Il fallimento della politica di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Il sonno della ragione genera mostri e diabolici terroristi. Ma senza memoria la ragione funziona assai male. C’è una geopolitica e una storia del terrorismo islamico che ha due fronti, uno esterno e un altro interno. È sul fronte esterno che tutto comincia. L’errore è stato quello iniziale: dopo l’11 settembre del 2001 gli americani lanciarono una "guerra al terrore" che non solo non ha reso il mondo più sicuro ma l’ha portato nelle case degli europei. Il regime talebano-qaedista venne nominalmente abbattuto ma è in Pakistan che era nato ed lì che poi sono morti il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, nel blitz di Abbottabad, e il Mullah Omar, in un ospedale di Karachi: ma non si poteva certo colpire un Paese con l’atomica che con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta. Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: "È per questo che lei ha combattuto". Nacque così negli anni 80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile: è sufficiente esaminare la relazione con Riad stipulata già nel 1945 con il famoso scambio tra Roosevelt e Ibn Saud "petrolio contro sicurezza". L’Europa si è infilata in questo rapporto da "free rider" direbbe Obama, scroccando vantaggi politici ed economici. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta. Con la guerra del 2003, con cui dei leader approssimativi volevano ridisegnare il Medio Oriente, gli Usa hanno scoperchiato il vaso di Pandora e non l’hanno più richiuso. Al Qaeda, da cui in seguito è nato l’Isis, dall’Afghanistan si spostò in Mesopotamia. I gruppi jihadisti si sono moltiplicati e dopo il Califfato ci sarà qualche cosa d’altro, soprattutto se andremo a bombardare in Libia come nel 2011 senza sapere davvero cosa fare e con chi. La Tunisia sta già pagando l’instabilità nordafricana del post-Gheddafi che ha contagiato tutto il Sahel e le frontiere europee da un pezzo sono sprofondate di alcune migliaia di chilometri a Oriente e Occidente: l’Europa di Bruxelles è stata l’ultima ad accorgersene finendo con l’arrangiare un dubbio accordo sui profughi con la Turchia. Il Califfato non aveva inizialmente come obiettivo l’Occidente ma in primo luogo il governo sciita di Baghdad e poi quello filo iraniano di Assad: lo scopo era la rivincita dei sunniti in Mesopotamia e nel Levante, un proposito condiviso dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa. Con l’evidente menzogna di sostenere un’opposizione moderata quasi inesistente, gli Stati Uniti hanno dato via libera alla Turchia per aprire "l’autostrada della Jihad" con l’afflusso di migliaia di jihadisti da tutto il mondo musulmano, Europa compresa. La risacca sanguinosa di un conflitto con 250mila morti e milioni di profughi da qualche tempo è tornata e vive accanto a noi. Il delirio terrorista del jihadismo ha una sua logica alla quale non siamo per niente estranei. Ma oggi versiamo lacrime, stringiamo i denti, paghiamo i nostri errori e magari anche qualche promessa mancata. Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel 2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente. Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati. Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico - è avvenuto anche in Bosnia - per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo. I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta. Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica. I nichilisti e l’argine dei valori di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 23 marzo 2016 Viviamo una stagione di attacchi diffusi e imprevedibili, perché contro il nichilismo di chi è disposto a sacrificare la vita pur di bruciarne altre è difficile predisporre difese. È più di una guerra; è un’epoca. E in questa nuova epoca l’Europa - ieri centrata al cuore - torna a essere campo di battaglia, come nella prima metà del Novecento. Stavolta non è un conflitto tradizionale, con un inizio e una fine; è una stagione di attacchi diffusi e imprevedibili, perché contro il nichilismo di chi è disposto a sacrificare la propria vita pur di bruciarne altre è difficile predisporre difese. La proliferazione nucleare apre scenari spaventosi, unita alla capacità dei terroristi islamici di intervenire come attori della scena politica mondiale: la bomba di Madrid del 2004 cambiò il verdetto delle elezioni spagnole; e si pensi a come può essere influenzata la campagna elettorale americana in questo anno cruciale. Nello stesso tempo, proprio nei giorni del lutto, si comincia a respirare un sentimento comune europeo. Lo si è visto il 13 novembre a Parigi, dove morirono 130 persone di 18 Paesi diversi. Lo si è sentito nell’emozione per le giovani vite spezzate in Catalogna. Lo si vede ora a Bruxelles. La città belga non ha lo stesso potere evocativo di Parigi, la stessa capacità di creare miti letterari e di accendere lumi filosofici. Almeno fino a ieri, ai nostri occhi era la capitale dell’Europa carolingia, persa nelle lande brumose del Nord, ai confini tra il mondo gallico e quello germanico; oltre a essere la sede di istituzioni non particolarmente amate. Ma in queste ore, forse per la prima volta, Bruxelles è davvero la capitale dell’Europa che le nostre generazioni sono chiamate a costruire, con l’apporto dei popoli e non solo dei burocrati. L’Europa è nata dalla tragedia della Seconda guerra mondiale. Ha mosso i primi passi nel clima di energia e fiducia della ricostruzione. Si è impantanata nello scetticismo e negli egoismi su cui si è innestata la grande crisi finanziaria. Oggi l’emergenza economica e gli attacchi terroristici possono contribuire a generare quella spinta all’integrazione che era venuta meno. Il dolore condiviso è la base su cui edificare una casa comune. La nuova Europa deve affrontare per prima cosa il tema epocale del rapporto con l’Islam: quello del Medio Oriente, e quello di casa. È stato un grave errore lasciare che sorgessero enclaves musulmane - la parola ghetto è sbagliata, i ghetti da Venezia a Varsavia sono stati luoghi di ingiustizia ma anche di resistenza e costruzione di civiltà - come Molenbeek e altri quartieri ai margini o in mezzo alle metropoli, dove non si parla francese o inglese o fiammingo, dove le leggi sono sospese, dove le donne spesso sono costrette a vivere come a Gaza o a Riad. Eppure consegnare l’Islam europeo ai radicali sarebbe un suicidio. La jihad lavora per esportare nel nostro continente la guerra civile per il potere sul mondo islamico. Non a caso colpisce negli aeroporti, nelle metropolitane, nei giornali, nei teatri, per minare le libertà di circolazione e di espressione: un disegno che va respinto; ad esempio l’idea, che già circola sul web, di rinviare i campionati di calcio in Francia del prossimo giugno sarebbe una resa inaccettabile. Se l’Europa riuscirà a difendere la legalità e i valori - a cominciare dai diritti delle donne - senza esporre i suoi cittadini di fede musulmana alla tentazione ideologica e mediatica degli estremisti, la trama della jihad potrà ancora spargere altro sangue; ma sarà sconfitta. Le colpe di governi indecisi di Antonio Polito Corriere della Sera, 23 marzo 2016 Abbiamo bisogno di una polizia federale europea, con poteri sovranazionali e metodi di indagine unificati, e anche di leggi comuni (per esempio sulle intercettazioni). Come possiamo proteggerci? Ne usciremo mai? Per quanto tempo ancora rischieremo la vita semplicemente vivendo? Durerà decenni questa guerra, come fu per le "nostre" guerre di religione, che sconvolsero l’Europa tra il 1500 e il 1600? Di fronte alla facilità con cui si può uccidere se si è disposti a morire, restiamo senza fiato, come pietrificati dal soffio gelido che ci vediamo passare affianco in quelle immagini filmate sullo sfondo della nostra vita di ogni giorno: un bambino che trema accovacciato nello shopping mall di un aeroporto, una donna che fugge nel buio di un tunnel della metropolitana. Come fermarli? Partiamo da quello che sappiamo. Il nuovo terrorismo islamista ha la testa in Iraq e in Siria, se ne sta costruendo un’altra in Libia, dispone di un piccolo esercito pronto a tutto in Francia e in Belgio. Forse non è vero che hanno dichiarato guerra all’Europa, ma di certo hanno esportato da noi la loro: Bruxelles come Damasco, Parigi come Beirut. Qui in Europa si nutrono di disperazione esistenziale, di scontro tra civiltà, di rabbia generazionale, di sradicamento sociale e culturale. Tra di noi c’è un sacco di gente che ci odia. Per buttare giù le Torri gemelle di New York, Bin Laden dovette infiltrare un commando negli Stati Uniti. In Europa non c’è bisogno, l’Isis nuota nello stagno delle comunità mediorientali e magrebine che si radicalizzano. Per questo l’epicentro è l’asse franco-belga, non il Londonistan dove prevalgono i pachistani e gli asiatici, non Berlino dove ci sono i turchi. E nemmeno, ringraziando Dio, le nostre banlieue, dove forse l’immigrazione è troppo recente per aver già covato l’uovo del serpente. Quindi la prima cosa da fare è prosciugare lo stagno. Certo con l’integrazione e la cultura, ma anche con un’opera severissima ed efficace di polizia. Di fronte a questa emergenza, l’Europa dei 28 ha invece polizie divise e frontiere aperte. Ora la tentazione è di chiudere le frontiere: ma come si fa a chiudere quella tra Belgio e Francia? Abdeslam Salah ha viaggiato liberamente in Italia, in Austria, in Olanda, in Germania. Forse una soluzione migliore sarebbe unire le polizie. Gli Stati Uniti inventarono l’Fbi e la Cia quando gli sceriffi non furono più in grado di inseguire i criminali lungo gli Stati. Abbiamo bisogno della stessa cosa, di una polizia federale europea, con poteri sovranazionali e metodi di indagine unificati, e anche di leggi comuni (per esempio sulle intercettazioni). Nello stesso tempo dobbiamo agire fuori dall’Europa, nei centri dai quali si irradia il messaggio politico e ideologico del Califfato, nei luoghi dove grandi vecchi, probabilmente barbuti, impartiscono comandi ai giovani soldati nelle nostre città. Mettiamoci l’anima in pace: il terrorismo non finirà finché ci saranno gli Stati del terrore. Gli attentati di Bruxelles sono stati probabilmente decisi in Siria. La Libia è candidata a diventare la nuova succursale dell’Isis. Con tutta la cautela e il buon senso di questo mondo, bisogna fare qualcosa. Ma i governi europei non hanno ancora deciso che cosa, quando, e come. L’indecisione non è prudenza, è ignavia. Un peccato che Dante mise nell’Antinferno. La commozione non basta di Adriana Cerretelli Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Il solito festival europeo di emozioni, deprecazione generale e retorica solidaristica. Da Madrid a Londra, da Parigi a Bruxelles lo sghembo quadrilatero del terrore jihadista semina morti e feriti a centinaia, si allarga e non promette remissione. Al contrario. Ma il vero problema non sono loro, i kamikaze dell’Islam e chi gli sta dietro, li organizza e finanzia nell’ombra. Il vero problema siamo noi, le nostre società dal pianto facile ma brevissimo di fronte all’orrore della macelleria a ripetizione, delle città rese invivibili dalla paura del nichilismo di pochi: dura poco però, il tempo di dimenticare aspettando un nuovo attentato e ricominciare il ciclo sterile della commozione mordi e fuggi, seguita dalla semi-inazione che comunque ancora non riesce a essere davvero comune. Intendiamoci: nessuno può condannare l’Europa perché ama il suo pacifico tran-tran, la sua relativamente grassa e comoda way of life, una rassicurante normalità quotidiana. Ma nessuno può illudersi sul terrorismo islamico: non ha alcuna intenzione di abbandonarci a breve. Dunque basta rimozioni collettive: ci fanno solo male e non risolvono niente. Si limitano a evocare lo spettro di Monaco. Naturalmente le polemiche si sprecano in queste ore. Bruxelles è un simbolo dell’Europa, il cuore delle sue istituzioni e della Nato, città ferita anche con la complicità della propria "belgitude": 19 comuni, 19 corpi di polizia solo di recente ridotti a 6 ma malati di incomunicabilità tra loro, di connivenze con corruzione e malaffare, di patti indecenti con il mondo sommerso della delinquenza che spesso marcia indisturbata di conserva con le cellule del terrore. Bruxelles, la capitale europea che tra qualche anno rischia di ritrovarsi a maggioranza musulmana e già ospita il maggior numero di foreign fighters in un paese multilingue che perde identità nell’eccesso delle sue diversità. Del resto Bruxelles è anche la città da cui partì il kamikaze che il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle Torre Gemelle, uccise In Afghanistan Ahmad Massud, il Leone del Panshir eroe della resistenza anti-sovietica. Belgio e Francia, due vicini che non si amano granché: a Parigi le barzellette sull’ottusità belga circolano quanto quelle sui carabinieri in Italia. Anche per questo dialogo e collaborazione tra intelligence e polizie non funziona molto. In Europa non va meglio. Qualche passo avanti ma stentato: la sfiducia reciproca tra strutture giudiziarie e di tutela della sicurezza domina a tutto vantaggio dei terroristi. Il famoso PNR, il registro europeo dei passeggeri aerei ritenuto, non solo dagli americani, uno strumento di lotta decisivo, non riesce a vedere la luce. Come una seria politica europea integrata sulla sicurezza comune. Come un’ efficace politica estera nella cintura delle crisi circostanti. Tutto vero in queste polemiche, tutti pezzi di analisi ineccepibili dell’ennesima emergenza europea irrisolta. Anche se si tende sempre a parlare degli attentati che purtroppo ci sono stati, mai di quelli scongiurati: oltre 300 nel 2015 secondo i dati Europol. Segno tangibile che, dopo tutto, c’è anche qualcosa che funziona nell’Unione. Ma il problema di fondo è un altro. I terroristi non sono degli alieni ma i vicini della porta accanto, quasi sempre con in tasca il nostro stesso passaporto. Anche per questo spesso imprendibili. Per combattere questa "guerra civile" su scala europea, che ne sfrutta abilmente le libertà senza frontiere, sono fondamentali nell’immediato banche-dati comuni e sistematici scambi di informazioni tra servizi e forze dell’ordine nel segno della fiducia reciproca, tutta da creare, per prevenire e reprimere gli attentati. Ma quegli strumenti non servono per risolverla alla radice. Per riuscirci, e tanto più ora che si misura con la grande ondata dei rifugiati in maggioranza musulmani e per non condannarsi in prospettiva al disastro, l’Europa deve trasformare l’attuale scontro in un costruttivo incontro di civiltà. Basta ghetti o periferie off-limits per cominciare ma basta anche con le favole: l’Islam smetta di definirsi pacifico e noi di far finta di crederci. I moderati musulmani escano allo scoperto isolando davvero i loro figli degeneri. E noi europei finiamola di rifugiarci nel relativismo culturale che divide e non aiuta a creare ponti. Riscopriamo con coerenza il valore dei valori fondamentali della nostra identità. Solo intavolando un dialogo tra pari, nella convinzione dei meriti dei rispettivi patrimoni culturali, l’Europa potrà scommettere su un futuro diverso e più ricco di opportunità. Pacificazione e integrazione sono sfide di lunga lena ma si deve cominciare adesso per realizzarle dopodomani. L’alternativa per la società europea è rassegnarsi a sopportare la compagnia del terrorismo. Il ministro della Giustizia Orlando "ci vuole subito una procura europea antiterrorismo" Il Foglio, 23 marzo 2016 In Italia le leggi antiterrorismo ci sono, "abbiamo istituito la procura nazionale", dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, "da noi oggi vengono punite condotte che in altri paesi non sono punite. Il decreto anti terrorismo permette di intervenire anche quando le condotte non sono ancora esplicitamente terroristiche. Puniamo le forme di incitamento, di propaganda, siamo in grado di intervenire anche soltanto quando un soggetto ponga in essere comportamenti che anticipano l’azione terroristica". Ma su un punto il ministro esprime preoccupazione: "Chi aggredisce le nostre città, nella sua testa, sembra avere un’idea di Europa più forte di quella che riusciamo a esprimere noi. In Europa non riusciamo a dotarci di norme comuni ed efficaci. E la differenziazione normativa tra paesi complica le indagini, complica la cooperazione giudiziaria e dà spazi imprevedibili al terrorismo. Lo dico con chiarezza: non servono leggi più dure, servono leggi più simili tra paesi, serve lo scambio di informazioni, e serve una procura europea antiterrorismo". In Francia, dopo gli attentati di Parigi, il governo ha introdotto una legislazione speciale, che in taluni casi sospende l’habeas corpus e aumenta il potere discrezionale della polizia. "È stato un intervento più simbolico, che pratico", dice Orlando. "Non ci vuole esemplarità, ma funzionalità. Devo confessare che capisco poco come possa convivere da un lato la sospensione dei diritti fondamentali, e dunque un intervento durissimo di carattere legislativo, e dall’altro una difficoltà a spingere verso una più ambiziosa normativa comune antiterrorismo. In questi mesi abbiamo visto, attraverso le vicende di Parigi, che informazioni nella disponibilità di paesi alleati non erano state messe in comune. Abbiamo visto paesi apparentemente intransigenti che reclamano durezza nelle sanzioni, paesi come l’Ungheria, che però all’atto pratico hanno dimostrato paurose debolezze. Il terrorista del Bataclan, Salah, era stato fermato tra Austria e Ungheria e non ne era stata riconosciuta la pericolosità. Noi in Consiglio europeo abbiamo proposto più integrazione, ma ci sono resistenze". Da parte di chi? "In particolare da parte dei paesi dell’Europa orientale e settentrionale, ma anche di alcuni stati fondatori. Ognuno pensa di poter fare meglio da solo. L’idea di condividere una normativa e delegare l’iniziativa a un organismo sovranazionale spaventa molto. Nel contrasto al terrorismo non ci sono sostanziali differenze rispetto agli altri campi d’azione dell’Unione". "I paesi europei agiscono ognuno per sé, mentre le reti terroristiche sono sovranazionali. Paradossale, no? Stiamo discutendo di una procura europea che abbia finalità solo di contrasto alle frodi contro l’Ue. Il trattato di Lisbona prevede che la procura possa avere anche compiti di lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. Ecco. Malgrado la formula con la quale questa procura sta prendendo forma sia, per così dire, mignon, c’è comunque una fortissima ostilità alla sua costituzione. Di più: per contrasti e resistenze, la nuova procura si sta già delineando come una struttura farraginosissima nel suo funzionamento, composta da procuratori di tutti i paesi e con un capo nominato dalla Commissione. Una struttura che potrebbe complicare la vita ai singoli paesi e bruciare qualsiasi prospettiva di un ufficio con compiti e responsabilità più ampie. Noi abbiamo proposto, con la Francia, di rafforzare la normativa contro il traffico di beni culturali che è fonte di finanziamento per il terrorismo, e abbiamo proposto anche di punire i viaggi con finalità terroristiche all’interno dell’Unione e di bloccare i siti internet che facciano propaganda. Tutti reati che in Italia sono già puniti, ma non in tutta Europa". Effetti? "Ancora nessuno. C’è ostilità nei confronti delle misure sovranazionali, malgrado queste posizioni abbiano la simpatia di Francia, Belgio e Spagna". In Francia le carceri sono luoghi di proselitismo islamista, e in Italia? "Il carcere è un luogo dove la propaganda d’odio trova amplissima audience. Circa diecimila detenuti provengono da paesi di fede musulmana. Il rischio esiste. Noi garantiamo l’acceso al culto nelle carceri. Si è dimostrato che dove questa possibilità è negata c’è più probabilità di radicalizzazione. Ma controlliamo, e vigiliamo sull’attività di culto". "C’è da migliorare la dimensione delle carceri. Abbiamo bisogno di più mediatori culturali. La polizia penitenziaria non è del tutto in grado di capire i fenomeni che si determinano nelle comunità straniere. Ci vogliono più specializzazioni. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo". In Italia ci sono detenuti per terrorismo strettamente inteso, oltre a fiancheggiatori, propagandisti… "I terroristi sappiamo come trattarli. Per i fiancheggiatori il problema è come fargli scontare la pena. Vanno tenuti in strutture in cui si rischia facciano proselitismo? Vanno isolati? Esiste la rieducazione? È un tema delicato, su cui si stanno interrogando tutti in Europa". Ecco, ma le procure italiane sono attrezzate di fronte alla minaccia? "La magistratura italiana, come la polizia, è tra le più preparate. E si è già occupata di terrorismo internazionale negli anni Novanta. Avere una procura nazionale che si occupa di mafia e terrorismo aiuta a prevenire i possibili intrecci". Il senatore Casson (Copasir) "anche l’Italia è un obiettivo, serve una superprocura Ue" di Daniela Preziosi Il Manifesto, 23 marzo 2016 Il senatore e magistrato: senza prevenzione e coordinamento fra stati europei non ne verremo mai a capo, controllare tutti è impossibile. "È un segnale preciso, e dice: vi colpiamo quando vogliamo". Per il magistrato Felice Casson, senatore Pd e componente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, gli attentati di Bruxelles sono "un salto di qualità". È la risposta dell’Isis all’arresto di Salah? "Ci può essere un collegamento, perché in situazioni così chi sta organizzando attentati sa che corre il rischio che la rete venga scoperta e smantellata, quindi accelera i tempi. Ma era tutto programmato da tempo: interventi così coordinati prevedono una pianificazione". Questi attentati erano del tutto inaspettati? "No. Nelle settimane passate c’erano state segnalazioni che riguardavano l’Europa e l’Italia. Infatti l’allarme era elevato, tant’è che al Copasir abbiamo convocato già dalla settimana scorsa per domani (oggi, ndr) Arturo Esposito, il direttore dell’Aisi, i servizi per l’intelligence interna". Che tipo di segnalazioni? "Dei contenuti non posso parlare. Ma erano tali da imporci una verifica anche per la parte di competenza del parlamento". L’Italia è nel mirino dell’Isis? "Quello che si può dire è che l’Italia è oggettivamente un obiettivo, soprattutto le città d’arte, Roma, Milano. Ma il coordinamento dimostrato dai terroristi deve farci pensare che se lo decidono, possono arrivare dove vogliono. Quindi è difficile tutelare tutto il territorio e tutti i cittadini. Bisogna lavorare sulla prevenzione e sull’intelligence". Ma per farlo ci vorrebbe un coordinamento fra stati europei. Che non c’è. "L’elevatezza dello scontro impone di rivedere le strategie soprattutto a chi fino a ieri ha rifiutato qualsiasi modifica normativa. Si tratta di far funzionare in maniera diversa tutti gli apparati e gli organismi: l’intelligence, quelli di polizia e prevenzione, la magistratura. Il che vuol dire dotarsi di organismi se non unitari almeno fortemente collegati ed efficienti. Invece fino a qui anche su una procura europea ci sono state molte risposte negative". Quale paese si oppone di più? "Complessivamente è l’insieme degli stati europei a frenare. Ci sono forme di ritrosia, di malfidenza, di gelosie. Manca l’unità politica e questo si ripercuote anche nei servizi di intelligence. E a scalare nelle polizie e nelle procure. L’Italia da tempo propone una procura europea contro il terrorismo e la grande criminalità organizzata. Fino a qui i collegamenti si basano solo sui rapporti interpersonali. Nei giorni scorsi anche il ministro Orlando ha confermato questa estrema difficoltà. E se la difficoltà parte dal livello della magistratura, immaginiamoci quella dell’intelligence. Ma se non si lavora in coordinamento reale con gli altri paesi non se ne viene fuori". Il ministro Alfano ha detto che ha pronto un pacchetto di espulsioni. "Una singola misura non è risolutiva. Ne espelli cento, ma magari quello che cerchi sta negli altri duecento". Resta che il ricercatissimo Salah è stato trovato a Molenbeek, dov’era sempre stato. La polizia belga ha sbagliato di grosso o c’è un’altra possibilità? C’è chi parla di un patto. "Se fosse stato stretto un patto sarebbe stato un patto sconsiderato. No, solo imbecilli criminali possono pensare cose così. Invece osservo che anche in altre città europee ci sono zone note, come Saint-Denis a Parigi o alcuni sobborghi di Londra, dove migliaia di persone di origine o fede musulmana vivono tranquillamente, ma nelle cui comunità si possono annidare terroristi. Il problema è avere il controllo di queste zone. Non è un caso che Salah sia rimasto là, era persino banale pensarlo. I maggiori criminali cercano rifugio dove hanno maggiore protezione". In Italia ci sono situazioni paragonabili? "Non ancora, ma solo perché nelle altre capitali europee ci sono fenomeni migratori più consistenti e ormai arrivati alla terza generazione, sui quali si sommano i problemi delle città a quelli del mondo arabo nelle sue espressioni più radicali". Secondo le informazioni che arrivano al Copasir la possibilità della guerra in Libia ha un ruolo nell’allarme terrorismo? "Un coinvolgimento dell’Italia in Libia aumenterebbe, e anche di molto, i rischi. Ma questo è il mio parere". Il Csm non si vuole riformare, ecco cosa (non) cambia nella magistratura organizzata Il Foglio, 23 marzo 2016 La notizia buona è che il messaggio è passato, in qualche modo persino dentro il Csm: le correnti, nella magistratura italiana, sono diventate un problema. La notizia cattiva è che, malgrado le dichiarazioni e gli strombazzamenti, la tendenza del Csm - e della magistratura organizzata - è quella di mantenere queste entità, e anzi di creare nuovi e più complicati meccanismi che le garantiscano. E ci riferiamo sia alla proposta che la commissione per la riforma del Csm ha consegnato qualche giorno fa al ministro della Giustizia Andrea Orlando, sia al testo unico sulla dirigenza giudiziaria, relativo al conferimento degli incarichi direttivi nei tribunali e nelle procure, ormai in vigore da alcuni mesi. Ma andiamo con ordine. La premessa necessaria è che le correnti della magistratura hanno ormai da tempo perso il loro significato originario, cioè quel valore culturale, ideologico e di programma che un tempo distingueva le grandi categorie del centro, della sinistra e della destra. Oggi gli argomenti che distinguono Mi da Md, Area da Unicost, e così via, sono insignificanti e le correnti sono puramente centri di riferimento di potere personale e di spartizione lobbistica del potere. Spartizione tanto più opaca quanto ormai non più motivata da idee e da programmi importanti e seri. In questo contesto si inserisce la proposta di riforma del Csm che, invece di far piazza pulita delle correnti, individua un farraginoso, e forse poco intelligente, nuovo meccanismo di elezione. Per farla breve: doppio turno, il quadruplo dei candidati, un primo turno senza apparentamenti correntizi e un secondo turno esattamente uguale al sistema che è sempre esistito. Cosa cambia? Nulla. È solo tutto più complicato, più esoterico e di difficile comprensione (non soltanto per i non addetti ai lavori ma pure per gli stessi magistrati). Questa riforma, dovesse passare, si affiancherà al nuovo testo che già regola l’attribuzione degli incarichi direttivi, cioè il sistema con cui si scelgono i capi delle procure e dei tribunali. Un sistema che ha aumentato il potere discrezionale del Csm, e dunque il peso delle correnti: ha inserito criteri di valutazione che prescindono del tutto dall’esperienza direttiva, ha valorizzato eventuali esperienze di lavoro di magistrati che non hanno mai fatto il direttivo (esempio: distaccati presso i ministeri o con esperienze politiche), ha introdotto criteri così elastici da smentire il principio che avrebbe dovuto ispirare le nuove regole. Mauro Palma: "carceri meno affollate, ma occorre un diverso modello di detenzione" di Chiara Sirianni Il Foglio, 23 marzo 2016 Intervista al Garante nazionale dei detenuti. A tre anni di distanza dalla condanna europea per aver sottoposto i detenuti "a trattamenti inumani e degradanti" a causa del sovraffollamento carcerario, le misure intraprese dall’Italia per risolvere il problema - definito "sistemico", e non occasionale - sono state giudicate positive dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Figura chiave di questo risultato è Mauro Palma, consigliere per le Politiche penitenziarie del ministro della Giustizia Andrea Orlando, recentemente nominato Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Palma era stato prima membro e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Consiglio europeo per il coordinamento dell’esecuzione penale, e nel 2013 è stato messo a capo della Commissione creata ad hoc per ridurre, il più rapidamente possibile, i numeri della detenzione. Schivo ma combattivo, accoglie il risultato di Strasburgo con soddisfazione, "anche se i problemi dei detenuti non si misurano a metri quadri. E ora spero che si apra una fase riformista", dice Palma in un’intervista con il Foglio. Ma è possibile che l’Italia - come ha detto il ministro Orlando - da paese simbolo del sovraffollamento delle carceri, possa trasformarsi in modello per altri paesi? "L’insieme di provvedimenti normativi adottati e i primi balbettanti passi italiani per cambiare il modello detentivo hanno convinto Strasburgo", dice Palma. "Abbiamo ridotto i numeri. Ma i numeri sono condizione necessaria e non sufficiente per dichiarare che una situazione è accettabile. Se un detenuto dorme in una cella che non è più sovraffollata, ma non ha nulla da fare durante il giorno, il sistema non sta aiutando il suo reinserimento nella società". Nel 2013 è stato stilato un piano d’azione operativo: "Ci siamo basati su quattro linee guida. La prima riguardava la rimozione, sul piano legislativo, di tre leggi alla base dell’incremento della popolazione carceraria: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, e la ex Cirielli, che non permetteva misure alternative alla detenzione per i recidivi, indipendentemente dalla gravità del reato. La seconda direttrice riguarda l’incremento delle misure alternative: nel 2013 avevamo 66mila detenuti contro 19mila persone in strutture esterne, oggi siamo a 52.800 detenuti e quasi 35.000 persone in misure alternative. Infine, è stata prevista una forza giurisdizionale per i ricorsi: il reclamo va fatto al magistrato di sorveglianza, che ha il potere di agire". Secondo Palma, l’introduzione di rimedi risarcitori per chi ha subito una lesione di diritti in passato è confortante, ma c’è ancora da fare su un punto: "Il modello di vita all’interno del carcere. Il sistema italiano è passivizzante, dispendioso, con alti tassi di recidiva. Il detenuto è trattato come un bambino, che deve solo rispettare le regole. Se un sistema non mette il soggetto detenuto nelle condizioni di assumersi responsabilità, esso non genera sicurezza. Occorre cambiare una serie di regole della quotidianità", dice Palma. Altra questione è quella della presenza di bambini in carcere, sotto la custodia attenuata delle madri: "Ritengo impensabile che non si riesca a risolvere il problema. Inoltre, ogni anno sono ottantamila i minori che varcano la soglia di un carcere per visitare i genitori. Per molti si tratta del primo rapporto con un’istituzione. Andrebbe prevista per i piccoli un’accoglienza specifica, che non sia terrorizzante, ma il più possibile umana. Non va dimenticato che, fatta esclusione per peculiari profili criminali e reclusi in alta sicurezza, l’80 per cento della popolazione carceraria è connotato da grande marginalità sociale, e ci sono forti problemi di alfabetizzazione. Anche sul tema del lavoro penitenziario i risultati sono lievemente incoraggianti, ma distanti dall’essere soddisfacenti. Spero che gli sforzi di questi mesi svolti dagli Stati generali dell’esecuzione penale, che hanno visto dialogare soggetti con visioni molto diverse, portino i suoi frutti. Stiamo per liquidare un documento che ha lo scopo di ispirare il legislatore. Esprimerà la volontà di intervenire su un diverso modello di detenzione", conclude Palma. Test alcool: per la nullità c’è tempo fino al primo grado di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 12244/2016. Il conducente sottoposto all’esame dell’alcool ha tempo fino alla deliberazione della sentenza di primo grado per eccepire la nullità dell’accertamento per il mancato avviso della possibilità di farsi assistere da un legale. La Cassazione, con la sentenza 12244, accoglie il ricorso dell’imputato condannato per guida in stato di ebbrezza : una condotta aggravata dall’aver provocato un incidente. A parere del ricorrente il test doveva essere considerato non utilizzabile per due ragioni: perché il prelievo era stato effettuato senza il suo consenso e perché non era mai stato avvisato dell’opportunità di far presenziare un legale. La prima eccezione non passa. I giudici ricordano, che la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto (sentenza 238/1996) la legittimità della disciplina del codice della strada, quando nell’indicare le modalità di accertamento per rilevare l’ ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo. Diverso il discorso per la seconda censura, relativa alla violazione del diritto di difesa. In questo caso la Cassazione ricorda che, in base al combinato disposto degli articoli 180 e 182, comma II del codice di rito, la nullità della prova, per l’omesso avviso può essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza di primo grado. E, nel caso esaminato, il termine era stato rispettato. Niente espulsione per il minore straniero che su Facebook inneggia alla jihad Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Tribunale per i minorenni di Sassari - Decreto 5 gennaio 2016. Non si può espellere i minore straniero che su Facebook pubblica un video e alcune fotografie che lo ritraggono, in abiti tradizionali, mente spara in aria con un kalashnikov inneggiando ad Allah. Lo ha precisato il tribunale per i minorenni di Sassari che con il decreto 5 gennaio 2016 ha respinto la richiesta del questore di espulsione del ragazzo per sospetto terrorismo. I giudici infatti hanno ritenuto che non ci fossero elementi sufficienti dai quali desumere che "la permanenza del minore nel territorio dello Stato possa agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali". Il caso - La vicenda riguarda un ragazzo pakistano che vive al Olbia solo con il padre. Se da una parte il genitore ha le capacità economiche per occuparsi del figlio dall’altra "non risulta assolvere in maniera adeguata al proprio ruolo, sia a causa delle lunghe assenze, sia perché non appare consapevole del disagio del figli" combattuto tra l’integrazione in Italia e i richiami della cultura di origine. Dopo una permanenza in Pakistan il ragazzo pubblica su Facebook diverse fotografie che lo ritraggono mentre impugna armi e o fa vedere di "essersi addestrato sulla preparazione e sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco e di altre armi, nonché tecniche o metodi per il compimento di atti di violenza, ovvero sabotaggio di servizi pubblici essenziali con finalità di terrorismo". Per questo comportamento la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per reato previsto dall’articolo 270-quinquies del codice penale (addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale). Su questo la responsabilità dell’imputato è ancora in fase di accertamento tenendo conto che la polizia affermava di non essere in grado stabilire se l’arma fosse efficiente o una perfetta riproduzione. In ogni caso, ai fini della richiesta di espulsione, il tribunale dei minori ha evidenziato che "l’unica condotta che potrebbe indicare un coinvolgimento del minore in attività di terrorismo non è avvenuta in Italia, bensì verosimilmente nel suo paese di origine". E se da una parte è possibile che il ragazzo potrebbe subire un indottrinamento di marchio terroristico se ritorna in Pakistan dall’altra la stessa Questura non ha evidenziato "alcun contatto diretto esistente tra il minore ed altri connazionali residenti ad Olbia e indagati per reati ti terrorismo". Scatta la remissione per il querelante avvisato che non si presenta in udienza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 22 marzo 2016 n. 12186. La mancata comparizione in udienza del querelante, previamente ed espressamente avvisato che la sua assenza sarà interpretata come abbandono dell’istanza di punizione, integra la remissione tacita della querela. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 22 marzo 2016 n. 12186, affermando comunque che si tratta di una remissione extraprocessuale: "trattandosi di condotta (omissiva) posta in essere da un soggetto che non riveste la qualità di "parte in senso tecnico" ed alla cui inerzia dunque "non può attribuirsi alcuna connotazione di natura "processuale". L’assenza perciò "costituisce soltanto il momento in cui il giudice, nel suo libero convincimento, ritiene integrata la "prova" di una decisione presa a "monte", e cioè la volontà della persona offesa di non proseguire con l’azione. A tal fine, prosegue la Corte, il giudice deve verificare "con estremo rigore che la persona offesa-querelante abbia personalmente ricevuto detto avviso, che non sussistano manifestazioni di segno opposto e nulla induca a dubitare che si tratti di perdurante assenza dovuta a libera e consapevole scelta". La Suprema corte ha così superato il precedente orientamento a Sezioni unite (46088/2008) secondo il quale "nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal pubblico ministero, ex articolo 20 del Dlgs n. 274 del 2000, la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisca fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell’articolo 152, comma secondo, c.p.". Il presupposto da cui sembra trarre origine il ragionamento delle Sezioni unite, spiega la sentenza, è che la mancata comparizione della persona offesa, costituirebbe sempre e comunque una condotta di natura processuale, posta in essere quindi da un soggetto che riveste la qualità di "parte". Secondo la V Sezione invece la persona offesa non assume la qualità di "parte" nel processo penale (se non in specifici casi). Ne consegue che il comportamento non può ritenersi avere natura "processuale" in senso tecnico, collocandosi quindi al di fuori del processo. In questo senso, anche la mancata comparizione, conseguente allo specifico avviso del giudice, "non è che un parametro interpretativo, è un elemento di prova da cui il giudice trae il convincimento dell’inequivocabile volontà della persona offesa di rimettere la querela". Infatti, "attribuire alla mancata comparizione natura "processuale" vorrebbe dire far coincidere il "perfezionamento" del ritiro della pretesa punitiva con tale condotta omissiva, il che non è, non essendo che un indice, seppur inequivocabile, di una decisione presa a monte dalla persona offesa". In definitiva, la mancata partecipazione al processo è solo il momento in cui il giudice, nel suo libero convincimento, ritiene integrata la prova dell’abbandono della pretesa punitiva. È perciò indispensabile, affinché non sorga alcun equivoco che il giudice "verifichi con estremo rigore che la persona offesa-querelante abbia personalmente ricevuto l’avviso", e nulla faccia dubitare sulla sua effettiva e libera volontà. Antiriciclaggio: Bankitalia, sanzioni prive di natura penale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 24 febbraio 2016 n. 3656. Le sanzioni amministrative pecuniarie della Banca d’Italia per omesso controllo di operazioni sospette non soggiacciono alle garanzie del processo penale. Ad esse, infatti, non si applicano le conclusioni cui è approdata la Cedu nel caso Grande Stevens, in quanto molto meno afflittive delle sanzioni, sempre amministrative, emesse dalla Consob per "manipolazione del mercato". Lo ha chiarito la Seconda Sezione Civile della Cassazione, sentenza 24 febbraio 2016 n. 3656, rigettando il ricorso del direttore generale e componente del comitato di controllo della Banca nazionale del lavoro condannato a pagare 28mila euro per "carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti il Consiglio di amministrazione", illecito previsto dall’articolo 53 del Tub, nel testo vigente nel 2009. Le sanzioni pecuniarie ex articolo 144 del Testo unico bancario (nel testo ratione temporis applicabile), spiega la sentenza, non sono, infatti, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo, equiparabili, per tipologia, severità ed idoneità ad incidere sulla sfera patrimoniale e personale, alla sanzione penale. Il dirigente aveva proposto ricorso lamentando la violazione del principio del contraddittorio previsto dall’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dall’articolo 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui sancisce il "diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio". La Suprema corte ricorda un proprio precedente (n. 27038/2013) in cui aveva chiarito che in questi casi "non vi è la necessità che gli incolpati vengano ascoltati durante la discussione orale innanzi all’organo, essendo sufficiente che a quest’ultimo siano rimesse le difese scritte degli incolpati ed i verbali delle dichiarazioni rilasciate, quando gli stessi chiedano di essere sentiti personalmente". Né tantomeno, prosegue la Corte, può richiamarsi la decisione della Corte di Strasburgo sul caso Grande Stevens che nel 2014, con riferimento ad un caso di "manipolazione del mercato", ha fissato, in via alternativa e non cumulativa, tre criteri per stabilire la natura penale di una sanzione: la qualificazione giuridica nel diritto nazionale, la natura e il grado di severità della "sanzione". Ciò posto, prosegue la sentenza, nel caso di manipolazioni del mercato, la sanzione può arrivare a 5mln di euro (ancora elevabili), a cui deve aggiungersi la perdita temporanea della onorabilità per i rappresentanti della società e, se quotate, anche l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo per una durata variabile da due mesi a tre anni, ecc. Così ricostruito il quadro, argomenta la Cassazione, è chiaro che la situazione affrontata (che prevede un’unica sanzione pecuniaria nel massimo di 129mila euro) è "assolutamente non comparabile" con quanto previsto dalla Consob, anche perché non sono previste sanzioni accessorie per la persona, né tantomeno la confisca del prodotto dell’illecito. Di conseguenza, prosegue la Cassazione, "non sembra possibile attribuire carattere penale a tali sanzioni; sicché, in considerazione della natura meramente amministrativa delle stesse, non si pone un problema di compatibilità del procedimento sanzionatorio previsto in materia con le garanzie riservate ai processi "penali" dall’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’uomo". Rapporto tra diritto di difesa ed accuse calunniose. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Dichiarazioni dell’imputato - Rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose. L’imputato nel corso del procedimento instaurato a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui sfavorevoli, ma commette il reato di calunnia quando non si limita a ribadire la insussistenza delle accuse a lui addebitate, ma assume ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore di cui pure conosce l’innocenza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 6 maggio 2015 n. 18755. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Calunnia - Diritto di difesa e accuse astrattamente calunniose - Rapporto funzionale. In tema di calunnia, deve escludersi la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato quando sia verificabile in concreto la presenza di un rapporto funzionale tra le affermazioni dell’agente, astrattamente calunniose, e la confutazione delle accuse rivoltegli. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 31 gennaio 2014 n. 5065. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Falsa attribuzione da parte dell’imputato del reato a terzi - Scriminante del diritto di difesa - Condizioni di applicabilità. In tema di calunnia, non esorbita dai limiti del diritto di difesa l’imputato che attribuisce un determinato fatto di reato ad altra persona, che pure sa essere innocente, soltanto per negare la propria responsabilità e ciò faccia nell’immediatezza dell’accertamento o nella sede processuale propria. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 5 aprile 2013 n. 15928. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Dichiarazioni dell’imputato - Rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose - Attribuzione ad altri di cui si conosce l’innocenza di specifici fatti costituenti reato. Integra il reato di calunnia, senza che possa invocarsi la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa, l’imputato che, negata la sussistenza del fatto addebitatogli, accusi terzi di fatti criminosi in modo da determinare la possibilità che inizi nei loro confronti un procedimento penale. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 13 luglio 2009 n. 28620. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Dichiarazioni dell’imputato - Rapporto tra diritto di difesa ed accuse calunniose. Non è configurabile il delitto di calunnia nella condotta del condannato che, in sede d’audizione davanti al giudice di sorveglianza, si limiti a negare la frequentazione di persone pregiudicate, contestando la veridicità delle relazioni di servizio dei carabinieri, da cui emerga tale circostanza, se le dichiarazioni difensive non sono accompagnate da elementi fattuali circostanziati tali da farle apparire come vere. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 28 giugno 2008 n. 26019. La videosorveglianza non esclude l’aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2016 Reati contro il patrimonio - Furto - Aggravato - Furto in luogo soggetto a videosorveglianza - Configurabilità dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. La circostanza aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede non è esclusa dall’esistenza, nel luogo in cui si consuma il delitto, di un sistema di videoregistrazione, che non può considerarsi equivalente alla presenza di una diretta e continua custodia da parte del proprietario o di altra persona addetta alla vigilanza. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 11 novembre 2015 n. 45172. Reati contro il patrimonio - Furto - Aggravato - Furto consumato in luogo soggetto a videosorveglianza - Configurabilità dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. Sussiste l’aggravante di cui all’articolo 625 c.p., comma primo, n. 7, qualora il furto di un motociclo esposto alla pubblica fede sia commesso in un luogo avente un sistema di videosorveglianza, il quale, ancorché’ consenta la conoscenza postuma delle immagini registrata dalla telecamera, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 18 aprile 2014 n. 17407. Reati contro il patrimonio - Furto - Aggravato - Furto in luogo soggetto a videosorveglianza - Configurabilità dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. Sussiste l’aggravante di cui all’articolo 625 c.p., comma primo, n. 7, qualora il furto di un motociclo esposto alla pubblica fede sia commesso in un luogo avente un sistema di videosorveglianza, il quale, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrata dalla telecamera, non costituisce di per sè una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 18 aprile 2014 n. 17407 Reati contro il patrimonio - Furto - Aggravato - Furto in luogo soggetto a videosorveglianza - Configurabilità dell’aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. Sussiste l’aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. qualora il furto del motociclo esposto alla pubblica fede sia commesso in un luogo avente un sistema di videosorveglianza, il quale, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrata dalla telecamera, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 12 febbraio 2008 n. 6682. Lettera aperta all’Assessore regionale Lucia Fortini sulla criminalità minorile dalle Comunità Jonathan, Oliver, La Tartaruga, Mamma Matilde, Il Germoglio, Casa Pinardi, Il Sogno La Repubblica, 23 marzo 2016 Questa è una lettera aperta alla professoressa Lucia Fortini, assessore regionale alle Politiche sociali della Campania. In qualità di responsabili di comunità che accolgono minori in misura cautelare, sentiamo il bisogno di rivolgerci a Lei per cercare di recuperare il senso e il significato del nostro lavoro sociale, considerato che molti dei ragazzi protagonisti dell’esplosione di violenza che quotidianamente viviamo nella nostra città sono stati ospiti delle nostre comunità. E l’inchiesta dell’Espresso della scorsa settimana sulla criminalità giovanile a Napoli ci offre lo spunto per una riflessione nel merito dei programmi che vengono messi in campo per contrastarla senza attendere il prossimo morto ammazzato per strada. Tra i tanti dubbi che da sempre accompagnano gli interventi a favore dei minori dell’area penale, l’unica certezza che ancora esiste è che tra i diversi attori del pubblico e del privato sociale non c’è un comune sentire sulle strategie e sui modelli da utilizzare. Queste differenze sarebbero una ricchezza, se si lasciasse spazio a tutti di poter esprimere e promuovere modelli di intervento alternativi a quelli dominanti senza essere vittime di pregiudizi e preclusioni. Paradossalmente, questa nuova ondata di violenza che vede protagonisti minori e giovani adulti, nella sua gravità ha portato quel significativo elemento di novità che testimonia che i tempi sono cambiati. Infatti nell’ambito del dibattito pubblico che si è aperto sui media senza il filtro dell’ideologia e di una lettura deterministica del fenomeno, che solitamente accompagna ogni riflessione su questo tema, stiamo finalmente assistendo ad un confronto libero che ha fatto cadere alcuni "tabù" i quali, nel passato, hanno impedito che le politiche sociali a favore dei ragazzi dell’area penale superassero l’assistenzialismo e promuovessero politiche attive per l’inclusione degli esclusi e l’affermarsi di un educazione sull’etica pubblica e della responsabilità. Alcune proposte, che fino a poco tempo fa avrebbero fatto scandalo e scatenato la caccia alle streghe, come ad esempio l’idea di militarizzare il territorio, l’abbassamento dell’età della punibilità, il togliere i figli ai camorristi o ancora specializzare l’intervento a favore dei minori dell’area penale non solo non hanno scatenato "tumulti" di piazza, ma hanno trovato l’adesione di autorevoli esponenti delle istituzioni e del mondo della "intellighenzia" e del lavoro sociale. Il vento è cambiato? Cosa sta succedendo, stiamo diventando tutti repressori? Prima di stupirsi di fronte a queste prese di posizione, bisogna riflettere sulla novità che ci si presenta davanti. Senza dubbio queste proposte sono arrivate in nome della sicurezza, tema che in questo momento è sentito trasversalmente, ma questa lettura da sola non basta perché non è solo una risposta emotiva dettata dalla paura e dall’emergenza. È anche una nuova coscienza che sta nascendo rispetto ad un fenomeno che diventa sempre più difficile da analizzare e gestire con i soli modelli teorici della deprivazione e della disuguaglianza. Bisogna cogliere questa opportunità, guardare avanti e accettare la sfida, osare di più e sperimentare nuovi approcci e strategie di contrasto e di recupero. Il dato da cui bisogna partire è la consapevolezza che la criminalità minorile (per qualità e quantità) nella nostra città ha una sua specificità non riscontrabile in altri contesti marginali. A sostegno di questa tesi è il dato relativo agli ospiti dei servizi (Ipm, Comunità pubbliche e del privato sociale) della giustizia minorile campana, il cui 99 per cento è stanziale. Si tratta di un fenomeno costante con forti connotazioni strutturali, alimentato dalla presenza di una organizzazione criminale chiamata camorra, i cui modelli sono diventati un riferimento culturale per tanti ragazzi. Non riconoscere questa specificità e la specificità delle problematiche del provvedimento cautelare che colloca il minore in comunità costituisce una contraddizione insanabile, ed è causa del fallimento di molti interventi a favore dei ragazzi che entrano nel circuito penale. Quella di guardare oltre questa contraddizione è ormai una scelta senza alternativa. Il quadro normativo regionale, che prevede la compresenza in comunità di minori e giovani adulti con provvedimenti diversi (ad esempio minori stranieri, minori con provvedimenti amministrativi e/o civili, minori con provvedimenti penali) alla luce di quanto sta accadendo non è più attuale. In particolare, va ricordato che molti dei diritti inalienabili che debbono essere garantiti in comunità ai minori con provvedimenti non di natura penale (libertà personale, utilizzo dei social network, frequentazione di amici ecc..) per quanto riguarda i minori in misura cautelare, non sono assolutamente fruibili, ed anzi qualora essi ne fruirebbero incorrerebbero in un illecito se non proprio in un reato. In conclusione pensiamo che non ci sia più nessun alibi. Auspichiamo un suo intervento affinché l’ufficio di coordinamento delle politiche sociali della Regione recuperi il tempo perduto e investa sulla ricerca e l’implementazione di nuovi modelli operativi organizzativi e di intervento. Un primo passo sarebbe senza dubbio l’inversione delle attuali quote che stabiliscono l’accoglienza in comunità delle diverse tipologie di minori, portando i minori dell’area penale dalla corrente quota del 40% al 60%. Tale modifica consentirebbe alle comunità di superare le inevitabili contraddizioni della gestione di provvedimenti giuridicamente diversi scegliendo di accogliere solo minori in misura cautelare. Scelta che adesso non è possibile perché le attuali quote non consentono di sostenere gli alti costi organizzativi e di gestione delle strutture. Con maggiore coraggio in alternativa si può investire in un intervento più strutturale, mirato e di sistema che è quello di riconoscere alle comunità che accolgono minori dell’area penale la specializzazione dell’accoglienza e dell’intervento. Non si tratta di riaprire i riformatori o peggio riproporre le classi differenziate; la specializzazione dell’intervento è semplicemente il riconoscimento della complessità del fenomeno e della specificità delle problematiche di cui sono portatori i ragazzi in conflitto con la giustizia. La chiusura tout court a queste ipotesi confermerebbe un pregiudizio ideologico inaccettabile. Sardegna: Sdr; per il Procuratore Saieva i detenuti mafiosi non mutano tessuto sociale L’Unione Sarda, 23 marzo 2016 "Il tessuto sociale della Sardegna non favorisce la radicazione e diffusione delle mafie. Il carattere individualistico dei sardi li rende in qualche modo resistenti al sistema di assoggettamento tipico dell’organizzazione criminale mafiosa. Non è sufficiente che ci siano detenuti per reati di mafia per creare il serio pericolo di infiltrazioni mafiose". Lo ha detto il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari dott. Roberto Saieva rispondendo a una domanda della presidente di "Socialismo Diritti Riforme" Maria Grazia Caligaris relativamente alle diffuse preoccupazioni derivanti dalla presenza nelle strutture detentive isolane di ristretti per reati di mafia, camorra e ndrangheta. Se ne è parlato a margine di un corso di aggiornamento su "Gestione detenuti 41bis e Alta Sicurezza", destinato agli Agenti della Polizia Penitenziaria della Sardegna tenutosi nella Sala Conferenze della Casa Circondariale di Cagliari nella Giornata dedicata alle vittime delle mafie. L’iniziativa, promossa dal Vice Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Pierluigi Farci, è stata coordinata dal Direttore dell’Istituto Gianfranco Pala che ha svolto la relazione introduttiva evidenziando le novità intervenute in Sardegna in seguito alla presenza dei detenuti in regime di Alta Sicurezza in tre Istituti Penitenziari e di quelli sottoposti al 41 bis nel carcere di Sassari-Bancali. "Le mafie - ha precisato il dott. Saieva - si alimentano se riescono a penetrare nel tessuto sociale diffondendo la cultura parassitaria e sostenendosi con l’istituzionalizzazione dell’attività estorsiva con l’intimidazione e l’omertà. Pensare che possa esserci un automatismo tra detenuti in carcere e mafia è una preoccupazione infondata. È vero invece che occorre guardare, e lo si sta facendo da tempo, a quanto avviene con reinvestimenti di cospicui fondi, in realtà come quelle del turismo in diverse zone della Sardegna. Si tratta di aree particolarmente esposte anche a interessi economici di investitori dell’est europeo". Il dott. Saieva, dopo aver delineato le caratteristiche operative di mafia, ndrangheta e camorra, ha ricordato le modifiche nel codice penale intervenute per combattere i fenomeni delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Nella parte conclusiva ha poi tracciato l’identikit del detenuto legato alle cosche. "Non si può tralasciare di considerare - ha detto - che si tratta in linea di massima di un detenuto ossequioso che rispetta formalmente le norme e si presenta sempre rispettoso nei confronti degli Agenti e delle Istituzioni. Una ragione in più per essere rigorosi nell’applicazione dei Regolamenti". Le conclusioni dell’incontro formativo sono state tratte da Silvio Di Gregorio, già ex Vice Provveditore e attualmente responsabile dell’Ufficio Personale del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha illustrato gli aspetti tecnici della gestione dei detenuti in As e in regime di massima sicurezza. Reggio Calabria: Sappe; detenuto tenta il suicidio, salvato per miracolo larivieraonline.com, 23 marzo 2016 Un detenuto del carcere di Reggio Calabria, di nazionalità nigeriana, ha tentato d’impiccarsi senza riuscire nel suo intento grazie al pronto intervento del personale di polizia penitenziaria. A darne notizia é il sindacato Sappe con un comunicato a firma del segretario generale aggiunto, Giovanni Battista Durante, e del segretario nazionale, Damiano Bellucci. "Lo stesso detenuto - aggiungono i due dirigenti del Sappe - aveva tentato d’uccidersi poco tempo fa, non riuscendoci grazie, anche in quel caso, all’intervento delle guardie penitenziarie". "Il detenuto nigeriano - riferisce ancora il Sappe - é ospitato nella sezione psichiatrica del carcere reggino. Una sezione aperta circa dieci anni fa che all’inizio funzionava benissimo, ma nella quale adesso, a causa delle carenze dovute alla mancanza di personale di polizia penitenziaria e di altre figure professionali come infermieri, psichiatri e psicologi, è diventato davvero difficile gestire i reclusi". Alessandria: detenuto sale per protesta sul tetto del carcere di San Michele radiogold.it, 23 marzo 2016 Per fortuna il personale di Polizia Penitenziaria del carcere di San Michele è riuscito a gestire la protesta di un detenuto che questo martedì, intorno alle 12, è salito sul tetto della casa circondariale per far sentire le proprie ragioni. L’uomo, ha raccontato il Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, ha iniziato a lamentarsi "di tutto" ma alle fine le parole del direttore del carcere e degli agenti l’hanno convinto a scendere dal tetto. "La situazione è stata paradossale e sconcertante, gestita al meglio dal Personale di Polizia Penitenziaria" ha commentato il Segretario Regionale del Piemonte del Sappe Vicente Santilli. "Intorno alle 12,00, un detenuto comune ristretto presso la sezione "Polo universitario" della Casa di Reclusione Alessandria San Michele è salito sul tetto dell’edificio, lamentandosi di tutto. Intervenivano immediatamente il direttore e personale di Polizia Penitenziaria; dopo una breve discussione, gli Agenti impegnati riuscivano a convincere l’uomo a scendere dal tetto". Il Sappe, attraverso il Segretario Generale Donato Capece, ha quindi denunciato "il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere": "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano ed assegnandoli a Alessandria dove c’è una significativa carenza di organico, finanziando e potenziando i livelli di sicurezza delle carceri. La tensione resta alta nelle carceri: atro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità, altro che le reazioni stizzite delle Camere Penali ai nostri costanti allarmi sulla critica quotidianità delle carceri italiane. Le polemiche strumentali e inutili come le loro non servono a nessuno. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori". Castelfranco (Mo): detenuti stranieri chiedono l’espulsione, ma lo Stato d’origine li rifiuta modenatoday.it, 23 marzo 2016 Un gruppo di stranieri irregolari detenuti nella Casa Lavoro di Castelfranco Emilia restano dietro le sbarre nonostante abbiano chiesto di essere rimpatriati. È uno dei casi controversi della discussa struttura modenese, visitata dal Garante nei giorni scorsi. Un piccolo nucleo di internati stranieri irregolari (circa una decina) per i quali, nell’assenza di percorsi di regolarizzazione praticabili e di una rete di riferimento all’esterno, è altamente probabile che possano mancare alla Magistratura di sorveglianza elementi idonei a fondare un giudizio di cessata pericolosità sociale, con conseguente proroga della misura di sicurezza. Sono irregolarmente presenti in Italia e hanno presentato, nel corso dell’internamento, istanze per la sostituzione della misura di sicurezza attuale con l’espulsione dallo Stato, ma non vengono riconosciuti dal Paese di provenienza oppure potrebbero essere oggetto di persecuzione in ragione delle attuali condizioni politiche del Paese, come ad esempio la Siria. È questo uno dei tanti spaccati della casa-lavoro di Castelfranco Emilia, la struttura carceraria di rieducazione e reinserimento che da molti anni ormai è al centro di pesanti critiche per la scarsa efficacia. Un tema ripreso oggi anche da Desi bruno, il Garante per i detenuti della Regione Emilia-Romagna, dopo l’ennesimo sopralluogo a Castelfranco avvenuto la scorsa settimana. Una Casa-lavoro dove "il quadro relativo alla possibilità di lavorare all’interno della struttura rimane sconfortante" perché "risultano insufficienti i progetti di lavoro effettivo e remunerato, lavorando le persone per lo più alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e a rotazione, mentre solo pochi internati sono impiegati nell’azienda zootecnica e nel lavoro agricolo e delle serre, che dovrebbero essere la vera ricchezza della struttura". Sono comunque stati attivati 3 corsi di formazione professionale per 15 persone ciascuno: uno da elettricista, già ultimato, uno da agricoltore e uno di teatro. "Senza l’avvio di attività lavorative all’interno, anche con il coinvolgimento della società esterna, continuerà a mancare il lavoro che dovrebbe essere proprio il presupposto stesso dell’esistenza della struttura, avendosi un evidente spreco delle potenzialità a disposizione, che vanno dal ricco patrimonio agrario, una superficie di 22 ettari, a quello degli spazi laboratoriali a disposizione, da anni ormai del tutto inutilizzati", commenta la Garante regionale, Desi Bruno. Inoltre, riporta Bruno, è stato segnalato che da quando è entrato in funzione il nuovo sistema con tessera telefonica per effettuare le chiamate ai familiari, il costo della singola telefonata sarebbe raddoppiato. Della questione sarebbe, secondo quanto riferito, già stato investito il magistrato di sorveglianza territorialmente competente. Come noto però, ricorda la Garante, perdura la vacanza del magistrato di sorveglianza di Modena, attualmente per ragioni di ordine personale, che ha competenza territoriale sulla struttura, il cui ruolo è temporaneamente affidato, in supplenza, ad altri magistrati di sorveglianza che ne espletano, a turni tendenzialmente mensili, le funzioni. Da agosto 2014, l’Ufficio del Garante ha segnalato la questione al Ministero della Giustizia, al Consiglio superiore della Magistratura e ai parlamentari eletti in Emilia-Romagna, da quando cioè non viene garantita la piena operatività dell’Ufficio di sorveglianza di Modena, mancando, nei fatti, il magistrato di sorveglianza con la titolarità della funzione. Monza: rissa a colpi di scope in carcere, un detenuto in ospedale di Valentina Rigano mbnews.it, 23 marzo 2016 Sei detenuti stranieri si sono resi protagonisti di una rissa a colpi di bastoni di scope all’interno del carcere di Monza, questo pomeriggio. Uno di loro è stato trasportato al Pronto Soccorso del San Gerardo di Monza per un trauma cranico e diverse escoriazioni. A renderlo noto è il Segretario Generale Lombardia del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, Alfonso Greco "la situazione è davvero pericolosa, alcuni detenuti armati di bastoni di scope, ancora da definire come sia stato possibile, si sono picchiati in una delle sezioni - spiega - sedata la rissa tutti hanno riportato ematomi e su viso e corpo, uno è stato accompagnato in ospedale con tagli, escoriazioni e un probabile trauma cranico". Il Segretario denuncia poi la pericolosità del carcere di Monza per la maggiore libertà lasciata ai detenuti "mancano agenti a Monza, c’è carenza di organico e va potenziato il livello di sicurezza, altro che vigilanza dinamica che vorrebbe i detenuti meno ore in cella senza però fare alcunché. A una maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità per loro di svolgere attività e la non responsabilità per gli agenti dinnanzi all’attuale situazione. Ora dove dovrebbero esserci quattro poliziotti, ce ne è solo uno. Le idee e i progetti dell’amministrazione penitenziaria - conclude - si confermano ogni giorno più fallimentari". Bari: progetto "Oltre le Sbarre", nella Casa Circondariale il terzo concerto di taranta manduriaoggi.it, 23 marzo 2016 Dopo Lecce e Trani, il ritmo della pizzica approda "Oltre le Sbarre" nel capoluogo pugliese. Lo spettacolo dal vivo in carcere è un’iniziativa promossa dall’Assessorato al Welfare della Regione Puglia a favore di alcune tra le fasce più fragili della popolazione attraverso l’utilizzo dei linguaggi teatrali, coreutici e musicali. In stretta sinergia con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, la collaborazione della Casa Circondariale di Bari, della Casa Circondariale Casa di reclusione di Lecce e della Casa Circondariale Casa di reclusione di Trani, la Fondazione Notte della Taranta, gli spettacoli, che si rivolgono esclusivamente ai detenuti, contribuiscono al processo di inclusione e reinserimento della popolazione carceraria. Salvatore Negro (Assessore Welfare Regione Puglia): "Abbiamo sostenuto un progetto coordinato di attività dello spettacolo nelle carceri della Regione riscontrando nelle prime due tappe a Lecce e a Trani un commovente quanto utile coinvolgimento emotivo delle persone sottoposte a misure restrittive. È solo il primo passo nel processo di inclusione che vedrà i detenuti protagonisti del Festival La Notte della Taranta 2016". Ivan Stomeo (vicepresidente Fondazione La Notte della Taranta): "La Fondazione dopo i concerti che hanno portato passione ed entusiasmo tra i detenuti, è impegnata ora a creare occasioni di lavoro all’esterno e a sostenere iniziative alternative alla detenzione volte a favorire il loro reinserimento sociale. Il Teatro Pubblico Pugliese sottolinea come "questo sia il primo vero progetto di rete in materia di inclusione sociale, osservando diversi e ottimi tentativi che si registrano negli istituti portati avanti da compagnie teatrali impegnate sul territorio o anche dal mondo della letteratura e dell’editoria. L’Orchestra Popolare proporrà un medley di arrangiamenti dei maestri concertatori che, nel corso degli anni, si sono alternati sul palco di Melpignano. Domani a Bari ci saranno Antonio Amato (voce e tamburello), Enza Pagliara, (voce e tamburello), Alessandra Caiulo (voce), Silvio Cantoro (basso), Roberto Gemma (fisarmonica), Massimiliano De Marco (chitarra), Gianluca Longo (mandola), Roberto Chiga (tamburello), Carlo Canaglia De Pascalis (tamburello), Antonio Marra (batteria). Soffiano i venti di caccia allo straniero di Guido Viale Il Manifesto, 23 marzo 2016 Il rischio è che alla paura che annebbia la ragione si continui a rispondere con atti e politiche che accrescano il gigantesco giacimento di rabbia da cui nasce il terrorismo. È necessario invertire la rotta nei rapporti tra l’Europa e il resto del mondo. Il cordoglio e la pietà per le vittime degli attentati di Bruxelles dovrebbero renderci più umani e non più feroci nell’affrontare il vero conflitto con cui dobbiamo misurarci se vogliamo prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista: quel conflitto verso i profughi che rende l’Europa così fragile e debole. L’urgenza di difenderci non deve farci dimenticare che il terrorismo non si combatte con la guerra, che é ciò che lo ha prima covato e poi nutrito nel corso degli ultimi anni. Né con lo Stato di polizia, che non fa che promuoverlo, e meno che mai con la "caccia allo straniero"; bensì combattendo le discriminazioni e il disprezzo di cui si alimenta il rancore che di cui si alimenta il terrorismo. Per questo non c’è niente che metta in forse la convivenza in Europa quanto il cinismo e la ferocia con cui i suoi governi trattano i profughi che si presentano alle sue porte per sottrarsi al terrore che rende impraticabili tutti quei paesi - e non solo la Siria - da cui cercano di fuggire. Quello che si è aperto, soprattutto nell’area che abbraccia Europa, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, è uno scontro intorno al riconoscimento di un diritto ovvio, perché "naturale" nel senso più banale del termine, ma ostico e difficile da accettare. L’asilo, la protezione internazionale accordata ai profughi e normata dalla convenzione di Ginevra, era stato concepito finora, più che come un diritto, come una concessione delle democrazie liberali a chi fuggiva per sottrarsi a una dittatura e poi, per estensione, a una guerra civile. Ma oggi quelli con cui l’Europa e gli Stati che per ragioni geografiche o storiche gravitano intorno al Mediterraneo si confrontano sono esodi di massa in cui i fattori guerra e dittatura si mescolano inestricabilmente con quelli ambientali e climatici. Tanto che all’origine di molti dei conflitti armati in corso - compreso quello in Siria - non è difficile riconoscere un deterioramento ambientale provocato dallo sfruttamento incontrollato di risorse locali, ma, sempre più spesso, dai cambiamenti climatici in atto. Questo rende priva di fondamento la distinzione tra profughi di guerra, da accogliere, e migranti economici, da rimpatriare. In un modo o nell’altro, sono ormai tutti profughi ambientali - una figura non contemplata dalle convenzioni sulla protezione internazionale - ma la cui presenza sarà centrale nel contesto sociale e politico dei decenni a venire. Quello scontro tra chi rivendica un diritto "naturale" alla vita e chi glielo vuole negare si ripercuote, all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in un conflitto sempre più acceso e centrale - tanto da far passare in second’ordine tutti gli altri, o da subordinarne ad esso le manifestazioni - tra chi si schiera a favore dell’accoglienza e chi si mobilita per sostenere i respingimenti. Ai due poli di questi schieramenti, che stanno facendo piazza pulita della configurazione tradizionale dei partiti e delle forze politiche, troviamo da un lato una folta schiera di volontari, delle più varie estrazioni sociali e anche politiche o religiose, che si adoperano in mille modi per assistere e accogliere i profughi. Dall’altro degli squadristi impegnati in assalti ai siti dove i rifugiati vengono spesso solo "immagazzinati". Ma intorno a questi squadristi si sta creando un cordone di condivisione e di aggregazioni politiche di stampo nazionalista (o "sovranista") e, in buona misura, razzista, in netta avanzata ovunque. Mentre la simpatia che suscita l’azione dei volontari stenta - per usare un eufemismo - a farsi strada sia in termini di appoggio politico che come "comune sentire". Anche perché le soluzioni prospettate dalla destra sono semplici, spicce e non affrontano le loro inevitabili conseguenze: una stretta, non solo politica, ma anche economica e sociale, sui diritti di tutti, una guerra che trasforma in nemici tutti coloro che oggi cercano e non trovano salvezza in Europa, una serie infinita di stragi in terra e in mare che finirà per configurarsi come un vero sterminio; mentre la scelta di accogliere, al di là delle emozioni immediate che suscita la vista di tanta miseria, è complicata, richiede programmi, ragionamenti, svolte e impegni radicali. Da tempo i governi europei si sono in gran parte lanciati all’inseguimento delle forze di destra. Una rincorsa vana, perché quegli argomenti li sanno usare meglio le forze apertamente razziste. Ma soprattutto perché sono incapaci di fare i conti con la dimensione effettiva del problema e delle misure necessarie per farvi fronte: rinuncia all’austerity, alla contrazione di spesa pubblica e welfare, a quella precarizzazione del lavoro che ha creato milioni di disoccupati, e un impegno effettivo nella conversione ecologica, unico modo, peraltro, per creare milioni di nuovi posti di lavoro utili a tutti. Quella incapacità li sospinge così verso politiche sempre più feroci e antipopolari, come gli hot spot, il filo spinato, la guerra in Libia o l’indecente accordo con la Turchia, insensato e suicida quanto cinico e spietato. Che però ha fatto contenti tutti i governanti, che possono così aspettare qualche mese, fino a una nuova resa dei conti, per ammettere che non sanno che cosa fare; compreso Renzi, che si è improvvisamente fatto paladino di un’Europa più "umana", ma che ha chiesto subito l’estensione di quell’accordo alle altre situazioni su cui verranno deviate le prossime ondate di profughi. Sostenitori e nemici dell’accoglienza, si ritrovano, tanto tra le forze di sinistra e di centro quanto nel mondo cristiano e soprattutto in quello cattolico, che si questo tema rischia una frattura storica e persino tra molte persone di destra (tra cui c’è ancora qualche emulo di Perlasca). È una contrapposizione che lavora alla dissoluzione degli schieramenti e dei rituali politici tradizionali, ma anche a un riposizionamento di classi e forze sociali, verso le quali c’è bisogno di un approccio politico nuovo, prammatico, non rituale né "ideologico" senza il quale la vittoria delle destre e del razzismo è scontata. Oggi non è più possibile "fare politica", lavorare alla ricostituzione di un fronte sociale che faccia valere gli interessi delle classi e dei cittadini sfruttati e oppressi, senza individuare nelle varie forme di volontariato, nelle loro pratiche, nelle loro necessità, nelle loro iniziative e, soprattutto, nei legami che riescono a creare con la nazione dei profughi un riferimento irrinunciabile per ogni possibile ricomposizione delle forze che vogliono un’altra Europa perché vogliono un’altra società. Le bombe di Bruxelles accelerano la fine di Schengen di Ettore Livini La Repubblica, 23 marzo 2016 Pochi e circoscritti i danni all’economia, le Borse si mostrano ciniche: il vero rischio è la fine dell’unione doganale, una variabile in grado di fare davvero male alla fragilissima ripresa europea Nervi saldi in Borsa. Poche preoccupazioni (per ora) per l’economia. Guai in vista, ma solo per pochi mesi, per turismo e compagnie aeree. La tragica contabilità dei danni economici del terrorismo, causa la frequenza degli attentati, è diventata dalle Torri Gemelle in poi una scienza quasi esatta. E il blitz di Bruxelles, dicono tutti gli esperti, dovrebbe rispettare il copione già andato in onda dopo le bombe a Madrid del 2004, le esplosioni nella metro di Londra del 2005, gli spari di Charlie Hebdo e la strage dello scorso 13 novembre a Parigi. Danni limitati e un’unica grande incognita: la possibile accelerazione dell’addio a Schengen, la variabile in grado di fare davvero male alla fragilissima ripresa europea. I danni per il Belgio. Vittime e danni materiali a parte, Bruxelles sa bene per esperienza che nei prossimi mesi pagherà un conto salato agli attacchi di ieri. I sei giorni di blocco della città imposti subito dopo il Bataclan lo scorso novembre hanno bruciato - dice la Confindustria locale - 350 milioni di euro, lo 0,1% del Pil. Nel week-end della strage sono state cancellate il 40% delle prenotazioni alberghiere. Dati simili a quelli registrati a Parigi dove ancor oggi le presenze negli hotel sono in calo del 27% rispetto allo scorso anno. Un ristorante su due in entrambe le città è rimasto chiuso a Capodanno. I turisti, nel dubbio, scelgono mete meno "calde" (geopoliticamente parlando) e i voli in partenza da Bruxelles erano a dicembre il 17% meno dello scorso anno. Il cinismo delle Borse. Le piazze finanziarie non conoscono emozioni e ragionano solo con i numeri. E gli effetti degli attentati terroristici sulle Borse sono da sempre pochissimi. Wall Street ci ha messo solo 30 giorni per recuperare tutte le perdite seguite all’11 settembre. I titoli francesi sono addirittura saliti dell’1,8% dopo Charlie Hebdo. Lo stesso è successo il 16 novembre alla riapertura del mercato di Parigi dopo la strage del fine settimana: l’indice è crollato in apertura ma alla campanella finale perdeva "solo" lo 0,1%. Pochi danni sul Pil. La spiegazione - dicono gli analisti - è semplice: il terrorismo "spot", al di là dei danni locali e delle ripercussioni a breve termine - non fa troppi danni all’economia. Certo, gli shock come le bombe "non aiutano a consolidare la fragile ripresa della Ue", come ha ammesso il capo-economista della Bce Peter Praet lo scorso novembre. Ma la storia dice che lasciano poche tracce: le Torri Gemelle hanno frenato gli Usa nel terzo trimestre 2001 (-1,1%) ma a novembre la locomotiva Usa era già ripartita. Il Pil di Madrid è salito dello 0,6% nel trimestre della tragedia alla stazione di Atocha e lo stesso è successo in Gran Bretagna nel 2005. Il terrorismo fa male davvero solo quando è una minaccia costante negli anni: nell’era delle bombe dell’Eta, le regioni basche hanno sotto-performato del 10% il resto del paese mentre gli anni dell’Intifada sono costati a Israele l’8,6% del Pil. I costi immateriali. Il vero costo del terrorismo, misurato in miliardi, sono i suoi danni collaterali e i suoi effetti politici. Il New York Times, ad esempio, ha quantificato in 3.300 miliardi di dollari quelli legati alle Twin Towers. Il costo fisico degli edifici abbattuti (55 miliardi) della pulizia del sito (22), i 100 miliardi persi in turismo e viaggi aerei e gli altri 100 bruciati solo per le attese ai controlli in aeroporto sono solo briciole. Il grosso dell’impatto economico è dato dagli 1,6 miliardi pagati per le guerre in Iraq e Afghanistan, i 460 per rafforzare la sicurezza interna, i 110 per i servizi segreti. L’Europa, dopo Bruxelles, sa bene cosa rischia su questo fronte: un corto circuito emotivo - dettato anche da convenienze elettorali a breve termine - che porti a un’accelerazione dell’addio a Schengen per proteggere le frontiere. Il pedaggio, ha calcolato l’autorevole think-tank francese France Strategie, sarebbe salatissimo: lo 0,8% del pil europeo, pari a 100 miliardi l’anno. Per l’Italia il conto sarebbe di 13 miliardi. Possiamo difenderci dai terroristi? L’equilibrio tra privacy e sicurezza di Davide Frattini Corriere della Sera, 23 marzo 2016 In Israele l’idea di un generale (e filosofo): un software per gestire le emergenze. Ehud Barak ripete di considerarsi un professore di matematica mancato. Quando i numeri, la precisione, i calcoli gli servivano a pianificare le operazioni delle forze speciali e adesso - in pensione dal governo - che giocare con le cifre lo ha reso ricco come consulente globale. Così il soldato più decorato d’Israele ha investito un milione di dollari in un algoritmo che vuole mettere ordine dove i terroristi diffondono il caos, un software per gestire le emergenze, per aiutare la polizia e l’esercito a intervenire nel modo più efficace. L’ex premier e ministro della Difesa spiega che qualunque cittadino può scaricare Reporty sul telefonino: schiacciato un bottone, la app registra un video e in automatico lo invia ai centri di emergenza. La formula per le perdite - Passanti trasformati in sentinelle. "Tenere gli occhi aperti, chiamare gli agenti a ogni sospetto, è inevitabile che gli europei dovranno sviluppare l’intuito che noi israeliani siamo stati costretti ad acuire". Una mattina del 2002 Amos Yadlin si è svegliato da un incubo e ha deciso di chiamare Asa Kasher. Insieme il generale e il filosofo hanno provato a stabilire le regole da applicare nella guerra al terrorismo: a un matematico hanno chiesto di creare una formula per calcolare quante perdite collaterali tra i civili fossero accettabili prima di eliminare un attentatore. "Anche l’Europa deve rivedere la sua formula - dice adesso Yadlin, l’ex capo dell’intelligence militare che dirige l’Institute for National Security Studies - tra rispetto dei diritti umani, correttezza politica, garanzie per la privacy da una parte e la protezione della vita umana dall’altra. La sicurezza è un diritto che va garantito". Ricorda che gli israeliani hanno impiegato sei anni per fermare i kamikaze palestinesi, sei anni e l’operazione "Scudo difensivo" ordinata da Ariel Sharon, in sostanza la rioccupazione militare della Cisgiordania. "Durante la seconda Intifada la nostra vita è andata avanti comunque, è l’unico modo di resistere: alla fine il terrorismo va considerato come un incidente d’auto o la criminalità, altrimenti a vincere è lo Stato islamico". Come fa notare Jason Burke, esperto del quotidiano britannico Guardian, la violenza islamista va a ondate: i periodi più sanguinosi precedenti a questo sono stati tra il 2001 e il 2008. Con il 2010 alla vigilia delle cosiddette "primavere arabe" sembrava che la mareggiata di terrore si stesse ritraendo. "Invece lo scontro sarà ancora lungo - commenta Carlo Strenger - e i leader politici devono avere il coraggio di proclamarlo". Il suo libro Civilized Disdain. Why We Must Take Back the Defense of Freedom from the Right vuole proporre una cura per quella che lo psicanalista e filosofo israeliano considera la "malattia autoimmune del mondo libero": "Il politicamente corretto va respinto. È incoerente, nessun essere umano può essere obbligato a rispettare posizioni che considera irrazionali o immorali". Editorialista per il quotidiano liberal Haaretz, è convinto che la guerra al terrorismo debba essere combattuta da una sinistra belligerante che "si riprende la difesa dei valori e della cultura occidentali data in appalto alla destra. Anche perché la risposta populista è la meno efficace, penso a Marine Le Pen che propone di reintrodurre la pena di morte, non mi sembra una gran minaccia per uno jihadista pronto a immolarsi". I lupi solitari - Da ormai sei mesi gli israeliani affrontano quelli che i servizi segreti chiamano "lupi solitari", attentatori palestinesi armati di coltello che hanno macerato il piano e l’esasperazione nel chiuso delle loro stanze: escono per uccidere sapendo che saranno uccisi. "Israele dimostra che a essere fondamentale non è tanto la risposta degli individui dopo un attacco quanto quella di tutta la società. Come reagiamo collettivamente definisce la battaglia e la possibile vittoria. I governi devono veicolare due messaggi, uno per gli estremisti (non cambierete la nostra vita) e uno per i cittadini: sarà lunga, non c’è una soluzione immediata, ce la faremo. Purtroppo siamo anche l’esempio di come un Paese per anni sotto la pressione terrorista finisca con lo spostarsi verso la destra nazionalista". Migranti. L’occasione europea per il rispetto dei diritti umani di Mariano Giustino Il Manifesto, 23 marzo 2016 Il vertice Turchia-Ue che si è tenuto venerdì 18 marzo per bloccare il flusso di rifugiati verso i paesi dell’Unione segna una nuova fase nel rapporto tra Bruxelles e il Governo turco del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). Il processo di adesione della Turchia all’Unione si è arenato subito dopo il suo avvio il 3 ottobre 2005 a causa dei veti incrociati di alcune cancellerie europee, con Cipro in testa. Ben 17 capitoli del negoziato furono bloccati dal 2006 al 2009. Da allora ciascuno dei 28 paesi dell’Unione ha preferito condurre le proprie relazioni con la Turchia in modo separato. Eppure, dalla formale accettazione nel dicembre del 1999, ad Helsinki, della Turchia come paese candidato all’ingresso, al 2006, Ankara aveva adottato ben sette "pacchetti di armonizzazione", insieme di riforme tese a migliorare la qualità della democrazia e dello Stato di diritto. In buona sostanza dal 1999 al 2006, sotto la spinta europeista mostrata dal governo Akp, nei primi anni del suo mandato, Ankara aveva realizzato significativi progressi nell’ambito giuridico e amministrativo, riformando il Codice civile e quello penale. La delusione per il mancato inserimento della Turchia nel gruppo dei dieci paesi che ottennero nel 2004 la piena membership al club europeo, ha determinato una forte delusione e un crollo di fiducia nella credibilità politica dell’Unione. Molti di coloro che criticano l’accordo sui rifugiati, sostengono che l’Ue abbia venduto la sua anima ad Ankara chiudendo gli occhi sulla condizione dello Stato di diritto in Turchia e sulle violazioni della libertà di espressione perpetrate dal regime di Erdogan in questi ultimi anni con un squallido mercato operato sulla pelle di quei migranti che, arrivati sulle isole greche dal 20 marzo in poi, saranno rispediti in Turchia verso un incerto destino. Per ironia della sorte, e proprio grazie alla grave crisi umanitaria dei migranti, il deficit democratico che da anni si registra in Turchia è giunto alla ribalta dell’opinione pubblica e delle istituzioni europee. Le capitali europee non avevano mai mostrato la volontà politica di contrastare la pericolosa deriva autoritaria di questo paese. Ora, grazie a questo accordo, tra Ankara e Bruxelles è emersa la necessità di un confronto puntuale e di un dialogo strutturato ed istituzionalizzato su questioni di fondamentale importanza riguardanti non solo la tragedia dei migranti, ma anche quanto avviene all’interno della Turchia e ai suoi confini sudorientali. Il governo Akp per le sue politiche disastrose sia interne sia estere, appare come un attore isolato nella regione e a livello internazionale. Ha dunque un urgente bisogno di lavorare con un partner come l’Unione europea per rompere questo suo isolamento. Ma l’Ue sembra ancora cauta nei confronti di Ankara. L’Ue dovrebbe cogliere l’occasione di questo accordo per assecondare la conclamata e reiterata disponibilità del governo turco, a porre immediatamente sotto scrutinio cinque dei sedici capitoli bloccati del negoziato dei adesione. Due di questi capitoli riguardano proprio il sistema giudiziario e i diritti umani fondamentali. Più che generiche denunce, intellettuali e giornalisti turchi chiedono a gran voce che vi sia una forte pressione dell’Ue nei confronti di Ankara sul rispetto dei diritti umani, dando nuovo impulso al negoziato di adesione sbloccando i capitoli 23 e 24 sui diritti umani. Questo è quanto è richiesto dal Manifesto-Appello, con Marco Pannella primo firmatario, che l’associazione transnazionale di cittadini e parlamentari "Turchia in Europa da Subito" ha rivolto mercoledì 16 marzo al Governo italiano e alle istituzioni europee. Migranti. "Hotspot come prigioni" L’Unhcr si autosospende di Carlo Lania Il Manifesto, 23 marzo 2016 Critiche all’accordo con la Turchia. Save the Children: "Rivedere il nostro ruolo nei centri". L’accordo tra Unione europea e Turchia ha trasformato gli hotspot sulle isole greche in centri di detenzione per migranti, cosa che rende impossibile mantenere una presenza attiva al loro interno. Con queste motivazioni ieri l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ha annunciato la decisione di sospendere alcune delle attività svolte nelle strutture dove da domenica scorsa, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo con Ankara, vengono ammassati uomini, donne e bambini in arrivo dalla Turchia. Ad annunciare la decisione, che suona come una sconfessione del patto voluto a tutti i costi da Bruxelles a spese di quanti fuggono dalla guerra e dai tagliagole di Daesh, è stata ieri da Ginevra la portavoce dell’organizzazione Melissa Fleming, spiegando che ormai i centri si sono trasformati in prigioni per i migranti. Non si tratta però di un abbandono. Le attività sospese riguardano il trasporto dei profughi da e per gli hotspot e, in alcuni casi, la distribuzione di coperte e vestiti, ma il personale Onu resterà per vigilare sul rispetto dei diritti dei rifugiati e per fornire loro informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo. L’annuncio potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. Dopo l’Unhcr, anche Save the Children, organizzazione che si occupa della tutela dei minori, ha infatti reso noto di voler riconsiderare il lavoro svolto negli hotspot mentre già lunedì l’Ofra, l’ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi, unico organismo autorizzato a riconoscere per la Francia lo status di rifugiato, aveva fatto sapere che non parteciperà all’applicazione dell’accordo siglato con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Salutato come un successo meno di una settimana fa, il patto con Ankara rischia adesso di trasformarsi nell’ennesima dimostrazione dell’incapacità dell’Europa e dei suoi leader. Anche se è presto per tracciare dei bilanci, gli sbarchi di profughi sulle isole greche non sono diminuiti: 1.662 da domenica, 934 dei quali a Lesbo (242 ieri) e 830 a Chio. Tutte persone di fronte alle quali i funzionari greci, che stando a quanto stabilito dall’accordo dovrebbero esaminare in pochi giorni le richiesto di asilo, non sanno come comportarsi rallentando così le procedure. Per sbloccare la situazione Frontex ha chiesto agli stati europei di inviare personale in aiuto a quello greco. Almeno 1.500 poliziotti e 50 esperti in riammissioni e rimpatri, ma si tratta di numeri del tutto insufficienti. A pagare le conseguenze di questa situazione sono ovviamente i migranti. Se gli sbarchi continueranno con il ritmo di questi giorni si rischia il sovraffollamento degli hotspot con conseguenze facilmente immaginabili. E non bisognerà neanche aspettare tanto. Nell’hotspot di Chios, ad esempio, che ha una capacità d 1.100 posti, ci sono già 1.050 persone. E la stessa cosa potrebbe accadere presto anche a Lesbo, Samos e Leros, le tre isole dove si trovano gli altri hotspot greci (il quinto, a Kos, ancora non è stato aperto). È chiaro che in queste condizioni garantire ai migranti non solo il rispetto dei loro diritti, ma almeno un trattamento decente diventa un’impresa. Ma non è tutto. Lo stesso scopo per cui Bruxelles è scesa a patti con Ankara, cioè mettere fine agli arrivi in Europa, potrebbe non essere raggiunto. Ad affermarlo è un’analisi condotta dall’European policy center, tra i principali think tank di Bruxelles, secondo la quale bloccare la via dell’Egeo non farà altro che spingere i migranti nelle mani dei trafficanti. L’Epc punta il dito soprattutto contro il principio cosiddetto dell’"uno a uno", secondo il quale per ogni siriano rimandato in Turchia perché entrato in Europa in maniera irregolare, un altro siriano viene mandato dalla Turchia in Europa. "C’è una forte probabilità - scrive infatti l’Epc - che il ritorno dei migranti irregolari verso la Turchia e l’attuazione dello schema uno a uno motiverà migranti e trafficanti a utilizzare altre vie possibili". Quattro le nuove rotte possibili: dalla Turchia verso la Bulgaria, dalla Libia all’Italia, dall’Albania all’Italia e, infine, dal Marocco fino in Spagna. Rotte ancora più pericolose della traversata del mar Egeo, dove solo quest’anno hanno perso la vita 488 migranti. E gestite dalle organizzazioni criminali, a ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia di Bruxelles quando afferma di voler togliere i profughi dalle mani dei trafficanti di uomini. Migranti. A Sondrio una circolare che vieta il passeggio, poi il prefetto fa dietrofront di Andrea Sceresini La Stampa, 23 marzo 2016 Le disposizioni destinate alle strutture di prima accoglienza. Le associazioni scrivono al Viminale, e le autorità ritirano la circolare. "Evitare la frequentazione di parchi giochi o strutture pubbliche destinate a bambini e famiglie, ad eccezione di iniziative concordate dal gestore della struttura con le associazioni locali". E ancora: "Evitare di passeggiare per il paese in gruppi numerosi di ospiti, limitarsi a gruppi ristretti di quattro o cinque persone; gruppi formati da numeri superiori dovranno essere accompagnati da personale idoneo". La breve circolare - datata 11 marzo - è stata diramata dalla prefettura di Sondrio e inviata a tutte le strutture di prima accoglienza per rifugiati presenti in provincia, sollevando un polverone tra le vallate dell’alta Lombardia. La Valtellina ospita attualmente oltre cinquecento richiedenti asilo, in larga parte provenienti dall’Africa subsahariana. Molti di essi hanno trovato ricovero in una decina di alberghi, tra Cosio, Sondalo, Bormio e Aprica, mentre gli altri sono stati sistemati in alcuni appartenenti di proprietà della Caritas e di altre associazioni, in diverse località della provincia. La loro presenza non ha mai causato problemi di ordine pubblico, perciò - a detta degli operatori - la dura circolare del prefetto è stata "un fulmine a ciel sereno". L’hotel Bellevue di Cosio, circa 35 chilometri a Ovest del capoluogo, ospita da due anni una cinquantina di migranti. I giovani rifugiati chiacchierano sulle panchine di legno, di fronte alle strada statale. Qualcuno, su una vecchia bicicletta cigolante, si avventura verso il centro di Morbegno, appena di là dal ponte, per comprare le sigarette o bere un caffè in piazza. "Li vedo passare da qui tutti i giorni - racconta sorridendo la tabaccaia -, mai avuto grane. Si capisce: la nostra è una piccola comunità, con i suoi ritmi e le sue tradizioni. Non tutti storcono il naso, ma qualcuno evidentemente sì". Il proprietario dell’albergo, Giulio Salvi, preferisce evitare le facili polemiche: "Certo che ho letto la circolare - borbotta spalancando la porta della piccola hall -. Ne ho anche parlato ai ragazzi, che hanno capito perfettamente la situazione. Ma i veri problemi sono altri. In Valtellina c’è un clima di chiusura preoccupante, di cui questo pezzo di carta è solo un semplice sintomo. Spesso, confrontandomi con gli ospiti, mi sento dire: "Gli italiani ci evitano per strada, non vogliono parlare con noi". Nel maggio scorso, i cinquanta migranti presenti in questa struttura hanno firmato una petizione al Comune di Morbegno: chiedevano di lavorare gratuitamente per la collettività, proponendo l’eliminazione delle barriere architettoniche del paese. Il municipio non avrebbe dovuto pagare neanche un euro, perché il materiale ce lo saremmo procurato a spese nostre. Sarebbe stata una meravigliosa chance per promuovere l’integrazione di questi ragazzi. Le istituzioni locali non hanno nemmeno risposto, e sono già passati dieci mesi. Questi sono i veri guai. È su questo che bisognerebbe discutere". Di tutt’altro avviso è l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), che ieri mattina - dopo aver preso visione della circolare incriminata - ha inoltrato una lettera di protesta al ministero dell’Interno, prospettando azioni legali. "Le limitazioni proposte dal prefetto di Sondrio appaiono manifestamente illegittime e lesive dei diritti fondamentali tutelati dalla normativa europea e dalla nostra costituzione - spiega Anna Baracchi, del servizio antidiscriminazione Asgi. Esse, riferendosi ai soli richiedenti asilo, rappresentano inoltre una palese lesione dei principi di uguaglianza e parità di trattamento". La polemica è presto divampata, riversandosi sui social network e sui siti della stampa locale. Il rapido dietrofront della prefettura è arrivato nella giornata di ieri, in concomitanza con la missiva dell’Asgi: "La circolare diretta ai responsabili delle strutture di accoglienza - recita la breve nota del prefetto - va intesa come non prodotta e sarà oggetto di totale revisione". Il precedente documento - redatto e diffuso undici giorni prima - sarebbe stato, sempre secondo quanto sottolineato dalla nota, frutto "di mero errore materiale". La legalizzazione della canapa in piazza di Patrizio Gonnella e Andrea Oleandri Il Manifesto, 23 marzo 2016 Nei prossimi sei mesi dovranno essere raccolte almeno 50.000 affinché la proposta di legge di iniziativa popolare possa essere presentata al Parlamento. Il tema riguarda tutti noi. Legalizziamo! È la proposta di legge di iniziativa popolare depositata giovedì scorso alla Corte di Cassazione, promossa dall’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani - con la collaborazione e il sostegno della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione, La PianTiamo, Canapa InfoPoint, Ascia, comunità di OverGrow, la coalizione "Legalizziamo la Canapa" e decine di grow shop italiani. Nei prossimi sei mesi dovranno essere raccolte almeno 50.000 firme affinché la proposta possa essere presentata al Parlamento divenendo parte del dibattito istituzionale in corso. L’obiettivo è infatti quello di contribuire a superare le resistenze alla legalizzazione della cannabis attraverso la mobilitazione popolare e di imporre, dopo la prossima assemblea generale dell’Onu, la convocazione di una Conferenza nazionale che sappia finalmente cambiare rotta alle politiche sulle droghe in Italia. Il testo della proposta parte dalla versione calendarizzata alla Camera dalla quale, tuttavia, si diversifica in alcune parti grazie ai contributi delle organizzazioni della società civile, di esperti e giuristi, per rendere il modello di regolamentazione quanto più libero possibile. La regolamentazione è rivolta ai maggiorenni e prevede, tra l’altro, la libertà di auto-coltivazione individuale fino a 5 piante, con comunicazione da 6 a 10; la possibilità di coltivare associandosi in "cannabis social club" che potranno avere fino ad un massimo di 100 componenti, i quali avranno la possibilità di coltivare cinque piante a testa. Si prevedono inoltre pratiche semplificate per la produzione commerciale; il più ampio accesso possibile alla cannabis terapeutica; l’allocazione delle entrate ad attività informative e sociali; una relazione annuale al Parlamento; la depenalizzazione totale dell’uso personale di tutte le sostanze nonché la liberazione per i detenuti per condotte non più penalmente sanzionabili. Una proposta di ragionevolezza che prende atto degli ultimi trent’anni di politiche fallimentari sul tema delle droghe, fatte di criminalizzazione, repressione e stigmatizzazione sociale e che tuttavia si scontrerà contro le attuali norme che regolano le leggi di iniziativa popolare. Un sistema che non aiuta la partecipazione dei cittadini. Nell’era della comunicazione digitale, di internet, dei social media, dove sarebbe facile costruire piattaforme web dove ciascuno - previa verifica della propria identità - possa manifestare il proprio consenso, noi dobbiamo essere sommersi da tonnellate di carta, dalla necessità di avvalersi di autenticatori, dalla produzione di centinaia di migliaia di documenti e certificati elettorali. Una difficoltà sperimentata già nel 2013 quando diverse organizzazioni lanciarono la campagna per le "3 leggi" su carceri, droga e tortura e che, all’epoca, fu superata da una grande partecipazione popolare. Furono molte le persone - giovani e meno giovani - che ci scrissero e si mobilitarono per firmare e raccogliere le firme. I nostri banchetti furono presi d’assalto ovunque si facessero. È questo l’unico modo che abbiamo, anche oggi, per superare queste barriere legislative. Sappiamo bene che sul tema delle droghe - come su altre questioni che riguardano le libertà civili - il corpo del paese è proiettato molto più avanti di quanto non sia chi siede nelle istituzioni. Sappiamo che i cittadini pronti a firmare questa proposta sono molti di più dei 50.000 necessari affinché una legge di iniziativa popolare sia presentata al Parlamento. Per questo l’invito che rivolgiamo a tutti è di mobilitarsi. Il tema riguarda tutti noi, la nostra salute, la nostra libertà, la nostra società. Legalizziamo! è l’occasione per far sentire la nostra voce. Giordania: rifugiati siriani senza cure mediche di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 marzo 2016 La profonda inadeguatezza del sostegno della comunità internazionale (alla fine del 2015 era stato erogato solo il 26 per cento dei fondi previsti per l’assistenza sanitaria nell’ambito del Piano giordano per la risposta alla crisi siriana) e gli ostacoli posti dal governo della Giordania privano i rifugiati siriani dell’accesso a cure mediche e ad altri servizi fondamentali di medicina. La denuncia è contenuta in un rapporto diffuso questa mattina da Amnesty International. Vi si raccontano toccanti storie di rifugiati siriani gravemente feriti ma respinti al confine giordano e in alcuni casi morti a seguito delle ferite. La Giordania ospita 630.000 rifugiati siriani ufficialmente censiti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Sin dal 2012, tuttavia, la Giordania ha imposto sempre maggiori limitazioni ai siriani che cercano di entrare nel paese attraverso valichi di confine ufficiali e informali, fatta eccezione per i feriti di guerra. Ma, come Amnesty International ha appreso da operatori umanitari e familiari di rifugiati siriani feriti in modo grave, non sempre questi ultimi riescono a entrare in Giordania. Nel luglio 2015, almeno 14 feriti gravi tra cui cinque bambini colpiti da una o più schegge di proiettile non sono stati fatti entrare in Giordania. Secondo le informazioni ottenute da Amnesty International, quattro di loro - tra cui una bambina di tre anni - sono morti al confine mentre chiedevano invano di entrare. In un altro caso, un ragazzo di 14 anni in condizioni critiche non è stato fatto entrare in Giordania perché privo di documenti d’identità ed è morto il giorno dopo in un ospedale da campo siriano. Tra coloro cui è stato negato l’ingresso in Giordania figura una bambina di due anni e mezzo ferita alla testa a seguito di un attacco con barili bomba. Il rapporto di Amnesty International evidenzia inoltre l’elevato numero di rifugiati siriani i quali, vivendo fuori dai campi loro assegnati, non sono in grado di accedere alle cure mediche a seguito degli aumenti disposti dal governo di Amman nel novembre 2014 o non hanno i documenti necessari per avervi accesso. Dei 630.000 rifugiati siriani presenti in Giordania, 117.000 vivono in tre campi ufficiali nei quali hanno accesso all’istruzione, alle cure mediche, all’acqua, al cibo e ai progetti per l’impiego finanziati dalle Nazioni Unite e da organizzazioni nazionali e internazionali. Per gli altri, le cure mediche restano un miraggio. Occorre pagare le prestazioni mediche e produrre documentazione aggiuntiva, tra cui una tessera rilasciata dal ministero dell’Interno. Almeno il 58.3 per cento dei siriani adulti con malattie croniche non è in grado di procurarsi medicinali o di accedere ad altri servizi di medicina. Costretti a decidere se pagare le cure mediche od occuparsi della sopravvivenza dei familiari, si tende a privilegiare quest’ultima. Sarah, una rifugiata siriana, ha perso la gamba sinistra all’età di otto anni durante un attacco coi razzi nella Ghouta orientale, a nord-est della capitale Damasco. I suoi familiari l’hanno portata in Giordania affinché potesse essere curata. Inizialmente, nel campo rifugiati di Zaatari ha ricevuto cure mediche e le è stata impiantata una protesi. In seguito, a causa delle minacce ricevute da altri rifugiati, la famiglia ha dovuto lasciare il campo e, sprovvista della documentazione necessaria, non ha più potuto ricevere le cure. Tre donne intervistate da Amnesty International, recentemente diventate madri in un ospedale gestito da un’organizzazione non governativa a Irbid, hanno denunciato di non aver potuto effettuare esami pre-natali di fondamentale importanza perché non potevano pagare quelle prestazioni e i costi di trasporto. Il rapporto di Amnesty International viene reso pubblico una settimana prima del vertice a livello ministeriale convocato dall’Unhcr, in cui agli stati verrà chiesto d’impegnarsi per reinsediare rifugiati e individuare ulteriori soluzioni per l’ammissione dei rifugiati siriani. Il vertice costituisce un’opportunità per i governi di mostrare solidarietà nei confronti dei cinque paesi che ospitano oltre 4,8 milioni di rifugiati siriani e fornire una speranza di vita a chi ne ha bisogno. Finora, la comunità internazionale si è impegnata a reinsediare 178.195 rifugiati siriani, un numero vergognosamente basso. Amnesty International chiede che almeno 480.000 dei rifugiati più vulnerabili che attualmente si trovano nei cinque principali paesi ospitanti - tra cui malati cronici, feriti e persone con disabilità - siano reinsediati in un paese terzo sicuro. Olanda: mancano detenuti, governo costretto a chiudere le carceri inutilizzate ilpost.it, 23 marzo 2016 Il problema delle carceri olandesi è che ci sono pochi detenuti, con conseguenti problemi di personale in esubero e inutili costi di gestione. Il ministro della Giustizia olandese Ard van der Steur ha detto al Parlamento che nei prossimi anni il governo prevede di chiudere alcune carceri per tagliare i costi di mantenimento di centinaia di celle vuote e inutilizzate. Il problema delle carceri olandesi, infatti, è che ci sono pochi detenuti. De Telegraaf, uno dei principali quotidiani dei Paesi Bassi, ha scritto di aver ottenuto alcuni documenti interni del governo in cui sono contenuti alcuni dettagli di questo annuncio: le prigioni che dovrebbero chiudere sono cinque, con la conseguente perdita di 1.900 posti di lavoro. Altre 700 persone impiegate in quelle stesse prigioni saranno messe in mobilità. Non sono chiari i tempi di questa riforma né quali saranno le strutture che chiuderanno. I Paesi Bassi hanno già cambiato la destinazione di otto carceri, l’anno scorso. Il numero di reati penali commessi nei Paesi Bassi, secondo gli ultimi dati forniti dal governo, è diminuito del 23 per cento nel corso degli ultimi sette anni. Inoltre, i reati più gravi per cui sono previste pene più lunghe stanno diventando meno comuni. Nel 2014 la polizia ha registrato poco più di un milione di reati, rispetto al milione e 300 mila del 2007. Il calo riguarda in generale tutte le categorie di reati. Il numero degli indagati minorenni è diminuito di oltre la metà, passando da 53 mila a 23 mila. La tendenza al ribasso della criminalità porterà entro i prossimi cinque anni a circa 3.000 celle e 300 luoghi di detenzione giovanile in esubero per soddisfare le reali esigenze del paese. Van der Steur ha anche detto che la tendenza dei tribunali è quella di emettere sentenze e stabilire pene sempre più leggere rispetto ai crimini commessi, il che significa che i detenuti passano in media meno tempo nelle prigioni rispetto al passato. Il governo olandese ha cercato di risolvere in parte la questione dell’esubero di personale e dell’alto costo per il mantenimento delle strutture trasferendo sul proprio territorio detenuti provenienti da paesi che hanno invece il problema opposto. Lo scorso anno, per esempio, 242 detenuti norvegesi sono stati trasferiti al carcere di Veenhuizen, nella Drenthe, provincia del nord-est del paese, dopo la conclusione di un accordo tra i due governi per un periodo iniziale di tre anni. Il Guardian scrive anche che il Belgio ha "affittato" degli spazi nelle prigioni olandesi per i propri detenuti.