Quei paragoni sbagliati sull’Isis di Paolo Mieli Corriere della Sera, 24 marzo 2016 Evocare il fascismo o il nazismo porta a semplificazioni molto pericolose. Nelle ore successive agli attentati di Bruxelles è risuonato il consueto anatema: gli uomini del Califfato sono dei fascisti e li sconfiggeremo come settant’anni fa facemmo con i loro predecessori in camicia nera. Parole del genere sono state pronunciate, con le migliori intenzioni, anche dal nostro presidente del Consiglio. Che non è stato certo il primo. A dicembre il laburista Hilary Benn, ministro degli Esteri del gabinetto ombra britannico (nonché figlio di Tony Benn a suo tempo leader dell’estrema sinistra inglese) sorprese la Camera dei Comuni sostenendo che quelli dell’Isis sono uguali ai fascisti e perciò meritavano i bombardamenti decisi dal governo Cameron. Il capo del suo partito, Jeremy Corbyn, aveva chiesto che si votasse no a quell’azione militare, ma Benn riuscì a trascinare dalla sua, a favore del sì, molti parlamentari del Labour. Quindici giorni fa, il segretario di Stato americano John Kerry non ha parlato esplicitamente di fascismo ma ha accusato di genocidio gli uomini del Califfato e ha sposato la risoluzione del repubblicano del Nebraska Jeff Fortenberry che contro i jihadisti ipotizzava addirittura azioni sul terreno. Nulla da eccepire su questi abbracci tra opposti in chiave anti Daesh. Anzi. Ma l’evocazione del fascismo può indurre a commettere errori. In che senso? L’assimilazione di Al Baghdadi a Hitler può essere fatta risalire, nella discussione attuale post 11 settembre, a Christopher Hitchens che, riferendosi a Bin Laden e ai musulmani radicali, inventò il termine "islamofascismo". Fu più sottile Paul Berman, secondo il quale il movimento islamista sarebbe un ibrido: il califfato islamico, osservò, affianca una lettura apocalittica dell’Islam con una burocrazia da stato di polizia che ha poco a che fare con le tradizioni ottomane del lontano passato, ma deve molto al partito Baath, basato sul modello sovietico; il concetto islamista della cospirazione demoniaca degli ebrei invece è un’eredità nazista. Insomma ci troveremmo al cospetto di un’unione infernale tra il peggio della storia d’Europa e di quella del Medio Oriente. Niall Ferguson ha contestato queste tesi che riconducono l’oltranzismo musulmano alla categoria del fascismo. E così anche Ian Buruma, prendendo di mira "la nostra scarsa conoscenza della storia (limitata quasi esclusivamente al nazismo e alla Seconda guerra mondiale)" che ci impedirebbe, nei fatti, di scorgere altre analogie storiche destinate, forse, a rivelarsi più istruttive. La situazione attuale, secondo Buruma, non andrebbe assimilata alla Seconda guerra mondiale bensì alla Guerra dei trent’anni che tra il 1618 e il 1648 devastò l’Europa centrale. Una guerra considerata ancora oggi di natura religiosa, dal momento che vedeva opposti tra loro cattolici e protestanti, anche se i soldati mercenari (sia protestanti che cattolici) cambiavano fronte ogni volta che faceva loro comodo, i prìncipi protestanti tedeschi erano sostenuti dal Vaticano e la Francia cattolica appoggiava la Repubblica olandese (protestante). Ed è questo il punto. La Guerra dei trent’anni fu in realtà una lotta per l’egemonia tra la monarchia dei Borbone e quella degli Asburgo. Allo stesso modo - e lo si è definitivamente capito dopo quel che è seguito all’impiccagione dell’imam sciita Nimr al Nimr e altre quarantasei persone il primo gennaio scorso - la lotta tra Riad e Teheran, che fa da sfondo a tutti i conflitti del Medio Oriente. Una contesa che non è di natura solo religiosa, ma politica. Anche se lo scontro fondamentale, le cui origini risalgono a mille e trecentocinquant’anni fa, è quello tra sunniti e sciiti. Non si tratta, come potrebbe apparire, di dispute terminologiche. L’evocazione del fascismo e del nazismo rischia di indurci a qualche eccesso di semplificazione. Se davvero fossimo al cospetto di eredi di Hitler e Mussolini, basterebbe non ripetere l’errore compiuto nel settembre 1938 a Monaco allorché il primo ministro inglese Neville Chamberlain riuscì a far passare una politica di appeasement con la Germania nazista, sarebbe sufficiente resistere ad attentati comparabili alle bombe su Londra del 1940, e prima o poi schierare "sul terreno" i nostri eserciti. Così ne potremmo venire a capo come accadde nel giugno del 1944 quando le truppe alleate sbarcarono in Normandia e nel giro di due mesi liberarono Parigi. Si tratta solo di evitare qualche clamoroso errore, prepararci e attendere il momento propizio. Se invece lo scenario, per grandi linee, assomiglia di più a quello della prima metà del Seicento, dovremmo considerare più efficace il saper attendere, svolgere azioni mirate ad ottenere risultati provvisori, inviare contingenti per poi ritirarli prontamente (come ha fatto Putin in Siria) e soprattutto elaborare una politica delle alleanze di lunga durata che regga all’impatto emotivo di scelte riprovevoli o raccapriccianti dei partner locali che abbiamo scelto. I soggetti a fianco dei quali dovremmo combattere contro il califfato e affrontare i giganteschi problemi connessi a questa guerra (come i flussi migratori) sono quello che sappiamo: i due governi libici, la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, il regime di Damasco, quello di Bagdad, l’Iran, per non dire di quelli che hanno minore dignità statuale. Alcuni sono più affidabili, altri meno, altri ancora non lo sono per niente. Prepariamoci. E facciamo in modo di poter delineare una strategia a lungo termine che sia chiara per noi ma soprattutto per i nostri interlocutori. E che sia destinata a reggere nel tempo. Di anni, dall’11 settembre, ne sono trascorsi già quindici. E se l’attuale situazione non è molto migliore di quella che era nel 2001 (anzi, è andata via via peggiorando) forse sarebbe il caso di liberarci delle categorie che fissammo all’indomani dell’abbattimento delle Torri Gemelle e che ne definissimo di nuove. Adatte ad affrontare un conflitto che non sarà breve. Questione di intelligence di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 24 marzo 2016 Un tempo l’Italia aveva conoscenze sul Medio Oriente che oggi tornerebbero estremamente utili. Ripartire da Nicola Calipari per sconfiggere il Califfo. Prima al Qaeda, che continua a colpire in Africa, e ora lo Stato islamico di al Baghdadi in Europa. Il terrorismo è un’arma non convenzionale e non può essere sconfitta con bombardamenti o con i droni, anche i più sofisticati. Quando a colpire sono i terroristi della porta accanto e basta un taxista attento a segnalare un covo, che le forze di sicurezza belghe non avevano individuato, sorgono interrogativi tremendamente inquietanti. L’hanno detto tutti: la sicurezza belga è un colabrodo, peccato che Bruxelles ospiti, tra l’altro, la sede della Commissione europea e della Nato, obiettivi strategici quanto simbolici. Per combattere il terrorismo non bastano nemmeno le forze di sicurezza, anche le più preparate non lo sono per far fronte a questo tipo di arma destabilizzante. Occorre una strategia fondata su una conoscenza approfondita dell’ideologia che costituisce il supporto ideale e la base di reclutamento e finanziamento dei terroristi. Un’ideologia che sublima il martirio come passaggio a una vita celeste fatta di godimenti terreni. È una logica che sfugge a una cultura materialistica, ma che attrae anche molti occidentali in cerca di valori non effimeri. Chi può supplire a questa carenza di conoscenze interne a quel mondo? Solo un’intelligence che abbia come obiettivo quello di raccogliere informazioni non per giustificare un intervento militare o compiacere un governante ma per essere al servizio della sicurezza dei cittadini e dello stato. La parte politica alla quale appartengo è sempre stata diffidente quando non ostile ai servizi segreti per il ruolo che hanno avuto nel nostro paese e che spesso ancora hanno. Tuttavia c’è stata una parentesi nella nostra (nella mia) storia che ci ha fatto ricredere almeno sul ruolo di alcuni di loro: Nicola Calipari è stato fondamentale per la mia salvezza e quella di altri ostaggi, perché conosceva il terreno, sapeva come e con chi trattare, era consapevole che senza la conoscenza dell’intelligence non ci può essere una strategia politica. Questa posizione va contro la logica dei fondamentalisti, dei guerrafondai, dei mercanti d’armi e di coloro che non sono interessati alla soluzione dei conflitti se non quando garantiscono il soddisfacimento dei loro interessi. E gli interessi dei vari paesi europei spesso non coincidono e per questo non sono d’accordo sull’avere un sistema di intelligence europeo. Ognuno vuole coltivare il proprio orticello e/o la ex-colonia, conquistare nuove riserve di materie prime o espandere il proprio mercato. È un caso che Nicola Calipari sia stato assassinato dalle truppe americane e che la sua squadra - quella dei cosiddetti "calipariani" - sia stata messa fuori gioco? Eppure l’Italia aveva maturato in quel periodo una conoscenza del Medio Oriente che oggi sarebbe estremamente importante per agire politicamente e non solo militarmente su uno scenario che è molto vicino a noi. Lampedusa è più vicina alla Libia che all’Italia. E questo ci riporta alla questione dei profughi. In questo caso forse non si tratta solo di ignoranza ma di malafede dei governanti europei: come si possono consegnare i profughi che fuggono dalla guerra e dal terrore imposto dal Califfato a un governo fondamentalista come quello di Erdogan che ha sostenuto (e sostiene) i loro carnefici. Erdogan che bombarda i kurdi del Rojava, donne e uomini che difendono un modello di società laico e democratico, gli unici in grado di contrastare lo Stato islamico sul terreno militare pur non disponendo di armi sofisticate. Invece di aiutare i kurdi a ricostruire le città distrutte dai jihadisti l’Unione europea affida 6 miliardi di euro alla Turchia per sbarazzarsi dei profughi. Con gli stessi soldi quanti rifugiati avremmo potuto accogliere, inserire in Europa? Certo sarebbero venute meno le speculazioni che si fanno magari in vista delle elezioni. Soprattutto da parte di chi accomuna i profughi (le prime vittime del terrorismo) ai kamikaze. Ma Bruxelles, se ancora ce ne fosse stato bisogno, ha dimostrato che i terroristi sono tra di noi. E non sono i più emarginati, disagiati, maltrattati. Al contrario: sono preparati e dispongono dei mezzi per farci saltare per aria. Carceri: potenziale fabbrica di terroristi Isis di Valter Vecellio lindro.it, 24 marzo 2016 I servizi segreti lanciano l’allarme: le prigioni sono luoghi ideali per fare proselitismo. I primi allarmi dei servizi di sicurezza risalgono al dicembre del 2015: nelle carceri italiane sono detenuti migliaia di musulmani; spesso sono gli stessi detenuti a guidare la preghiera, le celle si trasformano in piccole moschee. Quanto basta per lanciare l’allarme: le prigioni, agli occhi dei terroristi, sono luoghi ideali per fare proselitismo. Il Sappe, uno dei principali sindacati di Polizia, conferma: nelle carceri si assiste alla "radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’ingresso in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati". Per questo il Ministero dell’Interno decide di rafforzare il monitoraggio di quanto avviene all’interno delle celle; e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Unione delle comunità islamiche in Italia hanno firmato un protocollo il cui obiettivo è portare imam "certificati" all’interno delle prigioni. È un problema, in Italia, quello di un possibile proselitismo dell’islam radicale ed estremista? Al momento è un fenomeno circoscritto. Tuttavia, nella relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo presentata nei giorni scorsi dal capo della procura Franco Roberti, non mancano i capitoli dedicati al terrorismo e al radicalismo di fede islamica. In uno di questi "capitoli" si parla della necessità di un adeguato monitoraggio della numerosa popolazione carceraria di fede islamica, per così individuare possibili forme di proselitismo. Il rischio è che si formino cellule terroriste. Per la Direzione antimafia e antiterrorismo, occorre "attenuare il bisogno di appartenenza ad un gruppo dei detenuti comuni di fede islamica" che, se abbandonati a se stessi, vivono la detenzione come un fallimento rispetto alle loro aspettative nel momento in cui sono giunti in Italia e possono pertanto essere attratti da un gruppo terroristico che li faccia sentire più importanti. Il rischio che il carcere possa diventare il luogo dove far crescere aspiranti terroristi è concreto. Vale l’esperienza francese, con i numerosi attentati di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in macchine da guerra jihadista. L’Italia non è al riparo: per la percentuale di detenuti di fede islamica (il 35 per cento del totale), ma soprattutto per il ‘vuoto’ per quanto riguarda le politiche di prevenzione e de-radicalizzazione nelle carceri. "È evidente", spiega il sociologo Khalid Rhazzali, autore del saggio "L’Islam in carcere", "come la dimensione prigione frequentemente porti, attraverso il sentimento di fallimento esistenziale e la relativa mortificazione, a un ritorno alla pratica religiosa". In Italia sono solo nove gli imam "certificati" che hanno accesso alle carceri. Un niente, se si considera che i detenuti di fede islamica sono oltre 10 mila. Non sorprende, dunque, che inizino a emergere le prime falle per la mancata prevenzione al radicalismo nei nostri istituti di pena. Più in generale bisogna considerare che in tutta Europa ormai esiste una vera e propria "fabbrica" di jihadisti disposta a mettere in essere attentati e stragi che poi vengono "firmate" dall’Isis. Una "fabbrica" che solo a Bruxelles può contare su un enorme "ghetto" dove vivono oltre centomila persone per lo più musulmani. Il legame tra la banlieue belga di Molenbeek e la jihad islamica è di lunga data: risale alle origini dell’ISIS in al Qaeda, da oltre un decennio ha ramificazioni tra il Vecchio Continente e il Medio Oriente. Un fenomeno difficile da conoscere, penetrare, indagare, contrastare. Finora, all’Italia, rimasta sostanzialmente fuori dai conflitti che insanguinano il Medio Oriente e i Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, è andata bene. Un ruolo sostanziale, e discreto, lo gioca anche il Vaticano, la diplomazia più attiva ed efficiente, al momento, con quella russa. Ciò non toglie che i servizi segreti italiani, che per quel che riguarda i Paesi arabi sono ancora tra i più efficienti, avvertono che è bene tener d’occhio quanto può accadere nelle carceri. "Senza allarmismi", raccomandano; ma aggiungono: "Prevenire è meglio che curare". Carcere e rischio terrorismo, "mediatori e lavoro contro la radicalizzazione" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 24 marzo 2016 "Ripartire da trattamento e occupazione", ha rimarcato il capo del Dap Santi Consolo, intervenuto alla presentazione del progetto "Sprigioniamo il lavoro". Il sottosegretario Migliore: "Se non c’è un’attenzione molto efficace sul tema della radicalizzazione in carcere, più preoccupazioni e più insicurezza in Italia". Il giorno dopo il massacro di Bruxelles, mentre l’Europa cerca un fronte comune con imponenti misure di sicurezza, Santi Consolo, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, lancia un messaggio forte e chiaro che mescola sapientemente ragione, sentimento e comprensione. "Le reazioni inconsulte sicuramente sono sbagliate", ha sottolineato il capo del Dap. L’occasione per parlare degli attentati di Bruxelles e del rischio radicalizzazione in carcere è arrivata questa mattina con la conferenza stampa indetta alla Camera dei deputati per presentare il progetto "Sprigioniamo il lavoro" che ad aprile partirà negli Istituti penitenziari di Parma. Sul tema della radicalizzazione si è soffermato in particolare il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, indicando gli strumenti per una efficace prevenzione. Tra questi anche l’aspetto lavorativo, ambito dal quale è partita l’analisi del capo Dipartimento. L’importanza del lavoro. E proprio dal lavoro, ha rimarcato Santi Consolo, bisogna ripartire. "Ho accolto di buon grado questa iniziativa per tutta una serie di ragioni - ha spiegato in apertura di intervento il capo del Dap -: prima di tutto perché la nostra amministrazione comincia a cambiare pelle, ad avere un atteggiamento e un ruolo diverso dal passato". Non ci si preoccupa più solo di "assicurare spazi decorosi per il pernottamento dei detenuti. E proprio in quest’ottica stiamo cominciando a fare interventi mirati, come quello in esame, che prevedono spazi riservati all’attività trattamentale. Il lavoro è l’elemento principale del trattamento e tutti dobbiamo avere consapevolezza del fatto che assicurare il lavoro alle persone detenute è il principale fine che insieme dobbiamo perseguire e ottenere". Il carcere da solo non basta. "Perché è così importante questo progetto? Perché in questa iniziativa abbiamo un incontro di intenti: il garante per i detenuti, il direttore di Parma, la nostra amministrazione, il ministero, gli enti locali e soprattutto le potenzialità imprenditoriali e artigianali di Parma. Tutto questo confluisce verso un’offerta di potenzialità di lavoro nel nostro ambito. Questo è un modo per offrire delle opportunità. Ma sicuramente noi ne dobbiamo assicurare altre". Tasso di recidiva troppo alto e rischio radicalizzazione. "In Italia abbiamo un problema di recidiva e un problema incipiente di radicalizzazione all’interno delle carceri - ha sottolineato Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia con delega per detenuti e trattamento: sapete tutti che Salah Abdeslam, il terrorista che è stato arrestato, responsabile della strage al Bataclan, era stato reclutato in carcere e che oggi il reclutamento e la radicalizzazione in carcere sono fenomeni da tenere sotto stretto controllo. Non voglio polemizzare con chi parla dei barconi mentre dovrebbe parlare dei terroristi, ma se non c’è un’attenzione molto efficace anche sul tema della radicalizzazione in carcere, con una capacità di investimento nei mediatori, nelle attività di risocializzazione, nelle attività lavorative, noi avremo più preoccupazioni e più insicurezza nel nostro Paese. Il carcere deve essere una parte funzionale della società. Non dev’essere uno strumento di lesione di diritti o una sorta di dimenticatoio nel quale rinchiudere persone di cui non parlare e non occuparsi più". Perché in Italia la repressione penale è più cool del diritto penale di Francesco Petrelli* Il Foglio, 24 marzo 2016 Si legge nel preambolo della seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1793 che non solo il disprezzo ma anche l’oblio dei diritti è causa delle sventure del mondo. Quello stesso "oblio" ci rende oggi dimentichi delle nostre prerogative, dei nostri pregi e delle nostre potenzialità, della nostra stessa natura. Ci fa dimenticare di ciò che fummo, e di ciò che potremmo essere. Ci convince che i diritti (i nostri e quelli altrui) siano piuttosto beni da negare, perché minacciano la nostra tranquillità e ci rendono responsabili della nostra stessa libertà. Non sono più i diritti al centro del dialogo fra individuo e potere, fra governo e cittadino, non più la richiesta di diritti e garanzie individuali, ma una generale richiesta di repressione penale. Perché l’ansia e l’incertezza non generano più nell’individuo un desiderio di limitare i poteri dello stato, di crescita degli ambiti di autonomia e di sviluppo della persona, ma producono solo la richiesta di un riconoscimento pubblico della propria debolezza, una continua cessione della propria sovranità individuale in cambio di sicurezza. Cresce così una richiesta di soddisfazione dei sentimenti di rifiuto dell’altro, di punizione di chi viola la propria pace e di chi minaccia il proprio territorio, la propria sfera di aspettative di sicurezza e di stabilità. Senza considerare che quel piccolo cerchio di tutela finisce così con lo stringere un inutile e misero recinto di illibertà, di "una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà". Il diritto penale, la sanzione, la repressione dei reati e la creazione infine di reati di nuovo conio, appaiono oggi le aspettative che meglio soddisfano le richieste della collettività. Non più il vedere riconosciuti diritti per se stessi, ma vedere sottratti i diritti degli altri è ciò che appaga e ciò che illude la postmodernità. Abbandonata la tradizionale aspettativa delle garanzie di libertà e di indipendenza per le nostre vite, chiediamo solo pene per le esistenze altrui, divenendo così vittime di una vera e propria dipendenza dalla penalità repressiva, "criminal law addict". Non si tratta, evidentemente, di non tenere conto della diffusa insicurezza (percepita), ma di rispondere correttamente alle legittime ansie di chi si sente esposto al delitto, informando che sono proprio l’assenza di trattamento e di misure alternative e la pura retribuzione a elevare il grado di recidiva e ad aumentare dunque l’insicurezza (effettiva). Il punto non è dunque, ovviamente, la rinuncia al processo e alle pene che esso eventualmente produce, ma di modularne la certezza in termini di "certezza del trattamento" e del recupero piuttosto che di esclusiva "certezza della retribuzione". Un popolo disinformato plaude invece soddisfatto vedendo che la "politica" risponde alle richieste di penalità. Ringhia all’apertura di tavoli sull’esecuzione penale che aprono a nuove forme di trattamento conformi al recupero e al reinserimento. Si va così costruendo una società nella quale il pensiero è orientato in senso manicheo e le categorie del male vengono disegnate di volta in volta intorno ai soggetti più disparati (politici corrotti, extracomunitari, impiegati fannulloni…) ma sempre con le medesime cadenze apodittiche e assertive per le quali il sospettato è già reo, l’arrestato è già condannato, il condannato è già reietto. Non solo, tuttavia, aumenti delle pene, abolizione dei benefici per i reati più gravi, certezza della pena come pura afflizione, caratterizzano il panorama, ma anche soprattutto l’elaborazione di nuove forme di glamour per la penalità, costruite coniugando sapientemente i vecchi e intramontati arnesi della gogna, dell’esposizione al ludibrio, della mortificazione e reificazione dei corpi in ceppi, con i nuovi sofisticati e ipnotizzanti gadget mediatici capaci di magnificare le sorti progressive di ogni indagine e le virtù palingenetiche dell’ultima retata. Specchio non esaltante di una società cinica e intollerante, dai modesti gusti estetici, in cui lo spettatore gode di questa banale rappresentazione del male e lo proietta sempre e solo fuori di sé. Ancora una volta "salvo". *Segretario dell’Unione delle Camere penali italiane Riforma della giustizia tributaria: giudici professionisti e ben pagati contro le tentazioni di Andrea Carinci Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2016 La giustizia tributaria necessita attenzione, considerazione e impegno, proporzionali al ruolo e all’importanza che essa ha nel sistema giustizia del Paese. Questo per molteplici, quanto intuitive, ragioni. Innanzitutto, perché tratta delle risorse - i tributi - che assicurano la sopravvivenza dell’apparato pubblico e, quindi, della stessa collettività nazionale. Il buon funzionamento della giustizia tributaria, in ultima analisi, finisce per rappresentare un fattore di buon funzionamento della macchina fiscale. Poi, perché involge situazioni soggettive di spessore costituzionale, quali sono il dovere di concorrere alle spese pubbliche e il diritto a una giusta imposizione (entrambi declinazioni dell’articolo 3 della Costituzione). Situazioni che, insomma, meriterebbero un apparato di tutela giurisdizionale adeguato al loro rilievo e spessore. Infine, e banalmente, perché i numeri del contenzioso sono impressionanti, sia per numerosità sia per i valori trattati. Tante ragioni che rendono incomprensibile il motivo per cui la giustizia tributaria venga trattata come una giustizia di serie B. Come una giustizia, in particolare, che non necessita (né merita) giudici specializzati e dedicati ma che può "accontentarsi" di giudici onorari, senza alcuna specializzazione né specifica formazione. Vero è che la giustizia onoraria sta prendendo sempre più piede negli ambiti tradizionalmente coperti da quella togata (si pensi allo spazio crescente lasciato nella prassi dei tribunali ai Got); ma questo, con ogni evidenza, non è una giustificazione, quanto semmai e solo la cifra di un decadimento complessivo del sistema giustizia in Italia. Il problema della giustizia tributaria viene da lontano. Le ragioni che hanno indotto a concepirla come una giustizia affidata a giudici non di carriera sono storiche e ben note, ma risalgono ai tempi in cui il diritto tributario non aveva ancora una propria dignità tecnico giuridica, al punto che i contenziosi erano essenzialmente su questioni meramente estimative. Le cose sono però cambiate. Nessuno può oggi dubitare dell’estremo tecnicismo della materia tributaria, come anche del processo, per cui non vi sono ragioni per non intervenire a riformare completamente la giustizia tributaria. Non il processo, che tutto sommato è un buon modello, ma proprio chi quel processo deve curare e gestire, ossia i giudici. Almeno quattro le direttive da prendere. Innanzitutto, la professionalizzazione dei giudici, che significa adeguata selezione, da un lato, ma anche aggiornamento permanente, sì da assicurare quella preparazione che appare necessaria per una materia che ha codici e regole assolutamente proprie e peculiari. L’auspicio sarebbe quello di arrivare addirittura a una Cassazione tributaria, sul modello tedesco, sempre più imprescindibile all’obiettivo di assicurare la funzione nomofilattica, soprattutto delle Sezioni unite. Corollario di tutto questo dovrebbe poi essere che la magistratura tributaria si componga di soggetti impiegati a tempo pieno e quindi, ovviamente, con la previsione di compensi adeguati. Anche qui non si comprende perché i compensi dei giudici tributaria debbano essere tanto irrisori, quando qui, più che mai, appare impellente l’esigenza di contrastare la tentazione alla corruzione. Infine, massimo rigore sulle incompatibilità. Fino ad ora le soluzioni ipotizzate per cercare di dare ordine - si pensi al contributo unificato e alle spese di lite (anche per la fase cautelare) - appaiono niente più che palliativi, tesi a contenere l’esplosione del contenzioso tributario piuttosto che ad ordinarlo. A parte la banale considerazione che è quanto meno contradittorio auspicare una riduzione del contenzioso e, al contempo, moltiplicare il novero dei soggetti legittimati all’assistenza, quando è notorio che aumentando i soggetti legittimati ad assistere in giudizio, aumentano le liti. Purtroppo, la verità è che la riforma della giustizia tributaria non è considerata una priorità e continua a essere rinviata. Ma è un approccio miope, che si accontenta di risparmiare oggi mantenendo uno status quo inefficiente, piuttosto che risparmiare domani, investendo nel sistema giustizia. Poi ci si indigna che la giustizia tributaria non funziona o che ci siano casi incresciosi di corruzione: a essere cinici e realisti, però, a sorprendere non dovrebbero essere i casi di corruzione, ma che, nonostante tutto, il sistema riesca a mantenersi nel complesso pulito. È ancora una volta il paradosso del calabrone, del "nonostante tutto". Ma quando deve durare? Il magistrato Armando Spataro "giustizia minorile, no a improvvisazioni" di Marina Lomunno Avvenire, 24 marzo 2016 Non intervengono solo i magistrati minorili nell’acceso dibattito di queste settimane sulla proposta di riforma allo studio del Parlamento che - in nome della razionalizzazione della spesa - mira ad abrogare i Tribunali per i Minorenni e le Procure Minorili, accorpandoli come "Sezioni specializzate distrettuali" ai Tribunali e alle Procure ordinari. Anche i giudici della giustizia ordinaria stanno esprimendo perplessità e invito alla cautela prima di smontare un ordinamento che funziona e che è considerato tra le eccellenze della giustizia italiana. Tra questi un magistrato di lunga esperienza come Armando Spataro, attuale procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino che sottolinea come la giustizia minorile costituisca di fatto un ordinamento totalmente diverso dalla giustizia ordinaria, a partire dalla competenze dei giudici che se ne occupano. "La preparazione specifica che deve avere un magistrato per occuparsi di minori - spiega il procuratore - non è una preparazione che si possa formare e arricchire in brevissimo tempo. Dunque se si immagina di poter facilmente trasferire e spalmare nelle Procure ordinarie, attraverso l’accorpamento, la cultura propria delle Procure minorili, a mio avviso, si sbaglia. Perché è ovvio che trattandosi di individui ancora in formazione, e non di adulti, occorre concentrarsi in quella funzione e su quei compiti specifici: io invidio le conoscenze e le competenze che hanno i colleghi delle Procure presso i minori e che noi delle Procure ordinarie non possiamo improvvisare. E questo è un ulteriore argomento che rafforza la cautela con cui si devono proporre accorpamenti o quant’altro". "Ed è per questo un grave errore - continua il magistrato - equiparare l’attività dei magistrati delle Procure minorili ad una possibile specializzazione interna di quelle ordinarie, come quella dei gruppi che si occupano di mafia, di terrorismo o di corruzione". Secondo Armando Spataro, concepire le riforme solo a partire dalla necessità - assolutamente condivisibile - di contenere i costi è una semplificazione che anziché sortire miglioramenti del sistema giudiziario può causare l’effetto contrario. "Riforme di questo genere, che mirano ad una riorganizzazione del sistema per renderlo più efficiente, hanno bisogno di ampie riflessioni che non mi sembra ci siano state - continua il procuratore. Quando parlo di differenze ordinamentali, voglio proprio dire questo: la giustizia minorile è una materia a sé, con un suo specifico. Un altro dato fondamentale da tenere presente è che l’attività dei procuratori presso i Tribunali dei minori è anche in buona parte una attività di prevenzione che si declina nell’attenzione alla crescita del minore, dell’ambiente in cui vive, all’intervento in suo favore non in quanto responsabile di un reato ma perfino come vittima. I minori sono persone ancora in crescita, in formazione". Il giudice Spataro avvisa che - qualora la riforma della giustizia minorile venisse approvata - la giustizia ordinaria non sarebbe in grado, anche per la drammatica carenza di personale amministrativo di cui soffre l’intero apparato giudiziario, di mettere in atto gli interventi di prevenzione specifici della giustizia minorile. "L’attività di prevenzione normalmente non è un’attività di nostra competenza - precisa il procuratore di Torino -. Le Procure ordinarie si occupano di trovare le prove di responsabilità degli autori di reati. E questa non è prevenzione, lo è solo indirettamente poiché se un criminale sta in carcere si spera che in quel periodo non possa commettere reati, anche a prescindere dall’attività di recupero e rieducazione che nelle carceri vengono attuate in vista del reinserimento del detenuto una volta scontata la pena. Ma non vi è dubbio, invece, che l’attività di prevenzione in senso proprio è tipica dell’attività della giustizia minorile: questa è forse la differenza sostanziale rispetto al sistema di giustizia ordinaria. Quindi, accorpando i due sistemi, si finirebbe anche con il danneggiare gli interessi e i diritti dei minori". Niente tenuità se c’è il veto del Pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2016 Il giudice non può dichiarare la non punibilità prevista dall’articolo 131-bis se le parti si oppongono. La Cassazione (sentenza 12305) accoglie il ricorso del Pm contro la scelta del Tribunale di applicare, l’articolo 131-bis, introdotto con il Dlgs 28/2015, malgrado il "veto" del Pm. Il tribunale aveva pronunciato la sentenza prima del dibattimento, come indicato dall’articolo 469 del codice di rito. Una scelta giustificata dal giudice di prima istanza da una lettura testuale della norma che, con il comma 1-bis prevede che la sentenza di non doversi procedere "è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile, ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale, previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa se compare". Il Tribunale, pur dando atto che l’uso della congiunzione "anche" conferma la necessità che al procedimento camerale partecipino imputato e Pm, aveva valorizzato l’essenza di qualunque espressa indicazione ad un loro potere di veto, previsto invece dal primo comma dello stesso articolo che regola gli altri casi di proscioglimento. Il legislatore avrebbe dunque inteso assicurare il contraddittorio ma non la possibilità di far scattare il semaforo rosso perché questo sarebbe in contraddizione con l’intento deflattivo della norma. Per il Tribunale il giudice, dopo aver sentito le parti, avrebbe una piena autonomia decisionale. Inoltre se il Pm, dopo aver esercitato l’azione penale, non ha richiesto l’archiviazione è certo che non cambierà idea: consentirgli di opporsi alla pronuncia dibattimentale vorrebbe dire sottoporre l’applicazione della norma ad una condizione impossibile. Di parere diverso la Cassazione. La Suprema corte nega che il legislatore abbia voluto differenziare la procedura con l’inserimento del comma 1 bis all’articolo 469 originario. La congiunzione "anche" ha solo un valore aggiuntivo e salda i due commi. La sola differenza fra il proscioglimento predibattimentale nell’ipotesi di non punibilità per l’articolo 131-bis e gli altri casi sta nella circostanza che, nella prima ipotesi, é previsto l’eventuale ascolto della persona offesa. Di un intento diverso da parte del legislatore non c’è traccia neppure nei lavori preparatori, mentre - sottolinea la Cassazione - la relazione al Dlgs si limita a precisare che la modifica all’articolo 469 è stata fatta per consentire alla persona offesa di interloquire sul tema della tenuità al pari dell’imputato e del Pm. Per la Cassazione non è neppure scontato che il Pm si opponga alla definizione predibattimentale. Il comma 1 bis, non pone, infatti, il Pm in una posizione diversa da quella in cui verrebbe a trovarsi nelle circostanze previste dal primo comma della norma che giustificano la pronuncia predibattimentale. In ultimo, seguendo il ragionamento del Tribunale sarebbe necessario accomunare la posizione del Pm a quella dell’imputato sottraendo quindi anche a quest’ultimo il potere di opporsi alla speciale tenuità. La Cassazione ricorda al contrario che sia il Pm sia l’imputato possono essere interessati a un diverso esito del procedimento: quest’ultimo per essere prosciolto nel merito o con una formula più favorevole che eviti l’iscrizione nel casellario, mentre il Pm potrebbe tendere ad attuare il principio di proporzione e meritevolezza della sanzione penale. "Troppo ricco, non può essere uno spacciatore" La Repubblica, 24 marzo 2016 La sentenza a Firenze. Il giudice ha ascoltato uno psichiatra, un commercialista e il padre dell’imputato, che era stato trovato in possesso di oltre 3.000 dosi medie giornaliere di cocaina. "Voleva farsi una scorta smisurata" Aveva un precedente per detenzione e spaccio di una modica quantità di stupefacenti nel 1996. Perciò il 21 febbraio 2015 la Guardia di Finanza, dopo averlo fermato per un controllo, perquisì la sua auto e vi trovò 12 involucri di cellophane che racchiudevano 597,6 grammi di polvere contenenti cocaina pura per 471 grammi, corrispondenti a 3.144 dosi medie giornaliere. Lo stupefacente doveva essergli costato non meno di 30mila euro. Arrestato per detenzione a fini di spaccio, l’uomo è stato processato in abbreviato. E assolto. "Se si esclude l’elemento del quantitativo detenuto - ha scritto in sentenza il giudice Paola Belsito - assolutamente nulla negli atti di causa permette di affermare che detenesse per spacciare". Non sono state trovate bilancine, né cellophane, né sostanze da taglio, né contatti telefonici con eventuali clienti. Richiamandosi alla Cassazione, secondo cui il possesso di droga in quantità superiore ai limiti massimi consentiti non costituisce prova decisiva della destinazione della sostanza allo spaccio, il giudice ha ritenuto che l’imputato, 42 anni, forte consumatore di cocaina e molto benestante, avesse comprato quelle migliaia di dosi per farne una provvista per suo uso personale. Prima di decidere ha ascoltato uno psichiatra, un commercialista e il padre dell’imputato, come richiesto dai difensori Massimiliano Manzo ed Emilio Bettini. Lo psichiatra ha spiegato che da giovane il suo paziente aveva fatto uso smodato di marijuana e poi era passato alla cocaina. Segnalato come consumatore nel 2014, non si era drogato per mesi. Nel febbraio 2015, pochi giorni prima del suo arresto, i controlli si erano conclusi in maniera positiva. Ma la lunga astinenza - secondo lo psichiatra - aveva scatenato in lui il craving, un bisogno incontenibile e urgente di droga. E poiché ha una personalità infantile e tende ad accumulare oggetti, cibo e denaro, probabilmente aveva deciso di accumulare anche cocaina. Per cui l’arresto era stato una "provvida disgrazia", perché rischiava altrimenti di assumere droga in dosi tali da morirne. Il commercialista ha illustrato le condizioni economiche della famiglia. Il padre, che gestisce una florida azienda, ha confermato che il figlio ha ricevuto doni in denaro ed eredità dai nonni, tanto che ora ha risparmi per 400mila euro. I genitori speravano che si comprasse casa e si facesse una sua vita, ma il figlio continua ad abitare con loro, a non spendere niente e ad avere un sacco di denaro. Conclusione del giudice: "L’imputato, grazie alla disponibilità economica, anche di denaro liquido, garantitagli dalla famiglia, e al fatto di essere un figlio e un nipote unico viziato oltre ogni limite, ha potuto coltivare il suo unico vizio pensando di farsi una consistente e smisurata scorta di droga risparmiando nell’acquisto". La procura generale ha impugnato l’assoluzione. Sottrazione di incapace se c’è il dolo di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2016 Sfugge alla condanna per sottrazione di incapace, la moglie che "preleva" il marito, infermo totale di mente, dalla struttura dov’è ricoverato, e lo porta con sé all’estero per mantenere l’unione familiare. A difettare, è la volontà di commettere il reato. Lo sottolinea il Tribunale di Cagliari, con sentenza n.3183 depositata il 2 gennaio scorso. Muove il caso, l’accusa mossa a una donna, di aver portato via dal luogo di ricovero il coniuge, incapace di intendere e volere al 100 per cento. L’uomo, anni prima, era stato colpito da infarto e, persa conoscenza per svariati minuti, aveva subìto perdita di memoria, incapacità motoria e difficoltà di parola. Di qui, l’ospedalizzazione e la nomina dell’amministratrice di sostegno. Sennonché, come riferito dall’assistente in servizio presso il Centro, la signora, dopo aver fatto visita al marito, né uscì, con la scusa di fare con lui una passeggiata, senza farvi più rientro. Destinazione? Spalato, dove si trasferì assieme alla figlia minore, già autorizzata dal Giudice a frequentarvi le scuole. Di seguito, però, recatasi con il coniuge presso il consolato italiano, il Console - pur riscontrando le gravi patologie sofferte dall’infermo - riuscì ad "apprendere dallo stesso la sua volontà di poter restare con la propria famiglia". Questi, infatti, riuscendosi ad esprimere persino in inglese, riferì (come riportato in verbale) il "desiderio di restare in Croazia col coniuge". L’istruttoria, dunque, non aveva fornito una prova inconfutabile della reale e assoluta mancanza di intendere e volere dell’uomo, sia per carenza di idonea certificazione medica, sia per quanto attestato dal Console. Del resto, al fine di dimostrarne l’effettivo stato di salute mentale, non poteva ritenersi sufficiente la mera sussistenza di una procedura di amministrazione di sostegno. Quanto, poi, all’elemento soggettivo del reato, il Tribunale ricorda che il delitto punito dall’articolo 574 del Codice penale sussiste ove si sottragga o si trattenga l’incapace contro la volontà dell’avente diritto (per esempio l’amministratore di sostegno). Tuttavia, perché scatti la condanna, va provata la coscienza e volontà di commettere il reato. Ebbene, nel caso concreto, la signora aveva avuto solo la volontà di portar via il marito dalla struttura di ricovero, ma non anche la consapevolezza di "porre in essere un’azione delittuosa e, in quanto tale, penalmente sanzionabile". La donna, difatti, pensava di far bene, adoperandosi per far sì che - come suggeritole dal giudice tutelare della figlia minore in territorio straniero - fosse mantenuta l’unione familiare (tanto che si era subito recata dal Console per informarlo di essere riuscita a ricompattare la famiglia). Si motiva, così, l’assoluzione con formula "perché il fatto non costituisce reato". Guida alterata, addio patente (massimo 3 anni) Italia Oggi, 24 marzo 2016 Chi incorre nel reato di guida alterata provocando per esempio un incidente stradale resta obbligatoriamente senza patente al massimo per tre anni. Questo perché il periodo di sospensione cautelare eventualmente disposto dal prefetto non si somma alla revoca triennale decisa dal giudice. Lo ha chiarito il Tar Lombardia, sez. I, Brescia, con l’ordinanza n. 117 del 2 febbraio 2016. La riforma stradale introdotta con la legge 120/2010 ha inasprito le conseguenze della guida alterata dall’alcol e dalla droga prevedendo all’interno degli articoli 186, 186-bis e 187 del codice la revoca per tre anni per i conducenti più negligenti. È il caso per esempio degli autotrasportatori professionali trovati gravemente alterati dall’alcol o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. Oppure più semplicemente di chiunque provochi un incidente con una quantità elevata di alcol nel sangue o sotto l’effetto di droghe. L’indicazione letterale però dell’art. 219/3-ter ha aperto dubbi sulla data di concreta applicazione della revoca da parte delle diverse motorizzazioni. Specifica infatti questo articolato che quando la revoca della patente è disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato. Per questo motivo il ministero dei trasporti ha richiesto un parere all’organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale il quale ha specificato che la data di accertamento del reato, da cui decorre il triennio per poter riottenere il titolo abilitativo alla guida, va intesa con riguardo al passaggio in giudicato della sentenza penale e non già con riferimento al momento in cui l’organo di vigilanza contesta l’infrazione. A parere del tribunale amministrativo questa interpretazione è corretta ma la sospensione cautelare disposta dalla prefettura è destinata a essere assorbita nella revoca disposta dal giudice penale "con detrazione del periodo di tempo già scontato". Dunque il tempo di inibizione triennale collegato alla revoca rappresenta la durata massima della sospensione della patente di guida. "Uepe dimenticati", lettera aperta al Ministro della Giustizia di Giuseppina Levita* Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2016 Caro Ministro, mi rivolgo a Lei con questa lettera aperta perché non posso rassegnarmi al fatto che un Servizio dello Stato, a cui tanto ho dedicato della mia vita e delle mie energie, continui ad essere ripetutamente e sistematicamente avvilito e misconosciuto. Sono finiti gli Stati generali sul carcere e sulla pena ed è avvilente vedere come, in un momento storico in cui si parla sempre più di ridurre l’eccessivo ricorso al sistema penitenziario, proprio i protagonisti del sistema alternativo delle pene (gli Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna) siano sempre più dimenticati, misconosciuti e messi da parte. Mi riferisco in particolare ad uno dei suoi ultimi interventi, in risposta ad una interrogazione parlamentare relativa alla Messa alla prova, in cui Lei ringraziava la Polizia Penitenziaria per il suo contributo su questa questione. Nessun accenno agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna che, ininterrottamente dal 1976, con pochi mezzi ed esiguo personale, hanno contribuito in maniera progressiva ed esponenziale a gestire le misure alternative alla detenzione, ad eccezione del successivo e breve ricordo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo. Ringraziamenti invece a chi mai nulla ha avuto a che fare con le Misure Alternative alla detenzione e con le Sanzioni di Comunità. Tali Misure, gestite interamente dagli U.E.P.E., al momento costituiscono quasi la parte più cospicua dell’esecuzione penale per quanto riguarda i condannati definitivi: a gennaio 2016 le Misure Alternative totali erano 32.273 a fronte di una popolazione detenuta di definitivi pari 33.995 su 52.475 detenuti ed internati presenti negli istituti di pena. Di questi ben 11.943 erano affidati in prova al servizio sociale e 6.166 erano i casi di lavori di pubblica utilità. Al dato complessivo delle misure alternative sono da aggiungere 6.880 persone in "messa alla prova" che non sono proprio entrate nel circuito penitenziario. Perché è questo il vero problema sul quale oggi si discute e si progetta: si tratta di prevedere un sistema sanzionatorio diverso dal sistema penitenziario che vada oltre quest’ultimo come in quasi tutti i sistemi europei ed occidentali. Ebbene, di fronte a tutto ciò ed all’imminente concretizzarsi dell’effettivo inserimento degli U.E.P.E. nel nuovo Dipartimento Minorile e delle Sanzioni di Comunità, non solo non viene speso da Lei un adeguato riconoscimento e ringraziamento per il lavoro svolto fino ad oggi dagli uffici di Esecuzione Penale Esterna ma si ritorna a parlare insistentemente della presenza della polizia penitenziaria in tali uffici: ben 1500 persone. A quale scopo? Per la sicurezza delle strutture? Per controllare i detenuti domiciliari al posto delle forze dell’ordine o in aggiunta ad esse? O anche per gestire l’Affidamento in prova al servizio sociale e la Messa alla prova che sono altro dal regime penitenziario e vanno oltre? Perché, se un settore ha funzionato bene producendo risultati con costi molto bassi anche se con grande difficoltà, bisogna ora stravolgere tutto con evidenti dubbi sul mantenimento dei risultati finora ottenuti e con costi che si moltiplicherebbero esponenzialmente? Di certo i numeri del personale di servizio sociale e del personale amministrativo degli U.E.P.E sono sempre più esigui e sempre più in difficoltà nel seguire adeguatamente la progressiva mole di lavoro, ma dovrebbero essere valorizzati e potenziati proprio l’impegno e la competenza di chi con numeri esigui ha gestito tanto lavoro e con risultati migliori del carcere. Tale personale dovrebbe essere aumentato con urgenza e progressivamente per non disperdere un patrimonio di esperienze e competenze, invece di dare spazio e di ipotizzare realtà di nuovo intervento per la Polizia Penitenziaria, completamente avulsa dal percorso storico della misure alternative. Quest’ultima scelta, inoltre, sarebbe del tutto in contrasto con la linea di evoluzione del nuovo sistema delle pene e delle sanzioni di comunità che si va configurando ed è in netta contraddizione anche con le scelte organizzative in atto: il nuovo Dipartimento Minorile e per le Sanzioni Di Comunità. Certo in passato alcuni miei colleghi direttori di U.E.P.E. hanno perorato la presenza della polizia penitenziaria presso gli U.E.P.E, ma il contesto era diverso, si parlava e si trattava sempre di regime penitenziario; oggi persistere su questa strada mi sembra del tutto illogico. Mi auguro che su questi aspetti si possa aprire un dibattito che non riguardi soltanto gli esclusivi circoli di addetti ai lavori perché il problema della pena, delle sue finalità e delle modalità per raggiungerle, è un problema culturale che riguarda tutta la società; affinché le nuove sanzioni alternative possano funzionare, è necessario che cambi anche nell’opinione pubblica l’idea della pena. *Dirigente Penitenziario in pensione, ex Direttore dell’Uepe di Napoli e di Caserta Gli alberi che crescono non fanno rumore di Margherita Forestan* Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2016 Si è svolta a Verona, oggi 21 marzo, la mattinata conclusiva delle attività legate alla promozione della Democrazia e dei Diritti, attività che il Consiglio d’Europa ci invita a fare quale esercizio di partecipazione. Verona ha scelto di operare in questo campo con gli studenti degli Istituti Superiori della città e della provincia, lo si fa da 4 anni, avviando i lavori a novembre per restituirne i risultati a fine marzo, dunque, accanto a "Democrazia e Diritti" si è voluto aggiungere "I ragazzi ne parlano". Anno dopo anno sono stati gli studenti a darsi dei temi sui quali fare ricerca, produrre documenti scritti, filmati, sono stati sempre loro, sicuramente guidati dai loro docenti a proporre ai loro compagni il risultato del loro lavoro. Quest’anno la scelta è caduta sul diritto all’alternanza scuola - lavoro e se sento la necessità di rivolgermi alla Redazione di Ristretti è per far sapere che oggetto di due lavori, davvero straordinari, è stato proprio il mondo della detenzione e quello della marginalità sociale. Pur coordinando fin dalla prima edizione questa attività e avendo così incontrato oltre 2000 studenti desidero chiarire di non aver mai influenzato la loro scelta. Vorrei sottolineare qui l’esperienza degli studenti dell’Istituto Medi di Villafranca di Verona che, preso contatto con il Gruppo Abele di Torino, sono saliti sul treno per andare a conoscere, imparare, sperimentare tutto ciò che il sociale fa per il mondo degli esclusi. "Siamo interessate a loro, orienteremo le nostre scelte di studio verso la sociologia, potremo fare qualcosa" hanno commentato alcune studentesse alla fine della loro presentazione. Altre, dell’Istituto Montanari di Verona che vorrebbero fare esperienza di giornalismo, hanno scelto di intervistare una donna che ha conosciuto per anni il carcere. Domande precise, pochi giri di parole, dati certi sulle carceri, approfondimenti, tutto perfettamente legato: parole, dati, immagini, musiche. Altro che certi deliri ai quali assistiamo! C’è stato molto altro nelle quasi 4 ore, tutto straordinariamente interessante, quello che mi ha portato a scrivere questa nota è la domanda seguente: perché dedicare pagine e pagine, ore e ore ti trasmissione a eventi negativi che coinvolgono ragazzi e giovani adulti, trascurando le tantissime realtà positive che hanno per protagonisti i nostri giovani? Sono molte e sono molti, ci offrono uno spettacolo di ciò che sono e ci lasciano immaginare ciò che saranno: persone capaci, impegnate, attente, consapevoli del disordine di questo tempo ma anche in grado di orientare le loro scelte, fornire modelli. La prova, se serve, è il volto delle giovani donne che stanno rientrando dalla Spagna. I loro sguardi, dalle foto, ci parlano e ci sorridono, hanno spazio perché non ci sonno più. Le abbiamo conosciute lasciandoci rigare il volto di lacrime, quante cose avrebbero potuto raccontarci, quante delle loro piccole storie ci consolerebbero in questo caos. Già, gli alberi che crescono non fanno rumore si limitano a purificare l’aria e questo non è facile da raccontare. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona Porta Santa nel carcere di San Gimignano di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2016 "Tutte le porte delle prigioni sono Porte sante" (Papa Francesco). Quella del 5 marzo 2016 è stata una mattinata dedicata alla Misericordia, la Santa Messa celebrata nella Casa di Reclusione di San Gimignano dall’Arcivescovo Mons. A. Buoncristiani in occasione dell’anno giubilare, preceduta dall’apertura della porta della Cappella, è stata vissuta come occasione di condivisione e riflessione sul tema del perdono. Tanti i ristretti del Circuito di Alta Sicurezza presenti che hanno partecipato alla Celebrazione, dieci i detenuti che sono stati coinvolti nell’animazione liturgica dietro la regia di un Funzionario giuridico pedagogico. Ogni evento che viene organizzato in un contesto come quello del carcere diventa indirettamente contesto di formazione e crescita individuale, le prove delle letture cercate qualche giorno prima su internet, l’indicazione su come muoversi per portare doni all’altare al momento dell’offertorio, sono stati momenti non solo per fare osservazione partecipata e partecipativa ma anche di dialogo e di ascolto. Fondamentalmente e volutamente è stato un incontro pedagogico fondato sulla fiducia e sul poter fare trattamento anche attraverso queste opportunità, un colloquio alternativo per rendere delle persone ristrette, libere nello spirito. Attenti, espressivi anche nella comunicazione non verbale Antonino, Ciro, Salvatore, impegnati nella proclamazione delle letture e della preghiera dei fedeli; forte, sentita, profonda la lettera che Andrea ha scritto ed esposto a nome di tutti i detenuti sul perdono in carcere "Per tanti di noi il perdono lo abbiamo trovato nella fede, la libertà si conquista anche attraverso il perdono," "Perdonare porta ad essere una persona migliore, ed è il lavoro che noi facciamo in un luogo come il carcere, cercare di cambiare attraverso ciò che gli operatori ci offrono". Andrea affronta anche il tema della gioia, evidenziando su come possa essere difficile essere gioiosi in carcere "ma ci proviamo assaporando le piccole cose e vivendo di occasioni di riflessione e di condivisione come quella di oggi". Antonio, Vincenzo, Gennaro, Marco, Giampiero e Pietro hanno portato all’altare oltre il pane ed il vino quali simboli cristiani, un prodotto artigianale fatto di legno creato durante le ore di frequentazione della sala hobby, biscotti ed un dolce con canditi realizzati dai detenuti alunni della scuola superiore ad indirizzo enogastronomico, a rappresentare su come passa il tempo in carcere. Ed il tempo passa in carcere, cercando di dare un senso alla vita, attraverso l’impegno non solo nella frequentazione della scuola e dei laboratori, ma l’impegno con se stessi e nei confronti della società, nel cambiare per essere uomini nuovi. "Essere nella Misericordia significa dare un senso alla nostra vita"- ha proferito così l’Arcivescovo, continuando poi come questo possa essere possibile anche in carcere attraverso un rapporto di equilibrio tra Regolamento e Misericordia, ossia seguendo il Regolamento con Misericordia. L’Ave Maria di Schubert, Il Signore è la luce, Vivere la Vita e Resta qui con Noi i canti che hanno fatto da sfondo ad una Celebrazione alla quale hanno partecipato emozionato il personale di polizia penitenziaria, del Comparto Ministeri ed Associazioni di volontariato. E commossa è stata la Direttrice Dott.ssa M.C Morrone che nell’occasione si è presentata quale nuova guida al timone della C.R di San Gimignano. *F.G.P. C.R. San Gimignano Puglia: la Regione lavora a un progetto sulle pene alternative Ansa, 24 marzo 2016 La Regione Puglia sta lavorando alla concretizzazione di un progetto per la esecuzione di pene alternative nei confronti dei detenuti. Lo hanno confermato, in occasione del convegno "La nuova esecuzione penale nella Legge delega n. 67/2014", l’assessore regionale alla Formazione e al Lavoro, Sebastiano Leo, il presidente del consiglio regionale della Puglia, Mario Loizzo, e il direttore del carcere di Bari, Lidia De Leonardis. L’iniziativa, infatti, è partita con il protocollo di collaborazione tra l’assessorato regionale al Welfare e il carcere barese, siglato nell’estate 2014, per l’attuazione del diritto allo studio e alla formazione professionale di soggetti in esecuzione penale. "Il carcere - ha spiegato De Leonardis - molto spesso è manovalanza, soprattutto di quella fascia bassa di detenuti che hanno una pericolosità sociale limitata o non l’hanno affatto, per quelle che sono le compagini criminali. Quindi è giusto che queste persone, che creano poco allarme sociale, possano scontare la loro pena al di fuori". "La proposta alla quale abbiamo pensato - ha aggiunto - consente di prendere in carico queste persone accompagnandole in un piano di adattamento individualizzato. Questa parte sarà coperta dal terzo e quarto settore selezionato dalla Regione: si pensa o a un sistema di voucher ma anche ad una struttura di dimora sociale. E speriamo che questa fase sperimentale parta dalla Puglia perché terra di confine per la mafia". Leo ha assicurato che la Regione "sta lavorando al bando: cercheremo nelle prossime settimane di completarlo - ha aggiunto - per poi condividerlo col partenariato e con le cooperative sociali, anche attraverso l’assessorato al Welfare. Noi abbiamo i fondi" europei, ha proseguito, "destinati alla inclusione sociale e infatti sono questi che vogliamo utilizzare. Le risorse sono tante ma bisogna investirle, andando a scommettere su queste persone che hanno sbagliato ma alle quali dobbiamo dare dignità". La Regione Puglia, ha sottolineato Loizzo, "è impegnata a realizzare alcune buone pratiche, progetti che puntano al reinserimento di chi ha piccole colpe, ma che allo stesso tempo agiscono a favore dell’intera società civile, riducendo la recidiva penale". Abruzzo: Garante detenuti, ancora un rinvio. Rita Bernardini a Pasqua va nelle carceri cityrumors.it, 24 marzo 2016 Ennesimo rinvio dell’elezione del Garante dei detenuti: intanto Rita Bernardini continua a essere "Garante di fatto". La candidata radicale, infatti, durante la settimana di Pasqua visiterà tutte le carceri abruzzesi. Dal Venerdì Santo fino al Lunedì dell’Angelo compreso, Rita Bernardini sarà, con le compagne e i compagni di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi, a Vasto, Lanciano, Chieti, Pescara, Teramo, L’Aquila, Avezzano e Sulmona. A Lanciano, Pescara e Sulmona non mancherà Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio, che ancora una volta sarà a fianco dell’on. Bernardini e dei Radicali negli istituti di pena d’Abruzzo. La Bernardini, insomma, continua il suo lavoro di Garante, benché non ancora nominata dalla Regione. Parma: "Sprigioniamo il lavoro", parte il progetto nelle carceri La Repubblica, 24 marzo 2016 Lo scrittore Carofiglio alla presentazione de "La manomissione delle parole " progetto con Università e coop Sirio rivolto al carcere. Presentazione alla Camera, si parte ad aprile. "Portare lavoro in carcere è un vantaggio per l’impresa, per il detenuto e per la società", ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. "Dobbiamo investire sul lavoro in carcere: abbiamo rifinanziato legge Smuraglia", norma dedicata proprio a questo tema, "ma dobbiamo fare di più, dobbiamo sburocratizzare il sistema e aiutare le imprese a entrare e portare il lavoro in carcere". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, nel corso di una conferenza stampa alla Camera organizzata per presentare un progetto, "Sprigioniamo il lavoro", negli istituti penitenziari di Parma. All’iniziativa, sostenuta dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, hanno aderito la Confederazione nazionale dell’artigianato di Parma e l’Unione parmense degli industriali. Alla presentazione del progetto hanno preso parte, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, il capo del Dap Santi Consolo, il Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri. "Da aprile, negli istituti penitenziari di Parma, si cercherà di portare il lavoro in carcere attraverso una rete di soggetti istituzionali e privati che sono confluiti nell’operazione" ha dichiarato Ferri. "Portare lavoro in carcere è un vantaggio per l’impresa, per il detenuto e per la società. Certezza, flessibilità ed umanizzazione della pena sono le linee da seguire per garantire l’equilibrio tra sicurezza e rieducazione" ha proseguito Ferri "poiché rieducare significa lavorare per l’integrazione dei detenuti nella società civile ed evitare che incorrano nella recidiva. Il Ministero della Giustizia sta lavorando su proposte costruttive come ‘Sprigioniamo il lavoro’ al fine di disegnare un nuovo modello di carcere aperto alle idee ed attentissimo alla tutela effettiva dei diritti. Ritengo che si debba ripartire da una maggiore valorizzazione del lavoro penitenziario in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati e da una previsione di attività di giustizia riparativa quale momento qualificante del percorso di recupero sociale". "L’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali - ha aggiunto - genera un impatto importante sull’abbattimento del tasso di recidiva dei condannati inseriti in questi percorsi, che passa da oltre l’80% a meno del 10%, producendo così un importante risparmio per le casse dello stato e alleviando la già critica situazione delle carceri italiane. L’esigenza del lavoro per i detenuti va inserita anche in questo contesto: permette di pagare allo stato le spese di mantenimento e consente a loro di inviare somme ai propri familiari, un modo per sentirsi utili nei confronti dei loro cari. Iniziative come questa generano un nuovo passo in avanti per il miglioramento delle condizioni dei detenuti all’interno degli istituti di pena, rafforzando la funzione rieducativa della pena, in coerenza con i principi sanciti dall’articolo 27 della costituzione italiana". La deputata Patrizia Maestri, promotrice della conferenza stampa alla Camera dei deputati, ha sostenuto l’opportunità di dare risalto nazionale ad una "buona pratica" nata sul territorio con l’impegno fattivo di realtà istituzionali pubbliche e private. "Si tratta - ha detto l’esponente Pd - di un progetto molto importante che permetterà a chi sta scontando una pena in carcere di rafforzare il proprio percorso di riabilitazione nella società attraverso la formazione e il lavoro. L’iniziativa guarda al fine pena con l’obiettivo di creare le condizioni per un reinserimento, fuori dal carcere, in condizioni di legalità. I dati, infatti, dicono che chi segue questi percorsi è meno propenso a compiere nuovi reati: un investimento, quindi, per la sicurezza di tutti i cittadini". "Sono molto soddisfatta - ha sottolineato Maestri - che il progetto sia nato a Parma, credo che sia un segnale importante per tutta la nostra città. Vediamo un carcere di massima sicurezza che si apre alla città e alle sue forze migliori per costruire qualcosa di strutturato e pensato per dare delle opportunità importanti a chi si trova in condizione di reclusione". Da aprile partirà la chiamata di interesse per l’avvio di attività lavorative nel carcere di Parma che potranno essere presentate da soggetti imprenditoriali singoli o associati tra loro. Le proposte di avvio o dislocazione di attività lavorative nel carcere parmense potranno essere presentate attraverso la compilazione di un form nel sito sprigioniamoillavoro.it. I servizi di supporto alle imprese riguarderanno la possibilità di visitare gli spazi messi a disposizione (oltre 300 metri quadrati), di confrontarsi con i partner del progetto e ricevere assistenza per la valutazione dei vantaggi costituiti dalla possibilità di avere gratuitamente spazi idonei e accedere ai benefici fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia. La Fondazione Cariparma valuterà le forme di sostegno ai progetti reputati idonei e stanzierà i fondi necessari per sostenere il progetto. Roma: detenuto morto per una polmonite, chiesta la condanna di due medici di Giulio De Santis Corriere della Sera, 24 marzo 2016 Il decesso avvenne nel giugno 2013. I dottori, nonostante la febbre alta, non prescrissero nulla. L’accusa è omicidio colposo. Febbre alta, pallore, tachicardia. Sintomi di una polmonite, trascurati su un detenuto da due medici di Rebibbia, che ora rischiano sei mesi di reclusione per aver lasciato morire il paziente, Danilo Orlandi, 31 anni, senza avergli prescritto un’aspirina o misurato la temperatura. A chiedere la condanna con l’accusa di omicidio colposo dei "camici bianchi" Rosaria Bruni e Marco Ciccarelli è stato il pubblico ministero Mario Ardigò durante il rito abbreviato. Accuse al direttore - Nel corso della requisitoria il magistrato ha anche sollecitato il rinvio a giudizio dell’allora direttore della struttura sanitaria del carcere, Luciano Aloise. Nella ricostruzione della vicenda, cosi come raccontata dal pubblico ministero, una circostanza rende ancora più amaro il dramma avvenuto il 1° giugno del 2013: ancora poche settimane e Orlandi avrebbe terminato di scontare i sei mesi di cella per resistenza a pubblico ufficiale. Una diagnosi tempestiva - come sottolineato dal pubblico ministero - gli avrebbe salvato la vita. Le accuse mosse dagli inquirenti si sono concentrate sui controlli svolti da Bruni e Ciccarelli. Le condizioni di salute di Orlandi, il 29 maggio di tre anni fa, cominciarono a peggiorare. Il paziente - i cui familiari sono assistiti dall’avvocato Stefano Maccioni - si lamentava ma i due medici - almeno secondo quanto sostenuto dall’accusa - nemmeno gli misurarono la febbre. Entrambi si limitarono a colloqui informali con il via libera del direttore sanitario, almeno stando agli accertamenti svolti durante le indagini. Orlandi morì dopo quarantotto ore per la polmonite. Oristano: "battitura" sbarre per protesta contro sovraffollamento e condizioni difficili di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 24 marzo 2016 I detenuti dalla Casa circondariale lamentano sovraffollamento e condizioni difficili. Dal 5 marzo rifiutano il vitto e sono determinati a proseguire per tutto il mese. Ad aprile, se non avranno risposte, non faranno acquisti di alimentari allo spaccio del carcere e sospenderanno le attività lavorative. Per trasmettere anche all’esterno il loro malessere, tre volte al giorno, batteranno sulle inferriate. È la protesta, pacifica, di 35 detenuti ex 41 bis del carcere di Massama, che denunciano condizioni piuttosto dure all’interno della sezione "As1" e che nonostante le richieste avanzate al direttore, sarebbero persino peggiorate. È questo che scrivono in una lunga lettera, inviata alle diverse istituzioni competenti, dal capo dipartimento, Santi Consolo, al Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma, ma anche al Provveditore regionale degli istituti di detenzione, al magistrato di sorveglianza e allo stesso direttore del carcere di Massama e al sindaco Guido Tendas, oltre che a diverse associazioni di volontariato ed al presidente della Commissione dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi. Riassumono in sette capitoli le richieste avanzate alla direzione, prima fra tutte, il blocco del flusso dei detenuti in arrivo. "La capienza totale del carcere è di 246 posti letto. Ogni cella può ospitare massimo due persone, secondo i parametri progettuali e la normativa. Invece - scrivono i firmatari - la direzione ha posto una terza branda per ospitarvi il terzo detenuto". Non è solo il rischio del sovraffollamento a provocare i disagi segnalati nella lettera "Viene escluso il trattamento delle carceri di provenienza perché il direttore ha una visione restrittiva e punitiva. Quando si riunisce il Got (Gruppo osservazione e trattamento, formato da esperti con il compito di conoscere la personalità dei detenuti soprattutto quando hanno difficoltà ad integrarsi, ndc), il direttore ed il commissario, esprimono sempre parere negativo". La lettera lamenta anche scarsi rapporti con il magistrato di sorveglianza: "non concede udienze ai detenuti e non svolge nemmeno le visite ispettive periodiche nel carcere". A Massama, dove i detenuti in regime di ex 41 bis chiedono di avere una palestra e la presenza di associazioni di volontariato "per iniziative sociali e culturali", sono forti anche le difficoltà nei colloqui con i familiari, regolati da orari, secondo quanto scritto nelle lettera, evidentemente restrittivi "che impediscono le sei ore continuative di incontro". È questo un problema di non poco conto. Come spiega la lettera, infatti "il 90 per cento dei detenuti di questa sezione provengono da Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, oltre ad una esigua percentuale di stranieri". I firmatari della lettera spiegano: "i più fortunati riescono ad incontrare i familiari ogni tre mesi". E aggiungono che per arrivare fino a Oristano i loro familiari devono affrontare i forti costi del viaggio, spese che aumentano se le sei ore di colloquio vengono frazionate in giorni diversi, imponendo il pernottamento in albergo. Inoltre, ogni detenuto può incontrare solo tre familiari assieme "se ne arriva un quarto, deve restare fuori e non è permesso neppure lo scambio". Per i detenuti in regime di ex 41 bis anche le telefonate a Massama, vengono concesse con parsimonia, addirittura dimezzate, rispetto agli altri istituti, così almeno affermano i firmatari. E poi ci sono i ritardi con la corrispondenza "A volte le lettere che inviamo ai nostri familiari non arrivano e i pacchi ci vengono consegnati dopo quindici giorni". Milano: carceri in città sovraffollate, ma i detenuti ora sono in calo Il Giornale, 24 marzo 2016 Calano i detenuti nelle carceri milanesi: al momento le persone in carcere a Milano sono 3.326. Negli ultimi due anni, dal 31 gennaio 2014 al 31 gennaio 2016, sono 491 i detenuti in meno nei penitenziari cittadini (San Vittore, Opera, Bollate). Nell’arco degli ultimi 12 mesi la variazione è invece di 73 detenuti in meno (gennaio 2015 - gennaio 2016). il bilancio esce dalla relazione annuale presentata in commissione a Palazzo Marino dal Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano, Alessandra Naldi. Nell’ultimo anno sono calati i detenuti di San Vittore (-36) e Bollate (-52) mentre sono aumentati quelli di Opera (15). 11 tasso di sovraffollamento, cioè il numero di persone per ogni posto disponibile, registra la situazione peggiore nel carcere di Opera, dove la capienza regolarmente dichiarata è di 911 ma nel penitenziario ci sono 1.290 detenuti, di cui 366 stranieri, per un tasso di sovraffollamento di 1,4. Segue San Vittore, con 929 persone contenute nello spazio che ne potrebbe ospitare 751 per un tasso di 1,2. Quello del sovraffollamento "non è un problema risolto - spiega il Garante - ma si è registrata una novità positiva, cioè l’aumento notevole al ricorso a misure penali non detentive". Il timore è che "senza un reale investimento di risorse sui servizi a sostegno delle persone sottoposte a misure penali non detentive, si rischia un rapido rientro in carcere soprattutto per l’ampia fascia di persone che rientrano nell’area della cosiddetta "detenzione sociale", il garante ha poi spiegato che rimetterà il suo mandato nelle mani del prossimo sindaco "per rivedere il mio ruolo con la nuova amministrazione, se permarrà il rapporto di fiducia e l’interesse a proseguire il lavoro". Modena: la Garante Desi Bruno "Casa di lavoro di Castelfranco, un quadro sconfortante" La Gazzetta di Modena, 24 marzo 2016 Una Casa-lavoro dove "il quadro relativo alla possibilità di lavorare all’interno della struttura rimane sconfortante "perché risultano insufficienti i progetti di lavoro effettivo e remunerato, in quanto le persone lavorano a rotazione per l’amministrazione penitenziaria, mentre solo pochi internati sono impiegati nell’azienda zootecnica e nel lavoro agricolo e delle serre, che dovrebbero essere la vera ricchezza della struttura". Sono comunque stati attivati corsi di formazione professionale per 15 persone ciascuno: uno da elettricista, già ultimato, uno da agricoltore e uno di teatro. Questa la situazione nella casa di reclusione di Castelfranco (nella foto) presentata dal Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia Romagna, Desi Bruno, che ha visitato la struttura il 17 marzo. "Senza l’avvio di attività lavorative all’interno, anche con il coinvolgimento della società esterna, continuerà a mancare il lavoro, avendo così un evidente spreco delle potenzialità a disposizione, che vanno dal ricco patrimonio agrario, una superficie di 22 ettari, a quello degli spazi laboratoriali, da anni del tutto inutilizzati". L’area educativa ha riferito la vicenda di un ragazzo che "con modesti e datati precedenti penali da cui è stato prosciolto in ragione di una diagnosi di ritardo mentale medio". Gli è stata applicata la misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro perché ha trasgredito alle prescrizioni della libertà vigilata, allontanandosi, a più riprese, dalla struttura di accoglienza che lo ospitava: il giovane entrato nella casa di lavoro di Castelfranco alla fine del 2015 "ha mantenuto regolare condotta impegnandosi in tutte le attività in atto nell’istituto, evidenziando un ottimo comportamento e ben adeguato ai contesti in cui stato inserito", ma, a seguito di un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, sarà trasferito in una Rems. Bruno segnala poi il caso di "una decina di internati stranieri irregolari per i quali, nell’assenza di percorsi di regolarizzazione praticabili e di una rete di riferimento all’esterno, è altamente probabile che possano mancare alla Magistratura di sorveglianza elementi idonei a fondare un giudizio di cessata pericolosità sociale, con conseguente proroga della misura di sicurezza". Alba (Cn): necessari interventi per 2 milioni prima della riapertura del carcere di Cristina Borgogno La Stampa, 24 marzo 2016 L’intervento di adeguamento sarebbe anche "garanzia" per la riapertura. Le rassicurazioni sulla riapertura erano arrivate direttamente ad Alba, circa un mese fa, dal ministro Enrico Costa e dal provveditore regionale Luigi Pagano. Sempre in città, la scorsa settimana, il direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nazionale, Pietro Buffa, ha confermato "lo stanziamento di 2 milioni di euro, ma tempi ancora incerti" viste le sue competenze prettamente finanziarie. Ora gli albesi attendono l’inizio dei lavori nel carcere "Giuseppe Montalto", chiuso da inizio gennaio per un’epidemia di legionellosi. Dopo aver trasferito in varie strutture del Piemonte, e non solo, i 122 detenuti (di cui 22 collaboratori di giustizia) e aver provveduto alla mobilità dei 112 poliziotti penitenziari garantendo un presidio continuo dell’istituto albese con circa 25 agenti, sono cominciate a circolare le prime ipotesi sul ripristino e un preventivo che avrebbe superato i 12 milioni. Ora, invece, dopo il sopralluogo dei tecnici romani, pare che l’intervento si sia ridimensionato a 2 milioni di euro appunto. "Non sono sicuro che sia una buona notizia - dice Bruno Mellano, garante regionale dei diritti dei detenuti -. Nell’interesse generale, ci si aspetta un progetto dettagliato e complessivo, che restituisca la funzionalità dell’istituto e risolva un problema che si trascinava da tempo, con episodi ripetuti a partire dagli anni 90 e con interventi tampone non andati a buon fine". E aggiunge: "È nell’interesse di tutti, detenuti, poliziotti, personale e volontari, che l’istituto riapra nella condizione migliore". Punta invece sui tempi l’avvocato Roberto Ponzio, nominato da una sessantina tra poliziotti e assistenti per essere tutelati, che fin dall’inizio suggerisce una soluzione alternativa in attesa dell’intervento definitivo dei lavori. "Circolano inquietanti rumors secondo cui ci sarebbe l’intenzione di riaprire la struttura non più come carcere, ma come centro di accoglienza - dice il legale -. Con una modesta spesa, oggi possibile utilizzando una piccola parte di questo budget iniziale, si possono attivare da subito e autonomamente il reparto collaboratori, già sezione femminile, e quello dei semiliberi. Da ciò si raggiungerebbero due obiettivi: la possibilità di collocare una cinquantina di detenuti e riportare ad Alba altrettanti agenti ora costretti a onerose trasferte per Saluzzo, Fossano e Asti, e smentire l’ipotesi di una futura diversa destinazione". Saluzzo (Cn): inaugurata la "Casa di Donatella" per detenuti in permesso premio La Stampa, 24 marzo 2016 È in via della Croce dietro al cimitero, nella proprietà comunale della ex "casa del custode" già in parte assegnata ai migranti stagionali africani Da martedì 22 marzo, è aperta la "Casa di Donatella" nell’immobile adiacente il cimitero di Saluzzo, la ex casa del custode, in via della Croce 39. Darà ospitalità temporanea a detenuti in permesso premio, lavoro all’esterno, semilibertà o ai parenti in trasferta per i colloqui. Il monolocale è stato affidato, da giugno dello scorso anno, all’associazione "Liberi Dentro" presieduta da Biba Bonardi in comodato gratuito dal Comune di Saluzzo. La struttura è intitolata a Donatella Girotto, una delle colonne fondatrici del sodalizio che opera nella casa di reclusione. L’associazione sarà garante dell’uso dell’abitazione assegnata ai detenuti dall’area educativa e dall’Uepe (Uffici di Esecuzione Penale Esterna) che ha il compito di gestire l’applicazione delle misure alternative concesse dai Tribunali di Sorveglianza ai condannati che per i loro particolari requisiti possono espiare la pena nell’ambiente esterno, anziché negli Istituti penitenziari. "Avere queste risorse sul territorio permette di utilizzare gli strumenti a disposizione dei permessi premio - sottolinea Bruno Mellano, garante regionale delle carceri. Il monolocale dispone di un divano letto per uno o due detenuti per 24 /48 ore, un massimo di 2 notti, mentre di giorno potrà accogliere tre persone. L’alloggio che si affaccia un piccolo spazio verde recintato, è un’unità a sé stante della ex casa del custode del cimitero, in cui il Comune dà ospitalità ai migranti stagionali africani nel periodo di lavoro. "Una bella operazione pubblica e privata, fatta con poche risorse - il commento del sindaco Mauro Calderoni, intervenuto con il presidente del Consiglio Andrea Momberto e dell’assessore alle politiche sociali Alida Anelli. "La benedizione della casa è insita nell’opera stessa di attenzione ai carcerati - le parole del vescovo monsignor Giuseppe Guerrini - Un’operazione bella e vera che stimola il tessuto sociale a diventare più attento e vero. Presente al taglio del nastro, Bruna Chiotti, garante comunale dei detenuti che ha portato la sua riflessione su Donatella Girotto, esempio di chi con impegno e costanza porta avanti il suo progetto e sempre nel ricordo dei detenuti. Il grazie di Biba Bonardi ai volontari dell’associazione che hanno permesso la ristrutturazione del monolocale con la Casa di Reclusione di Saluzzo, la ditta Scaletta e la ditta di mobili Mirandola di Verona che ha donato una credenza. Verona: la Garante dei detenuti "democrazia e diritti, giovani esempio di impegno" L’Arena di Verona, 24 marzo 2016 Si è svolto nell’auditorium della Gran Guardia, il convegno "Democrazia e diritti, i ragazzi ne parlano: alternanza scuola-lavoro quale esercizio del diritto al lavoro", nel corso del quale sono stati presentati i lavori svolti dagli studenti di sette istituti superiori della città e della provincia nell’ambito della "Settimana europea della democrazia", progetto promosso dalla presidenza del Consiglio comunale in collaborazione con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, il Miur Veneto-Ufficio scolastico di Verona e la Consulta degli Studenti. Al progetto hanno partecipato gli studenti di Montanari, Ipseoa Angelo Berti, Educandato agli Angeli, Liceo linguistico Galilei, Ipsar Luigi Carnacina di Bardolino, Fracastoro, liceo Medi. Il convegno è stato aperto dal presidente del Consiglio comunale Luca Zanotto e del dirigente dell’Ufficio scolastico Stefano Quaglia. "I lavori realizzati dagli studenti e presentati in questa edizione", afferma la Garante dei detenuti Forestan, "sono di straordinaria qualità: i giovani mostrano, attraverso l’impegno che qui traspare, valori assolutamente positivi, del tutto diversi dall’immagine negativa offerta, purtroppo con molto clamore, da pochi di loro". I kamikaze di Bruxelles e le radici del male di Tahar Ben Jelloun (Traduzione di Elda Volterrani) La Repubblica, 24 marzo 2016 Gli attentati di Bruxelles sono la conseguenza logica e quasi attesa di quanto è accaduto il 13 novembre 2015 a Parigi. Ad animare questi figli europei dell’immigrazione magrebina è la stessa rabbia, lo stesso odio sconfinato per l’Occidente. Perché tanta crudeltà? Perché questi omicidi ciechi? Come si diventa un mostro che sacrifica la propria vita per uccidere il maggior numero di persone intorno a sé? Molti elementi e fattori diversi contribuiscono a fabbricare un mostro, vale a dire qualcuno che rinnega la propria umanità e porta la sventura. La maggior parte dei terroristi che hanno commesso attentati in Europa sono figli di immigrati magrebini. È un dato di fatto. Questi individui non hanno mai ricevuto o non hanno mai assorbito i valori della civiltà da cui provengono i loro genitori. Questi ultimi hanno la loro parte di responsabilità per quello che succede, anche se sono prevalentemente da compiangere. Ma l’immigrazione è una lacerazione; è come un albero sradicato e piantato in un’altra terra, che a stento si regge in piedi, è come un innesto, le radici non si trapiantano facilmente fuori dalla terra di origine. La cultura che si portano dietro nella terra straniera è molto povera e la stessa religione si riassume in pochi riti che si confondono con gli usi e le tradizioni. Quando non si può trasmettere alla propria progenie una cultura viva e serena, ci si accontenta di quel che ne resta. Si è presi dallo scoramento e poco per volta si rinuncia a trasmettere ai propri figli un’educazione solida. Si lascia fare alla strada, al caso, al destino. È così che i figli dell’immigrazione - non tutti, per fortuna, ma alcuni di loro - si trovano a corto di cultura e di valori che li rassicurino e diano loro una sicurezza ontologica, vale a dire del proprio essere e della propria identità. L’ontologia è quello che costituisce il nostro essere, quello che siamo. La nostra identità è ciò che ci determina: un nome, un cognome, una famiglia, un paese, una nazionalità, riferimenti culturali e religiosi o l’assenza di riferimenti che indichino la strada da percorrere. Se il nostro essere non sa chi è, da dove viene e a quale cultura appartiene, perde l’equilibrio e diventa disponibile a riempire questa casella con quanto gli verrà proposto. In Francia, l’immigrazione è una delle conseguenze della colonizzazione. È stato detto e ripetuto molte volte: la popolazione immigrata non ha beneficiato della riconoscenza né di molte attenzioni da parte del paese di accoglienza. Il razzismo si è sviluppato in proporzioni enormi, soprattutto durante e dopo la guerra di Algeria (1954-1962). I rimpatriati dall’Algeria hanno sofferto per la perdita di quello che consideravano il loro paese. Le cattive condizioni del loro doloroso ritorno in Francia sono state accompagnate da un senso di ingiustizia e di risentimento. Gli immigrati, nonostante il lavoro che svolgono, non hanno ricevuto un trattamento corretto e dignitoso. E sono stati zitti. I padri non sono stati degli eroi e hanno trasmesso ai loro figli un’immagine di disfatta e di impotenza. Alcuni dei figli, consapevolmente o inconsapevolmente, hanno voluto "vendicare" i genitori portando caos e sofferenza nelle famiglie europee con gli attentati, uccidendo degli innocenti. Non sono neanche sicuro che sappiano quello che fanno. Non appartengono più a loro stessi: sono entrati in un delirio che si adatta perfettamente al loro stato d’animo pieno di buchi. La maggior parte dei figli di immigrati soffrono di insicurezza ontologica e tuttavia non prendono le armi per uccidere degli innocenti. È qui che interviene lo "Stato islamico" con la sua propaganda diabolica. Nei suoi discorsi parla di vendetta e di morte. Promette un avvenire radioso a quei figli abbandonati dall’Europa, offre loro una via di uscita, un progetto con un senso. Dice loro: voi non avete trovato un senso alla vostra vita ma io vi propongo di dare un senso alla vostra morte lottando sulla "Via di Dio" (Fi sabilillah) che porta al paradiso. Presenta l’Occidente come un paese esclusivamente materialista, senza alcuna spiritualità, senza i valori divini che sono la fine e il principio dell’umanità. Questo discorso, certi figli dell’immigrazione lo sentono e lo seguono. Erano disponibili a crederci e a passare all’azione, ubbidendo agli ordini di un’organizzazione strutturata che porta avanti le sue promesse fino in fondo. Così il popolo della jihad cresce nelle nostre città di Renzo Guolo La Repubblica , 24 marzo 2016 In quattro anni gli europei partiti per Siria e Iraq sono stati 5.000. Due terzi vengono da quattro paesi: Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio. L’ampiezza della rete di sostegno agli attentatori di Parigi e Bruxelles fa sorgere una domanda: quanti sono gli jihadisti in Europa, tra effettivi e irregolari? I numeri si possono solo dedurre. A partire da quelli sui foreign fighters continentali. In quattro anni gli europei partiti per Siria e Iraq sono stati circa cinquemila. Due terzi vengono da quattro paesi: Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio. Molti di loro sono rimasti uccisi in combattimento, altri sono rientrati. Solo per restare ai paesi colpiti di recente: i francesi partiti per la Siria sono 1700, dei quali 250 rientrati; i belgi sono 470, dei quali 120 hanno guadagnato la via del ritorno. In totale i foreign fighters di ritorno sono circa un migliaio in tutta Europa, una decina in Italia. Sicuramente l’area dei simpatizzanti è più vasta e si allarga a decine di migliaia di persone. Il radicalisimo islamico è diventato, infatti, il collettore di un risentimento esteso, che alligna nelle periferie delle grandi città europee, divenuto in pochi anni da prepolitico a iperpolitico. Non è casuale che molti dei foreign fighters europei o dei militanti jihadisti che vivono nel Vecchio Continente, non abbiano precedenti esperienze politiche o religiose; che abbiano vissuto come giovani deislamizzati, rifiutando la religione ritualistica e popolare trasmessa dai padri, dai quali li divide una profonda frattura generazionale. E che, poi, abbiano, riscoperto l’islam nella sua declinazione radicale e jihadista. Quello che li spinge non è un discorso religioso - nemmeno nella versione premiale del "paradiso dei martiri" - ma un’ideologia totalizzante. L’islam radicale è apparso loro come l’ultima grande narrazione antagonista capace di dare identità, la sola disponibile per opporsi a una realtà che disprezzano e, a loro dire, li disprezza. Forse l’ultima ideologia rivoluzionaria a disposizione dopo che il secolo breve ha liquidato, in immani drammi collettivi, le utopie novecentesche. Capace di sovvertire rapporti sociali e realtà statuali. Appunto, un’ultima utopia. Utopia che a noi appare sanguinaria e regressiva ma agli occhi di chi non si è mai sentito parte della realtà in cui è nato o vissuto, è vista come strumento di riscatto. L’ideologia radicale precede la nascita dell’Is, così come Al Qaeda. Ma contrariamente a quest’ultima organizzazione, il gruppo di Al Baghdadi ha saputo indicare un’orizzonte che va oltre la prospettiva della clandestinizzazione della politica. Il suo "capolavoro" è stato togliere dall’acronimo le ultime due lettere, divenendo solo Stato islamico. Non più localizzato in Iraq e in Siria ma con ambizioni e proiezioni universali: coronate nell’autoproclamazione e nella rifondazione del Califfato. Mossa che nemmeno Osama Bin Laden all’apogeo della sua potenza aveva osato. L’assalto al cielo del gruppo di Al Baghdadi ha trovato il consenso dei molti decisi a combattere per la causa ma non in una logica di mera clandestinizzazione. È proprio quel "farsi Stato", quel dare forma concreta all’utopia, che ha attratto in Siria decine di migliaia di combattenti e centinaia di giovani donne decise a costruire il nuovo ordine islamista; e offerto una sponda politica "ideale" ai giovani radicalizzati che hanno coniugato la nuova identità militante con la decisione di combattere la guerra in Europa. È con questa realtà diffusa che dobbiamo fare i conti. Il fenomeno, infatti, non è destinato a esaurirsi a breve. Nemmeno con la distruzione del Califfato in Siria e Iraq. Anzi, è prevedibile che la conclusione di quell’esperienza statuale, induca lo jihadismo a rifondarla altrove. In Libia o in qualche area del Sahel: il vuoto è lo spazio per eccellenza dell’utopia. Recuperando, come già si è visto nell’ultimo anno, l’originaria impostazione qaedista: concentrare gli sforzi sul Nemico lontano, portando il jihad in Occidente. In una sintesi politica che appare già oggi drammatica per la nostra vita quotidiana. Una sfida che per essere vinta dall’Europa deve tenere insieme la dimensione della sicurezza e la battaglia culturale. Altrimenti, la deriva proseguirà e quei numeri così preoccupanti si moltiplicheranno. "Impossibile aiutare i profughi". Onu e Medici senza Frontiere lasciano l’isola di Lesbo di Ettore Livini La Repubblica, 24 marzo 2016 "Dopo l’accordo tra Ue e Turchia al via le deportazioni. Impossibile aiutare i profughi". "Benvenuto in Europa. Si tolga le stringhe delle scarpe e ce le consegni. Ci dia anche cintura e telefonino, per ora teniamo tutto noi. Declini le generalità, prenda le impronte digitali e poi si accomodi là". Dentro una baracca di poche decine di metri quadri, chiusa a chiave dall’esterno, assieme ad altri trenta compagni di sventura (compresa una anziana in carrozzella), circondata da reti metalliche e filo spinato e guardata a vista dalla polizia 24 ore su 24. Qassem, siriano di 39 anni scappato due settimane fa da Homs, si aspettava un’accoglienza diversa. "È Lesbo, vero? Ce l’ho fatta!" ha sussurrato all’alba sul molo di Mytilene a volontari e giornalisti quando è sbarcato in tuta rossa e infradito dalla guardacoste Andromeda che l’aveva intercettato su un gommone a trecento metri dalla costa. "Vado a Moria, faccio i documenti e poi parto per Atene", ha salutato con un sorriso mentre la polizia lo caricava a forza sul pullman. Nessuno, purtroppo, ha fatto in tempo ad aggiornarlo sulle novità. Ue e Turchia hanno stretto un patto di ferro per alzare in questo braccio d’Egeo un muro anti-migranti. Lesbo, l’isola candidata al Nobel della pace, il paradiso dei volontari lodato da Angelina Jolie, è diventata un inferno da cui persino Unhcr e Medici senza frontiere (Msf) preferiscono scappare. E il campo di Moria (un "centro d’accoglienza chiuso", l’ha ribattezzato con un ossimoro involontario la Ue) "si è trasformato in una prigione per mille persone - dicono le due organizzazioni - dove noi da domenica non lavoriamo più". "L’accordo con Ankara - ha messo nero su bianco Msf - potrebbe dar luogo a deportazioni ingiuste e disumane e noi non vogliamo esserne complici". E Qassem, che l’ha capito, ha affidato il racconto della sua delusione e del suo brusco impatto con l’Europa a un foglietto in stampatello girato a uno dei pochi osservatori umanitari rimasti nella mini- Guantanamo della Ue. "Qui il mondo è cambiato in 72 ore - spiega sconsolato Michele Telaro, responsabile dei 180 uomini di Msf al lavoro sull’isola - Fino a domenica scorsa il campo era solo una tappa lungo il viaggio della speranza dei migranti. Si arrivava, si affrontavano le procedure di riconoscimento e si otteneva il documento provvisorio con cui, pagando i 50 euro del traghetto per Atene, si continuava la fuga da guerra e miseria". Ora Moria è diventata il capolinea di questo esodo biblico (un milione gli arrivi a Lesbo da inizio 2015, 4.219 i morti in mare). I 5mila profughi bloccati qui prima del D-Day del 20 marzo, il giorno in cui è entrato in vigore il patto con Ankara, sono stati trasferiti ad Atene. I mille arrivati da allora sono finiti sotto chiave nelle baracche del campo. "Spaventati e senza certezze sul futuro - dice Telaro - visto che nessuno qui, nemmeno noi e i legali, ha capito cosa prevede l’intesa con Erdogan". Unica certezza: il 4 aprile partiranno i respingimenti. "E se mi mettono su una nave per rimandarmi in Turchia, giuro che mi butto in mare", dice Yassim Al-Kufhir, ingegnere pakistano ospite di Afghan Hill, il campo gestito dai volontari a due passi Moria. Spiros Gallinos, sindaco di Mytilene, è su tutte le furie: "È una situazione kafkiana - dice allargando le braccia - L’Europa ha fatto melina per un anno e mezzo, nascondendo la testa sotto la sabbia. Poi ci ha imposto in 24 ore una decisione senza istruzioni per l’uso". L’assurdo, aggiunge in camera caritatis, è che se parli con Bruxelles sono tutti contenti del successo dell’intesa. Chi puntava a fermare gli sbarchi - fregandosene dei dettagli umanitari - può in effetti fregarsi le mani. Salvagenti arancioni, casse d’acqua e coperte termiche ammucchiate sotto le tamerici della spiaggia a sud dell’aeroporto sono inutilizzati da tre giorni. "Fino a domenica qui sbarcavano almeno sei gommoni a notte - racconta Josè Alvarez, pompiere di Siviglia della Ong Proem-Aid che ha fatto l’alba scrutando l’orizzonte con il cannocchiale - Ora, zero. I gatti sono partiti a caccia dei topi". Tradotto: i guardiacoste greci e turchi e le navi Frontex - latitanti negli ultimi due anni - si sono svegliati e hanno alzato un muro invalicabile. Chi prova a passare viene bloccato e riportato a Dikili sull’altra sponda o nella prigione di Moria. Isaac Perry, 23enne studente australiano che ha interrotto il sabbatico in Italia per venire a distribuire cibo ai profughi con la Starfish Foundation, ha una sua idea. "Le navi schierate, le incertezze sulle regole per i respingimenti e la metamorfosi di Moria hanno un senso chiaro: spaventare chi vuol tentare la sorte e sfidare lo stesso l’Egeo. I migranti leggono Facebook, il tam-tam funziona. E se non ne arrivano più è colpa (o merito, dipende da come la vedi) di questo terrorismo mediatico". Il risultato però "è che a Lesbo, dove fino a pochi giorni fa ero la persona più felice del mondo, adesso mi sembra di vivere un incubo". Il suo timore è quello di tutti. Senza regole scritte e con l’esame delle richieste d’asilo ridotto a una farsa ("mancano norme, avvocati e interpreti" dice Telaro), i respingimenti in Turchia rischiano di diventare una tragedia umanitaria per tutti, siriani compresi. "Ogni essere umano ha una sua storia - dice Lucia Mayer, 28enne infermiera di Zurigo arrivata qui con papà, mamma e marito - Al pronto soccorso di Afghan Hill ho curato decine di persone con il corpo coperto di cicatrici per la sola colpa di essere cristiani. Come si fa a rimandarli nell’inferno da cui sono venuti? E come si fa a sostenere che la Turchia è un paese sicuro?". Domande che la Ue - alle prese con bombe, populismi e un pugno di elezioni delicatissime - preferisce forse non farsi. Morire in un centro di detenzione per immigrati in Giappone di Cristina Biasini internazionale.it, 24 marzo 2016 Secondo il medico legale, Niculas Fernando è morto tra le 9.33 e le 10.44 del 22 novembre 2014 nel centro di detenzione per immigrati di Tokyo. Ma le guardie si sono accorte che c’era qualcosa che non andava dopo le 13. Eppure, Fernando era stato trasferito in una cella monitorata da telecamere a circuito chiuso, dopo aver accusato un dolore toracico acuto. Le guardie sono entrate nella cella e hanno cercato di rianimarlo soltanto dopo essere state avvertite da un altro detenuto. L’uomo giaceva a faccia in giù su un materasso macchiato della sua urina. Era morto. Fernando, un devoto cattolico singalese, era andato in Giappone a trovare il figlio, che vive in un quartiere alla periferia di Tokyo e lavora nella cucina di un ristorante. È stata la quarta persona a morire in un centro di detenzione giapponese nel giro di 13 mesi. Dal 2006 in queste strutture sono morte dodici persone, quattro di loro si sono suicidate. Secondo i dati dell’istituto in cui è morto Fernando, in quel centro 14 detenuti hanno cercato di uccidersi o di provocarsi delle lesioni nel corso del 2015. Un’indagine della Reuters sulle circostanze della morte di Fernando, con decine di interviste a detenuti, funzionari e medici, ha rivelato gravi carenze nel trattamento e nel monitoraggio sanitario dei migranti trattenuti nei centri del Giappone. Guardie con scarsa formazione medica prendono decisioni importanti sulla salute dei detenuti. I dottori visitano alcuni dei principali istituti del paese soltanto due volte a settimana. E nel fine settimana non c’è personale sanitario in servizio in nessuna delle strutture di detenzione per immigrati, che nel 2014 hanno ospitato oltre 13.600 persone. Tre dei quattro detenuti morti tra l’ottobre del 2013 e il novembre del 2014 sono deceduti mentre non c’era un medico in servizio. Come Fernando. E come Fernando, anche un altro migrante è morto in una cella di osservazione. Anche in Giappone si è registrata un’impennata del numero di persone che sbarcano sulle coste in cerca di protezione. Dal giugno del 2015 sono state esaminate 10.830 domande di asilo: sono poche per gli standard europei, ma rappresentano un record per il Giappone, una nazione che è stata a lungo riluttante ad accogliere gli stranieri. A febbraio in una struttura di Osaka più di 40 detenuti hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni in cui si trovano, prima tra tutte la scarsa assistenza medica. Anche i controlli sono limitati. Gli incaricati di eseguire dei controlli sui 17 centri di detenzione del paese sono nominati dal ministro della giustizia. Le relazioni vengono però emendate dal ministero della giustizia prima di essere rese pubbliche, e così il ministero non ha preso alcun provvedimento per migliorare l’assistenza medica nei centri. Un rapporto del gruppo di supervisione afferma che le guardie del centro "hanno valutato male la gravità" delle condizioni di Fernando. Secondo il rapporto, non avendolo trasferito immediatamente in ospedale, "hanno perso l’occasione di evitare la sua morte". Il ministro della giustizia Mitsuhide Iwaki ha affermato che i rapporti da lui ricevuti dimostrano che in tutti e quattro i casi di morte erano stati presi "provvedimenti medici adeguati". "Non ravviso problemi nell’intervento prestato o nell’assistenza medica fornita", ha detto. In Sri Lanka Fernando gestiva un’agenzia di viaggi specializzata in pellegrinaggi. Quando è arrivato in Giappone non vedeva suo figlio George da otto mesi. Prima di partire, aveva visitato le tante chiese di Chilaw, la città costiera in cui viveva. Su un tavolo della casa dove lui e la moglie hanno vissuto da quando si sono sposati nel 1983, c’è una foto incorniciata di Fernando. Margret, seduta sul divano, piange in silenzio dopo aver ricordato le ultime parole di Fernando prima di imbarcarsi sull’aereo per il Giappone: "Tornerò. Pensa ai bambini". Non è mai tornato. Non è riuscito nemmeno a entrare in Giappone: non ha superato i controlli dell’immigrazione dell’aeroporto Haneda di Tokyo. George e sua moglie aspettavano Fernando nella hall degli arrivi alle 23 del 12 novembre. Alle 2 hanno saputo che era stato trattenuto dai funzionari dell’immigrazione perché non credevano che fosse un vero turista. "Ci sarebbe piaciuto moltissimo sentire la voce di mio padre, ma non gli hanno dato la possibilità di parlare con noi", ha detto George, 27 anni. Due giorni dopo, George è riuscito a vederlo. Si sono incontrati in una stanzetta dell’aeroporto di Haneda, separati da un vetro. George ha spiegato che suo padre era un sostenitore del Partito nazionale unito (Unp), che in passato era stato bersaglio di violenza politica e che attualmente guida la coalizione di governo. La possibilità di elezioni anticipate stava diventando sempre più concreta, e quindi è probabile che Fernando avesse programmato il viaggio in Giappone in modo da non partecipare al voto ed evitare eventuali ritorsioni. Ma dopo l’arresto all’aeroporto, avrebbe dovuto accettare l’espulsione con un foglio di via in tasca. Secondo suo figlio, allora, Fernando ha preso una decisione sorprendente, cioè quella di chiedere asilo. In questo modo sarebbe rimasto in Giappone finché la sua domanda non fosse stata esaminata. Se fosse andato tutto liscio, sarebbe tornato a casa dopo le elezioni. Le elezioni nello Sri Lanka sono state ufficialmente annunciate il 20 novembre. Fernando è morto due giorni dopo. Prima di poter compilare i moduli per la richiesta di asilo.Le richieste di asilo si sono più che sestuplicate dal 2010, quando in Giappone sono cambiate le regole sull’immigrazione. Le modifiche consentono ai richiedenti asilo di ottenere un permesso di lavoro di sei mesi (poi rinnovabile) mentre viene esaminata la loro domanda. Ma quando si tratta di concedere lo status di rifugiato il Giappone lesina: nel 2015 sono state accettate solo 27 domande. Questa rigidità e la cronica carenza di manodopera hanno generato negli anni un grosso flusso di immigrazione clandestina. Cinque giorni dopo il suo arrivo, Fernando è stato trasferito dalla cella all’interno dell’aeroporto all’ufficio regionale per l’immigrazione, un palazzone affacciato sulle banchine e sull’inceneritore dei rifiuti. La struttura funziona sia come sportello unico per il rinnovo dei visti, i colloqui per l’asilo e gli ordini di espulsione, sia come centro di detenzione per un massimo di 800 persone. Fernando è stato messo in una cella del blocco G con altri due detenuti, un cinese e un peruviano. Il sabato mattina in cui è morto, James Burke, un canadese che si trovava nella cella accanto, è stato svegliato dalle grida del singalese. Erano circa le 7. I rumori attraversano facilmente i muri dell’edificio e Fernando era chiaramente in preda al dolore: "Non faceva che gemere e lamentarsi", ha affermato Burke. Il compagno cella peruviano ha chiamato le guardie e ha chiesto di portarlo in ospedale perché aveva male al petto. Secondo Burke e altri due detenuti che hanno assistito agli eventi, le guardie si sono rifiutate spiegando che il sabato gli ospedali sono chiusi. Nel raggio di pochi chilometri dal centro di detenzione, nei fine settimana sono aperti ventiquattr’ore su ventiquattro almeno due ospedali, compreso l’ospedale centrale Saiseikai, in cui il corpo di Fernando sarebbe stato portato ormai senza vita, quello stesso giorno. Il garante dei detenuti del ministero della giustizia Naoaki Torisu ha argomentato che "i suoi sintomi non sembravano così gravi. Se le sue condizioni fossero peggiorate, avremmo chiamato un’ambulanza o l’avremmo portato in ospedale senza indugio". Alle 7.30, secondo un rapporto interno dell’ufficio regionale dell’immigrazione di Tokyo, le guardie hanno misurato a Fernando il polso e la pressione. Secondo Torisu non hanno trovato nessuna anomalia. Ma poco dopo Fernando ha chiamato di nuovo le guardie, questa volta a voce più alta. "Stava davvero male", ha ricordato Burke, che in quel momento era trattenuto perché aveva il visto scaduto e ora è in libertà provvisoria. "Li implorava: ‘Sono cristiano e non potrei mentire. Se non vado in ospedale morirò". Poco prima delle 8, le guardie hanno portato Fernando in una stanza per controllare le sue condizioni. Un rapporto dell’ufficio nazionale dell’immigrazione, che dipende dal ministero della giustizia, afferma che le guardie "non hanno potuto cogliere la gravità" della situazione perché un altro detenuto singalese che faceva da interprete non traduceva bene le parole di Fernando. Poco dopo, quando è tornato nella sua cella, secondo Burke il singalese sembrava sollevato. Ha radunato la sua Bibbia e i suoi vestiti. "Glielo leggevi in faccia: raccoglieva la sua roba pensando che avrebbe ricevuto aiuto". Ma Fernando non è stato portato in ospedale. Alle 8.16 le guardie lo hanno trasferito in una cella di osservazione equipaggiata con telecamere a circuito chiuso per controllare ventiquattr’ore su ventiquattro i detenuti malati, indisciplinati o con comportamenti autolesionistici. Verso le 9, dalla sua cella Fernando ha di nuovo chiamato le guardie. Queste ultime, secondo Burke e altri due detenuti, gli hanno detto di aspettare che finisse l’appello del mattino. Alle 9.22 Fernando si sarebbe lavato le mani e avrebbe vomitato. Poi, secondo il rapporto sulla sua morte dell’ufficio regionale dell’immigrazione di Tokyo, si è steso a faccia in giù su un futon. Alle 9.33 ha smesso di muoversi. Pochi minuti dopo, una guardia ha portato un televisore nella cella di Fernando. Lo ha chiamato, ma Fernando non ha risposto. Pensando che il singalese fosse addormentato, la guardia è uscita. Per lo stesso motivo, le guardie non hanno controllato Fernando nelle ore successive. Poco dopo le 13, quando si aprono le porte delle celle per consentire ai detenuti la pausa pomeridiana, il singalese che aveva fatto da interprete per Fernando è corso nella cella di osservazione. La colazione di Fernando - pane bianco, marmellata e uovo sodo - era intatta. Non si muoveva. Il suo corpo era freddo. Avvertite dai detenuti, le guardie si sono precipitate nella cella di osservazione. Erano le 13.03, tre ore e mezza dopo che Fernando aveva dato gli ultimi segni di vita. I detenuti hanno descritto una scena infernale: i reclusi affollavano il corridoio che porta alla cella e alcune guardie, temendo disordini, avevano caschi, scudi e manganelli. Una guardia ha praticato a Fernando la rianimazione cardiorespiratoria, ma era troppo tardi. Come hanno raccontato due detenuti, è stata chiamata un’ambulanza e il suo corpo, con il volto coperto, è stato portato fuori dal blocco G su una barella. Due ore dopo è stato dichiarato morto. Aveva 57 anni. Secondo l’ufficio immigrazione c’era la possibilità che il centro di detenzione non avesse fornito un’assistenza medica adeguata. Koichi Uemura, il medico legale incaricato dall’ufficio nazionale dell’immigrazione di scrivere un referto autoptico approfondito sulla morte di Fernando, ha detto a Reuters che gli è stato permesso di vedere il video del singalese nella cella di osservazione. Dalle immagini era possibile capire che Fernando, prima di sdraiarsi, soffriva e gemeva. Uemura ha dichiarato che è stato incaricato di redigere un rapporto dopo che l’ufficio immigrazione aveva indagato sulla morte di Fernando e scoperto che "c’era una possibilità abbastanza alta che il centro di detenzione non avesse fornito un’assistenza medica adeguata, e che le sue condizioni si sono aggravate perché era stato lasciato privo di cure". Uemura, medico presso l’università di medicina e odontoiatria di Tokyo, esegue autopsie per la polizia e i tribunali. Nel suo referto ha omesso che la morte di Fernando poteva essere evitata se le guardie lo avessero portato in ospedale. Fin dal 2010 la commissione di sorveglianza delle strutture di detenzione per immigrati (un organismo di garanzia composto da 20 persone) ha ripetutamente chiesto dei miglioramenti nell’assistenza sanitaria all’interno dei centri. Sei membri della commissione, presenti e passati, hanno detto alla Reuters che le raccomandazioni più importanti sono rimaste inascoltate. Ed è per questo che protestano i detenuti. Quelli che hanno iniziato lo sciopero della fame nel centro di detenzione di Osaka hanno scritto a mano due lettere in cui lamentano la limitata disponibilità di personale medico e affermano che guardie prive di formazione medica fanno valutazioni sul loro stato di salute. Ma la loro protesta non ha smosso le autorità. Tomohisa Takayama, portavoce dell’ufficio regionale dell’immigrazione di Osaka, ha sostenuto che non c’era alcun "motivo ragionevole" alla base dei reclami, e che lo sciopero della fame si è concluso dopo cinque giorni. A maggio un ex componente dell’organismo di controllo ha scritto all’allora ministro della giustizia Yoko Kamikawa chiedendo medici a tempo pieno presso le strutture di detenzione, un monitoraggio più scrupoloso dei detenuti malati e una migliore assistenza psichiatrica. Ma l’organismo garante ha ben poco potere. Non esegue ispezioni senza preavviso. Le visite che compie nei centri di detenzione sono organizzate e scortate dai funzionari dell’immigrazione. Inchiesta censurata - Dopo questi decessi i cambiamenti sono stati pochi. Le guardie hanno ricevuto "nuove istruzioni per chiamare le ambulanze" se hanno problemi nel "fare valutazioni", ha dichiarato il funzionario del ministero della giustizia Torisu. E nell’intero sistema di detenzione, che il 1° novembre dello scorso anno ospitava 1.070 detenuti, soltanto due guardie hanno ricevuto una formazione da assistente infermiere. George non ha ricevuto nessun rapporto sulla morte di Fernando. Il 19 dicembre, quasi un mese dopo aver perso suo padre, ha ricevuto il certificato di morte. La risposta che cercava non c’era: la causa del decesso risultava "sconosciuta". Lo stesso giorno, Fernando è stato cremato a circa cinque chilometri dal centro di detenzione in cui è morto. La sua famiglia aveva sperato in una sepoltura cattolica a Chilaw, ma non si è potuta permettere il trasporto della salma. Jude, il suo terzo figlio che è andato in Giappone per il funerale, ha fatto richiesta di asilo. Ci sono voluti altri tre mesi perché la famiglia venisse a sapere dal ministero degli esteri dello Sri Lanka che Fernando era morto per un attacco cardiaco. Il ministero della giustizia non ha reso noti i risultati dell’inchiesta sul caso né li ha trasmessi alla famiglia. In risposta a una richiesta di divulgazione, la Reuters ha ricevuto una copia del rapporto dell’ufficio nazionale dell’immigrazione dello scorso marzo. Era pesantemente censurata. Nella sezione intitolata "Problemi" tutte le righe erano state cancellate. Svizzera: la guardia carceraria scappata col detenuto "L’ho fatto per amore" di Antonio Palma fanpage.it, 24 marzo 2016 Dopo la fuga con un detenuto del carcere elvetico dove lavorava come guardia carceraria, si è rifatta viva con un video la 32enne Angela Magdici spiegando i motivi del suo gesto. La sua improvvisa fuga con un detenuto del carcere elvetico dove lavorava come guardia carceraria sorprese colleghi, amici e parenti. Ora, a oltre un mese di distanza dalla rocambolesca fuga, si è rifatta viva la 32enne Angela Magdici ancora ricercata dalla polizia insieme al detenuto 27enne Hassan Kiko condannato per stupro. Come ha rivelato il sito svizzero "20 Minuten", la donna infatti è comparsa in un breve video della durata di circa quaranta secondi in cui spiega il motivo del suo gesto e si scusa con i familiari per la repentina fuga e la successiva latitanza. "Sono desolata di essere sparita in questa maniera dalle vostre vite. Mi scuso. Vi voglio bene. L’ho fatto per amore. Hassan è l’uomo della mia vita. Non avevo mai conosciuto finora un uomo così sincero, onesto e divertente come lui", ha spiegato la ormai ex guardia carceraria svizzera. In un secondo video, realizzato nello stesso luogo, si vede anche l’uomo che oltre ad accusare di incapacità il proprio difensore, il procuratore e il giudice, ringrazia la sua salvatrice. "Ho pregato molto. Dicevo: "Dio aiutami, sono innocente". E Dio ha risposto alle mie preghiere mandandomi Angela" ha spiegato l’uomo dopo aver ribadito la sua innocenza e denunciato le pessime condizioni di detenzione del carcere di Limmattal, nel Canton Zurigo, dove era detenuto. La polizia di Zurigo ha spiegato di non essere a conoscenza del video ma che le indagini sul caso proseguono.