Sicurezza, dai ministri Ue impegni ed esortazioni di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 I ministri degli Interni e della Giustizia si sono riuniti oggi pomeriggio qui a Bruxelles per rilanciare la collaborazione tra i paesi membri sulla scia dei drammatici attentati che hanno colpito il Belgio martedì scorso. Tra le altre cose, i Ventotto si sono impegnati (ancora una volta) su un maggiore scambio di informazioni, e hanno esortato il Parlamento europeo a dare un via libera rapido a una banca dati dei passeggeri aerei, per meglio seguire i movimenti dei terroristi. Dinanzi alle critiche di molti, che accusano i Ventotto di fare poco per migliorare la collaborazione delle forze di polizia, i ministri si sono difesi. "Vi sono molte critiche, ma di passi avanti ne abbiamo fatti", ha detto il commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, citando la nascita di un Centro europeo del controterrorismo all’Aja in gennaio. "Non disperate - ha aggiunto il ministro della Giustizia belga Koen Geens. L’Europa alla fine trova le proprie soluzioni, così come è avvenuto per la crisi debitoria". "Non abbiamo bisogno di nuovi piani, ma dobbiamo piuttosto mettere pienamente in pratica tutte le misure già decise nei mesi passati", ha spiegato dal canto suo in una conferenza stampa il ministro degli Interni e rappresentante della presidenza olandese dell’Unione, Ronald Plasterk, riferendosi ai vari dossiers aperti, tra cui maggiori limiti alla circolazione di armi da fuoco. "Abbiamo espresso oggi la nostra forte determinazione di agire in questo senso, rapidamente". articoli correlati In un comunicato di due pagine, i ministri hanno chiesto al Parlamento europeo di approvare nella sessione parlamentare di aprile la direttiva che crea una banca dati dei passeggeri europei. In realtà, non è una banca dati europea, ma si tratta banche dati nazionali collegate le une alle altre. Secondo il testo, le compagnie aeree dovranno trasmettere i dati sui passeggeri alle autorità nazionali quando i voli sono extra-europei. Per i voli intra-europei vale la volontarietà, non l’obbligatorietà. I governi europei, riuniti oggi pomeriggio qui a Bruxelles in una riunione ministeriale straordinaria, hanno spiegato "di voler trovare il metodo per ottenere in modo più rapido e più efficace informazioni digitali, grazie anche a una maggiore collaborazione con i paesi terzi e gli operatori di servizi attivi sul territorio europeo". Più concretamente, i Ventotto intendono discutere in giugno di questo tema, definito peraltro "complesso" nel comunicato di questa sera. Sul versante dello scambio di informazioni, i ministri si sono impegnati a rafforzare la banca dati del Centro europeo del controterrorismo e di migliorare la collaborazione nelle indagini di polizia. In questo contesto, c’è il desiderio di mettere a punto quanto prima un sistema comunitario di riconoscimento delle impronte digitali. I governi poi hanno promesso di voler rapidamente trovare un accordo su un progetto legislativo che imporrà limiti alla vendita e alla circolazione di armi da fuoco. La riunione di questa sera si è tenuta a due giorni da sanguinosi attentati a Bruxelles che hanno provocato la morte di 31 persone e il ferimento di altre 270. Le ultime ore sono state segnate da una confusa e imbarazzante vicenda. Uno dei terroristi-suicidi è stato espulso dalla Turchia due volte l’estate scorsa, e né l’Olanda né il Belgio l’hanno trattenuto una volta arrivato sul proprio territorio. Non è chiaro se l’errore sia stato olandese, belga, o turco, ma comunque non vi è stato sufficiente scambio di informazioni. Sicurezza, il vertice delle parole di Leo Lancari Il Manifesto, 25 marzo 2016 Bruxelles. Tante promesse ma niente di fatto. I ministri degli Interni dei 28 si incontrano per stabilire una strategia contro i terroristi senza decidere niente. Salvo riproporre le misure annunciate dopo gli attentati di Parigi. Non bastano più di trenta morti per far trovare all’Europa un minimo di unità per combattere il terrorismo. Convocato d’urgenza dopo gli attacchi di Bruxelles, il vertice dei ministri degli Interni e della Giustizia dei 28 si è chiuso ieri praticamente con un niente di fatto. Come al solito, verrebbe da dire. Alla fine tante promesse, come accadde dopo le stragi di Parigi, e tanti impegni da realizzare (forse), ma senza fretta. Quasi tutti entro giugno, vale a dire entro la fine della presidenza olandese. Di fatto si riparte dalla lista dei nomi dei passeggeri in entrata e in uscita dall’Ue e nei voli interni. Il famoso Pnr di cui si parla da mesi e che, oltre al nome di chi viaggia, dovrebbe registrare carta di credito usata per acquistare i biglietto, data di imbarco e destinazione. Ora i 28 promettono di approvarlo entro aprile, ma a Bruxelles era stata dato per fatto già a dicembre scorso con il soliti squilli di trombe e dichiarazioni altisonanti, salvo poi restare imbrigliato nelle solite divisioni tra chi ritiene la misura un attentato alla privacy e chi invece è convinto che sia solo parzialmente utile. In effetti visto che a compiere gli attentati sono persone nate e cresciute in Europa e alle quali, come dimostrano gli attentati di novembre, basta noleggiare una macchina a Bruxelles per seminare morte a Parigi, va da sé che sapere chi ha volato e per dove serve a poco. Misura buona al massimo per individuare eventuali foreign fighters di ritorno dalla aree di guerra. Sono 5.000 quelli partiti dall’Europa diretti in Siria, ha spiegato ieri Gilles de Kerchove, coordinatore anti terrorismo europeo, spiegando di non essere però in grado di dire quanti di questi sono tornati indietro e quanti sarebbero pronti a combattere. "I forti vincoli familiari tra i membri di questi gruppi di terroristi - ha aggiunto de Kerchove - rende più difficile infiltrarsi". Comprensibile, viste le prova di efficienza date finora da certi servizi di sicurezza. Le misure cosiddette concrete finiscono qui. Niente procura europea antiterrorismo, sulla quale il ministro della Giustizia italiano Andrea Orlando insiste da mesi e continuerò a farlo anche oggi al consiglio dei ministri della Giustizia europei ma senza grandi speranze. Troppe gelosie tra paesi per fare u passo avanti, almeno oggi. I 28 hanno invece stilato un decalogo Ue anti terrorismo, una specie di lista delle buone intenzioni da realizzare entro giugno. Si va dall’impegno di rafforzare gli sforzi nazionali per indagare sulle reti responsabili degli attentati di Parigi e Bruxelles, al "rapido" completamento della legislazione in materia di lotta al terrorismo, alla banca dati europea in materia di sicurezza per finire con al promessa di utilizzare in maniera più regolare squadre investigative comuni all’istituzione di una squadra di collegamento tra esperti nazionali della lotta al terrorismo. Naturalmente non poteva mancare l’impegno a costituire, sempre entro giugno, la famosa guardia costiera e di frontiera europea per controllare meglio i confini dell’Unione, come se non sapessero che i terroristi sono cittadini europei. "Chi non realizza le misure già concordate, sarà ritenuto responsabile per il futuro", ha detto a termine dell’incontro il Commissario Ue per gli Affari interni e l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, per il quale fra gli stati membri è mancata la fiducia, con la quale si sarebbero potuti forse evitare gli attacchi. "Gli autori degli attacchi di Bruxelles erano noti ai servizi di intelligence, così come quelli di Parigi" ha detto sollecitando una maggiore condivisione di informazioni. In futuro, naturalmente. Il ministro degli Interni Angelino Alfano ha annunciato infine di voler presentare un piano anti-radicalizzazione in Italia "per evitare che venga piantato un seme che poi dia, negli anni a venire, un frutto avvelenato". Terrorismo, Alfano annuncia piano nazionale anti-radicalizzazione di Roberto Napoletano Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 "In Italia proporrò un piano e una strategia nazionale anti-radicalizzazione per evitare che venga piantato un seme che poi in Italia dia, negli anni a venire, un frutto avvelenato". Lo ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano arrivando al consiglio Interni e Giustizia Ue straordinario convocato all’indomani degli attentati terroristici dell’Isis nella capitale belga. "L’Italia - ha aggiunto il ministro - da questo punto di vista è un Paese sano e noi dobbiamo, dal punto di vista culturale" cioè, "nel legame che la cultura ha con la sicurezza, varare un piano nazionale anti-radicalizzazione". Alfano: terrorismo veloce Ue lenta, occorre accelerare - Il titolare del Viminale ha sottolineato la necessità di iniziative rapide ed efficaci nella lotta al terrorismo. "Il terrorismo è veloce e l’Europa spesso è lenta", ha spiegato. E ha aggiunto: "Dobbiamo dare quel di più di velocità all’Ue per poter fronteggiare minacce che hanno il ritmo di un crimine globale e anche la forza e la latitudine di organizzazioni che sembrano non essere complesse, ma che poi trovano tra di loro un punto di incontro". Tra le misure più urgenti da mettere in pista, la banca dati dei passeggeri dei voli. "Mi auguro che ci sia una capacità decisionale che vada anche oltre le cose che sono state fatte fin qui e soprattutto si riescano a realizzare le cose che abbiamo sempre detto di voler fare, a cominciare dalla registrazione del nome dei passeggeri", ha spiegato il ministro, che è tornato a proporre il Comitato nazionale antiterrorismo (Casa) come modello per l’Europa, per lo scambio di informazioni. "Il Casa - ha spiegato - funziona da centro di coordinamento strategico e da scambio di informazioni tra tutte le forze di polizia e di intelligence. Vogliamo esportare questo nostro modello a livello europeo". Orlando: maggiore coordinamento di polizia e intelligence - "Dalla riunione straordinaria dei ministri dell’Interno e della Giustizia dell’Unione Europea convocata per oggi pomeriggio a seguito degli attacchi terroristici ci aspettiamo una reazione più forte sui temi che da mesi poniamo". Così il guardasigilli Andrea Orlando poco prima di partire per la capitale belga. "Noi sosteniamo e abbiamo sempre sostenuto - ha spiegato Orlando - l’esigenza di un più forte coordinamento delle forze di polizia dell’intelligence e, aggiungo io perché questo nel dibattito rischia di passare un po’ in secondo piano, anche di un forte coordinamento delle autorità giudiziarie dei diversi Paesi europei". Da oggi entra in vigore la legge sull’omicidio stradale di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 È stata pubblicata ieri sulla Gazzetta ufficiale n. 70 la legge 23 marzo 2016 n. 41, quella sul cosiddetto omicidio stradale che ha, tra i suoi punti principali, il carcere da 8 a 12 anni, 18 nei casi più gravi, l’arresto in flagranza obbligatorio, i prelievi coattivi per stabilire se il guidatore è sotto effetto di alcol o droga. Le novità della legge sull’omicidio stradale toccano non solo i pirati della strada, ma possono riguardare anche chi commette infrazioni diffuse, la cui gravità sarebbe da valutare caso per caso: le nuove sanzioni possono scattare, per esempio, anche per chi sorpassa con la striscia continua o dove ci sono le strisce pedonali. Di qui la necessità di garantire almeno indagini serie e strisce ben visibili. Cose finora estranee al sistema italiano. Il punto sta proprio nelle indagini: per buona parte della magistratura e delle forze dell’ordine, un incidente stradale mortale non è qualificante come un omicidio di malavita. Dunque spesso lo si tratta come lo si è sempre trattato: con sufficienza burocratica. Un atteggiamento che nasce non solo dalla cultura, ma anche dalla consapevolezza che tanto, alla fine, il colpevole avrà sì molti grattacapi, ma comunque ben difficilmente finirà in carcere. Con la nuova legge no: la galera si rischia davvero (peraltro proprio in un periodo in cui lo Stato le celle vuole soprattutto svuotarle, a suon di depenalizzazioni). E, per evitarla, gli imputati che possono permetterselo metteranno in campo i migliori professionisti; chi non può, peggio per lui. L’unico antidoto sta proprio nella serietà delle indagini. Che passa innanzitutto dalla preparazione degli agenti che effettuano i rilievi sul luogo dell’incidente. Ma il corpo con maggiore specializzazione, la Polizia stradale, ha ormai un organico tanto risicato da poter intervenire in una minoranza di casi; gli altri fanno quel che possono e non mancano situazioni in cui non hanno a disposizione nemmeno le rotelle metriche per prendere le misure. Durante le indagini, poi, intervengono i periti. D’ufficio o di parte. E qui non esiste un sistema incontestabile per stabilire se un professionista è davvero all’altezza. Senza contare che nell’albo dei consulenti tecnici d’ufficio ci sono periti esperti di infortunistica stradale o di balistica, nominati più o meno indifferentemente per sparatorie e incidenti stradali. Quanto ai magistrati, questioni culturali a parte, va rilevato che spesso i carichi di lavoro non consentono loro di affrontare al meglio indagini e processi sugli incidenti stradali. Tanto che, quando vengono arrestati malviventi che hanno commesso vari reati di cui alcuni connessi alla guida, capita che per questi ultimi si scelga, di fatto, di non procedere. In sostanza, l’Italia rischia di non potersi permettere un sistema così severo come quello disegnato dalla legge sull’omicidio stradale. Un’impressione rafforzata dal fatto che le pene aggravate sono previste anche per infrazioni certamente gravi, ma che a volte vengono commesse "per sottovalutazione" (le attuali norme di costruzione delle strade e la volontà di cautelarsi da parte dei gestori delle strade hanno fatto proliferare le strisce continue al limite della ragionevolezza) o addirittura senza accorgersene (test qualificati denunciano da anni - tra le tante cose - che molti attraversamenti pedonali sono poco visibili, per carenze di manutenzione o addirittura di progettazione). Dunque, spinti dall’urgenza di dare finalmente una risposta a delitti diffusi e tragici come quelli commessi da guidatori altamente pericolosi, si va verso un sistema che colpevolizza sempre più anche utenti fondamentalmente "normali" senza contemporaneamente responsabilizzare anche poliziotti, magistrati, periti, gestori di strade e - perché no? - costruttori di veicoli. Cioè tutti gli altri attori da cui dipende la sicurezza stradale. Senza contare che l’aumento della posta in gioco spingerà più di un imputato a chiedere ai giudici di sollevare questione di legittimità costituzionale della nuova legge. Come notò il Servizio studi della Camera, potrebbe contare la disparità che la norma crea tra gli incidenti stradali e quelli sul lavoro. Se la Consulta dovesse dare seguire questa tesi, si creerebbe un enorme problema di gestione dei processi. Squadre investigative comuni contro terrorismo e crimine operative da oggi di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 Decreto legislativo 15 febbraio 2016 n. 34. Ci sono voluti 14 anni, ma alla fine sono cadute anche le ultime resistenze all’attuazione della decisione quadro 2002/465/GAI del 13 giugno 2002, relativa alle Squadre investigative comuni (Sic). Sarebbe irragionevole negare che settori importanti del law enforcement nazionale si sono strenuamente opposti alla previsione delle Sic le quali una volta ammesse - per i connotati strutturali del nostro codice di rito e per il ruolo che in esso svolge il Pm - non potevano che ricadere sotto il controllo e la direzione dell’autorità giudiziaria. La cooperazione internazionale è stata, per decenni, il terreno d’elezione delle forze di polizia praticamente in tutta Europa e non solo. Interpol, Europol, Dcsa (Direzione centrale dei servizi antidroga), d’intesa con i competenti uffici di cooperazione internazionale del ministero della Giustizia, hanno costituito, per lungo tempo, l’alveo entro cui doveva scorrere necessariamente la joint venture tra le strutture investigative nazionali. La ritrosia alla formazione dei Sic - Questa posizione aveva raggiunto il suo apogeo nella resistenza mostrata, sino al 2015, all’attribuzione alla Procura nazionale antimafia dei compiti di coordinamento nel settore del terrorismo interno e internazionale. Ritrosia sorretta, trasversalmente a dire il vero, anche da alcune importanti Procure distrettuali che vantavano una sorta di consolidata egemonia in questo settore e dialogavano, da sempre e in esclusiva, con le autorità di polizia e di intelligence dei paesi alleati. Da quest’ottica il Dlgs 34/2016 rompe uno schema e finisce con il riconoscere al Pm un ruolo decisivo nella predisposizione e direzione dell’attività investigativa transnazionale e questa può essere la prospettiva migliore per intendere la rilevanza che il decreto in commento assume sotto il profilo istituzionale e processuale. I reati transnazionali - Il decreto 34/2016 giunge, anche, a 10 anni esatti dalla legge 16 marzo 2006 n. 146 di ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale. Se, dal punto di vista del diritto sostanziale, era stato compiuto un notevole passo in avanti in direzione del riconoscimento della straordinaria pericolosità dei gruppi criminali organizzati operanti in ambito internazionale, mancava la creazione di un braccio operativo che, sotto il profilo fondamentale delle indagini, offrisse supporto all’individuazione e alla repressione di queste strutture associative. Al riguardo non si può non considerare che la definizione di reato transnazionale (articolo 3 della legge 146/2006) e la relativa circostanza aggravante (articolo 4) necessitavano di un agile strumento investigativo multinazionale capace di conseguire, in modo coordinato, le indispensabili acquisizioni probatorie. Come si vede si va oltre la nozione di cooperazione rafforzata di cui, ad esempio, al mandato di arresto europeo o al cosiddetto mandato probatorio, per approntare la formazione di una squadra di polizia capace di osservare direttamente le condotte criminali transnazionali, superando - con l’attività all’estero della polizia nazionale - i limiti esegui del Trattato di Schengen o delle altre convenzioni di cooperazione. L’articolo 3, in particolare, della legge 146/2006 individua una sorta di vero e proprio perimetro investigativo stabilendo che si considera transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato. La verifica di elementi strutturali della fattispecie come "parte sostanziale" o "effetti sostanziali" esige, a prima vista, un’attività investigativa capace di rilevare "concretamente" le attività degli associati ed è chiaro che la mera, tradizionale assistenza giudiziaria non poteva supplire alle esigenze che investigazioni così complesse richiedono (pedinamenti, interrogatori, controlli documentali e finanziari etc.). E adesso, la parola ai giudici di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 25 marzo 2016 Persino gli arbitri di calcio potranno spiegare i motivi delle loro decisioni dopo una partita. Mentre i magistrati continuano a non farlo. Con effetti disastrosi. Spiegare una decisione appena dopo che la si è presa? Persino gli arbitri di calcio ormai si avviano a farlo per favorire "un clima di serenità nel quale si eliminino finalmente le polemiche dal mondo del calcio", i giudici delle sentenze invece ancora no. A partire dalla prossima stagione, ha prospettato il presidente dell’Associazione italiana arbitri, Marcello Nicchi, anche le giacchette nere alla fine delle partite di pallone forse avranno la possibilità di parlare in tv: "Non ci siamo lontani, è un discorso in via sperimentale ma, se continua, non è escluso, anzi è probabile, che dal prossimo anno due o tre arbitri vengano a parlare dopo la partita". Trasporre questa prospettiva dal calcio alla giustizia può sembrare una bestemmia o una boutade, e invece sarebbe una rivoluzione di ecologia del dibattito pubblico sui processi. Oggi a trasformarlo in un imbarazzante "bar sport" (peraltro con minore competenza specifica sui processi di quanta ne avessero sul pallone gli ospiti del Processo di Biscardi) è paradossalmente la combinazione tra i meccanismi formali del decidere giudiziario e le mentalità e prassi dei magistrati storicamente indisponibili a spiegarlo. Così lo schema - disastroso per le ricadute che ha su imputati e vittime, su magistrati e avvocati, sull’opinione pubblica, e in definitiva sulla percezione (che in parte diventa anche "legittimazione") sociale della giustizia - si ripete sempre uguale in quattro atti a metà tra dramma e farsa. Primo atto: il giudice monocratico o il collegio giudicante pronuncia il dispositivo della sentenza, spesso poco comprensibile ai non addetti ai lavori, e fissa il deposito delle motivazioni in genere entro 90 giorni. Secondo atto: nell’assenza quindi delle motivazioni, si scatenano in tv e sui giornali non solo i tentativi cronachistici in buona fede di ricostruire da pochi dettagli l’iter del ragionamento sfociato in quella decisione, ma anche le interpretazioni più ardite, le letture del verdetto più strampalate, le strumentalizzazioni più incredibili, favorite dal fatto che tanto ciascuno può dire quello che vuole senza essere smentito, sbertucciato o quantomeno contraddetto. Terzo atto: si apre un surreale dibattito collettivo, nel quale l’opinione pubblica matura e cristallizza le proprie idee sulla base dei ragionamenti campati per aria che le vengono proposti. Quarto atto: arrivati i tre mesi, i giudici depositano le motivazioni della sentenza e nessuno (tranne qualche cultore della materia) le legge più, giornali e tv colpevolmente le ignorano in quanto ormai "vecchie" e superate, ed è già ora di un altro tema e di un altro processo e di un’altra infornata di commenti a capocchia. lettura del dispositivo. Eppure basterebbe poco. Basterebbe che i magistrati un po’ "parlassero". Invece di parlare come oggi non sempre assennatamente (ad esempio nel chiacchiericcio togato di tante trasmissioni tv sui casi di cronaca nera, nelle interviste e negli interventi su fatti di politica o su questioni non di loro competenza, nelle autobiografie spesso tendenti all’autoesaltazione), basterebbe ribaltare il tabù secondo il quale "il magistrato parla solo con le sentenze" e riscoprirne l’autentico valore: e quindi sperimentare o che i giudici scadenzino e organizzino il proprio lavoro in modo da essere in grado di depositare le motivazioni di una sentenza contestualmente già alla lettura del dispositivo (magari con l’accorgimento di qualche modifica procedurale sui termini per le impugnazioni difensive), o che altrimenti accanto al dispositivo emettano alle parti anche una stringata comunicazione ufficiale contenente una almeno sommaria indicazione degli elementi di fatto fondanti la decisione e dei principi di diritto che l’hanno determinata. Qualcosa di simile avviene già in Cassazione con lo strumento della "informazione provvisoria" sulle sentenze più importanti delle Sezioni Unite, che già la sera in cui adottano una decisione, in attesa delle motivazioni cesellate poi nel tempo necessario, cominciano a orientare gli operatori sul principio di diritto affermato. Certo è più facile farlo su un principio di diritto (materia delle Sezioni Unite di Cassazione) che su un fatto. Ma è davvero così impossibile trovare un modo anche per le sentenze di merito? Prescrizione, tutto fermo. Da un anno ostaggio di Ncd di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2016 È stata approvata dalla Camera nel marzo del 2015. Poi più nulla: il testo è bloccato in commissione al Senato, dove neanche le nuove poltrone hanno ammorbidito il veto dei centristi. Tutto fermo in commissione Giustizia del Senato. È passato un anno dall’approvazione alla Camera (era il 24 marzo 2015) ma la riforma della prescrizione è nelle sabbie mobili della maggioranza politica, ostaggio del veto di Ned che i democratici non sono riusciti a scalfire neppure con una girandola di poltrone, compresa quella che ha portato a diventare presidente proprio della commissione Giustizia di Palazzo Madama il falco centrista Nico D’Ascola. L’unica novità, in ben 12 mesi, è che la modifica della prescrizione sarà inserita in quella del codice penale e del processo penale. La proposta, per uscire dal pantano, è stata avanzata dal relatore Felice Casson, ex magistrato che ha sempre sostenuto con forza la necessità di cambiare la norma che falcidia ogni anno decine di migliaia di processi, sostenuto dal capogruppo in commissione Giuseppe Lumia. D’accordo anche il governo. La riforma del codice e del processo penale, approvata a Montecitorio a settembre 2015, entrerà nel vivo dopo Pasqua. Sedute incandescenti assicurate: tra modifiche alle intercettazioni con tanta voglia di bavaglio, prescrizione, aumento di pena per il voto di scambio, regole nuove per le impugnazioni e i ricorsi in Cassazione. Si discuterà anche dell’aumento di pena per i reati legati alla sicurezza, come furti in casa e rapina, e la delicata riforma dell’ordinamento penitenziario. Con quale testo sulla prescrizione si arriverà al voto è il buio assoluto. Sembra irreale l’annuncio, il 30 giugno 2014, del premier Matteo Renzi che in una roboante conferenza stampa, al punto 9 della riforma della Giustizia elencava la nuova prescrizione. Ma da allora ha pesato di più Ncd e sono stati accolti i voti di Ala, capitanata da Denis Verdini. Sulla prescrizione è stato un continuo muro di gomma contro il quale ha sbattuto il responsabile Giustizia dei democratici David Ermini e pure il ministro Andrea Orlando che, spazientito, il 9 marzo scorso ha dichiarato: "I processi di riforma avrebbero bisogno di coalizioni politiche che le sostengono... la riforma della prescrizione è inchiodata da un anno e mezzo, e non è un caso". E pensare che la riforma approvata alla Camera non solo, come è ovvio, non è retroattiva, quindi non penalizzerebbe politici indagati o sotto processo attualmente, ma è pure "soft" rispetto alle normative di diversi paesi europei che la bloccano dopo il rinvio a giudizio. Prevede, infatti, che si congeli dopo una condanna di primo grado, ma a patto che l’appello si concluda entro due anni e che la pronuncia della Cassazione sia emessa entro un anno dal secondo grado. Ma per i centristi è un testo che non va bene soprattutto perché prevede tempi più lunghi di prescrizione per i reati legati alla corruzione. E poiché secondo la legge approvata a maggio scorso c’è stato un aumento delle pene per quei reati, il combinato delle due norme fa arrivare la prescrizione per i reati di corruzione a 21 anni e 9 mesi, compresi i tre di pause giudiziarie. Attualmente, invece, sono 12 anni e mezzo. Nemmeno presa in considerazione, almeno finora, la proposta sulla prescrizione avanzata dalla commissione guidata da Nicola Gratteri, istituita dal Consiglio dei ministri nel maggio 2014 su "proposte normative in tema di contrasto alla criminalità organizzata" e per una ragionevole durata del processo. Chiede che la prescrizione si blocchi definitivamente con la sentenza di primo grado, ma si prevede per l’imputato condannato un "rimedio compensativo non pecuniario" in caso di "irragionevole durata" di un processo. Cioè ha diritto a uno sconto di pena che deve stabilire il giudice. Perché dobbiamo dire grazie a Pannella di Piero Ignazi L’Espresso, 25 marzo 2016 Con un piccolo gruppo di Radicali ha cambiato la politica italiana. Imponendo il tema dei diritti civili negati. E purtroppo non si vedono eredi. A rischio dell’iperbole, la vicenda radicale richiama alla mente la celebre frase di Winston Churchill dopo la Battaglia d’ Inghilterra: "Tanto è dovuto da tanti a così pochi". Del resto, la storia d’Italia è intessuta, nei suoi momenti migliori, di minoranze eroiche. Risorgimento e resistenza rappresentano i due momenti topici: piccoli gruppi, animati da ideali e convinzioni fermissime, misero in gioco tutto per un obiettivo collettivo. Quelle minoranze non si ponevano il problema della rappresentanza numerica. Bastava loro l’etica della convinzione. Di questa etica ha vissuto il partito radicale di Marco Pannella. Pur partendo da posizioni di estrema minoranza, i radicali hanno avuto un ruolo determinate nella storia d’Italia. Di fronte ai milioni di iscritti ai partiti tradizionali i radicali ne hanno raccolto, salvo casi sporadici, qualche migliaio, non di più. Un numero risibile, ma con un impatto moltiplicato esponenzialmente dalla leadership. Marco Pannella, ora gravemente malato, ha incarnato a tutto tondo la weberiana personalità carismatica. Stravolgeva consuetudini, certezze, visioni consolidate: laddove "era scritto", lui "diceva". Così, negli anni Settanta, a dispetto di tutti, ha cambiato la politica italiana. Pannella comprese che il punto di frattura del compact partitocratico erano i diritti civili. Mentre nel post-68 migliaia di giovani cianciavano di rivoluzione, i più maturi radicali, animati da una cultura pragmatica di derivazione anglosassone, puntavano ad ottenere leggi che garantissero i diritti negati. E contrapponevano all’esaltazione della violenza rivoluzionaria e delle P38 la non-violenza ghandiana, praticata con le azioni dirette e la disubbidienza civile. Insomma un altro mondo rispetto a quello vociante nelle piazze e prevalente nella intellighenzia paleo e neo-marxista. Alla fine, hanno vinto quei quattro gatti di radicali perché interpretavano domande ben presenti - e pressanti - nell’opinione pubblica. Domande che erano rimaste sepolte dalle fumisterie del post ‘68 e dal ritardo dei grandi partiti di massa. Per ottenere questo, Pannella, per primo, "ha dato corpo" alla politica. Come scrisse Umberto Eco in un epocale articolo proprio su questo settimanale, il leader radicale riuscì a "bucare lo schermo" con il suo corpo smagrito dai digiuni, con il suo silenzio imbavagliato di fronte alle telecamere, con le sue grida contro il conformismo dei costumi e della politica. Poi il Pr entrò nel palazzo. Bastarono quattro deputati a creare scompiglio in quelle aule. L’irritazione arrivò fino all’astio e alla scomunica da parte di tutti i partiti, con la parziale eccezione per alcune frange dei partiti laici. Con Pci e Dc (apostrofata "già-Pnf"), fu guerra aperta. Il referendum sul divorzio costituisce a tutt’oggi il punto di svolta della politica italiana del dopoguerra perché attesta la fine dell’egemonia culturale - a livello di massa - del cattolicesimo e del suo partito di riferimento. Una evidenza ulteriormente rafforzata dalla successiva approvazione della legge sull’aborto e dalla schiacciante vittoria nel referendum sull’aborto. Quello è il momento più alto della vicenda radicale. Quello per cui vale la massima di Churchill. Poi la strada dei diritti civili e della non violenza si è inerpicata su strade impervie, uscendo dai confini nazionali, come la lotta alla fame nel mondo. Certo il Pr fece aumentare vertiginosamente negli anni Ottanta i fondi alla cooperazione allo sviluppo, solo che lí gestirono i socialisti... Ad ogni modo, erano salite troppo ripide anche per Pannella. L’ultima finestra di opportunità per un ruolo centrale dei radicali si è presentata al momento di Tangentopoli quando la loro onestà cristallina li candidava a guidare una "potenziale alternativa ai partiti tradizionali. Ma quell’occasione sfumò e da allora il Pr ha giocato sempre nelle retrovie. Nemmeno il buon risultato della lista Bonino alle europee del 1999 ha avuto un seguito. Cosa rimane di quella storia? Che eredità lascia? E soprattutto c’è qualcuno che ne ha raccolto il testimone? Rispondiamo con ulteriori domande: chi oggi usa la maschera del buffone tante volte coscientemente indossata da Pannella per scuotere e catturare l’attenzione? Chi si pone fuori dal "regime" attaccando tutto e tutti? Chi propone obiettivi minimi e praticabili insieme a visioni originali e alternative ? Chi, con quattro gatti e due lire, esprime i sentimenti di tanti? Caso Cucchi. Ilaria: "il perito di centrodestra è contro di noi" Il Manifesto, 25 marzo 2016 È iniziato ieri a Bari l’incidente probatorio per accertare la natura e la portata delle lesioni subite da Stefano Cucchi, che fa parte dell’inchiesta bis aperta dalla Procura di Roma sulla morte del geometra romano. La sorella di Stefano, Ilaria, ha rinnovato ieri la propria opposizione alla nomina del prof. Francesco Introna, docente di Medicina legale all’Università di Bari, che il Gip Elvira Tamburelli ha voluto a capo del team che dovrà eseguire la perizia. "Posso già prevedere quale sarà l’esito di questa perizia: mio fratello sarà morto di suo - ha spiegato Ilaria Cucchi. Da cittadina mi chiedo per quale motivo la perizia debba essere eseguita da una persona che politicamente è legata a quello schieramento politico che da sempre attacca mio fratello e la nostra famiglia". Ilaria ricorda che il professore "anni fa si candidò come capolista nel Pdl. Sappiamo che il processo sulla morte di mio fratello è un processo politico, ma nel senso positivo del termine. E sappiamo anche come quella parte di politica si è sempre espressa nei confronti di questa vicenda. Sappiamo che in qualche maniera si è cercato anche di influenzare l’andamento del processo. Temo che una perizia fatta da lui possa rischiare di vanificare il lavoro enorme della Procura di Roma e riportarci agli stessi risultati di quando fu dato incarico ai periti milanesi". Una nomina non gradita neppure dal professore Vittorio Fineschi, lo stesso cattedratico scelto dalla procura di Roma per eseguire l’autopsia di Giulio Regeni, che infatti aveva rinunciato all’incarico di perito di parte della famiglia Cucchi. Remissione in termini: per la tempestività vale la data di spedizione della domanda di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 La tempestività della domanda di remissione in termini va valutata rispetto alla data in cui la raccomandata è stata spedita e non al giorno in cui l’Ufficio l’ha ricevuta. La Corte di cassazione (Sezione V - Sentenza 24 marzo 2016 n.12529) pur consapevole dell’indirizzo di segno opposto, abbraccia la tesi più favorevole al ricorrente che si era affidato al servizio postale nell’ultimo giorno utile. Secondo la Cassazione, infatti, il notificante non può rispondere di eventuali disguidi o dei tempi lunghi che non dipendono dalla sua volontà, una volta compiute le formalità richieste dalla legge. Una lettura, precisa la Suprema corte, che si ricava dalle diverse sentenze con la quale la Corte europea dei diritti dell’Uomo, pur riconoscendo che la previsione in un ordinamento interno di una procedura penale in contumacia non contrasta con i principi del giusto processo, ha precisato che il condannato assente e non rinunciante deve poter beneficiare del diritto da un nuovo processo una volta venuto a conoscenza della condanna. Inquadrato in questo contesto è chiaro che una lettura restrittiva, come quella fornita dalla Corte d’appello, della norma sulla remissione nei termini (articolo 175, comma 2-bis del codice di rito) sarebbe di ostacolo al diritto invocato dalla Cedu. La Cassazione dà conto del più recente orientamento (sentenza 6726/2014) di legittimità, secondo il quale per la tempestività dell’istanza affidata al servizio postale, bisogna avere riguardo alla data di ricezione dell’atto. Per la Suprema Corte l’orientamento a maglie strette si basa sull’interpretazione letterale dell’articolo 175 comma 2 bis del codice di procedura penale il quale stabilisce che l’istanza di restituzione deve essere "presentata". Un riferimento all’ufficio giudiziario competente non essendo previsto alcun richiamo alla raccomandata, riservata dall’articolo 583 del codice di rito agli atti di impugnazione ed estesa da specifiche norme processuali ad altri mezzi, come la richiesta di riesame contro le misure cautelari personali o reali. Per la Cassazione però l’orientamento contrastato non considera che l’articolo 175 comma 2 bis (introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera c) del Dl 21 febbraio 2005, convertito con modifiche nella legge 60/2005) non specifica che il luogo della presentazione debba essere limitato all’ufficio giudiziario, come invece avviene per l’articolo 582 del codice di rito che regola la presentazione dell’impugnazione, inoltre la presentazione a mezzo posta è ammessa anche per la richiesta di rimessione nel processo, il cui deposito è disciplinato dall’articolo 46 del codice di procedura penale in termini analoghi. A queste considerazioni si deve aggiungere una valutazione sull’esegesi della norma che ha introdotto l’articolo sulla remissione nei termini: il Dl del 2005 è stato, infatti, adottato proprio sull’onda delle condanne pronunciate dalla Cedu contro l’Italia a causa delle scarse garanzie sul processo in contumacia. Per la Cassazione il principio maggiormente "garantista" prescelto vale per tutti gli atti di notifica a mezzo posta: sia per quelli destinati ad avere effetti processuali civilistici sia penalistici. Scommesse, procedura di regolarizzazione compatibile con le norme Ue di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 La Terza sezione penale della Cassazione ha affermato, con la sentenza 6709/2016, che la procedura di regolarizzazione dei centri non autorizzati di raccolta di scommesse in Italia per conto di bookmaker stranieri, introdotta dalla legge 23 dicembre 2014 n. 190 e prorogata dalla legge 28 dicembre 2015 n. 208, non si pone in contrasto con le libertà di stabilimento e di prestazione di servizi sancite dagli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. È stata, dunque, rigettata la richiesta di rinviare alla Corte di giustizia di Lussemburgo la questione della compatibilità della normativa transitoria italiana, sollevata da un esercente di Messina che aveva subito un sequestro nell’ambito di una indagine sull’esercizio abusivo di attività di scommessa in quanto sprovvista della prescritta autorizzazione. I giudici di Piazza Cavour hanno affermato che in tema di raccolta non autorizzata di scommesse, "non può invocarsi, per escludere il reato (di cui alla legge n. 401 del 1989, articolo 4), la contrarietà del sistema interno delle concessioni con le libertà euro-unitarie di stabilimento e di prestazione di servizi, allorquando non ricorrono le condizioni per ritenere che nei confronti del soggetto per conto del quale opera l’agente, sia stato dispiegato un comportamento discriminatorio sotto il profilo di una arbitraria esclusione dalle gare per il rilascio delle concessioni ovvero di un impedimento a parteciparvi in condizioni di parità con gli altri concorrenti". E nel caso affrontato l’indagata "non risulta aver comprovato né addotto di aver patito una discriminazione", non risultando che la società a monte, munita del titolo di concessionario a Malta, e per la quale la ricorrente effettua attività di raccolta scommesse, abbia mai partecipato ad una gara per l’assegnazione di una concessione in Italia né che la stessa sia stata esclusa illegittimamente. La Cassazione ha dunque ribadito il principio per cui "è reato la raccolta di scommesse su eventi sportivi da parte di un soggetto che compia attività di intermediazione per conto di un allibratore straniero senza il preventivo rilascio della prescritta licenza di pubblica sicurezza o la dimostrazione che l’operatore estero non abbia ottenuto le necessarie concessioni o autorizzazioni a causa di illegittima esclusione dalle gare". Inoltre, tornando al primo punto, i giudici hanno affermato che non si ravvisano gli estremi per sollevare questione pregiudiziale davanti alla Cgue con riferimento alla disciplina adottata, in forma transitoria, per porre rimedio ai presunti effetti discriminatori del c.d. bando Monti del 2012, dal momento che, come detto, la legge di stabilità 2015 "non pone restrizioni alle libertà sancite dal Trattato Ue per ragioni fiscali". Anzi, proprio la legge n. 190 del 2014, "incrementando le concessioni provvisorie, rimuove i limiti all’esercizio del diritto di stabilimento, subordinandone legittimamente il rilascio all’adesione ad una complessa procedura, volta a verificare in capo al concessionario pro tempore la sussistenza delle condizioni per la tutela dell’ordine pubblico". E in questa direzione, prosegue la Corte, si inquadra anche la proroga disposta dalla legge di stabilità 2016 per i soggetti che non abbiano aderito alla procedura di regolarizzazione. Siccome però nel caso affrontato non consta che la ricorrente o il concessionario maltese abbiano, né attualmente né sotto la vigenza della legge di stabilità 2015, proposto istanza di regolarizzazione usufruendo della procedura prorogata, "allo stato l’attività svolta dalla ricorrente deve considerarsi come illecita e, dunque, sussistente il fumus del reato contestato" alla base del provvedimento cautelare. Nozione e accezione di "percuotere" in base al codice penale Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 Reati contro la persona - Percosse - Nozione del termine "percuotere" - Reato - Configurabilità. Il termine "percuotere" previsto dall’art. 581 cod. pen. non è assunto nel suo significato letterale di battere, colpire, picchiare, ma in quello più lato, comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 2 febbraio 2016 n. 4272. Reati contro la persona - Percosse - Nozione del termine "percuotere" - Reato - Configurabilità. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 581 cod. pen., la nozione di "percosse" implica l’uso di energia fisica esercitata con violenza e direttamente sulla persona purché non sia produttiva di malattia - ricadendosi in tal caso nel reato di lesioni - o non manifesti una violenza di entità inavvertibile e simbolica, indice dell’esclusivo proposito di arrecare sofferenza morale o disprezzo, in tale ipotesi configurandosi il reato di ingiuria cosiddetta reale. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 8 settembre 2015 n. 36227. Reati contro la persona - Percosse - Significato del termine percuotere - Spinte e strattonamenti - Reato - Configurabilità. Integra il reato di percosse la condotta di colui che strattona per un braccio la persona offesa, spingendola contro un muro in modo da procurarle lievi contusioni, considerato che il termine percuotere non è assunto nell’art. 581 cod. pen. nel solo significato di battere, colpire, picchiare, ma anche in quello più lato, comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 5 dicembre 2014 n. 51085. Reati contro la persona - Percosse - Nozione - Inclusione degli schiaffi - Sussistenza. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 581 cod. pen., nella nozione di "percosse" rientrano anche gli schiaffi, in quanto intrinsecamente caratterizzati da energia fisica esercitata con violenza e direttamente sulla persona, purché non siano produttivi di malattia o non manifestino una violenza di entità inavvertibile e simbolica, indice dell’esclusivo proposito di arrecare sofferenza morale o disprezzo. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 16 ottobre 2014 n. 43316. Reati fallimentari: bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Appropriazione da parte dell’utilizzatore del bene oggetto di locazione finanziaria - Configurabilità della distrazione sia in caso di leasing traslativo che in caso di leasing di godimento. In tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing, ai fini della configurabilità del reato in capo all’utilizzatore poi fallito, è necessario che tali beni fossero nella sua effettiva disponibilità, in conseguenza dell’avvenuta consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione, non rilevando la tipologia del contratto di "leasing" traslativo o di godimento. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 9 novembre 2015 n. 44898. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta per distrazione - Sottrazione di beni oggetto di locazione finanziaria - Impedimento all’acquisizione alla massa fallimentare - Pregiudizio per la massa - Configurabilità del reato. In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in caso di bene pervenuto all’impresa in virtù di un contratto di leasing, qualsiasi manomissione del medesimo che ne impedisca l’acquisizione alla massa integra il reato determinando la distrazione dei diritti esercitabili dal fallimento con contestuale pregiudizio per i creditori a causa dell’inadempimento delle obbligazioni assunte verso il concedente. • Corte cassazione, sezione V, ordinanza 12 marzo 2012 n. 9427. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Sottrazione o dissipazione di bene oggetto di locazione finanziaria - Pregiudizio per la massa fallimentare - Configurabilità del reato. Integrano il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale le condotte di sottrazione o dissipazione del bene oggetto di contratto di "leasing", in quanto comportano un pregiudizio per la massa fallimentare che viene privata del valore del medesimo bene e, allo stesso tempo, è gravata da un ulteriore onere economico scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione alla società locatrice. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 12 agosto 2008 n. 33380. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Sottrazione di beni oggetto di semplice possesso da parte dell’imprenditore - Beni oggetto di locazione finanziaria - Configurabilità del reato. La condotta di sottrazione dei beni dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, propria del reato di bancarotta fraudolenta, è configurabile anche con riguardo a quelli che formino oggetto di semplice possesso da parte dell’imprenditore e oggetto di locazione finanziaria. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 13 marzo 2001 n. 10333. Ingiusta detenzione, non ci sono assolti "bravi" e assolti "cattivi" di Giulio Petrilli Agi, 25 marzo 2016 "Il mondo pacifista deve tornare a farsi sentire. Troppo silenzio in questi ultimi anni e le guerre e il terrorismo provocano ancor di più lutti e tragedie. Una bomba gettata da un aereo che colpisce la popolazione civile, non è dissimile da un attentato. Stessa cultura della morte. Questo va detto con chiarezza". È quanto scrive in una nota Giulio Petrilli. "Fatta questa premessa - prosegue - vorrei alla luce dei tragici attentati di Bruxelles, riportare alcuni dati ufficiali, per sviluppare una riflessione. Finora i magistrati, in Italia, hanno risarcito per ingiusta detenzione, tutti coloro i quali sono stati accusati di essere jihadisti (terrorismo internazionale) e poi sono stati assolti, a nessuno è stato applicato il primo comma dell’art.314 del codice penale, che vieta il risarcimento per "dolo e colpa grave". Tutti sono stati risarciti. La cosa è giusta e la condivido, perché tutti gli assolti vanno risarciti e quel comma è completamente sbagliato. Di contro però, mai una persona detenuta ingiustamente e poi assolta dall’aver fatto parte delle Brigate Rosse o Prima Linea (terrorismo interno) è stata mai risarcita. Nessuna". L’aquilano Giulio Petrilli sono anni che, tramite i suoi legali, sta portando avanti una lunga battaglia per farsi riconoscere il risarcimento anni per ingiusta detenzione. Era stato arrestato il 23 dicembre del 1980, a 21 anni, con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Detenuto per 5 anni e 8 mesi, nel regime speciale riservato ai terroristi, è stato assolto dai giudici della Corte d’Appello. Un proscioglimento divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. La sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione gli è stata però sempre negata proprio in base al primo comma dell’articolo 314 del Codice di procedura penale poiché avrebbe avuto frequentazioni "poco raccomandabili". "Ok che l’ideologia comunista, applicata in forma tragica e sconnessa, poteva e può far più paura di qualsiasi altra cosa - osserva Petrilli - ma arrivare a differenziare gli assolti per reati ha dell’incredibile. Ma questo è accaduto e accade, è la verità. Non sarebbe forse il caso che venisse cancellato con un provvedimento del Parlamento il comma che consente ai magistrati di scegliere tra assolti bravi e assolti cattivi? Spero che un giorno gli stessi si accorgano di applicare un comma completamente anticostituzionale? Invito tutte le forze politiche e il ministro della Giustizia a riflettere su questo e trovare una soluzione per risolvere questa grave disfunzione del diritto. L’innocenza va rispettata, altrimenti ti rimane il marchio a vita della colpevolezza. Questo è un intervento che può sembrare fuori tema rispetto alla drammaticità degli eventi - commenta infine Petrilli - ma io sono fermamente convinto che le guerre e il terrorismo si iniziano a battere con leggi giuste che rispettano il diritto, con uno sviluppo economico più equo, con la cultura dell’incontro e non dell’esclusione. Con la vera cultura del pacifismo". Taranto: il detenuto "non si alimenta". E muore di Marilù Mastrogiovanni Il Manifesto, 25 marzo 2016 Antonio Fiordiso, 32 anni, con problemi psichici, muore nel reparto detentivo dell’ospedale di Taranto. La zia lo fotografa "Sul corpo smagrito, lividi e lacerazioni". Il pm chiede l’archiviazione del fascicolo. Ma la famiglia si oppone e preme per ulteriori indagini. Un contratto di fornitura di illuminazione votiva per la sepoltura di Antonio Fiordiso. Per diverso tempo è stato questo l’unico "certificato di morte" in mano ad Oriana, zia di Antonio e sua unica parente. Antonio aveva 32 anni ed era detenuto dal 2011 nel carcere di Lecce per piccoli furti: abbandonato dalla madre e con il padre che entrava e usciva dalla galera, non ha avuto vita facile. Era sottoposto a cure psichiatriche, però ha sempre goduto di ottima salute, non ha mai assunto droghe pesanti e nel suo paese, San Cesario di Lecce, c’è chi lo ricorda con simpatia, perché rubava dalla cassa dei tabacchini e il giorno dopo restituiva "il di più", i soldi che non gli servivano. Verso la fine dell’estate del 2015 la sua condizione fisica e psichica nel carcere di Lecce improvvisamente precipita fino a condurlo alla morte. In appena tre mesi. Almeno questo è ciò che è scritto sulle cartelle mediche a partire da quel maledetto 2 settembre dell’anno scorso, quando Oriana perde le sue tracce. Antonio comincia ad essere trasferito da un ospedale della Puglia all’altro, fino ad arrivare ad Asti, fino ad arrivare il 24 novembre all’ospedale di Taranto "San Giuseppe Moscati" con diagnosi all’ingresso di "shock settico in paziente psicotico". Oriana non riesce a ricostruire tutti gli spostamenti imposti ad Antonio dal 2 settembre ad oggi, ma raccoglie alcune testimonianze secondo le quali in carcere sarebbe stato picchiato a sangue da un gruppo di rumeni. Riesce a rintracciare Antonio poco prima che muoia e non lo riconosce più. Ha però la forza di fotografarlo e di fare dei brevi filmati con il cellulare: li fa vedere al manifesto. Antonio è incosciente ed è ridotto ad uno scheletro tumefatto. Sulle costole e sui fianchi lividi lunghi venti centimetri e larghi circa tre. Le mani sono gonfie, con evidenti lacerazioni e lividi e le dita contratte in maniera innaturale: "Sembrano rotte", dice Oriana. Due giorni dopo Antonio morirà e rimarrà sulla lastra d’acciaio dell’obitorio, sporco delle sue feci, più di un giorno. È così che Oriana lo rivede e l’11 dicembre lo riporta al suo paese. Solo da quel momento Oriana ha accesso agli atti. Dalla cartella clinica la zia viene apprende che un mese prima del ricovero nell’ospedale di Taranto, dove morirà l’8 dicembre 2015, fu ricoverato d’urgenza con diagnosi d’ingresso "Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica", e apprende che versava in uno stato di "progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale". Scrivono i medici: "Sospesa la terapia già all’inizio della presentazione clinica attuale, il quadro è progressivamente peggiorato richiedendo pertanto ricovero presso Presidio Ospedaliero". Nella richiesta di esame radiografico urgente dello stesso giorno c’è scritto: "Paziente in regime detentivo da alcuni giorni non si alimenta". Presso la procura di Taranto il fascicolo aperto a seguito della denuncia di Oriana contro ignoti è per omicidio colposo. Ma il pm Festa ha chiesto l’archiviazione. Oriana si oppone all’archiviazione e i suoi avvocati, Pantaleo Cannoletta e Paolo Vinci, scrivono: "All’ingresso al Pronto soccorso dell’Ospedale S.G. Moscati il Fiordiso versava in uno stato alterato di coscienza e per questo non collaborante, quindi, appare facilmente desumibile che le notizie relative alla mancata alimentazione e al decadimento dei giorni precedenti siano state fornite al personale sanitario dagli agenti che lo avevano accompagnato". Alla luce di tali circostanze, si chiedono gli avvocati, come è possibile che un detenuto sia lasciato per giorni in evidente stato di sofferenza e assenza di alimentazione, senza che nessuno si adoperi per curarlo? Come è possibile che Fiordiso sia giunto in pronto soccorso in condizioni disperate senza che nessuno sia intervenuto prima per evitare questo tragico epilogo? Il giorno successivo al ricovero, il 21 ottobre 2015, in una comunicazione indirizzata alla direttrice della Casa Circondariale di Taranto, il Dott. Francesco Resta, direttore della Struttura Complessa Malattie Infettive, scrive: "Il paziente versa in gravi condizioni in quanto affetto da Stato settico con interessamento multiorgano. Polmonite a focolai multipli. Grave disidratazione con insufficienza renale acuta. Adenoma Ipofisario. Psicosi con disturbi borderline di personalità". Chiedono gli avvocati: "Può un detenuto versare in tale irreversibile e finale situazione clinica, senza che nessuno abbia fatto il necessario per salvarlo? Come è arrivato in questa situazione? E per quale ragione, considerato che precedentemente il detenuto era in ottime condizioni di salute? La vicenda non può che lasciare sconcertati e sollevare legittimi sospetti di trascuratezza e negligenza, per non voler azzardare al momento altro, proprio in quel luogo che dovrebbe servire a rieducare, ove dovrebbe essere scontata la pena tesa alla rieducazione, secondo i dettami costituzionali". Oriana Fiordiso chiede che le indagini facciano luce sulle circostanze che hanno condotto alla morte di Antonio per sapere chi ha pestato a morte "lu piccinnu meu". Bologna: la Garante regionale Desi Bruno visita reparto per detenute madri e loro figli Ristretti Orizzonti , 25 marzo 2016 "Netta contrarietà, bambini incompatibili con presenza inferriate e porte blindate". La figura di garanzia dell’Assemblea legislativa interviene anche sul nuovo reparto di osservazione psichiatrica: "Soluzione incongrua, ricavato nello spazio che precede l’ingresso di una sezione ordinaria". Gli spazi destinati a ospitare il reparto per le detenute madri e i loro figli nel carcere di Bologna, per quanto ancora da ultimare, "risultano adeguati dal punto di vista degli spazi, ma ancora presentano caratteristiche tipiche di un carcere", caratteristiche "assolutamente non compatibili con l’eventuale presenza di bambini, essendo presenti inferriate e porte blindate". A segnalare il caso è la Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, Desi Bruno, dopo la sua visita nella giornata di ieri alla casa circondariale di Bologna dedicata alla sezione femminile della Dozza, che ospita al momento 66 detenute su un totale complessivo di 774 ristretti: la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa ha voluto ribadire la sua "netta contrarietà all’apertura di questo reparto", sia per "l’incidenza sporadica del fenomeno nella nostra regione", sia soprattutto perché "la normativa consente che le detenute madri possano essere ospitate in istituti a custodia attenuta o in case famiglia protette". La Garante ha effettuato un sopralluogo, a fronte di una segnalazione congiunta dei sindacati di polizia penitenziaria, anche in quello che quello che viene definito "reparto di osservazione psichiatrica", di recentissima costituzione: ospita attualmente 3 detenute provenienti da Firenze Sollicciano in due celle (2 in ragione di minorazione psichica e una per infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena), in una soluzione che pare "di tutta evidenza incongrua in quanto tale reparto è stato ricavato in uno spazio che precede l’ingresso in una sezione detentiva ordinaria che è luogo di passaggio frequente sia per le detenute comuni collocate in tale sezione che per il personale del reparto". Al riguardo, è intenzione della Garante chiedere notizie in merito ai soggetti istituzionali coinvolti nella costituzione di tale "reparto psichiatrico" e nell’assegnazione delle detenute al reparto in questione. La visita è proseguita poi al secondo piano della sezione femminile in cui si trovano gli spazi per le attività, fra le quali la sartoria, e per la scuola, che sono risultati adeguati. Nel corso della visita sono stati effettuati colloqui con le detenute. Latina: carcere rieducativo, i detenuti studiano e si diplomano latinaquotidiano.it, 25 marzo 2016 Hanno studiato in carcere e finalmente hanno conseguito il diploma di terza media. È la storia di alcuni detenuti nella Casa Circondariale di Via Aspromonte a Latina che hanno preso parte all’attività didattica del C.P.I.A. 11 (Centro provinciale per l’istruzione adulti) di Latina, I.C. A. Volta. Per la prima volta è stata autorizzata una sessione straordinaria di esami che ha permesso agli studenti di conseguire il diploma. I detenuti si sono mostrati particolarmente emozionati durante la cerimonia di consegna dei diplomi, cosa che dimostra la motivazione personale e la dedizione nel raggiungere un obiettivo rimandato negli anni. A rendere possibile tutto questo il dottor Rodolfo Craia, responsabile dell’area pedagogica, e la dottoressa Claudia Rossi, reggente del C.P.I.A. 11, assieme agli altri educatori e al team delle insegnanti. "Perseguire istruzione e formazione per i detenuti significa re-inventare una scuola che parta dai dati di realtà e trovi la sua efficacia nel raggiungere i suoi obiettivi, non nel riproporre modelli pensati per persone che non vivono recluse - ha dichiarato il dottor Craia - Nel carcere dove entra la Scuola, la logica dell’istituzione totale cede il passo a quella educativo-formativa, per dare vita ad una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura, rendendo credibile il trattamento rieducativo. Pertanto, come meglio dimostreremo, il senso dell’insegnamento in carcere dovrebbe superare la sola didattica, piuttosto dotare gli studenti di strumenti analisi e d’indagine, creare momenti di riflessione e di confronto tra diversi punti di vista, esplorando e superando quel ‘buco nerò rappresentato dalla vita deviante". Bologna: il 21 aprile convegno su "misure di sicurezza, un anno dalla chiusura degli Opg" di Elisabetta Laganà* Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2016 Convegno "Le misure di sicurezza: la situazione ad un anno dalla chiusura degli Opg. L’esperienza della Rems di Bologna". Bologna, 21 aprile 2016. Ad un anno dalla prevista chiusura degli Opg è possibile un primo bilancio sulle importanti innovazioni introdotte dalla Legge 81 del 2014 nel campo dell’esecuzione delle misure di sicurezza. La Giornata di studio si pone l’obiettivo di un confronto tra i vari attori coinvolti nell’istituzione delle nuove Rems, sul loro funzionamento, sugli obiettivi raggiunti e sulle questioni ancora aperte, guardando allo scenario nazionale, ancora disomogeneo rispetto all’applicazione delle nuove norme, e focalizzandosi in particolare sulla situazione della Rems di Bologna. L’intento è anche quello di richiamare l’attenzione sugli aspetti che riguardano il lavoro di ricostruzione del legame tra "luoghi chiusi" e comunità. *Garante per i diritti delle Persone private della Libertà personale del Comune di Bologna Chi parla di guerra semina tempesta di Giuseppe Buondonno Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 L’articolo di Giuliana Sgrena sul manifesto di giovedì, sgombra il campo da alcuni equivoci sulla lotta contro il terrorismo: dall’ambiguo e strumentale accostamento terroristi-profughi, al rapporto scandaloso dei Paesi europei con Erdogan, dal quale hanno comprato la deportazione, di migliaia di persone. Ma gli aspetti, a mio avviso, più importanti che Sgrena affronta, sono altri due. Il primo riguarda il fatto che la lamentela sull’inefficienza dei servizi - quasi fosse un dato puramente logistico, di efficienza tecnica (che pure c’è) - non fa i conti col vero problema politico che riguarda questa Unione europea, che non ha mai espresso una strategia politica comunitaria, capace di porre in secondo piano le furbizie e gli interessi economico-strategici dei singoli Paesi (e dei capitalismi di riferimento). Così, furbizie, omissioni, reticenze dei servizi segreti di ciascuna nazione, sono l’espressione di un vuoto politico, che espone i cittadini europei, anziché garantirli; e che si tenta di nascondere con spinte belliciste che - oltre alla loro inumana ferocia - tale insicurezza moltiplicano. È, dunque, l’inesistenza politica dell’Europa, l’assenza di un progetto condiviso di democrazia planetaria e di visione del presente, a rendere impotenti le sfibrate democrazie europee; ciò di fronte all’attacco di un nemico, la cui determinazione fanatica qualcuno pensa - ripercorrendo vecchissimi schemi da realpolitik - di utilizzare per ristrutturare in chiave autoritaria gli equilibri del continente. La seconda questione (la più spinosa, anche per la sinistra), riguarda l’uso della forza nella lotta al terrorismo. Perché il richiamo che Sgrena fa ad un utilizzo serio e coordinato delle competenze che parte dei servizi posseggono, chiarisce come l’ideologia dei guerrafondai e dei razzisti mesta nel torbido. Nessuna persona di buon senso pensa che si possa combattere questo coacervo di modernità e medioevo, solo con una battaglia culturale, senza l’utilizzo di strumenti di intelligence e di polizia. Ma tali strumenti, innanzitutto, debbono escludere radicalmente nuove avventure militari, il terreno che il fondamentalismo cerca, oltretutto palesemente inefficaci (com’è chiaro dall’Afghanistan in poi), perché funzionali solo ai riposizionamenti strategici dei nuovi colonialismi, e, ovviamente, perché producono solo la stessa morte e la stessa distruzione che si dice di voler combattere. L’attività dei servizi di intelligence serve non solo in funzione repressiva, ma soprattutto ad impostare una politica, una strategia costruita non su teoremi ideologici e strumentali, ma su una conoscenza reale dei territori, dei movimenti, delle culture; senza la quale l’elefante nella cristalleria (si chiami Bush o Hollande) provoca solo ulteriori disastri e indebolisce proprio quelle voci che, nello stesso mondo islamico, possono costruire nuovi equilibri. La democrazia deve difendersi, d’accordo. Ma deve difendere un’idea condivisa ed universale di democrazia; e la prima cosa da cui va difesa è il suo stravolgimento autoritario e bellicista, funzionale alla sicurezza di profitti e privilegi di pochi, non alla sicurezza ed alla pace di tutti. Non è dunque forza, ma miope debolezza (la stessa, da Idomeni ai progetti di guerra in Libia), quella che i governi europei stanno mostrando. L’Europa non ha una strategia seria dei propri servizi di sicurezza, perché non ha un’idea della democrazia che dice di voler difendere o, addirittura, esportare. Isis, purtroppo, lo sa. E ce lo dimostra. Il patto con la Turchia fallimento d’Europa di Roberto Saviano L’Espresso, 25 marzo 2016 L’accordo sui migranti finirà per favorire il traffico di esseri umani. Ma l’Italia dovrebbe, e può, opporsi. Perché l’accoglienza oggi è un dovere. Ad agosto del 2008 fu firmato a Bengasi il trattato tra Italia e Libia e nel 2010 il numero di clandestini che raggiunsero le coste italiane diminuì sensibilmente. Secondo Frontex, dal 2008 a12009 gli sbarchi calarono del 74 per cento. L’infame accordo tra Gheddafi e Berlusconi chiamato "Trattato di amicizia e cooperazione" prevedeva la costruzione di lager commissionati alla Libia che all’Italia sarebbero costati circa 5 miliardi di dollari in 20 anni, prezzo che fu presentato come risarcimento all’ex colonia. Ora assistiamo a un nuovo accordo a Bruxelles tra capi di Stato e di governo europei e Turchia, che riceverà tre miliardi di euro e alcune concessioni politiche in cambio del blocco dei profughi ai confini con l’Europa. Non solo, anche i profughi sbarcati in Grecia saranno condotti in Turchia. E se l’obiettivo è quello di contrastare il traffico di esseri umani, nella pratica si otterrà l’esatto contrario. Qualche sera fa ascoltavo "Radio Radicale": la presidente della Camera Laura Boldrini parlava di generazioni e responsabilità. Ha parlato della generazione che ha combattuto l’ultima guerra mondiale, di quella che ha ricostruito materialmente e moralmente l’Italia, di quella che ha lavorato perché si affermassero diritti senza i quali oggi ci sembrerebbe impossibile poter vivere. Ha parlato delle donne che dopo il 1946 hanno smesso di essere madri e mogli e sono diventate cittadine. Ha ricordato che il matrimonio riparatore e il delitto d’onore sono stati aboliti solo nel 1981. E che solo nel 1996 lo stupro è divenuto reato contro la persona e non più contro la morale. Tutto questo ora viene dato per scontato, eppure solo qualche decennio fa un uomo che stuprava una donna, per non essere perseguito, bastava che la sposasse. E un delitto commesso per "vendicare" una relazione extraconiugale poteva godere di sconti di pena. Alla mia generazione spetta un compito strano, andare indietro nel tempo per recuperare strumenti che ci tornano utili oggi. Spetta dare seguito alla meravigliosa utopia che alcuni visionari antifascisti confinati a Ventotene nel 1941 mettevano per iscritto: l’utopia di poter davvero costruire un’Europa unita, mentre l’Europa era in guerra. Ed è nel rapporto con i flussi migratori la sfida che la mia generazione deve superare. Sulla stessa linea, il consiglio che Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, dà a questo governo. Magi sottolinea come, ancora una volta, la logica dell’emergenza abbia prevalso sulla responsabilità e come, di nuovo, si sia appaltato a un paese che non si distingue per democraticità il controllo delle frontiere. Prima alla Libia di Gheddafi, oggi alla Turchia di Erdogan. Non so Renzi dove trovi il coraggio di dichiarare, a difesa dell’accordo, che nel testo c’è un riferimento esplicito "ai diritti umani, alla libertà di stampa, ai valori fondanti dell’Europa". Magi propone un approccio differente, rispettoso della nostra storia e di quello che abbiamo vissuto come emigranti e come paese che sa accogliere, che ha competenze ma scarsi mezzi. Chi è in Grecia ora, stando all’accordo, dovrà essere condotto in Turchia. Da li cercherà nuove strade per l’Europa, ancora una volta affidandosi a trafficanti di esseri umani. Magi suggerisce di stringere un accordo bilaterale Italia-Grecia per evitare che queste oltre 40mila persone cadano nelle mani dei trafficanti. Suggerisce di riconoscere, una volta in Italia, ai profughi provenienti dalla Grecia una protezione umanitaria temporanea che "permetterebbe il rilascio immediato di un permesso di soggiorno". Muniti di permesso di soggiorno, i rifugiati potranno viaggiare e sarà impossibile poterli respingere. È questo l’unico mezzo che l’Italia ha per esercitare pressioni sui paesi europei, per portare attenzione sull’ennesimo fallimento e l’ennesima violazione dei diritti umani. Del resto, conclude Magi, "i fondi enormi destinati alla Turchia sarebbero più che sufficienti per finanziare programmi efficaci di reinsediamento e ammissione umanitaria a livello Ue". Non abbiamo scelta. Non possiamo decidere se essere solidali o non esserlo. Dobbiamo accogliere, ne va del nostro futuro. Quello che sta accadendo in Francia, decine di migliaia di persone d’inverno, chiuse in lager, nel fango e in tende fatiscenti, se ce lo avessero raccontato dieci anni fa avremmo stentato a crederlo. C’è stata un’accelerazione nella storia che ha reso accettabili questi orrori. Noi, come generazione e in quanto italiani potremmo fare la differenza. Basta avere coraggio e guardare oltre. Brexit e migranti, non lasciamo che vinca l’Isis di Federico Fubini Corriere della Sera, 25 marzo 2016 Le stragi di Bruxelles servono per impedire a tutti noi europei di rispondere alle nostre crisi, appoggiandoci su un minimo di solidarietà e di buon senso. I terroristi non avrebbero potuto augurarsi di meglio. L’altra mattina a Bruxelles le salme erano ancora riverse nel metrò quando sono iniziate ad arrivare le prime dichiarazioni dei fautori della Brexit. Il senso di quelle reazioni da Londra, sempre lo stesso: il Regno Unito non sarà al sicuro finché non riesce ad alzare i ponti levatoi, staccandosi dall’Unione europea. "Bruxelles, capitale di fatto dell’Unione europea, è anche la capitale jihadista d’Europa. E ci vengono a dire che siamo più protetti se restiamo nella Ue!", ha scritto sui social network l’editorialista del Daily Telegraph Allison Pearson. Non c’è niente di casuale nel momento e nei luoghi scelti dall’Isis per terzo atto di guerra in Europa in poco più di un anno. L’attacco sarà stato precipitato dalla cattura di Salah Abdelslam, l’attentatore di Parigi. Ma il disegno e gli obiettivi nevralgici sembrano pensati direttamente per intossicare l’Unione europea, e impedirle di funzionare. Dalla minaccia di secessione britannica alla gestione dei rifugiati e dei migranti, i nostri nemici vogliono paralizzarci e dividerci grazie alle nostre stesse crisi. Colpiscono nei momenti e luoghi più adatti per impedire a mezzo miliardo di europei di vivere nell’ordine legale e politico costruito in tre generazioni. Naturalmente il referendum britannico del 23 giugno resta aperto; sarà deciso da vari fattori, molti dei quali interni al Regno. Ma la piega ferocemente pragmatica che ha subito preso la campagna per l’uscita dall’Unione mostra quanto sia lunga la catena del domino che adesso può partire. Alcuni dei pezzi minacciano di cadere nei prossimi mesi anche in Italia. Il referendum sulla Brexit non è il solo esempio, eppure coinvolge il nostro Paese per una ragione specifica: una vittoria nelle urne del "No" alla Ue, magari favorita dalla tragedia di Bruxelles, diventerebbe un precedente destinato a sollevare domande molto serie anche sul dopo. Se l’Unione europea perde pezzi, gli investitori tornerebbero a chiedersi se anche l’euro non rischi la stessa sorte. Molti si ricorderebbero di colpo che l’Italia, con il suo fragile debito da 2.200 miliardi, resta fra i Paesi più esposti in caso di frammentazione delle istituzioni europee. Per questo l’agguato a Bruxelles sembra studiato per infliggere il massimo danno politico, quasi che l’Isis cerchi di risvegliare i peggiori riflessi del continente. Basta rileggere le frasi pronunciate mercoledì da Beata Szydlo, premier della nuova Polonia nazionalista e euroscettica: "Noi leader europei credevamo di aver trovato un buon compromesso, una soluzione alla crisi dei rifugiati, perché eravamo riusciti a concludere un accordo con la Turchia", ha detto. "Ma è passato qualche giorno e improvvisamente i terroristi hanno ridicolizzato il nostro accordo, hanno mostrato all’Europa che nuove dichiarazioni, nuovi documenti, nuove trattative di ore e ore non significano molto". Anche in questo caso, l’Isis non poteva centrare meglio i suoi obiettivi politici. Bruxelles piange le sue vittime e la Polonia fa sapere, per prima, che si sfila dall’accordo sulla gestione dei rifugiati sottoscritto otto giorni fa a duecento metri da quella fermata del metrò ormai devastata. Varsavia non farà la sua parte, non accoglierà più la sua quota di 7.000 rifugiati siriani. È noto che, per quanto discutibile, il compromesso di Bruxelles si centra su un equilibrio preciso: la Turchia accetta di riprendere chiunque sbarchi senza i documenti in regola sulle isole greche, a patto che poi i profughi siriani vengano trasferiti nei Paesi europei in base a un sistema di quote. A ciascuno la sua parte di rifugiati, in proporzione. Se questo o quel governo iniziano a sottrarsi, perché considerano qualunque rifugiato siriano un potenziale terrorista, allora anche gli altri governi rischiano di voltare le spalle al compromesso per non doverne accogliere di più. Rischia di saltare l’intero compromesso, il primo in Europa sul tema dei rifugiati, dopo le stragi del 22 marzo. Ma senza accordo diventa impossibile tornare a un’apparenza di normalità e alla riapertura delle frontiere interne dell’Europa. Non poteva crearsi un terreno peggiore per le prossime decisioni, che servono tutte e urgentemente. Stima Federica Mogherini, alto rappresentante Ue della politica estera, che in Libia rimangono 450 mila persone in attesa di imbarcarsi per l’Italia. In gran parte sono migranti economici, non profughi. Significa che i tre miliardi di euro di aiuti promessi nel 2016 alla Turchia per collaborare in teoria andrebbero almeno triplicati, ogni anno, per poter cooperare con i Paesi limitrofi e poter contenere i flussi. Anche le regole sull’accoglienza e il diritto d’asilo vanno riviste al più presto, in modo da non scaricare tutti gli oneri sui Paesi mediterranei degli sbarchi ed evitare che gli altri chiudano i confini. Inutile girarci intorno: in gioco c’è (anche) l’accesso futuro dell’Italia all’area di libera circolazione di Schengen. Così le stragi dell’Isis a Bruxelles servono per impedire a tutti noi europei di rispondere alle nostre crisi, appoggiandoci su un minimo di solidarietà e di buon senso. Anche per questo è imperativo reagire per non consegnare ai nostri nemici questa indegna vittoria. La meritiamo noi. Papa Francesco lava i piedi ai migranti: "fratellanza è la risposta ai terroristi" La Repubblica, 25 marzo 2016 La risposta agli attentati di Bruxelles, papa Francesco la fa arrivare da Castelnuovo di Porto, dal centro di accoglienza per immigrati nei pressi di Roma. Ed è una risposta eloquente nei segni e nelle parole. Il pontefice si inchina davanti ai migranti, lava e bacia i piedi anche ai musulmani e a un indù. E nell’omelia afferma: "Tre giorni fa c’è stato un gesto di guerra, di distruzione. Noi qui abbiamo diverse religioni e culture, ma con questo gesto diciamo che siamo fratelli e vogliamo vivere in pace". Nel calendario cattolico è il Giovedì Santo, l’inizio del triduo che porta alla Pasqua e che vedrà il pontefice venerdì alle 21 presiedere la Via Crucis al Colosseo. Per le messa ‘in Coena dominì, con il rito della lavanda dei piedi, Francesco - che negli anni passati era andato in un carcere minorile, in un centro per disabili e anziani e nel penitenziario di Rebibbia - ha scelto stavolta di raggiungere la struttura gestita dalla cooperativa sociale Auxilium, nella quale trovano ospitalità quasi 900 profughi. Il Papa non ha un testo scritto per l’omelia e le sue riflessioni partono dal racconto evangelico di Gesù che nell’ultima cena lava i piedi ai suoi discepoli, poco prima che Giuda vada a prendere il denaro per il quale lo ha tradito. Sono questi i due gesti contrapposti che Bergoglio associa all’attualità: come dietro Giuda ci sono quelli che hanno dato il denaro, dice, dietro i terroristi di oggi "ci sono i trafficanti di armi che vogliono il sangue e non la pace, la guerra e non la fratellanza". E come dal cenacolo di Gerusalemme, il messaggio contrario che parte da Castelnuovo è nell’umile segno che il pontefice compie piegandosi a fatica sulle ginocchia doloranti per dodici volte davanti ai giovani, una volontaria italiana cattolica e 11 migranti: 4 nigeriani cattolici, 3 donne eritree cristiano copte, 3 musulmani (un siriano, un pakistano e un maliano), un indiano di religione indù. Molti di loro hanno il volto rigato dalle lacrime mentre vedono Francesco baciare i piedi con i quali hanno affrontato i viaggi della speranza. Il Papa invita ciascuno a pregare "nella propria lingua religiosa" perché "questa fratellanza si contagi nel mondo, perché non ci siano le trenta monete per uccidere il fratello". Alla fine della messa, regala una somma di denaro ad ognuno degli 892 ospiti del centro. Arrivano anche 200 uova di Pasqua e i palloni da calcio e le palline da tennis autografati dai campioni, che li avevano donati a Bergoglio. Papa Francesco lava i loro piedi, la commozione dei migranti Condividi Il pontefice si ferma poi a lungo a salutare e stringere mani. Parla - facendosi aiutare da un interprete afghano, da un maliano e un eritreo - con la gente arrivata da 25 diverse nazioni. In mattinata, nella messa solenne in San Pietro durante la quale aveva benedetto l’olio del crisma usato durante l’anno per i sacramenti, aveva pronunciato proprio un appello perché i sacerdoti si identifichino "con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono". Tante volte, aveva aggiunto, "siamo ciechi non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate". E aveva messo in guardia da "un eccesso di spiritualità frizzanti, di spiritualità light". Il "piano segreto" della Ue: rimpatri in vista per 80 mila afghani di Emanuele Giordana Il Manifesto, 25 marzo 2016 Allo studio anche incentivi economici per il paese che dopo la Siria "esporta" in Europa il maggior numero di persone. È un’Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo - due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara - si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a "un’invasione" dall’Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. È un’"invasione" che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell’Hindukush. Che ha visto cercare la via dell’Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no. È questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi. Il documento delinea quello che la Ue avrebbe in mente per fermare chi bussa alle sue frontiere. E gli afgani sono una fetta rilevante: secondi solo ai siriani ma più numerosi degli iracheni. Il documento, che paventa "l’alto rischio di una nuova ondata migratoria" tenta di chiarire attraverso quale strada sia possibile impedire che il flusso di afgani in Medio oriente continui la sua marcia oltre la Turchia (dove già se ne trovano 100 mila, 80mila dei quali "documentati") per poi raggiungere la Grecia e da lì l’Europa: attraverso la via balcanica di terra o, come avvenuto per anni, sulle navi che attraccano in Italia. Ma come fermare il flusso degli afgani da un Paese che 15 anni di guerra ai talebani non sono riusciti a pacificare? Soldi. Tanti soldi. E accordi col governo afgano, in parte già negoziati in ordine sparso da alcuni stati membri anche con la mediazione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (con cui ora però, dopo l’accordo con Ankara, i ferri si son fatti corti). Il documento confidenziale indica negli incentivi economici la strada maestra di un accordo negoziato per trovare la "strada giusta" (Joint Way Forward) per far restare gli afgani a casa loro. Il governo è sensibile e il dialogo è già iniziato: il 40% del prodotto nazionale lordo afgano - dice il documento - dipende dall’aiuto internazionale (c’è chi sostiene sia molto di più ndr) anche perché i 2/3 della spesa del budget nazionale vanno nel capitolo "sicurezza", nella guerra in una parola. E interrompere o ridurre il flusso di aiuti, avverte Bruxelles, significherebbe far crollare la faticosa costruzione istituzionale messa in piedi a partire del 2001 dopo la rotta dell’emirato talebano. Gli afghani per altro, col governo amico di Ashraf Ghani, hanno già predisposto un piano per contenere un’emorragia di persone in continuo aumento (un sondaggio Gallup di ieri sosteneva che solo il 4% degli afgani ritiene che le cose stiano migliorando). È un piano che prevede investimenti nel settore dell’edilizia popolare, nella creazione di posti di lavoro e nella possibilità di negoziare flussi di lavoratori coi Paesi del Golfo (noti recettori di manodopera a basso costo e priva delle minime garanzie). Si tratta di sostenere lo sforzo. Dal punto di vista finanziario la Ue ha già messo sul piatto 1,4 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 - l’impegno più alto in assoluto di un singolo donatore in Afghanistan - ma conta di aggiungere subito altri 300 milioni e di accelerare le erogazioni del piano quinquennale. L’enfasi però, che inizialmente era su quattro settori chiave (agricoltura, salute, giustizia, governance), tende a spostarsi anche sul "restare a casa" o a favorire il quadro per ritornarci il prima possibile. Con pacchetti incentivo ad hoc sia per i rientri volontari, sia per quelli forzati ma stando attenti a "che ciò non attragga invece nuovi migranti". Un accento che si dovrebbe riflettere sulla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan che la Ue sta preparando per il prossimo ottobre e dove bisognerà convincere gli Stati membri a non mollare l’impegno. C’è fretta dunque e le cose andranno ben preparate entro l’inizio dell’estate. Puntando soprattutto più sull’aspetto degli incentivi "in positivo" - uniti al controllo dei migranti, alla sensibilizzazione sui rischi della corsa all’oro in Europa, all’istituzione di centri di documentazione e monitoraggio - che non sulla leva brutale del rimpatrio forzato. Che pure, avverte il documento, rischia di vedere 80mila afgani fare a breve ritorno a casa contro la loro volontà. La strada di un concordato tra Stati resta infatti in salita. E in salita è anche la strada che porta a Kabul. Il documento avverte che se il presidente Ashraf Ghani è sensibile al tema, molti altri componenti del suo governo fanno orecchie da mercante, evidenziando la dicotomia di un esecutivo a due teste (Ghani presidente e Abdullah a capo dell’esecutivo) che in questi mesi ha elargito all’opinione pubblica continue battaglie interne, dalla scelta dei governatori all’atteggiamento verso il processo di pace (vedi articolo a fianco). In questi giorni una mano arriva anche dal Giappone che ha reso noto di aver aumentato la quota di aiuto al Paese per 80 milioni di dollari. Con la differenza che nessuno bussa (o riesce a bussare) ai cancelli del Sol Levante. L’appuntamento dunque è per ora fissato a Bruxelles per il 4 e 5 ottobre, appuntamento che dovrebbe seguire un’interministeriale sempre in Belgio in estate. L’idea è arrivare alla Conferenza (seguito ideale a Bonn 2011, Tokyo 2012 e Londra 2014) in un clima di reciproca fiducia tra gli Stati membri della Ue e un’Afghanistan nel ruolo del partner affidabile. Preparando il terreno per tempo per fare in modo che gli effetti della guerra infinita non arrivino sempre più numerosi fino alle nostre frontiere. Save the Children: "negli hotspot in Grecia bambini detenuti illegalmente" Vita, 25 marzo 2016 Sempre più drammatica la situazione dopo l’entrata in vigore dell’accordo di respingimenti e ricollocamenti tra Unione europea e Turchia: "È inammissibile tenere richiedenti asilo in detenzione", sottolinea Valerio Neri, direttore dell’ong, nell’annunciare lo stop alla collaborazione con i centri delle isole chiusi all’esterno, seguendo quanto deciso da Msf e Unhcr nelle scorse ore Dopo l’annuncio dell’interruzione in Grecia delle attività nei centri di fatto divenuti di detenzione, a seguito dell’implementazione dell’accordo UE-Turchia entrato in vigore il 20 marzo 2016, Save the Children torna ad esprimere profonda preoccupazione per i bambini vulnerabili appena arrivati e le loro famiglie, che saranno sottoposti a una detenzione illegale e ingiustificata per lunghi periodi di tempo. Attualmente, tutti i richiedenti asilo e i migranti arrivati sulle isole dopo lunedì, a prescindere dal loro status, vengono rinchiusi nei centri di detenzione di nuova designazione fino a quando, in seguito ai loro colloqui individuali, viene emessa una valutazione sulla loro ammissibilità. "Le domande di asilo, i colloqui e le valutazioni possono durare settimane o addirittura mesi. Di conseguenza, i richiedenti asilo sono e saranno sottoposti a una detenzione illegale e contraria al diritto internazionale ed europeo in materia di diritti umani", dichiara Valerio Neri, direttore generale di Save the Children, l’Organizzazione dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e tutelarne i diritti. Nonostante la Commissione Europea abbia chiarito che "i migranti irregolari potranno essere trattenuti all’interno di centri di ricezione chiusi sulle isole greche, mentre i richiedenti asilo verranno alloggiati in centri di ricezione aperti", secondo quanto osservato dai team di Save the Children sul campo, allo stato attuale ciò non sembra corrispondere alla realtà. "Non è assolutamente possibile trasformare da un giorno all’altro gli hotspot di ricezione in centri di detenzione rispettando i requisiti legali internazionali ed europei. A fare le spese di questa scelta saranno soprattutto i bambini. Sappiamo già che tra coloro che verranno sottoposti a detenzione ci saranno i minori non accompagnati, soggetti particolarmente vulnerabili che richiedono un sostegno specializzato e una protezione che non possono ricevere in questi ambienti. Ricordiamo alle autorità che la detenzione dei bambini è illegale e non avviene mai nel loro superiore interesse", prosegue Neri. "Inoltre, il mantenimento dell’unità famigliare non deve mai essere usato per giustificare la detenzione dei minori. I bambini e le loro famiglie dovrebbero sempre ricevere adeguata accoglienza nel superiore interesse dei minori. La risposta ai bisogni umanitari e di protezione esistenti dev’essere una priorità assoluta, soprattutto ora che la situazione in Grecia peggiora di giorno in giorno." Save the Children ha sospeso fino a ulteriore comunicazione tutte le attività di supporto ai servizi di base nei centri detentivi a Lesbo, Chios, Samos, Los e Leros, incluso la fornitura di trasporto su autobus verso i centri a Lesbo, la distribuzione di utensili per la cucina, materiali per allestire i rifugi e abiti invernali e la distribuzione di cibo nel campo di Moria a Lesbo, che viene ora gestita dalle forze armate greche. "Manterremo invece la distribuzione di cibo in collaborazione con Oxfam esclusivamente nel campo di Kara Tepe, che è gestita dall’amministrazione locale e rimane una struttura aperta, così come manterremo alcune attività di protezione dei minori in tutti i centri chiusi, perché siamo molto preoccupati dalle condizioni di vita dei bambini che vivono al loro interno," afferma Neri. Save the Children considera allarmante la misura relativa ai rinvii forzati verso la Turchia, in particolare la possibilità che le domande di asilo possano essere rifiutate in Grecia senza un attento esame e senza garantire il diritto d’appello dei richiedenti asilo, a causa dell’attuale scarsa capacità del Paese. L’Organizzazione ribadisce la sua preoccupazione circa il piano che prevede che per ogni migrante rinviato in Turchia, un siriano sia ricollocato in Europa. "È vergognoso che l’Europa stia trovando il modo di fare retromarcia su impegni già presi, come quello di offrire opzioni sicure e legali di accesso ai rifugiati vulnerabili. Ogni giorno che passa il numero di queste opzioni sta diminuendo e il più delle volte si riduca alla necessità per i profughi di intraprendere viaggi pericolosissimi e rischiare la vita in mare", avverte Neri. "Appare evidente ed è per noi inaccettabile che il fulcro dell’accordo UE-Turchia sia la protezione dei confini, abdicando alla protezione e al salvataggio di migliaia di vite". Intanto nel campo di Idomeni le condizioni sono terribili: più di 10mila migranti, di cui oltre un terzo sono bambini, anche molto piccoli, continuano a vivere in condizioni inaccettabili, sotto la pioggia, in mezzo al fango e al freddo. Nonostante la tensione crescente nel campo, Save the Children sta continuando tutte le attività di distribuzione di abiti e cibo per le persone più vulnerabili, le attività di protezione per i minori non accompagnati e ha lanciato oggi un programma di nutrizione specifico per i neonati. Smantellato il Ghetto di Rignano, operazione contro i caporali di Gianmario Leone Il Manifesto, 25 marzo 2016 Blitz della Dda: 240 stagionali caricati sui pullman. Sono arrivati alle prime ore del giorno, a decine, per eseguire un decreto di sequestro probatorio con facoltà d’uso, disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, "per fare luce su possibili dinamiche criminali poste in essere nel campo, per quanto riguarda i reati di competenza della Dda". A eseguire il mandato gli agenti della questura di Foggia, che con il supporto di carabinieri e del corpo forestale dello Stato hanno caricato sui pullman 240 lavoratori stagionali, sugli 800 presenti attualmente, che risiedono abitualmente nel famoso "Gran Ghetto" di Rignano Garganico, che durante l’estate per la raccolta dei pomodori arriva a "ospitare" quasi 1.500 persone. Il Gran Ghetto di Rignano Garganico, in provincia di Foggia, esiste da oltre dieci anni e copre un’area dove un tempo erano presenti una decina di vecchie masserie in muratura abbandonate e costruzioni improvvisate in lamiera, cartone e assi di legno, sparse nel mezzo della campagna di Rignano Scalo, ai piedi del Gargano. Centinaia di baracche ammassate senza luce, acqua e gas, dove auto abbandonate sono adibite a cassonetti della spazzatura. Dove polvere e fango fanno da contorno alla quotidianità dei "residenti" a seconda delle stagioni. Dove migliaia di persone, da anni e anni, vengono sfruttate dai caporali nei campi nell’indifferenza generale, se non fosse per le associazioni di volontari, le dure battaglie dei sindacati come la Flai Cgil Puglia, o a Radio Ghetto Voci Libere, un’esperienza di comunicazione partecipata, che dal 2012 tenta di dar voce ai braccianti sfruttati nelle campagne pugliesi, specie del foggiano. Inizialmente si pensava che il sequestro fosse correlato all’incendio che nella notte del 15 febbraio scorso aveva distrutto, anche grazie al forte vento, gran parte delle baracche di cartone e legno: un evento sul quale le indagini sono ancora in corso e dove non è chiaro se l’origine sia dolosa o da addebitare al cortocircuito di una stufa. Nel quale gli abitanti hanno perso quel poco che avevano: documenti, abbigliamento e viveri. Subito dopo i sindacati, Cgil, Cisl e Uil di Foggia, erano tornati a chiedere con forza alla Regione Puglia e al governatore Michele Emiliano un intervento risolutivo e definitivo, "per cancellare dal territorio regionale pugliese una vergogna che ne pregiudica l’immagine, a livello nazionale ed internazionale, ma soprattutto per garantire alle persone un sistema di accoglienza organizzata degno di un Paese civile". In realtà, l’intervento della Dda, è da collegare in particolare alle indagini in corso da mesi sullo sfruttamento dei lavoratori stagionali da parte dei caporali e delle aziende agricole del territorio e su possibili dinamiche criminali poste in essere nel campo. Quella del foggiano è da sempre una delle zone più colpite dal caporalato: basti pensare che oltre a quello di Rignano, ci sono il "Ghetto Ghana House" a Cerignola, il "Ghetto dei bulgari", nei pressi di Borgo Mezzanone, e l’insediamento presso la pista dell’ex aeroporto militare attiguo al Cara di Borgo Mezzanone. Luoghi dove diverse decine di abitanti del ghetto di Rignano si sono già spostati per trovare un nuovo alloggio. In tutto sono 55 ghetti i pugliesi: 40 quelli più numerosi dove vi sono oltre 100 "ospiti". Sono invece almeno 50 mila i lavoratori a nero nelle campagne pugliesi. La scorsa estate sono stati ben 4 le morti nelle campagne pugliesi: i decessi sono avvenuti tra le campagne dei Salento, del Barese e del Potentino, durante l’orario di lavoro. Egitto: "gang criminale dietro la morte di Giulio". Poi la smentita di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 marzo 2016 Egitto. Ieri la polizia ha ucciso i membri di una banda. Fonti la indicavano come la responsabile dell’uccisione di Regeni, ma le autorità hanno negato. Ma la verità è ancora lontana e la conferma del ministro degli Interni ricorda a tutti il ruolo dei servizi. Ieri pomeriggio le parole del procuratore del Cairo Cherif Abd El Monim hanno sgonfiato le voci che circolavano intorno al caso di Giulio Regeni: le indagini lampo, ha detto, hanno chiarito che i cinque criminali uccisi nella capitale non erano legati alla sparizione, le torture e la morte del giovane ricercatore italiano. Tutto era partito con le dichiarazioni rilasciate da un anonimo funzionario della sicurezza egiziana al quotidiano al-Watan: la polizia, in uno scontro a fuoco nella capitale, ha ucciso i membri di una gang specializzata nel rapimento di cittadini stranieri e responsabile della morte di Giulio. Secondo le autorità locali i criminali, provenienti dal governatorato di Sharqiyya, a nord della capitale, erano soliti travestirsi da poliziotti. Su questo elemento si sarebbe basata la soffiata della fonte. Una prima smentita era giunta poche ore dopo: il quotidiano filo-governativo al-Ahram, citando altre fonti, negava il collegamento tra il caso Regeni e la banda in questione. Nel frattempo il Ministero degli Interni pubblicava un comunicato nel quale si limitava a riportare dell’eliminazione di "una gang di criminali che si travestivano da poliziotti, specializzati nel rapimento e la rapina di stranieri". Nessun riferimento al ricercatore italiano. Poi, l’intervento del procuratore del Cairo ha messo a tacere le voci che avevano creato non poco scompiglio nei media italiani: un giorno dopo la conferma di Magdi Abdel Ghaffar a ministro dell’Interno (chiaro messaggio di sostegno alle forze di polizia e ai servizi segreti egiziani da parte del presidente al-Sisi), sembrava che l’Egitto tentasse di nuovo di rifilare all’Italia la storia della banda criminale per chiudere il caso Regeni. Così non è. Ma che Il Cairo abbia o meno provato a rigiocarsi la carta della criminalità, resta l’assenza assordante dell’"inchiesta trasparente" che al-Sisi aveva promesso. La risposta più onesta Il Cairo l’ha data proprio giovedì quando dal rimpasto di governo ha salvato l’uomo simbolo del fumo intorno all’uccisione di Giulio. Di certo quella conferma è un messaggio ai tanti che in Egitto alzano la voce contro i metodi repressivi del governo. Il clima da caccia alle streghe avvolge tutto e viene colpevolmente riprodotto da ogni strumento nelle mani del presidente, dalla magistratura alla polizia, dal parlamento alla stampa. Non è un caso che una decina di giorni fa la reazione dei media filo-governativi e di buona parte dei parlamentari alla risoluzione Ue che condannava l’assassinio di Giulio sia stata quella di accusare di corruzione la Fratellanza Musulmana. Ormai rientrati nella lista delle organizzazione terroristiche, come successo più volte nella loro storia, ai Fratelli Musulmani è stato imputato di aver corrotto membri del parlamento europeo perché votassero una risoluzione che condannava "un caso che non è isolato, ma che si è verificato in un contesto di torture, morte in prigione e sparizioni forzate". Subito si è scatenata la macchina della propaganda: i giorni seguenti giornalisti, commentatori tv, analisti sono accorsi in televisione per dimostrare l’esistenza di una cospirazione tra europei e islamisti volta a isolare l’Egitto. E c’è chi, come il noto presentatore di talk show, è arrivato a dire che l’ambasciata italiana sta volutamente nascondendo prove che dimostrerebbero che Regeni è stato ucciso per una disputa personale. Il sistema funziona come un novello Grande Fratello. Poche le voci critiche che non siano state già isolate o punite. Da fuori sono le organizzazioni per i diritti umani ad alzare la voce: mercoledì Amnesty International, Human Rights Watch e altre 12 associazioni, insieme all’Alto Commissario Onu ai Diritti Umani Zeid Ràad Al Hussein, hanno fatto appello al Cairo perché interrompa la politica repressiva nei confronti di attivisti e organizzazioni per i diritti umani, fatta di arresti, detenzioni, divieti di lasciare il paese, congelamento dei beni personali e familiari. "La società civile egiziana viene trattata come un nemico dello Stato, invece che come un partner per la riforma e il progresso", il commento di Said Boumedouha, vice direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa. La mobilitazione online di Cild e Antigone Il 25 gennaio scomparve al Cairo Giulio Regeni. Dopo pochi giorni il giovane ricercatore italiano fu trovato morto e sul suo corpo erano evidenti i segni delle torture. "Noi vogliamo tenere alta l’attenzione su questa vicenda" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e Cild. "Dopo due mesi siamo lontani da qualcosa che assomigli alla cooperazione giudiziaria. L’impegno del Presidente egiziano Al-Sisi non ha prodotto fatti concreti. Siamo fermi e cresce pericolosamente il rischio dell’impunità". Per questo motivo Antigone e Cild lanciano, per il 25 marzo - a due mesi dal rapimento di Regeni - una mobilitazione online. "L’invito che rivolgiamo a tutti - dice ancora Gonnella - è quello di farsi una foto con un cartello in mano nel quale ci sia scritto semplicemente "Verità per Giulio", condividendolo sui propri account social e accompagnandolo da invito al governo italiano affinché aumenti l’impegno e le pressioni su quello egiziano per una reale e fattiva collaborazione nella ricerca dei colpevoli di questo crimine". L’hashtag dell’iniziativa è #VeritaPerGiulio, che riprende la mobilitazione lanciata da Amnesty International Italia a cui hanno aderito cittadini, associazioni e istituzioni, tra cui il Comune di Milano e quello di Bologna. Nei giorni scorsi Cild ha tradotto e pubblicato un’inchiesta dei giornalisti egiziani di Ahmed Ragab e Mustafa al-Marsafawi sulla morte di Regeni. Dopo la strage di Bruxelles vacilla il governo belga di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2016 Gli attentati che a Bruxelles martedì hanno fatto 31 morti stanno mettendo a dura prova il futuro del governo belga. I ministri degli Interni e della Giustizia, Jan Jambon e Koen Geens, hanno presentato le dimissioni, rifiutate per ora dal premier Charles Michel. Il gesto dei due uomini è giunto sulla scia di una confusa e imbarazzante vicenda, se è vero che le autorità turche avrebbero avvertito le autorità belghe fin dal 2015 della pericolosità del kamikaze suicida Ibrahim El Bakraoui. In un discorso ad Ankara, il presidente Erdogan aveva spiegato ieri che El Bakraoui era stato arrestato in Turchia nell’estate scorsa ed espulso verso l’Europa. Oggi, all’agenzia di stampa Reuters, funzionari turchi hanno dato maggiori precisazioni. L’uomo è stato arrestato ed espulso due volte. La prima volta in luglio; la seconda volta in agosto, dopo che era rientrato nuovamente nel paese dall’aeroporto di Adalia. El Bakraoui è il terrorista che si è dato la morte martedì nell’aeroporto di Bruxelles. Sia Jambon che Geens hanno presentato questa mattina le loro dimissioni., respinte dal primo ministro. In una intervista televisiva mercoledì sera, Geens si era difeso in modo piuttosto ambiguo. Aveva smentito che vi fosse stata "estradizione". Aveva poi aggiunto: "Secondo le informazioni che ho ricevuto dalla Procura federale, l’uomo sarebbe stato espulso verso l’Olanda, non verso il Belgio". Il governo dell’Aja ha confermato l’accaduto, almeno per quanto riguarda l’espulsione avvenuta in luglio. L’Olanda ha anche precisato che la Turchia non aveva dato informazioni particolari sull’individuo espulso. Successivamente, questa sera, alla fine di una riunione straordinaria dei ministri degli Interni e della Giustizia dell’Unione, lo stesso Geens ha spiegato che le autorità belghe ignoravano che El Bakraoui fosse un foreign fighter, un uomo partito combattere nella guerra civile in Siria, precisando che informazioni preoccupanti sull’individuo sono arrivate troppo tardi. Interpellato dal giornale Le Soir, Jambon ha ammesso invece che "vi sono stati errori al ministero della Giustizia e da parte dell’ufficiale di collegamento belga in Turchia". Più in generale, da più parti il Belgio è accusato di avere sottostimato la minaccia terroristica. Il quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che il governo belga era stato informato con precisione - presumibilmente dal governo di Israele - del rischio di un doppio attentato, all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles. Alcune delle persone coinvolte negli attentati di martedì, che oltre a 31 morti hanno provocato 270 feriti, erano note alla polizia belga. Ibrahim El Bakraoui era stato condannato a nove anni di prigione nel 2010 per aver sparato contro dei poliziotti, ma era stato liberato già nel 2015. Il fratello Khalid El Bakraoui, morto suicida alla fermata Maalbeek della metropolitana bruxellese, era stato condannato nel 2011 a cinque anni di detenzione per avere rubato una auto, minacciando di morte il guidatore. Dinanzi alle critiche e agli interrogativi del momento, il premier Michel ha assicurato questo pomeriggio che nelle indagini "non vi saranno zone d’ombra", né "impunità". Sul futuro del governo belga, che ha ridotto il grado di allerta nel Paese da 4 a 3, prevale l’incertezza, a dispetto della decisione di Michel di respingere le dimissioni dei due ministri. È probabile che il Parlamento federale decida di aprire una commissione d’inchiesta per capire esattamente quanto sia successo. Sul fronte dell’inchiesta, intanto, la polizia belga sta dando la caccia a una persona che avrebbe partecipato all’attacco all’aeroporto, colto in una immagine televisiva. Un altro presunto terrorista sarebbe stato alla fermata di Maalbeek, ma non è ancora chiaro se sia morto nell’esplosione o se sia in fuga. Infine, Salah Abdeslam, l’uomo arrestato a Bruxelles venerdì scorso e accusato di avere organizzato gli attentati parigini del 13 novembre scorso, ha chiesto di essere estradato verso la Francia al più presto. L’Aja condanna Karadzic di Andrea Oskari Rossini Il Manifesto, 25 marzo 2016 Corte Onu. 40 anni per crimini di guerra e genocidio ma "solo" per la strage di Srebrenica nel 1995. Alla fine, il verdetto ha deluso sia le vittime che la difesa. Vasvija Kadic, dell’associazione Madri di Srebrenica, ha definito "vergognosa" e "offensiva" la condanna di Radovan Karadžic a 40 anni, e non all’ergastolo. Il presidente dell’associazione dei veterani della Republika Srpska, Milomir Savicic, ha invece definito "ingiusto" il verdetto, mentre gli avvocati della difesa annunciavano il ricorso. Sono passati troppi anni, venti, dalla fine della guerra, e in questi anni le diverse narrazioni sugli anni ‘90 non hanno fatto che allontanarsi, in un paese in cui tutto, a partire dal sistema dell’educazione, è diviso. Era dunque prevedibile che ognuno si sarebbe sentito rafforzato nelle proprie opinioni dalle parole del giudice O-Gon Kwon, qualunque esse fossero state. Quelle parole, però, sono state sufficientemente chiare, indipendentemente dal computo della sentenza. L’ex leader dei serbo bosniaci è stato condannato per genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, terrore, in un contesto che ha ricostruito gli anni 92-95 ricordando le decine di migliaia di persone rinchiuse nei campi di concentramento, uccise, allontanate dalle proprie case. È caduta, però, l’accusa di genocidio nelle altre zone della Bosnia Erzegovina, oltre a Srebrenica, in particolare nelle sette municipalità di Kljuc, Sanski Most, Prijedor, Vlasenica, Foca, Zvornik e Bratunac. Secondo la versione del Tribunale, dunque, il genocidio è stato commesso solo nel luglio 1995, a Srebrenica, ma la leadership serbo bosniaca non aveva un piano genocidario nei confronti della popolazione bosniaco musulmana fin dall’inizio del conflitto. È questa la parte della sentenza che più è stata criticata dai sopravvissuti e dalle associazioni delle vittime. Munira Subašic, presidente delle "Madri delle enclave di Srebrenica e Žepa", ha dichiarato che non era importante la lunghezza della condanna, ma la ricostruzione precisa di quanto avvenuto, auspicando proprio che la Procura riesca in appello a presentare le prove dell’esistenza di quel piano genocidario sin dal 1992. Karadžic, che aveva chiesto per sé il proscioglimento, ha ascoltato impassibile la sentenza. Negli oltre cinque anni di processo, durante i quali hanno testimoniato quasi 600 persone, la sua versione dei fatti e quella del procuratore, Alan Tieger, sono rimaste inconciliabili. Nella lunga requisitoria finale, il procuratore lo ha definito "un bugiardo" per 40 volte. Impossibile ricostruire la parabola personale e politica di un uomo che, prima di vestire i panni del più acceso nazionalista, era considerato una persona mite dai propri concittadini, e che nel periodo jugoslavo era salito agli onori delle cronache solo per qualche piccola truffa. Molti hanno cercato di spiegare la trasformazione con la sindrome del ragazzo di campagna che, arrivato in città, sviluppa un risentimento patologico nei confronti della "gradska raja" di Sarajevo, dell’élite culturale urbana che non lo aveva sufficientemente apprezzato. Un altro ragazzo proveniente da uno sperduto villaggio del Montenegro, a pochi chilometri da quello in cui era nato Karadžic nello stesso anno, il 1945, Marko Vešovic, ha avuto però una storia radicalmente opposta, scegliendo di restare nella città assediata e continuando a scrivere i suoi versi, tra i più belli della letteratura di questa regione. Un altro grande poeta sarajevese, Abdulah Sidran, ha parlato invece della propria generazione, la stessa di Karadžic, come di una generazione "il cui destino era nelle mani dei padri", costretti da un ineluttabile karma a seguire le impronte di chi li aveva preceduti. Tra i molti esempi che Sidran cita a sostegno della tesi c’è proprio Karadžic, figlio di un esponente del movimento cetnico, cioè monarchico, nazionalista e anticomunista durante la Seconda Guerra Mondiale. Quel che è certo è che l’ex psichiatra, a prescindere dalle motivazioni che lo hanno portato a vestire i panni del nazionalista estremo alla fine degli anni ‘80, e che già prima della guerra minacciava il popolo musulmano di "estinzione", è riuscito nei propri intenti. Non nell’eliminazione degli altri popoli, ma nella distruzione di un’idea di Bosnia Erzegovina che esisteva prima della guerra, soprattutto nei grandi centri urbani, Sarajevo, Tuzla, Mostar, Zenica, Banja Luka. Nel cuore dei Balcani, la stratificazione di molteplici provenienze culturali, nazionali, religiose, di diversi grandi racconti, aveva contribuito alla formazione di una nuova identità, basata sulla somma di differenze. Una società incomprensibile per l’Europa odierna, che tutt’al più concepisce l’integrazione come adeguamento alla narrazione della maggioranza. La base della società bosniaca, in particolare nelle città, era costituita da famiglie che celebravano nello stesso focolare domestico sia il Natale che il Bajram, un’eresia per i nazionalisti. Il contesto era quello di rapporti sociali che "non ci permettevano di pensare che la guerra fosse possibile", come ha scritto il giornalista e diplomatico sarajevese Zlatko Dizdarevic. Tutto questo, oggi, non c’è più. In gran parte grazie all’azione di Radovan Karadžic, la cui paranoia nazionalista, nel 1992, aveva un elemento in più rispetto a quella degli altri, cioè l’esercito di Slobodan Miloševic. Che intervenne immediatamente, dalla primavera di quell’anno. Che sia stato un genocidio oppure no, quello del ‘92, è questione per gli avvocati e i giuristi. Così come il fatto che anche altri abbiano seguito entusiasti quel percorso criminale, per distruggere l’utopia jugoslava. La sostanza è che l’iniziativa della leadership serbo bosniaca di quegli anni è riuscita a distruggere non solo una società, ma anche un’idea di Bosnia Erzegovina. Questo i giudici lo hanno confermato. Troppo tardi, però. Il business legale della marijuana discrimina i neri statunitensi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 25 marzo 2016 Barack Obama si accinge a lasciare la presidenza di un’America che nei suoi anni è divenuta più aperta su molte questioni etiche e sociali ma nella quale restano - e, anzi, aumentano - diffidenze nei confronti dei cittadini di colore. Con l’industria petrolifera in pieno "sboom", dopo la ricca stagione dell’espansione dello shale gas, a causa del crollo dei prezzi dell’energia, e con l’economia digitale che non si sviluppa più ai ritmi del passato, l’unico settore dell’economia Usa ancora in crescita tumultuosa è quello del business della cannabis. Ormai del tutto libera in cinque Stati e legale dietro prescrizione medica in altri 23, l’industria della marijuana sta creando in varie regioni molto lavoro nella coltivazione, produzione e distribuzione di questa droga. In Colorado, uno dei primi Stati a liberalizzare, il giro d’affari ha già raggiunto il miliardo di dollari. Ma, a parte i rischi insiti in un affare che rimane comunque "border line" (legale a livello locale ma ancora considerato fuorilegge a livello federale) quello della "pot economy" è un altro settore nel quale gli afroamericani sono discriminati. Anzi, sono pressoché esclusi da ogni attività. Non esistono statistiche ufficiali, ma dalle verifiche fin qui fatte, sui circa 3500 negozi che vendono marijuana negli Stati Uniti, solo una trentina sono gestiti da neri. Quando un’attività viene legalizzata, chi la controllava in modo clandestino dovrebbe avere il vantaggio dell’esperienza e della conoscenza del mercato. Nel caso degli afroamericani questo non avviene. In qualche caso per motivi in parte comprensibili: non vengono rilasciate licenze per vedere cannabis a chi in passato ha avuto problemi con la Giustizia anche solo per consumo di droghe. E questo già esclude moltissimi neri che, come si sa, vengono controllati dalla polizia (e, quindi, trovati in possesso di sostanze proibite) molto più spesso dei bianchi. Ma anche chi è in regola con la legge spesso non può fare strada in questo campo: perché non riesce a ottenere il credito necessario per iniziare la sua attività (mediamente per partire servono 250 mila dollari) o per problemi di "stigma": il bianco che traffica con la cannabis viene visto come un erede un po’ svagato degli "hippy" di mezzo secolo fa. Un nero che maneggia marijuana viene associato molto più facilmente ad attività criminali. Barack Obama si accinge a lasciare la presidenza di un’America che nei suoi anni è divenuta più aperta su molte questioni etiche e sociali: dalla legalizzazione dei matrimoni gay, una scelta approvata da una vasta maggioranza degli americani, alla tolleranza per l’uso di droghe leggere (58% dei cittadini pro depenalizzazione). Ma nella quale restano - e, anzi, aumentano - diffidenze e discriminazioni nei confronti dei neri.