito dal pubblico, formato dai ristretti e da personale civile. Attentati di Bruxelles. Quel no di Renzi e altri leader a un vertice Ue straordinario di Francesco Verderami Corriere della Sera, 26 marzo 2016 La linea del premier: non metto la faccia sull’indecisionismo. Intanto per 48 ore l’Europa è stata sul punto di lasciare Bruxelles e palazzo Lipsius per mancanza di sicurezza. Per quarantotto ore l’Europa è rimasta senza tetto. Spogliata dei suoi averi e dei suoi simboli dal terrorismo jihadista, è stata sul punto di lasciare Bruxelles, come un governo in esilio vittima di un’occupazione nemica. Per due giorni l’Europa è stata homeless in casa propria, sfrattata da palazzo Lipsius, lì dove si riuniscono i capi di stato e di governo, e dove il Belgio - sotto attacco - non riusciva a dare garanzie di sicurezza. Senza fissa dimora, nelle ore più drammatiche della sua storia, martedì scorso l’Unione aveva addirittura preso in considerazione l’offerta dell’Olanda, che da presidente di turno della Comunità si era proposta di ospitare ad Amsterdam il vertice d’emergenza sollecitato da Juncker. Sarebbe stata una sensazionale vittoria per il Califfo - Se così fosse stato, l’Europa avrebbe consegnato al Califfo una sensazionale vittoria, ammettendo di fatto la propria debolezza se non la propria impotenza. Perciò da martedì mattina si è deciso di attendere fino a giovedì pomeriggio, fino cioè alla riconquista di Bruxelles, che comunque non si può certo dire liberata. Quantomeno si è evitata l’umiliazione. E insieme alla solidarietà verso i belgi, si è offerta una parvenza di solidità della cittadella europea. Anche se quelle macerie e quei soldati tutto intorno danno oggi l’idea del fallimento che si celebra vertice dopo vertice. Renzi. "Non è il caso di organizzare un altro vertice straordinario" - Ecco il motivo per cui la riunione ai massimi livelli - immaginata dal presidente della Commissione - è stata derubricata a incontro tra ministri dell’Interno e della Giustizia. Quando Juncker ha svolto il solito giro di telefonate ai capi di Stato e di governo europei, si è sentito respingere la proposta. È complicato stabilire la primogenitura del diniego, è certo che Renzi si era già attivato con gli altri partner per evitare la ripetizione di un rito ormai svuotato di ogni significato: "Non è proprio il caso di organizzare un altro vertice straordinario". "In Europa non siamo nemmeno riusciti a far applicare una direttiva" - Dopo le matite spezzate di Charlie Hebdo, un anno fa, l’Occidente aveva marciato a braccetto per le strade di Parigi. Dopo le raffiche al Bataclan, dieci mesi più tardi, la Comunità si era subito incontrata a Bruxelles per far capire che l’Unione ha la forza. Ancora quattro mesi e in Belgio si è riproposta la stessa tragica storia. E il punto non è la contabilità del terrore, il fatto è che "loro hanno portato a compimento tre attentati e intanto in Europa non siamo nemmeno riusciti a far applicare una direttiva", ha commentato il presidente del Consiglio italiano: "Come non capire che le nostre opinioni pubbliche, in assenza di decisioni, passeranno presto dalla compassione alla contestazione?". L’euroindecisionismo - Le considerazioni di Renzi, riservate agli interlocutori europei, rimandano a una serie di impegni inapplicati, a dossier che offrono spunti di dibattito in punta di diritto tra burocrati e diplomatici di rango e poi - dopo un buon cocktail - sfociano nel nulla, accreditando l’immagine dell’euroindecisionismo: "E io, scusatemi, non accetto di mettere la faccia sull’indecisionismo europeo". Il premier aveva già dato segnali d’impazienza davanti a clamorosi casi di impotenza. Sull’immigrazione, per esempio, poche settimane fa si era pubblicamente esposto: "Non si può fare un vertice straordinario ogni due settimane". Gli altri premier nelle condizioni di Renzi - Stavolta, per evitare di infierire su un’Europa che in quelle ore subiva l’onta dello sfratto jihadista, si è limitato a declinare l’invito, sollecitando gli altri partner alla stessa linea. Chiunque abbia avuto questa idea ha avuto gioco facile a imporla. Perché in fondo (quasi) tutti stanno nelle stesse condizioni di Renzi, che in Italia non vuol fare la parte di Salvini ma nemmeno - come dice - quella di Letta. Tuttavia si ritrova schiacciato tra l’euroagnosticismo di chi non ha mai creduto nell’Unione e scommette sul suo tramonto, e l’eurofideismo di chi ha smarrito la concezione del tempo e della storia, e invoca una Comunità che non c’è più. "Non possiamo considerare che tutto sia come prima" - "Non possiamo considerare che tutto sia come prima", ha detto - e non a caso - il ministro dell’Interno italiano ai colleghi europei durante l’incontro a Bruxelles, due giorni fa: "Avevamo preso delle decisioni che non sono state poi ratificate. Così stiamo facendo un regalo ai terroristi e a chi punta al fallimento dell’Unione". L’eurodisfattismo non può essere infatti attribuito agli euroscettici, semmai al gioco di potere che a Bruxelles divide chi dovrebbe stare unito. E un conto sono le differenze sui temi economici, che richiamano a interessi nazionali, altra cosa le divergenze sulla sicurezza che espongono l’Europa intera alle scorribande terroriste. Così l’Unione è rimasta senza tetto per due giorni. Stavolta. Il Papa: "vediamo la Croce nei profughi e nelle vittime del terrorismo che profana Dio" di Tiziana Testa La Repubblica, 26 marzo 2016 Nelle meditazioni scritte dal cardinale Bassetti, anche un pensiero agli abusati. Padre Raniero Cantalamessa durante la cerimonia della Passione in San Pietro: "Bruxelles, no a desiderio di vendetta". Parla delle due tragedie dei nostri giorni Papa Francesco, nella via Crucis al Colosseo: il terrorismo e la crisi dei migranti. Oggi la Croce di Cristo la "vediamo eretta nelle nostre sorelle e nei nostri fratelli uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche e con il silenzio vigliacco", ha detto al termine della cerimonia. La vediamo "nei fondamentalismi e nel terrorismo dei seguaci di qualche religione che profanano il nome di Dio e lo utilizzano per giustificare le loro inaudite violenze". E anche "nei perseguitati per la loro fede". Poi rivolge il pensiero ai migranti, dopo l'omaggio del giovedì santo, con la lavanda dei piedi ai profughi: "Ancora oggi la Croce di Cristo la vediamo nei volti dei bambini, delle donne e delle persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle guerre e dalle violenze e spesso non trovano che la morte e tanti Pilati con le mani lavate. La vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata". Il Papa, come già tante volte in passato, si scaglia contro mercanti di armi e corrotti: "Ancora oggi la Croce di Cristo la vediamo nei potenti e nei venditori di armi che alimentano la fornace delle guerre con il sangue innocente dei fratelli e danno ai loro figli da mangiare il pane insanguinato. La vediamo ancora oggi nei ladroni e nei corrotti che invece di salvaguardare il bene comune e l'etica si vendono nel misero mercato dell'immoralità". E anche "nei distruttori della nostra casa comune che con egoismo rovinano il futuro delle prossime generazioni". Temi che erano risuonati anche nella lettura delle meditazioni della via Crucis scritte quest'anno dal cardinale di Perugia, Gualtiero Bassetti: "Abbiamo paura del diverso, dello straniero, del migrante. Forse anche di Dio". Frasi scritte prima degli attacchi di Bruxelles, ma che i fatti dell'ultima settimana hanno reso drammaticamente attuali. "Il tuo volto, Signore, io cerco!", invoca il Salmo 27 che Bassetti prende come punto di partenza. "Aiutami - hanno pregato il Papa e i fedeli al Colosseo - a trovarlo nei fratelli che percorrono la strada del dolore e dell'umiliazione. Fà che dietro ciascun volto, anche quello dell'uomo più abbandonato, io possa scorgere il tuo volto di bellezza infinita". "Dove è Dio mentre affondano le carrette cariche di migranti nel Mediterraneo?". Ma Bassetti non dimentica i mali della Chiesa: "Gesù privato delle vesti" evoca i "bambini profanati nella loro intimità", chi ha subito abusi o "non è rispettato nella propria dignità". Le vittime dei preti pedofili tornano dunque nel cuore della via Crucis, 11 anni dopo la svolta nella lotta agli abusi sui minori. Nel Venerdì Santo del 2005 furono le meditazioni allora preparate dal cardinale Joseph Ratzinger a denunciare: "Quanta sporcizia nella Chiesa". Nelle 14 stazioni, la croce è portata dal cardinale Agostino Vallini, vicario del papa per la diocesi di Roma, da famiglie, disabili, allievi di istituti cattolici, dai frati di Terra Santa e da persone di varie nazionalità: tra gli altri, provenienti dalla Cina, dalla Russia, dalla Siria, dal Centrafrica. Tutti Paesi chiave nella geopolitica vaticana. Alla cerimonia anche gli ex reali del Belgio, Alberto II e Paola Ruffo di Calabria, genitori dell'attuale sovrano Filippo. Ma soprattutto, a spiccare tra i fedeli, le tante forze dell'ordine. Per una via Crucis mai così blindata. Nel pomeriggio aveva parlato dei fatti drammatici dell'ultima settimana di terrore anche il predicatore del Papa. Per frenare il desiderio di vendetta. E per chiedere il pentimento dei responsabili. "L'odio e la ferocia degli attentati terroristici di questa settimana a Bruxelles ci aiutano a capire la forza divina racchiusa in quelle ultime parole di Cristo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Così il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, nell'omelia per la celebrazione della Passione presieduta dal Papa in San Pietro. "L'opposto della misericordia - ha detto Cantalamessa - non è la giustizia, ma la vendetta. Gesù non ha opposto la misericordia alla giustizia, ma alla legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente". Perdonando i peccati, Dio non rinuncia alla giustizia, rinuncia alla vendetta; non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Gesù sulla croce non ha chiesto al Padre di vendicare la sua causa". Idomeni: picchiati, rapinati e respinti, le denunce dei richiedenti asilo di Simone Sarchi Il Manifesto, 26 marzo 2016 "Macedonia! Macedonia!" Sono queste le esclamazioni ricorrenti nel campo improvvisato di Idomeni da alcuni giorni. E mentre parlano mostrano i lividi sul corpo, le fasciature alle mani e sulle gambe: i segni lasciati dalla polizia macedone su alcuni dei 2 mila migranti che sono riusciti ad attraversare il confine greco-macedone guadando il fiume Suva Reka il 14 marzo. Mohanad, 23 anni siriano, era tra di loro. "Pensavamo di avercela fatta. Ma improvvisamente siamo stati circondati dalla polizia macedone che ha cominciato a malmenarci. Ci hanno preso a calci e ci hanno picchiato con i bastoni elettrici", dice con la rabbia negli occhi e la voce spezzata. Ha due costole rotte e fa fatica a respirare senza provare dolore. Oltre alle costole rotte ha riportato contusioni sulle gambe e ha una mano fasciata a seguito delle ferite riportate. Liam, 24 anni, anche lui siriano, ha riportato ferite più gravi. La polizia gli avrebbe completamente sfondato lo sterno a calci. Dopo essere stato riportato a Idomeni è stato trasportato all’ospedale di Salonicco dove è stato ricoverato per sei giorni. "Ovviamente noi non abbiamo visto le violenze, ma abbiamo sicuramente visto le ferite, i lividi" afferma Jonas Hagens, portavoce di Medici Senza Frontiere (Msf). Secondo la ricostruzione di Jonas e dell’infermiera italiana Daniela Uberti, anche lei a Idomeni assieme a Msf, nella notte tra venerdì e sabato 13 persone sono arrivate alla clinica del campo per essere curati. Hanno raccontato di aver attraversato il confine e di essere stati catturati dalla polizia macedone. Questa li avrebbe prima derubati e, dopo averli pestati, li avrebbe riportati in Grecia. La scena si è ripetuta la notte seguente quando altre 35 persone sono state curate dai medici e dagli infermieri di Msf tra cui Daniela. Nelle due notti, 6 persone sono state portate in ospedale per "sospette fratture". "Ci hanno detto di aver ricevuto delle bastonate a livello delle braccia e delle gambe, presentavano dei tagli a livello delle mani perché dicevano di essere stati spinti sul filo spinato e avevano anche segni di morsi perché gli hanno aizzato i cani contro", spiega Daniela. "Sembra di essere in un ambulatorio vicino ad un fronte. Non mi era mai capitato di ricevere così tanti feriti tutti insieme. Siamo in un Paese dove non ci sono bombe, non ci sono guerre. Eppure tutto questo disastro umanitario è semplicemente causato da un muro che è chiuso" continua l’infermiera italiana. La violenza della polizia macedone contro i migranti è ben conosciuta alle organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e avveniva anche prima del 9 marzo 2016 quando le autorità di Skopje hanno deciso la chiusura definitiva della frontiera. In un report di Amnesty International pubblicato la scorsa estate si legge: "Al confine della Macedonia con la Grecia, i rifugiati sono regolarmente soggetti a respingimenti illegali e maltrattamenti ad opera della polizia di frontiera". Nelle 72 pagine del documento si fa menzione alle detenzioni arbitrarie di migranti, all’estorsione di denaro, ai pestaggi e ai respingimenti forzati senza avere la possibilità di fare richiesta d’asilo. Tutte azioni illegali secondo le leggi internazionali sancite dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967. In particolare, un rifugiato afghano ha raccontato ad Amnesty International di aver visto persone picchiate selvaggiamente dalla polizia. Anche a Idomeni si trovano migranti che portano i segni delle percosse avvenute mesi fa, quindi prima della chiusura totale della frontiera greco-macedone. Tre ragazzi marocchini dicono di essere arrivati in Serbia pochi giorni prima che l’Ungheria cominciasse i lavori per la costruzione di un muro di filo spinato sul confine con la Serbia nel luglio dello scorso anno. Sul treno sono stati catturati dalla polizia Serba che li ha riportati in Macedonia. Lì, sono stati tenuti diversi giorni in prigione dove sono stati picchiati e derubati. Ora si trovano lungo i binari del treno ai confini del campo di Idomeni. Sanno che non hanno alcuna possibilità di richiedere la protezione internazionale, ma non si arrendo: "Troveremo altre vie, magari dall’Albania" conferma Mohamed, 27 anni di Marrakech. Regeni, dalla data della morte alle torture: tutti i buchi nella nuova versione egiziana di Giuliano Foschini La Repubblica, 26 marzo 2016 Giulio è stato ucciso sette giorni dopo la sua scomparsa, era senza denaro ma dal bancomat non è stato prelevato nulla. E gli oggetti mostrati dalle autorità del Cairo non sono suoi. Ecco perché la ricostruzione ufficiale non convince. Ci sono una rapina senza il denaro, una tortura senza torturatori, cinque presunti assassini morti, e dunque muti per sempre, in questo disperato, e scalcagnato, tentativo egiziano di offrire una verità sull'omicidio di Giulio Regeni. Una ricostruzione - quella offerta tra ieri e giovedì dal ministero degli Interni del Cairo - che non può però reggere alcuna prova di verità per almeno quattro, incontrovertibili, motivi. I movimenti di denaro - La banda di quattro gangster uccisa nel conflitto a fuoco (non è chiaro chi sia la quinta vittima: un passante morto per caso o addirittura un cadavere che trasportava la gang) era "specializzata - dicono gli egiziani - nel camuffarsi da agenti di polizia e sequestrare stranieri per rapinarli". Dunque, potrebbero averlo fatto anche con Giulio. Ora al di là della bizzarra circostanza della specializzazione ("strano che non abbiano detto che fossero esperti nel rapinare i ricercatori con i capelli castani...", ironizza un investigatore italiano), peccato che questi signori non avessero nulla da rapinare: Giulio non aveva soldi in tasca. Se non quel bancomat nero, mostrato dalla polizia come uno dei reperti, che però non ha registrato alcun movimento: 800 euro erano depositati al 25 gennaio, giorno della sua scomparsa, e 800 euro ci sono ora. Non solo: i genitori hanno ritrovato anche in casa i 300 euro che il ricercatore italiano teneva per le emergenze. Intatti. Così come a casa, nel solito cassetto, c'era il computer di Giulio, l'oggetto più di valore che possedeva. Cosa avevano da rapinare quindi i rapinatori? Le sevizie - La seconda, grande, incongruenza, riguarda la data della morte. Hanno raccontato la sorella e la madre di uno degli egiziani uccisi che Giulio avrebbe reagito alla rapina e per questo sarebbe stato assassinato. Ma l'autopsia italiana non lascia spazi ai dubbi: Giulio è morto almeno sette giorni dopo la sua scomparsa. Non solo. Il suo corpo mostra segni incontrovertibili delle torture: sono circa 20 le fratture in tutto il corpo, soprattutto alle gambe e alle braccia; ci sono segni di bruciatura all'altezza della scapola sinistra, tagli che sembrano essere stati fatti a distanza di giorni, nessuna lesione interna a conferma che chi picchiava era un professionista. Così come da boia era la manovra che ha portato alla frattura della vertebra cervicale, che ha causato la morte di Giulio. Per una reazione scomposta a una rapina si può ridurre in questa maniera un ragazzo? Il falso agente - Ancora: se è stata una rapina, e dunque un caso, chi erano quei poliziotti che a dicembre sono stati nel palazzo di Giulio per chiedere documenti? E chi era quell'agente della National security army che il giorno prima che il ricercatore sparisse aveva chiesto di lui ad amici e conoscenti? Lo stesso che poi tornerà a fare le stesse domande dopo la scomparsa? Tarek Saad Abdel Fatah, il capo della banda assassinata, al quale hanno trovato il falso tesserino, aveva 52 anni. Mentre due diverse fonti dicono a Repubblica che chi cercava Giulio era "un giovane agente". E, poi, se così fosse, perché tornare a casa dopo il "rapimento a scopo di rapina" e non prendere il pc portatile, il bene più prezioso? Infine, ma non per ultimo: chi era la ragazza che ha fotografato Giulio nell'assemblea sindacale il 13 dicembre? Un'innamorata o un'infiltrata degli apparati di sicurezza? I depistaggi - Marchiano è poi il depistaggio messo in scena ieri sera. In quelle foto, con gli effetti personali, diffuse dal ministero degli Interni, solo i documenti sono di Giulio. Non è suo quel borsone con lo stemma dell'Italia, non sono suoi i telefonini e gli occhiali da sole. Non è suo l'hashish: come dimostrano gli esami tossicologici, Regeni non fumava. "Oscuro - ragiona un investigatore italiano - è il motivo per cui i presunti assassini abbiano deciso di conservare il passaporto di Giulio, un "morto così celebre"". Su questo assassinio, oltre all'Italia, si è mossa l'intera comunità internazionale, a partire da Barack Obama. E il presidente egiziano, Al Sisi, ha dovuto prendere una posizione ufficiale nella sua intervista a Repubblica promettendo "verità". "Quale assassino conserva in casa la prova regina di questo crimine?". La seconda pista - Gli investigatori italiani stanno comunque cercando risposte a tutte queste domande. Per questo, non stanno trascurando alcuna ipotesi, anche le più suggestive. Tutto si muove attorno alla reale identità di questi cinque balordi. E a quel tesserino da falso agente: potrebbe essere, com'è assai probabile, soltanto un depistaggio. Ma anche altro. I servizi egiziani usano, questa è da tempo la denuncia delle Ong e degli attivisti politici, squadracce abusive per i lavori sporchi. Giulio non è scomparso in un giorno qualsiasi: era l'anniversario della rivolta di piazza Tahrir. Il governo aveva imposto il coprifuoco. Uno studente italiano, comunista, amico dei sindacati tanto da aver proposto loro un finanziamento (poi sfumato) rappresentava, in una giornata come quella, il perfetto nemico del regime. Il 25 gennaio non avrebbero mai potuto circolare bande di rapinatori, troppa polizia. Ma squadracce pronte a impedire manifestazioni sì. Che quella sparatoria di mercoledì possa aver messo a tacere una verità indicibile è soltanto, oggi, una suggestione. In una storia, d'altronde, che però non ha ancora alcuna verità. Giulio Regeni, se questa è la verità del Cairo risparmiatecela di Antonio Polito Corriere della Sera, 26 marzo 2016 Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni. Il governo italiano torni a chiedere la verità. Perché mai un gruppo di banditi specializzato nel "rapire e derubare stranieri" avrebbe torturato per giorni e giorni il povero Giulio Regeni, prima di far ritrovare il suo cadavere? E come mai una gang di criminali comuni ne avrebbe gelosamente conservato la borsa con il passaporto, la carta di credito, i telefonini e perfino "un pezzetto di materiale marrone che sembra hashish"? Per fornire le prove di essere stati proprio loro a ucciderlo? Dobbiamo sperare che il governo egiziano abbia un minimo di rispetto prima ancora che del nostro Paese della nostra intelligenza, e non insista nel venderci questa versione del delitto Regeni, avallando un depistaggio così scoperto che sembra uscito da un film sulla mafia, con i finti colpevoli fatti ritrovare tutti morti, cosi da non poter smentire. La notte scorsa però, il ministero dell’Interno egiziano è sembrato proprio avallarla, dopo che media filo governativi l’avevano spacciata, e ha anzi ha concluso il suo comunicato ringraziando l’Italia "per la cooperazione", quasi a considerare chiuso il caso. L’Italia invece non può affatto ringraziare l’Egitto per la cooperazione, a ormai due mesi dalla scomparsa del giovane ricercatore. Anzi, il governo dovrebbe farsi sentire forse con più forza e determinazione per ottenere ciò che chiediamo fin dal primo giorno: tutta la verità sulla atroce fine di un nostro connazionale, di un ragazzo pieno di curiosità e animato da impegno civile, di uno studioso che voleva conoscere per giudicare. Qualche giorno fa il dittatore Al Sisi ha promesso ai genitori di Giulio e al nostro governo, in un’intervista a Repubblica: "Avrete la verità su Regeni". Se è questa la verità che intendeva, poteva risparmiarcela. Dal Cairo un’insopportabile provocazione di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone e Cild) Il Manifesto, 26 marzo 2016 C’è tutto l’odore del depistaggio nell’ultima versione che arriva dall’Egitto sulla morte tragica di Giulio Regeni. Ma c’è anche un sapore insopportabile di provocazione. La versione è così palesemente inverosimile da poterla ritenere per l’appunto una provocazione verso un paese intero quale l’Italia. Dunque una banda di criminali avrebbe sequestrato il povero Giulio Regeni. Lo avrebbe torturato per giorni fino ad ammazzarlo. Non avrebbe però chiesto riscatto. A due mesi dalla scomparsa di Giulio, quindi giustizia sommaria sarebbe stata fatta. I criminali sarebbero stati tutti ammazzati. E si sarebbe trovato pure traccia di cose appartenenti a Giulio nelle mani della sorella di uno di loro. Dunque in questo modo si spera di mettere la parola fine su questa storia. Tanto nessuno potrà contraddirla visto che i presunti assassini di Regeni sarebbero oramai tutti morti ammazzati. Solo gli ingenui e i complici possono credere a una ricostruzione di questo tipo. Sin dall’inizio dall’Egitto si è inteso trattare il caso Regeni come un caso di cronaca nera e non di diritti umani violati. La presenza al Cairo del procuratore Pignatone sembrava segnalare una disponibilità alla cooperazione giudiziaria. Invece siamo tornati alla tesi della banda di criminali e a gettare ombre su Giulio. I segni sul corpo di Regeni sono segni di tortura e la tortura non è mai un fatto di cronaca nera. La tortura è un crimine contro l’umanità che va al cuore del rapporto tra lo Stato e i cittadini. Al pari del genocidio e dei crimini di guerra, non a caso, è tra i delitti che possono essere giudicati dalla Corte Penale Internazionale nata a Roma nel 1998 e da allora funzionante tra mille ostacoli opposti da Stati refrattari alla giustizia internazionale. Pochi giorni fa in modo auto-celebrativo e auto-assolutorio Al Sisi in un’intervista rilasciata a la Repubblica si dichiarava pronto ad aiutare la ricerca della verità. Se questa è la verità che lui intendeva, le autorità italiane, giudiziarie e politiche, ben possono ritenersi vergognosamente e spudoratamente prese in giro. Uno Stato democratico è forte, anche nei rapporti commerciali, se non abbassa la testa, se non accetta compromessi sui diritti umani, se alza la voce, se sa tirare la corda. Tutti noi che ci occupiamo di libertà civili e diritti umani sappiamo che anche in questo campo bisogna lavorare di diplomazia. Ma diplomazia non significa capo chino, sottomissione, posposizione di valori etici e umani a bisogni economici e commerciali. Significa sapersi imporre, urlare se necessario che l’Egitto non sarà mai per Renzi e il governo italiano un alleato (finanziario o militare) affidabile se si può consentirgli di prendere in giro un intero Paese (il nostro) senza troppa cura, esplicitamente e volgarmente. Il tutto sul corpo di un giovane ricercatore universitario. Noi continueremo nella campagna perché vi sia verità per Giulio Regeni. Abbiamo sufficiente esperienza per sapere che il silenzio porta all’impunità, all’oblio. Che solo una forte pressione dell’opinione pubblica potrà costringere le autorità italiane a reagire di fronte alle bugie e ai depistaggi. Una pressione che deve avvenire nel cuore della società italiana ed internazionale. Chiediamo ai parlamentari italiani ed europei di mobilitarsi e chiedere anche loro verità per Giulio. Ai rettori delle Università di dedicare un’aula di studio a Giulio. A mondo dello sport di farsi sentire. Chiediamo al governo italiano di non abbassare la testa. Dal governo alla procura, nessuno crede alla farsa di Daniela Preziosi Il Manifesto, 26 marzo 2016 Le reazioni italiane. In parlamento è rivolta bipartisan: ricostruzione oltraggiosa. Letta: "Mi spiace, non ci credo". Gentiloni: "Vogliamo la verità" Renzi beffato dalle parole del dittatore. Nel tardo pomeriggio, quando ormai la rivolta contro le insultanti "verità" del Cairo sulla morte di Giulio Regeni monta come un’onda per tutto il paese, è il procuratore Giuseppe Pignatone a pronunciare parole ufficiali, pesanti come macigni: "La Procura di Roma ritiene che gli elementi finora comunicati dalla Procura egiziana al team di investigatori italiani presenti al Cairo non siano idonei per fare chiarezza sulla morte di Giulio Regeni e per identificare i responsabili dell’omicidio", scrive nero su bianco in un comunicato. È l’intimazione dello stop alla macabra messa in scena di una storia improbabile, la scoperta della colpevolezza di una banda di cinque sequestratori, ovviamente già morti. I magistrati italiani non entrano neanche nel merito: "È necessario che le indagini proseguano". Del resto a quell’ora del pomeriggio anche il ministero dell’interno egiziano si è arreso all’evidenza ed ha promesso che "le indagini andranno avanti". La procura di Roma è ancora in attesa che il Cairo "trasmetta le informazioni e gli atti, da tempo richiesti e sollecitati, e altri che verranno richiesti al più presto in relazione a quanto prospettato ai nostri investigatori". Le parole di Pignatone rivelano che la collaborazione fra inquirenti non c’è mai stata. Oggi le "prove" del Cairo non convincono nessuno. E la foto dei documenti del ricercatore - lindi, puliti, perfetti - adagiati su un piatto d’argento aggiungono beffa a una menzogna già così grossolana. Il governo alla fine deve rispondere alla famiglia - Palazzo Chigi per tutta la giornata prova a cavarsela facendo sapere che Renzi è determinato a ottenere "piena, totale luce, senza ombre o aloni sulla morte" del ricercatore italiano, che non si accontenterà "di niente di meno che la verità". Ma lo smacco è evidente. Dopo la chilometrica intervista al dittatore al Sisi pubblicata in due puntate dal quotidiano La Repubblica a metà marzo, dove il generale golpista aveva assicurato "da padre" la verità sull’omicidio Regeni, il presidente Renzi, (definito ostentatamente "un vero amico mio e dell’Egitto") aveva parlato di "evidenti e significativi passi avanti". La risposta, la verità-farsa, è uno sberleffo all’Italia che fa il giro del mondo. Mentre nel paese monta l’indignazione, Renzi è nell’isola di Lampedusa. Il suo portavoce Filippo Sensi diffonde belle foto cariche di pathos, mani strette a bambini migranti, grande empatia con l’eroica sindaca Giusy Nicolini. La beffa del Cairo rovina l’atmosfera. In Italia la rivolta è bipartisan e va da Sinistra Italiana a Forza Italia passando per l’ex presidente Enrico Letta all’ex ministra Emma Bonino. Siamo a due mesi esatti dal rapimento di Giulio. Sua sorella Irene posta su facebook una foto con i genitori Paola e Claudio. I tre tengono lo striscione giallo "Verità per Giulio" della campagna di Amnesty International. Poi la famiglia diffonde un comunicato. I genitori si descrivono come "feriti ed amareggiati dall’ennesimo tentativo di depistaggio da parte delle autorità egiziane sulla barbara uccisione di nostro figlio" ma anche "certi della fermezza con la quale saprà reagire il nostro governo a questa oltraggiosa messa in scena che peraltro è costata la vita a cinque persone". La verità, concludono, si deve "non solo a Giulio ma alla dignità di questo paese". A questo punto, ma solo a questo punto, il ministro degli esteri Paolo Gentiloni rassicura che "l’Italia insiste: vogliamo la verità"; con un tweet. Enrico Letta: mi dispiace, #iononcicredo. Rivolta social - Ma le parole del ministro arrivano alla fine di una lunga giornata infiammata dalla rabbia per l’ennesima presa in giro egiziana. Fra i primi a reagire è l’ex presidente del consiglio Letta che twitta: "Mi dispiace,#iononcicredo. Non fermarsi a chiedere #veritàpergiulioregeni". La rete si inzeppa di messaggi dello stesso tenore. Per l’ex ministra Emma Bonino, intervistata da SkyTg24, "siamo di fronte a un’ennesima fabbricazione". A sinistra la parola chiave è "oltraggio". Per Francesco Ferrara (Si), componente del Copasir "se lo scopo del sequestro era ottenere un riscatto perché avrebbero seviziato per giorni Giulio? E perché avrebbero tenuto con sé i suoi documenti del ragazzo?". Il presidente della Commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini si dice "molto perplesso" e cita Andreotti "a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca". Mezza Forza Italia interviene a chiedere che il governo faccia la sua parte: "Basta con le ricostruzioni false e ignobili, è come se il nostro connazionale venisse nuovamente ucciso", dichiara Mara Carfagna. Sono le stesse parole, o quasi, con cui invece i Cinque Stelle attaccano Renzi. Il clima da unità nazionale che si era materializzato negli scorsi giorni sul terrorismo jihadista svanisce di colpo. Lo stesso Alessandro Di Battista che aveva fatto i complimenti al premier per la sua "resistenza" alle pressioni interventiste sulla Libia, stavolta non fa sconti: "Forse l’interesse del governo verso gas e petrolio è più importante di un nostro cittadino barbaramente ucciso? Gentiloni venga a fare chiarezza in Parlamento, siamo stanchi dell’immobilismo del nostro governo di fronte alla totale mancanza di collaborazione da parte dell’Egitto". La sinistra chiede il ritiro dell’ambasciatori - Ma la richiesta più impegnativa è quella di Sinistra Italiana. La versione del Cairo è "ridicola e offensiva", dice Nicola Fratoianni, che un mese ha accompagnato i legali della famiglia Regeni dall’ambasciatore egiziano a Roma. "Adesso basta. Da settimane chiediamo al governo azioni forti, fino al ritiro dell’ambasciatore italiano e alla sospensione delle relazioni commerciali con l’Egitto. È il momento di farlo". Stock Island e l’isola carcere di Gorgona: modelli di convivenza tra uomini e animali di Tamara Mastroiaco italiachecambia.org, 26 marzo 2016 Isole, carceri e rifugi per animali: sono i principali punti in comune tra Stock Island e Gorgona. L’unica sostanziale differenza? Il destino dei due progetti: mentre la prima spicca il volo, la seconda rischia di essere affossata dall’Amministrazione penitenziaria. Stock Island Detention Center, in Florida, è un carcere noto tra gli abitanti per avere una doppia valenza sociale: oltre ad essere un centro di riabilitazione per le persone, è diventato, negli anni, anche un santuario per animali di allevamento, esotici e domestici, trascurati oppure sequestrati a persone che li maltrattavano o abusavano di essi. Il rifugio, fondato nel 1994, è nato inizialmente con la costruzione di un piccolo stagno per salvare le anatre che spesso venivano ferite o uccise dalle automobili di passaggio sulla strada che costeggia la struttura penitenziaria. Quando si è sparsa la voce che il carcere accoglieva animali bisognosi, il piccolo rifugio si è trasformato in un santuario vero e proprio destinato a tutti gli animali di tutte le specie, anche quelle selvatiche, sequestrate al commercio di animali esotici. Tra i residenti più noti c’è Mo, un bradipo, diventato una sorta di "mascotte" dell’istituto. La struttura ospita circa 150 animali, tra i quali un alligatore acquistato dai precedenti "proprietari" per essere allevato come animale domestico e poi consegnato al santuario, Albert, una tartaruga ceduta perché diventata tanto grande da non riuscire più a gestirla e un cavallo di nome Angelo, quasi cieco. Cinque dei 596 detenuti del carcere si prendono cura degli animali, seguiti da un veterinario e dalla custode della struttura, Jeanne Selander, che ha una solida preparazione in biologia marina. Per i detenuti, nutrire, curare, pulire gli animali non rappresenta solo una "pausa" giornaliera dalla routine della prigione, ma un momento da dedicare a qualcuno, a esseri che hanno bisogno di compassione, di attenzione, proprio come loro, e l’esperienza di aiutarli non può che essere significativamente positiva nel loro percorso di riabilitazione. Gli animali, invece, trovano in Stock Island Detention Center una casa per sempre, dove non saranno più maltrattati o abusati dagli esseri umani. Il santuario è aperto al pubblico due volte al mese, con l’obiettivo di insegnare ai visitatori, bambini inclusi, il rispetto verso gli animali e, soprattutto, il messaggio che gli animali selvatici non sono animali domestici, non importa quanto essi siano carini. Gli animali non sono costretti a interagire con il pubblico; alcuni mostrano curiosità e attenzione verso le persone, altri no, ma a nessuno è permesso di avvicinarsi a loro. Leggendo questa storia, inevitabilmente, il mio pensiero va a Gorgona, l’ultima isola-carcere italiana, situata nell’arcipelago toscano, nota soprattutto per la convivenza tra uomini e animali; lì sono nate straordinarie relazioni interspecifiche, che hanno dato vita a alleanze e amicizie tra i detenuti, protagonisti di un percorso rieducativo, e gli animali salvati dall’industria zootecnica. "Gli animali non sono cose, né macchine" cita l’art.1 di "Ogni specie di libertà. Carta dei Diritti degli Animali di Gorgona", un patto composto da 36 articoli, sancito dal medico veterinario Marco Verdone, che, a Gorgona, ha lavorato per 25 anni. La Carta, infatti, è un’alleanza speciale nata tra detenuti e animali sull’isola-carcere, dove l’uomo ha scelto di non uccidere più i suoi "compagni di viaggio", sognando un mondo senza gabbie e prigioni. Un altro passaggio significativo in questo percorso di riconoscimento dei diritti agli altri animali, oltre alla Carta, è il Decreto di Grazia dato dall’ex Direttore del carcere, Carlo Mazzerbo, che ha concesso e garantito a diversi animali tra cui una mucca e a un maiale, lo "status di animali rifugiati e cooperatori del trattamento" presso la Casa di Reclusione. Oggi, il "Progetto Gorgona" è in pericolo perché l’Amministrazione penitenziaria ha deciso di affidare a un soggetto privato la gestione delle attività produttive, animali sull’isola compresi. A muoversi per salvare l’isola modello, persone di ogni estrazione culturale e operanti in diversi ambiti professionali. La petizione, lanciata dalla Lega Antivivisezione, Essere Animali e Ippoasi, è stata firmata da migliaia di cittadini e a maggio 2015 è stata approvata in Senato una mozione, che impegna il Governo a "valorizzare e promuovere buone pratiche come l’esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell’isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici". Dopo la petizione e la mozione, diversi personaggi della cultura e dello spettacolo hanno firmato un documento dal titolo inequivocabile: "Appello per Gorgona: l’isola delle buone pratiche nella relazione umano-animale". "Una vasta comunità di persone, di ogni parte d’Italia e non solo, sostiene il progetto di pace, "Gorgona", l’isola che c’è". Il sindaco di Livorno Filippo Nogarin ha incontrato una rappresentanza di soggetti ai quali ha assicurato la piena disponibilità a fare dell’isola di Gorgona un esempio unico al mondo. Un carcere senza sfruttamenti e violenze tra umani e altri animali. Un’isola che, tra le tante cose che ha da offrire, presenta un’esperienza originale, una risorsa culturale ed etica "rinnovabile". Un luogo che cerca di garantire i diritti fondamentali a tutti e dove sia pienamente soddisfatto il dettato Costituzionale espresso nel noto art. 27 che chiaramente non si può realizzare uccidendo "qualcun altro" dichiara Marco Verdone. [Cost. Italiana art. 27: (...) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato]. Mentre è straziante veder morire un progetto eccezionale come quello di Gorgona è allo stesso tempo toccante veder fiorire a più di 8.000 chilometri di distanza l’isola-carcere "gemella", dove il percorso rieducativo dei detenuti si intreccia al percorso di tutela degli animali. Bosnia: la fine di Karadzic sarà l’inizio di una nuova era giuridica? di Daniele Archibugi Il Manifesto, 26 marzo 2016 Diritto internazionale. Bene, la condanna. Ma la Bosnia è divisa e gli altri criminali di guerra non pagheranno. Lunedì scorso il Presidente della piccola e costituzionalmente ancora incerta Republika Srpska, Milorad Dodik, ha inaugurato un dormitorio studentesco nella cittadina di Pale, assurta a notorietà internazionale più di vent’anni fa quando divenne la capitale della auto-proclamata Repubblica Serbo-bosniaca. La notizia sarebbe stata inosservata se non perché il dormitorio è stato intitolato a Radovan Karadzic. Dodik, accompagnato dalla signora Ljiljana Karadzic e dalla figlia Sonja, ha rammentato che Karadzic è stato il fondatore e primo presidente della repubblica, il vero padre della patria. E, nel bene ma soprattutto nel male, ha perfettamente ragione. Mancava solo Karadzic alla cerimonia. E avrebbe certamente partecipato se l’arresto e la detenzione presso il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia non glielo avessero impedito. Giovedì scorso, dopo quasi otto anni di prigionia e cinque di processo, il Tribunale ha finalmente espresso il suo verdetto, e Karadzic è stato condannato a 40 anni di reclusione per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità commessi in Bosnia durante la guerra civile 1992-1995. Possiamo scommettere che nella piccola Repubblica Srpska altre piazze, scuole e giardinetti saranno a lui dedicati. E possiamo essere ugualmente certi che, solamente di là di un labile confine, l’etnia musulmana continuerà a ricordare Karadzic come il più efferato criminale. I musulmani bosniaci, che ieri si affollati di fronte alla sede della corte dell’Aia, non sono soli: al di fuori della grande Serbia, Karadzic è considerato il più malvagio delinquente del XX secolo. Per quanto ricorrerà in appello, possiamo essere certo che Karadzic finirà i suoi giorni in prigione. Come nel caso di Charles Taylor, il famigerato Presidente della Liberia, il fatto che abbia agito per nome e per conto di un governo non gli ha garantito l’impunità. Lo possiamo considerare come passo in avanti verso il compimento dei Principi di Norimberga, sanciti dalla Commissione per il diritto internazionale delle Nazioni Unite nel lontano 1949, e ancora così spesso disattesi. Eppure, c’è ben poco di cui gioire. Condannato dalla storia e dal tribunale ad hoc, Karadzic ha vinto sul campo di battaglia perché ancora oggi la Bosnia è inesorabilmente divisa, con la comunità musulmana (e croata) e quella serba senza alcuna vita civile comune. Era questo l’obiettivo centrale della guerra civile, e lui l’ha ottenuto. Era una prospettiva che la comunità internazionale voleva scongiurare, fallendo miseramente. Le condanne del tribunale istituito dal Consiglio di Sicurezza sono dunque essere le lacrime di coccodrillo per l’incapacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente per impedire il divampare della guerra. Finanche il luogo martire per eccellenza, la Srebrenica del più grande massacro in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, è nelle mani del vincitore. Il mausoleo per commemorare le vittime è periodicamente infestato e deturpato da fanatici serbo-bosniaci che ancora oggi indossano le divise delle truppe che commisero il massacro. Un po’ come quando i neo-nazisti profanano i cimiteri ebraici, con la sola differenza che i loro comportamenti sono impuniti. La giustizia penale internazionale non ha contribuito alla pacificazione locale, e viene addirittura il sospetto che abbia ancor di più esacerbato i rancori. C’è da chiedersi quali altri strumenti erano a disposizione: forse avrebbero aiutato delle capillari commissioni per la verità e la riconciliazione, analoghe a quelle istituite, proprio negli stessi anni in cui divampava il conflitto in Jugoslavia, nel Sudafrica di Nelson Mandela. Senza di ciò i pochi imputati che finiscono di fronte ad una corte sono agnelli sacrificali. Aggiunge sconcerto il fatto che la spada della giustizia penale internazionale continui ancora oggi ad essere così selettiva. Chi ha sperato che i tribunali internazionali ad hoc aprissero una nuova stagione dove tutti i potenti fossero rendicontabili per gli abusi sono purtroppo rimasti delusi. Sia di fronte alla Corte penale internazionale come nel Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia, gli imputati non sono tanto criminali acclarati, sono anche quelli perdenti. Lo stesso tribunale per l’ex Jugoslavia è stato incapace di indagare sull’uso delle bombe a grappolo e ad uranio impoverito, entrambe proibite dal diritto internazionale, da parte della Nato durante la guerra del Kosovo del 1999. Alla fine, il problema è stato archiviato senza alcuna incriminazione. La condanna di un criminale di guerra era un atto dovuto alle vittime e ai loro cari. Si è detto per i criminali nazisti che non poterli condannare tutti non è una ragione per proscioglierne uno. Ma molte altre vittime - in Iraq e in Siria, in Libia e in Ucraina e in tante altre parti del mondo - attendono ancora che qualche toga si ricordi di loro. Svizzera: detenuti evaso con l’amante poliziotta del carcere, presi nel bergamasco La Repubblica, 26 marzo 2016 Fine della fuga della coppia di innamorati fuggita dal penitenziario di Limmattal, in Svizzera. I due hanno vissuto chiusi in casa per settimane, in una palazzina di Romano di Lombardia. A incastrarli, le telefonate e un video con cui la donna affascinata dall'Islam chiedeva perdono alla famiglia. È finita a Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, l'evasione con fuga d'amore tra un galeotto e l'agente di polizia penitenziaria innamorata che lo ha aiutato a fuggire. Lui, 27enne siriano, lei 32enne svizzera. Sono stati arrestati dai carabinieri con l'aiuto dei militari del Ros di Milano, rispettivamente per evasione e favoreggiamento dell'evasione. Entrambi ricercati, il 27enne era evaso dal carcere di Limmattal, vicino a Zurigo in Svizzera, dove era detenuto per diversi reati sessuali e di violenze contro la persona; e dove la donna lavorava: secondo l'accusa avrebbe favorito l'evasione del suo amante la notte tra l'8 e il 9 febbraio scorso. L'uomo era arrivato in Svizzera nel 2010 come richiedente l'asilo dalla Siria ed era stato condannato a più riprese per reati a sfondo sessuale. Oggi le manette sono scattate di prima mattina su esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dalle autorità elvetiche. L'Islam e il Medioriente. Per i Ros alla base della fuga dal carcere ci sarebbe la storia d'amore tra la coppia: si erano conosciuti nella casa circondariale dove lui era detenuto da oltre 2 anni per una pena di 4 totali. Il comandante colonnello dei Ros di Milano Paolo Storoni non esclude che la destinazione finale fosse il Medioriente. "Alcune telefonate fatte dal 27enne in Austria e Germania fanno pensare che i due volessero tornare nelle sue terre d'origine. La fuga potrebbe essere iniziata proprio per raggiungere insieme il Medioriente", spiega Storoni. La tana. Secondo quanto raccontato ai carabinieri dall'ex marito della 32enne, lasciato dalla donna dopo che si era innamorata del carcerato, lei negli ultimi tempi avrebbe mostrato delle simpatie per la religione islamica. Questa notte sono intervenuti 40 uomini delle forze dell'ordine per trovare la coppia. Si nascondevano da almeno due settimane in un appartamento al settimo piano di un palazzo di via Duca d'Aosta 37 a Romano di Lombardia. Il blitz è scattato tra le 3.30 e le 4, con l'intervento degli elicotteri. Il blitz. I militari hanno dovuto sfondare la porta d'ingresso dell'abitazione e sono serviti quattro carabinieri per bloccare la donna, atleta di karatè che non ha mostrato alcun segno di collaborazione. Successivamente all'evasione i due erano riusciti ad attraversare il confine e arrivare a Romano di Lombardia con l'automobile della donna, e - dopo una sosta a Como - si erano diretti nella bergamasca dove, secondo la prima ricostruzione, la poliziotta penitenziaria aveva alcuni contatti tra la comunità slava date le sue origini balcaniche. Tutto lo stabile, un condominio di 9 piani con 36 appartamenti abitato per lo più da arabi e slavi, è stato ispezionato alla ricerca dei due fuggiaschi, di armi e di qualsiasi altro elemento necessario per risolvere il caso. I preparativi per la partenza. La città d'origine del siriano è Khatania, mentre della donna è Arau. Individuare il palazzo e l'appartamento in cui i due si nascondevano non è stato semplice, spiega Storoni dei Ros: "Avevano preso tutte le precauzioni del caso: uscivano poco per non attirare l'attenzione dei vicini, se non per comprare del cibo, e negli ultimi giorni si stavano preparando per partire". In una stanza c'erano numerosi sacchi dell'immondizia: avevano limitato al minimo le uscite, anche per gettare la pattumiera. Al momento dell'arresto avevano con loro non più di 500 euro. "Dopo la fuga dal carcere si sono ritrovati con pochi contanti. Stavano racimolando del denaro per continuare la fuga attraverso un altro cittadino arabo residente in Svizzera - continua Storoni - gli aveva mandato dei soldi in banca su un conto aperto con nome falso. Il 27enne, però, si era presentato con il suo vero documento di identità e non ha mai potuto prelevare quanto inviato". Le armi e gli appoggi. In casa non sono state trovate armi, ma secondo i carabinieri, vista la conoscenza in materia della poliziotta penitenziaria in merito alle aggravanti e disposizioni di legge, è probabile che i due ne fossero in possesso e le abbiano nascoste altrove, in un posto più sicuro. Qualche giorno dopo essere arrivato a Romano di Lombardia nella stazione della cittadina, che si trova poco distante dall'appartamento in cui si nascondeva, l'uomo aveva fatto amicizia con un tunisino di 60 anni. "Una brava persona - commenta Storoni - che in buona fede ha voluto aiutarlo vista la cultura d'origine". Scambiando qualche battuta in arabo erano entrati subito in confidenza: il tunisino gli aveva prestato il suo documento per comprarsi una scheda telefonica. Il loro rapporto è durato pochi giorni e il 60enne è risultato essere estraneo ai fatti. Con la nuova sim, però, il siriano ha cominciato a contattare altre persone del suo Paese residenti all'estero, soprattutto in Austria e Germania. Incastrati da telefonate e video. Queste telefonate, oltre a un video realizzato dall'amante, sono servite per cogliere in fallo la coppia. La donna, infatti, aveva girato un filmino dentro casa e lo aveva inviato al padre. Rivolgendosi ai genitori, diceva di amare l'uomo evaso dal carcere e spiegava i motivi della sua scelta. Era pentita di averli fatti soffrire, ma chiedeva di essere compresa. I due saranno estradati in Svizzera. Nelle prossime settimane di terrà l'udienza: la corte d'Appello di Brescia, competente del caso, si esprimerà in merito alla richiesta della polizia elvetica.