Cyber-sicurezza e Servizi. Il Colle a Renzi: prudenza di Francesco Grignetti La Stampa, 22 marzo 2016 Incontro tra Mattarella e il premier su rinnovo dei vertici e agenda politica. In discussione il ruolo di Marco Carrai Per il momento, abbiamo "solo" un nuovo Capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare. Su indicazione di Roberta Pinotti, il consiglio dei ministri ha deliberato l’avvicendamento tra i generali Pasquale Preziosa e Enzo Vecciarelli, attuale Sottocapo di stato maggiore della Difesa. Una nomina giunta in extremis, dato che ieri il generale Preziosa compiva gli anni e di fatto era in pensione. Di questi tempi, però, con la crisi libica aperta, lasciare l’Arma azzurra senza un comandante sarebbe stato inimmaginabile. E anzi il ritardo nella decisione ha suscitato più di un malumore a cui avevano dato voce gli ex Capi di stato maggiore dell’Aeronautica, da Leonardo Tricarico ("Pura sciatteria"), a Vincenzo Camporini ("Mai si è arrivato tanto tardi, qualcuno evidentemente si era distratto..."), a Mario Arpino ("Un atteggiamento burocratico che le forze armate non si meritano"). A guidare i piloti militari, che potrebbero trovarsi catapultati di nuovo in scenari di guerra, dalla Libia all’Iraq, arriva dunque Vecciarelli, un pilota di prim’ordine, 2400 ore di volo spese soprattutto sul mitico F104. Resta al suo posto, invece, un generale che era accreditato di simpatie renziane in quanto consigliere militare del premier dal maggio 2014 a ottobre 2015, l’attuale segretario generale della Difesa e direttore Armamenti, Carlo Magrassi, già capo di gabinetto di Roberta Pinotti. Altro finora non è stato deciso. E forse non è stato ininfluente l’incontro di ieri mattina tra il Presidente della Repubblica, reduce da un viaggio idi sette giorni nel cuore dell’Africa, e Matteo Renzi. Un giro d’orizzonte a 360 gradi nel corso del quale il Presidente avrebbe teorizzato prudenza e metodo istituzionale, senza fughe in avanti, in particolare sulle nomine negli apparati. Molte, infatti, sono le decisioni da prendere di qui all’estate. Ci sono in ballo incarichi di grande importanza quale il nuovo Capo della polizia, il comandante generale della Guardia di Finanza, il direttore del servizio segreto interno, l’Aisi, il direttore del Dis, il "cervello" degli 007, dove è in scadenza il mandato per l’ambasciatore Giampiero Massolo, il nuovo Capo di stato maggiore della Marina. Questione non ultima, poi, si ragiona ai piani alti delle istituzioni su quale architettura legislativa debba avere la cyber-security italiana e se sia il caso di affidarla al manager Marco Carrai, grande amico del premier e imprenditore del settore. Ancora non è deciso se dovrà essere un ufficio incardinato nel Dis oppure un’agenzia ad hoc. Nel qual caso difficilmente andrebbe a guidarla Carrai, sotto attacco da parte dei "nemici" del premier, esposto a critiche per conflitto di interesse e troppe cointeressenze con soci stranieri. Lui stesso, a quel che si dice, sarebbe poco interessato a farsi "ingessare" in un ruolo che non gli è congeniale e preferirebbe un ruolo di consulente. Carrai, infatti, ama restare dietro le quinte, dove pure non esita a esercitare influenza. Se qualcuno s’attendeva un gran risiko di nomine, insomma, un fuoco d’artificio a totale trazione renziana, resterà deluso. Il metodo, per quel che si capisce dopo i colloqui al Quirinale, sarà diverso. Si procederà un passo alla volta, soppesando le qualità dei candidati, e quando si arriverà a scadenza naturale, ecco che la casella verrà riempita. Le uniche due nomine che probabilmente verranno insieme saranno la guida dell’Aisi e della Guardia di Finanza. Non è un mistero, infatti, che ci sia un generale della Finanza, Vincenzo Delle Femmine, da circa un anno vicedirettore dell’Aisi, che è in corsa per entrambe le caselle. Il Ministro Costa: cambieremo la legge, proteggere la famiglia è un diritto di Tommaso Montesano Libero, 22 marzo 2016 "Sulla legittima difesa serve una norma chiara, puntuale e precisa. Non una norma di compromesso. Bisogna avere il coraggio di affrontare il cuore del problema". Enrico Costa, ministro per gli Affari regionali con delega alla Famiglia (Ncd), già viceministro della Giustizia, lancia un messaggio chiaro al Pd: così com’è, la riforma della legittima difesa approvata dalla commissione Giustizia della Camera, il cui esame in Aula è stato sospeso proprio su richiesta dem con la necessità di "ulteriori approfondimenti", serve a poco. Ministro, cos’è che non la convince del provvedimento all’attenzione di Montecitorio? "La Commissione ha approvato un testo diverso rispetto a quello originario. Ha scelto di intervenire sull’articolo 59 del codice penale, sull’errore, e non sull’articolo 52, ossia sulla legittima difesa. In questo modo, però, si tocca solo una parte del problema. Ma non è possibile ristrutturare una casa sostituendo un solo mattone". Come bisognerebbe intervenire? "Individuando e specificando le condizioni, oggettive e soggettive, in presenza delle quali scattano le condizioni perla legittima difesa. Occorre entrare nel dettaglio, stabilire qual è il confine: scrivere ciò che è consentito da quello che non lo è. Altrimenti succede come accaduto per la riforma del 2006". Quella voluta dall’allora Guardasigilli della Lega, Roberto Castelli? "Una legge salutata con trionfalismo che però si è dimostrata inefficace. Una norma di compromesso, che invece di entrare nello specifico è rimasta generica, lasciandone l’interpretazione, caso per caso, ai magistrati". Nel Casertano, la scorsa notte, un uomo ha sparato ai ladri in procinto di rubargli l’auto. Un malvivente è morto. "Non entro nel caso specifico. Osservo, però, che la criminalità è cambiata. Non c’è più il ladruncolo che si infila in casa dopo essersi accertato dell’assenza dei proprietari. Il classico topo d’appartamento pronto a dileguarsi alla vista di una luce accesa". È aumentata la percezione di insicurezza? "L’ansia e la preoccupazione sono maggiori. Oggi agiscono bande organizzate, che si introducono nelle abitazioni di notte con l’attrezzatura per neutralizzare i proprietari dell’appartamento. È vero che i furti in abitazione sono diminuiti, ma le rapine sono in aumento". L’opposizione vi accusa di essere più attenti ai diritti dei delinquenti che a quelli delle vittime. "Il Parlamento, alla Camera, ha approvato un emendamento del governo che modifica la disciplina penale del furto in abitazione e della rapina. Sia aumentando le pene minime, sia vietando il bilanciamento con le circostanze attenuanti. L’obiettivo è rendere effettiva la pena, cosa che oggi non accade". I cittadini ormai non denunciano più i furti... "Nell’ambito della riforma del processo penale abbiamo previsto una norma in base alla quale, dopo un certo periodo di tempo, il cittadino deve avere notizie su quello che, in termini di risultati di indagine, è stato fatto dalle Forze dell’ordine dopo la denuncia. Si tratta di segnali significativi di attenzione nei confronti del cittadino che ci aspettiamo ottengano una rapida approvazione da parte del Senato". Prima ha accennato alla necessità di specificare, nel dettaglio, le condizioni per far scattare la legittima difesa: ha già in mente qualche caso concreto? "Ad esempio: distinguere tra un’aggressione di giorno e una di notte; considerare la presenza di altre persone nell’abitazione, in primis i bambini che non possono difendersi; valutare se chi subisce la minaccia ha già dovuto far fronte ad altre aggressioni. Bisogna mettere il giudice nella condizione migliore per decidere. La stessa magistratura, nelle audizioni svolte in Parlamento, ha ammesso che con la normativa attuale ci sono state valutazioni difformi". Non teme che in vista dell’esame parlamentare la diversità di vedute tra voi di Area popolare e il Partito Democratico blocchino il provvedimento? "Non credo. Anche perché il dibattito, su questa materia, è trasversale. Siamo all’inizio del percorso legislativo e sono convinto che ci sia lo spazio per migliorare la riforma. La cosa peggiore sarebbe quella di piantare bandierine che poi non reggono dal punta di vista giuridico". Sarebbe favorevole, in Parlamento, ad un accordo più ampio rispetto alla maggioranza di governo? "Io lo auspico. L’opposizione non pensi a norme demagogiche; la maggioranza non commetta l’errore di non prendere in considerazione buone proposte solo perché provenienti dall’opposizione". Uccide il ladro albanese che gli stava rubando la macchina. Salvini: "è legittima difesa" di Marzio Laghi Il Tempo, 22 marzo 2016 Villa Literno, spara contro un albanese che gli stava rubando la macchina. La moglie sotto choc: "Avevamo già subito ben otto furti e siamo stanchi". Era a casa con la moglie e due dei suoi tre figli. La primogenita è rientrata in auto verso le tre del mattino, ha notare i ladri e ha dato l’allarme con il suo cellulare ai genitori. Il capofamiglia, che aveva già subito furti, ha sparato ai malviventi che in quel momento stavano rubando l’Audi dell’uomo e ne ha ferito a morte uno. È accaduto davanti a una villetta di via Vecchia Aversa, a Villa Literno. La vittima è un albanese quarantenne e aveva due complici, che l’hanno abbandonato in fin di vita di fronte all’ospedale e sono fuggiti dopo aver bruciato la Bmw bianca sulla quale viaggiavano. L’arma che ha sparato era legalmente detenuta dal meccanico di mezzi industriali proprietario della villa. La moglie ha raccontato agli inquirenti che non era la prima volta che si ritrovavano i ladri in casa e che erano stati vittime di furti almeno otto volte. Ma i militari dell’Arma hanno ritrovato nei loro archivi una sola denuncia sporta dal meccanico risalente al 2001. Ancora in corso le indagini la ricostruzione dell’esatta dinamica. Sul posto è intervenuto anche il pm della Procura di Napoli Nord. "È stata una nottata terribile. Non è bello sparare a una persona - ha spiegato, sotto shock, la moglie del meccanico - ma è l’ottava volta che vengono a rubare. Siamo stanchi. Se i banditi ci avessero detto che avevano bisogno di soldi li avremmo aiutati senza problemi, lo abbiamo fatto altre volte. Ma non puoi introdurti in casa mettendo in pericolo l’incolumità nostra e dei nostri figli. Quando mio marito ha fatto fuoco dal balcone, il ladro colpito, che era già dentro la nostra macchina, una Audi, è uscito dall’abitacolo e ha chiesto, rivolgendosi a mio marito, perché mi spari? - ha concluso la donna - Io avrei voluto chiedergli: e tu perché vieni a casa nostra mentre dormiamo a prendere la nostra roba?". Dello stesso parere il leader della lega, Matteo Salvini, che sulla sua pagina di Facebook ha scritto: "Mi spiace per il morto, ma fino a un certo punto. Ora che non indaghino l’aggredito! La difesa è sempre legittima, anche se Renzi non è d’accordo. Mi date una mano a cambiare la legge?". Il 20 ottobre Francesco Sicignano, un pensionato di Vaprio D’Adda, in provincia di Milano, sparò e uccise un ladro albanese. Il pensionato venne ascusato di aver sparato all’esterno dell’abitazione mentre il ladro era in fuga. Ma dagli esami svolti dalla Procura di Milano risultò che sull’ogiva trovata nella cucina dell’abitazione di Sicignano era presente il Dna della vittima, confermando il racconto del padrone di casa. "Ho sorpreso il ladro in cucina - aveva detto - sembrava armato e ho fatto fuoco". Il 28 gennaio scorso venne condannato a due anni e otto mesi il tabaccaio di Correzzola (Padova) che, nella notte tra il 25 e il 26 aprile 2012, sparò e uccise un ladro che aveva sfondato la vetrina della sua tabaccheria. L’uomo, Franco Birolo, era accusato di eccesso colposo in legittima difesa. Il tribunale ha inoltre disposto un risarcimento di 325mila euro nei confronti della madre e della sorella della vittima. A perdere la vita fu un moldavo di 20 anni. Il 5 novembre 2015, infine, è morto d’infarto Ermes Mattielli, il commerciante veneto di 62 anni che, il 13 giugno 2006, sparò 14 colpi di pistola contro due ladri sorpresi a rubare nel suo deposito. Il 7 ottobre, nove anni dopo, Mattielli era stato condannato a cinque anni e quattro mesi di reclusione e a risarcire i due ladri con 135mila euro. Il Sottosegretario alla Giustizia Ferri: "pirati al volante, ora le pene saranno più giuste" di Fabio Florindi Il Giorno, 22 marzo 2016 Manca poco alla firma del presidente Sergio Mattarella che renderà operativa la legge sull’omicidio stradale. Un provvedimento che inasprisce le pene per i pirati della strada, ma che ha avuto un percorso tortuoso in Parlamento. Il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, rivendica il risultato ottenuto, sostenendo che sulla questione non è stato mai perso di vista il "dettato della Costituzione", secondo cui "la pena deve essere determinata nel singolo caso concreto". Sottosegretario Ferri cosa si può dire oggi ai parenti delle vittime dei pirati della strada? "La legge è necessaria e nasce come risposta del Governo per porre fine alla piaga degli incidenti mortali su strada. È stato attuato un inquadramento organico di tutte le ipotesi di omicidio e lesioni stradali. Questo per rendere più omogenee le pene e assicurare la giusta punizione per chi provoca incidenti gravi e mortali". Come mai il percorso del provvedimento è stato così lungo e accidentato? "I numerosi passaggi parlamentari hanno consentito di perfezionare la legge. Ad esempio il testo approvato in seconda lettura al Senato ha recepito una serie di suggerimenti ed introdotto ulteriori correttivi che hanno migliorato la coerenza del provvedimento. Tra questi segnalo la sfera di applicazione della diminuzione della pena non solo in caso di concorso colposo della vittima ma in tutte le ipotesi in cui l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione del colpevole; l’arresto obbligatorio in flagranza per chi esercita professionalmente l’attività di autotrasporto. E poi il conducente che si ferma e presta assistenza ai danneggiati, mettendosi a disposizione della polizia giudiziaria, non è soggetto all’arresto in flagranza per il delitto di lesioni personali colpose". Che cosa cambierà in concreto? "Si vanno a differenziare le singole condotte, aumentando le pene anche nel minimo. Per la guida in grave stato di ubriachezza e sotto l’effetto di stupefacenti la pena sarà da 8 a 12 anni. Inoltre è prevista la reclusione da 5 a 10 anni per tutti i conducenti che versano in stato di ubriachezza meno grave che commettono una di quelle infrazioni che in questi anni tanto sangue hanno sparso sulle strade come la violazione dei limiti velocità, l’attraversamento con il semaforo con il rosso, la circolazione contromano e altre manovre pericolose. La pena potrà essere aumentata fino a 18 anni nel caso di morte di più persone. C’è anche l’introduzione di un’aggravante in caso di fuga del responsabile". Si ritiene soddisfatto o poteva essere fatto di più? "Sono molto soddisfatto, ma non ci fermiamo qui. E renderemo ancora più incisivi gli effetti di questa riforma". Cyber-bullismo: è emergenza nella metà delle scuole e il 60% dei dirigenti non è pronto di Emanuela Micucci Italia Oggi, 22 marzo 2016 Il bullismo a scuola corre sul web. I presidi chiedono un’adeguata formazione, ma la maggior parte non ha attuato le specifiche azioni contro il cyber-bullismo previste dalle linee di orientamento del Miur. E i genitori minimizzano. Questi i principali risultati della prima fase della ricerca "Verso un uso consapevole dei media digitali" realizzata dal Censis, in collaborazione con la polizia postale e delle comunicazioni, su 1.727 dirigenti scolastici in tutta Italia (censis.it). Il 52% dei presidi ha dovuto gestire episodi di cyber-bullismo, il 10% di sexting e il 3% casi di adescamento online. Per il 77% dei dirigenti internet è l’ambiente dove avvengono più frequentemente i fenomeni di bullismo. Se il 45% ritiene che il cyber-bullismo ha interessato non più del 5% dei propri studenti, per il 18% il sexting vede coinvolto tra il 5% e il 30% dei ragazzi. Tuttavia, il bullismo digitale è un fenomeno difficile da mettere a fuoco, data la grande varietà di comportamenti che genera. Così, ben il 33,1% dei presidi non sa dire quanto è diffuso il sexting nella propria scuola e, dovendo gestire episodi di adescamento online, il 32% ha avuto difficoltà a capire cosa fosse successo. Del resto, la metà (51,2%) lamenta la mancanza di un adeguato spazio alle tematiche dei rischi di internet per i minori nella propria formazione. La carenza riguarda anche l’aggiornamento di docenti (44,5%) e personale Ata (69,4%). In particolare, i dirigenti vorrebbero ricevere una specifica formazione sulle procedure da adottare per gli studenti coinvolti in casi di adescamento e cyber-bullismo (71,4%), sui fenomeni emergenti di prepotenze online tra minori (60,9%). Così, la metà di loro, di fronte a casi di rischi per i propri studenti, si è rivolto alle forze dell’ordine per cyber-bullismo (50,6%) e adescamento (50,2%). Percentuale che per il sexting scende al 31,4%, tanto quanto quelli che sono andati ai servizi sociali territoriali o al consultorio. Supporto, questo ultimo, scelto dal 48,2% per il bullismo. Tuttavia, solo il 38,9% delle scuole ha già attuato le azioni indicate nelle linee di orientamento del Miur, anche se il 63,9% le ha in programma per questo anno scolastico. La principale difficoltà nel gestire episodi specifici è rendere i genitori consapevoli della gravità dell’accaduto: lo denuncia il 51,3% per il bullismo, il 49,5% per il cyber-bullismo, il 25,5% per il sexting e il 21,1% per l’adescamento online. Sebbene per il 65% dei dirigenti la gravità sia percepita più dai genitori che dagli studenti, tuttavia ben l’80,7% delle famiglie di fronte a figli bulli o cyber-bulli tende a minimizzare i fatti qualificandoli come scherzo fra ragazzi. Preoccupante poiché il 55% dei presidi ritiene che sia proprio l’atteggiamento dei genitori a influire molto sui comportamenti dei bulli. Allora il 51,8% delle scuole ha organizzato incontri sui rischi di internet riservati alle famiglie. Però nel 36% dei casi la partecipazione non va oltre la metà circa dei genitori e nel 58,9% dei casi si ferma solo a pochi genitori. Giornata nazionale di Libera: a Messina il ponte antimafia dei 30 mila di Ezio Trasparente Il Manifesto, 22 marzo 2016 L’epicentro della Giornata nazionale di Libera nella città dello Stretto. Insieme a don Ciotti in piazza centinaia di familiari delle vittime della mafia, Rosi Bindi e il presidente della regione Sicilia Crocetta. Mentre a Catanzaro venivano sequestrati alla ‘ndrangheta beni per un valore di mezzo miliardo. Da sempre, in Sicilia, Messina è stata considerata la città "babba", un territorio che non era in grado di esprimere una malavita di adeguata credibilità criminale, a cui mancava la caratura adeguata agli standard di Cosa Nostra. Una pallottola in faccia ciascuno al giornalista Beppe Alfano, all’avvocato Nino D’Uva, al gastroenterologo Matteo Bottari ed alla diciassettenne Graziella Campagna, e l’ormai conclamata latitanza dorata di Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, da anni raccontano un’altra storia. Se a Messina, dunque, la mafia c’è, è da Messina che in trentamila, il primo giorno di primavera, hanno ribadito quanto efficacemente sintetizzato da Peppino Impastato trent’anni fa: la mafia è una montagna di merda. Libera, la rete nazionale di associazioni antimafia, ha infatti scelto la città dello Stretto per ospitare la giornata nazionale della memoria e dell’impegno 2016, la ventunesima organizzata dall’associazione per ricordare le vittime della mafia. Così, su strade sgomberate da vigili spietati nel far rispettare il divieto di sosta lungo tutto il percorso, da molto prima dell’inizio del corteo, partito alle nove di mattina ed aperto dai familiari delle vittime, in riva allo Stretto hanno iniziato a mettersi in fila indiana i pullman. Studenti, scout e scolaresche provenienti da tutta la Sicilia e Calabria hanno affollato e colorato le strade cittadine per la marcia che si è conclusa in piazza Duomo, con il cartello "si al vangelo, no alla mafia" a svettare sulla Cattedrale. In piazza, secondo tradizione, la lettura, uno per uno, delle quasi mille vittime che la mafia ha disseminato per decenni. Mille vittime, praticamente quelle di una guerra a media intensità, per chi volesse dare un valore ai numeri e grazie a questi farsi un’idea dei fenomeni. Una guerra che lo stato italiano per anni si è rifiutato di combattere e che ha lasciato all’eroismo dei singoli, dei Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, dei Boris Giuliano e Cesare Terranova, dei Pio La Torre e dei Mario Francese, dei Beppe Montana e dei Ninni Cassarà. Una lista lunga mezz’ora al termine della quale Luigi Ciotti, il prete che di Libera è stato fondatore ormai ventuno anni fa, ha sottolineato come chi è morto combattendo Cosa nostra, ‘ndrangheta e Camorra lo abbia fatto in nome della libertà, del bene comune, della democrazia. E chi invece non combatteva? Chi è stato ucciso per errore, per uno scambio di persona, chi è stato ucciso perché aveva trovato un’agendina che conteneva numeri "scottanti", perché nato nella famiglia sbagliata? "La mafia è la vigliaccheria di chi spara e si nasconde, di chi usurpa risorse, lavoro e futuro ad interi territori, intere comunità. Non è libero chi è costretto al lavoro nero, chi vive nella paura, nella povertà, nella mancanza di sicurezza", ha spiegato don Ciotti. Ma il fondatore di Libera, davanti a una piazza gremita e collegata con altre piazze italiane, parla a tutto campo: rivolge un pensiero commosso alle famiglie delle studentesse italiane morte nell’incidente in Spagna, lancia un duro atto d’accusa all’Unione Europea per il "vergognoso accordo" con la Turchia sui respingimenti di migranti, e invita tutti gli italiani ad andare a votare al referendum contro le trivelle per salvaguardare l’ambiente. Nel frattempo, in piazza Duomo si sono arrivati Rosi Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia, e Rosario Crocetta, governatore della regione Siciliana fresco di annuncio di ricandidatura alla presidenza. "Non capisco le divisioni nel mondo dell’antimafia, perché l’obiettivo è unico", ha spiegato Crocetta". E lo Stato? "La mafia oggi uccide meno, ma fa più affari - ha spiegato Rosi Bindi - serve l’unità di istituzioni e forze politiche per combatterla. Abbiamo un debito nei confronti dei familiari delle vittime". "È un’opportunità per le generazioni future, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato nell’organizzazione", ha spiegato quindi Renato Accorinti, sindaco di Messina. E mentre a Messina l’antimafia sfilava e riaffermava la sua lotta, ad un centinaio di chilometri in linea d’aria, il nucleo di polizia tributaria di Catanzaro della Guardia di Finanza effettuava un maxi sequestro da oltre mezzo miliardo di euro di beni e società riconducibili ad affiliati alla cosca di ‘ndrangheta di Iannazzo di Lamezia. Nel pomeriggio, come da consuetudine, Libera ha organizzato i forum tematici, dai quali i segnali emersi non sono esattamente confortanti. "La corruzione sta vincendo: È necessario riappropriarsi degli spazi per ricostruire l’alternativa", ha spiegato Leonardo Ferrante, responsabile dei settori legale ed anticorruzione civica di Libera. Nel forum dedicato al "ruolo dei cittadini nella promozione dell’integrità: esperienze di monitoraggio civico", Ferrante ha presentato la partnership che Libera ha intrapreso con l’associazione messinese Parliament Watch Italia per sviluppo e implementazione di politiche di open government, trasparenza, open data e monitoraggio civico. Giornata nazionale di Libera. Don Ciotti "si rischia la guerra all’antimafia" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 22 marzo 2016 Messina diventa capitale dell’antimafia per un giorno. Oltre 30 mila partecipanti a piazza Duomo alla manifestazione in ricordo delle vittime: 500 i familiari presenti. Don Ciotti: "Il nostro Paese ha bisogno di ponti che allarghino le coscienze e veicolino le speranze". Un pensiero commosso alle famiglie delle studentesse italiane morte nell’incidente in Spagna e un indignato atto d’accusa all’Unione Europea per il "vergognoso accordo" con la Turchia sui respingimenti di migranti e anche un invito a tutti gli italiani ad andare a votare al referendum contro le trivelle per salvaguardare l’ambiente. È un don Luigi Ciotti a tutto campo quello che, sul palco di Piazza Duomo a Messina, gremita da ventimila persone e in collegamento con tutte le altre piazze d’Italia, chiude tra gli applausi la ventunesima giornata di Libera in ricordo delle vittime di tutte le mafie. Una giornata aperta, come da tradizione, con l’infinito elenco dei 900 nomi delle vittime, molti noti ma per lo più sconosciuti. A Messina, insieme ai ragazzi delle scuole arrivati da tutta Italia, agli scout e alle associazioni sfilano almeno 500 familiari di persone assassinate dalla criminalità organizzata. Ed è una rinnovata richiesta di verità e giustizia quella che, a nome di tutti, viene affidata a Vincenzo Agostino, l’anziano padre del poliziotto Nino Agostino che dal giorno dell’omicidio del figlio e della giovane nuora incinta non si è mai più tagliata la barba, ormai lunghissima. Dal palco Don Luigi Ciotti lancia un forte atto d’accusa contro mafia e corruzione "un sistema che in Italia si autoalimenta". Il suo è un invito a tutti a "costruire ponti che allarghino l’impegno e a metterci la faccia per dire no all’anestesia delle coscienze". Ribadisce le sue richieste urgenti al Parlamento il fondatore di Libera, per la riforma dei beni confiscati che preveda norme di salvaguardia per le aziende, "finora il vero fallimento di tutta questa operazione", per la legge in favore delle vittime innocenti di tutte le mafie e per l’istituzione della giornata del 21 marzo come quella del ricordo. Sulle polemiche che negli ultimi mesi hanno travolto il mondo dell’antimafia e coinvolto anche Libera, don Ciotti taglia corto: "Attenti, qui si fa più la guerra all’antimafia che alla mafia. dalle accuse circostanziate ci si può difendere, di quelle generiche si può parlare, dalle diffamazioni ci difenderemo in tribunale. Ma la nostra risposta sono i fatti, sono questi meravigliosi ragazzi, sono le 350.000 persone scese in piazza oggi in tutta Italia con noi". Carcere, il teatro vince la scommessa: laboratori in più del 50% delle strutture di Teresa Valiani Redattore Sociale, 22 marzo 2016 I numeri della Giornata nazionale. Laboratori presenti nella metà degli istituti per una attività che incide positivamente sul clima del carcere e che rientra nella valutazione trattamentale. Giovedì 24 marzo presentazione del Cartellone 2016 e rinnovo del protocollo tra Dap, Coordinamento nazionale e Università Roma Tre. Più della metà delle carceri italiane ospita un laboratorio di teatro, nel 96 per cento di questi istituti l’attività teatrale ha un’incidenza positiva sul clima interno e nella pressoché totalità delle esperienze (99 per cento) i laboratori rientrano nella valutazione trattamentale. "I veri maestri del teatro è più facile trovarli lontano dal palcoscenico" ha scritto Krzysztof Warlikowski, uno dei più importanti registi europei, nel messaggio per la 53ma giornata mondiale del teatro 2015. E alla vigilia dell’edizione 2016, fissata come ogni anno per il 27 marzo, i numeri che arrivano dal carcere testimoniano quanto non si debba mai smettere di cercare altri palcoscenici e di sperimentare. Proprio per il 27 marzo, in concomitanza con l’evento mondiale, è promossa la terza Giornata nazionale del Teatro in Carcere, organizzata dal Coordinamento nazionale del teatro in carcere e dall’Istituto superiore di Studi penitenziari (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Il Cartellone degli spettacoli messi in scena dalle compagnie teatrali attive negli istituti penitenziari sarà presentato il 24 marzo nella sede del Museo Criminologico di Roma in occasione del rinnovo del Protocollo d’intesa tra il Dap, il Coordinamento nazionale teatro in carcere e l’università Roma Tre. A firmare il protocollo saranno Santi Consolo, capo del Dap, Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere e Paolo D’Angelo, direttore del Dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo dell’università di Roma Tre. Nella scorsa edizione l’iniziativa aveva coinvolto 59 istituti penitenziari con 81 eventi realizzati in 17 regioni. In programma, spettacoli teatrali ma anche conferenze, proiezioni video, laboratori, prove aperte al pubblico con iniziative anche all’esterno delle carceri. "L’attività teatrale - sottolinea il Dap - costituisce uno strumento utile per i soggetti in stato di detenzione, sia sotto il profilo culturale che di crescita personale", come conferma il monitoraggio realizzato dalla Direzione generale detenuti e trattamento. "Dai dati rilevati risulta che i laboratori teatrali sono presenti in tutto il territorio nazionale con una percentuale che supera il 50 per cento degli istituti e con una durata nel tempo superiore a dieci anni per il 33 per cento dei laboratori stessi. Le attività teatrali registrano un’alta valutazione sotto il profilo trattamentale e una ricaduta positiva sul clima dell’istituto". In particolare: al 63 per cento dei laboratori partecipano gruppi di oltre 10 detenuti e al 30 per cento gruppi da 6 a 10 persone. L’85 per cento dei corsisti sono uomini, il 7 per cento donne, il resto dei gruppi è a composizione mista. Il 77 per cento dei detenuti che svolgono attività teatrale fanno parte del circuito di media sicurezza, il 15 per cento dell’As3 (Alta Sicurezza 3), il resto diviso tra As1 (Alta Sicurezza 1), altri circuiti e gruppi misti. I soggetti che gestiscono i laboratori sono per il 41 per cento volontari, per il 37 per cento professionisti e per il 12 per cento insegnanti. Il 59 per cento dei corsi ha una frequenza settimanale, il 25 per cento bisettimanale e il 4 per cento trisettimanale. I finanziamenti che sostengono queste attività provengono per il 68 per cento dal settore pubblico e per il 32 per cento da privati. Linguaggio, scrittura, contaminazioni. "È nato così qualcosa di completamente originale - spiega Vito Minoia raccontando l’attività pluriennale dei laboratori: un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena secondo i limiti dati dalle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Nelle carceri italiane è nato un teatro di scrittura scenica in forme tra loro differenziate: dalle case circondariali alle case di reclusione, dalle carceri femminili agli istituti minorili, fino alle strutture psichiatrico giudiziarie si è cercato di coniugare l’utilità per i detenuti di queste esperienze laboratoriali e produttive con la creazione di un teatro di valenza artistica e comunicativa". Alla presentazione del calendario dell’edizione 2016 interverranno Massimo De Pascalis, vice capo vicario del Dap, Valeria Ottolenghi, critico teatrale (Associazione nazionale dei Critici di teatro), Valentina Venturini, università Roma Tre (Dipartimento di filosofia, comunicazione, spettacolo), Ivana Conte, autrice e formatrice (associazione nazionale Agita teatro), Mimmo Sorrentino, regista (Teatro Incontro, compagnia operante nella casa di reclusione di Vigevano), Livia Gionfrida, regista (Teatro Metropopolare, compagnia operante nella casa circondariale di Prato), Anna Gesualdi e Giovanni Trono, registi (TeatrIngestAzione, compagnia che ha operato negli ultimi dieci anni nell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa). Michalis Traitsis, regista (Balamòs Teatro, compagnia della casa di reclusione della Giudecca di Venezia) presenterà un video dedicato al progetto teatrale "Passi Sospesi" di Balamòs Teatro negli istituti penitenziari di Venezia. Mentre Tiziana Sensi, attrice e regista (associazione Tearca di Roma) leggerà alcuni brani del romanzo "Gli occhi di Eleonora", opera prima di Vincenzo Lerario (dalla casa circondariale di Pesaro) che verrà presentato al pubblico oggi alle 18.00 presso la Libreria Coop in Corso XI Settembre a Pesaro. Processo penale, l’informazione tutela di più la vittima di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2016 Il Dlgs 212/2015 in vigore dal 20 gennaio ha esteso le comunicazioni obbligatorie a chi ha subìto reati contro la persona. Avviso immediato per scarcerazione, evasione o cessazione delle misure di sicurezza. Comunicazioni a tutto campo per accrescere la tutela delle vittime dei reati. Il Dlgs 212/2015 in vigore dal 20 gennaio 2016 ha esteso le garanzie assicurate alle persone offese (soprattutto quando si tratta di reati commessi con violenza) e dato effettività a quel "diritto ad essere informati" che la direttiva 2012/29/Ue considera parte irrinunciabile del patrimonio di diritti che l’ordinamento degli Stati deve riconoscere alla persona offesa. La principale novità introdotta dal decreto riguarda l’obbligo di informare la vittima dell’eventuale scarcerazione (o evasione) dell’autore. In base alle nuove norme, gli obblighi informativi scattano anche per le misure di protezione di cui la vittima può beneficiare, per l’assistenza legale e per la possibilità di ottenere il risarcimento del danno. Il Dlgs 15 dicembre 2015, n. 212, attua la direttiva 2012/29/Ue del Parlamento e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. La disciplina introdotta dal Dlgs 212 riguarda principalmente due ambiti di operatività: i nuovi "diritti di informazione" (introdotti nel Codice di procedura penale con gli articoli 90-bis e 90-ter ) attribuiti alla persona offesa, in relazione alle misure cautelari ed esecutive, alla condanna o alle misure di sicurezza a carico dell’autore del reato (imputato, condannato o internato); lo status di "particolare vulnerabilità" che può essere assunto dalla vittima, nella prospettiva di costruire un modello processuale nel cui ambito la persona offesa riceva informazioni, assistenza e protezione adeguate. Su questo argomento le disposizioni sono contenute nel nuovo articolo 90-quater del Codice di procedura penale che dà attuazione all’articolo 1 della direttiva europea 2012/99. Le nuove disposizioni integrano la disciplina già introdotta nel corpo dell’articolo 299 del Codice di procedura penale con la legge 119/2013 in materia di custodia cautelare e si aggiungono altresì alle disposizioni già introdotte con riferimento ai diritti di informazione per le vittime di stalking (articolo 612-bis del Codice penale) e dei delitti previsti dagli articoli 572 (maltrattamenti), 600 (riduzione in schiavitù), 600-bis e 600- ter (pornografia minorile), 600-quinquies (iniziative turistiche volte alla prostituzione minorile), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e alienazione di schiavi), da 609-bis a 609-quinquies e 609-octies (violenza sessuale). Il campo di applicazione delle regole sui diritti di informazione della vittima introdotte dal Dlgs 212/2015 è circoscritto (fatta eccezione per l’articolo 90-bis del Codice di procedura penale che trova applicazione generale) ai procedimenti per delitti "commessi con violenza alla persona". In assenza di una più precisa indicazione normativa, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto riferirsi in primo luogo agli atti violenti maturati nell’ambito di una precedente relazione (familiare, affettiva o amicale) tra l’autore del reato e la sua vittima. In altri termini, benché non possano escludersi delitti di matrice violenta diversi da quelli che caratterizzano la cosiddetta violenza di genere, è certamente quest’ultimo l’ambito che più direttamente è oggetto delle nuove tutele. In ogni caso, l’obiettivo fortemente perseguito dalla direttiva europea di evitare la "vittimizzazione secondaria" della persona offesa pare un indirizzo di portata ampia e tale da suggerire l’inclusione tra i delitti in rapporto ai quali scattano le disposizioni introdotte dal Dlgs anche di quei fatti-reato che abbiano comunque comportato "violenza alla persona" a prescindere da eventuali pregressi rapporti tra l’agente e la vittima. L’esigenza di assicurare una migliore protezione delle vittime porta inoltre a ritenere che il riferimento normativo alla violenza includa non solo la violenza fisica, ma anche quella morale. Un’interpretazione confermata dalla Cassazione a Sezioni unite: la sentenza n. 10959 del 16 marzo scorso ha chiarito infatti che anche la vittima di stalking va avvisata se il giudice decide l’archiviazione poiché tale reato rientra tra i crimini commessi con violenza alla persona. Quanto alle modalità di applicazione del diritto previsto dalle norme europee, si osserva che l’effettività della tutela potrà realizzarsi - nell’ipotesi prevista dall’articolo 90-bis - soltanto qualora alle informazioni di natura tecnico-procedurale fornite dall’autorità procedente si accompagni un ulteriore concreto ausilio informativo e illustrativo tale da consentire alla vittima una effettiva cognizione dei propri diritti e facoltà. Altrimenti questa previsione si risolverebbe in un adempimento meramente burocratico e formale, privo di concreta efficacia. Cassazione fuori dall’impasse con l’ammissibilità dei ricorsi di Tommaso Basile (Sostituto procuratore generale della Cassazione) Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2016 Il disegno di legge che delega il Governo a riformare il processo civile è stato di recente approvato dalla Camera ed è ora all’esame del Senato. Tra i molti punti, ha un rilievo particolare la modifica del rito in Cassazione: sia per la centralità della Corte cui è affidato dall’ordinamento il compito di assicurare l’uniforme applicazione del diritto nazionale, sia per la profondità della riforma che tra l’altro prevede, di fatto, l’abolizione della pubblica udienza. In realtà, questo esito appariva inevitabile: la discussione pubblica dei ricorsi, a garanzia di trasparenza, era prevista per un tempo in cui davanti al Collegio venivano portati pochi processi: vi era la possibilità per ogni componente di conoscere bene tutte le cause (anche non sue), e vi era spazio per un’approfondita discussione degli avvocati. Per come vanno le cose oggi, nelle udienze pubbliche vengono trattate anche trentacinque o quaranta cause per udienza. Le discussioni sono mera apparenza, il rito diventa un ritualismo e la decisione è pressoché monocratica. Il Parlamento sembra aver preso atto di questa realtà e ha deciso che quasi tutti i processi si svolgano con rito camerale: interventi scritti delle parti, porte chiuse e possibile aumento del numero delle decisioni. Così la Corte viene messa in grado di incrementare ulteriormente la propria produttività. Di fronte all’inondazione dei ricorsi, invece di tappare la falla si aumenta il lavoro di chi usa i secchi per impedire l’allagamento. Chiunque ormai comprende che il problema è a monte: una norma costituzionale (articolo 111 comma 7) prevede che contro tutte le sentenze sia consentito il ricorso in Cassazione per violazione di legge. È una norma di grande garanzia che tuttavia ha nel tempo minato la funzione stessa della Corte che sarebbe quella di individuare poche, importanti questioni controverse e di dare ai giudici dei Tribunali e delle Corti di appello un indirizzo interpretativo omogeneo. Questa sarebbe la famosa nomofilachia. Parola che viene ormai ripetuta come un mantra da chiunque a qualunque titolo voglia dire la sua sul tema; parola abusata e svuotata di senso proprio dalla impossibilità di garantire alcunché in termini di interpretazione omogenea del diritto quando si sfornano trentamila sentenze all’anno; parola che, viene il sospetto, sia usata dai pochi che si accorgono dell’irrazionalità del nostro sistema (ma non vogliono porvi rimedio) come uno schermo e una cortina fumogena. Dunque il Governo si appresta a rendere il giudizio in Cassazione più efficiente (nel senso però di più produttiva): senza i lacciuoli del rito pubblico si potranno fare ancora più sentenze. Produttività è il termine che definisce il progetto : mentre nei gradi inferiori si punta a disincentivare in tutti i modi il ricorso al contenzioso, in Cassazione si pensa a come velocizzare lo smaltimento. La contraddizione si palesa evidente: da una parte, nella relazione al disegno di legge si afferma che il numero dei giudici in cassazione "è insopportabilmente pletorico"; dall’altra non si fa nulla per diminuire il numero "mostruoso" delle cause. Eppure a fronte di un tale contenzioso tutti quei giudici sono inevitabili e inevitabili le discrasie nell’interpretazione della legge: l’effetto perverso è che tali discrasie generano incertezza e dunque nuove cause davanti ai giudici dei gradi inferiori: un cane che si morde la coda. La soluzione, anche a legislazione costituzionale invariata, potrebbe essere trovata: per esempio attraverso la previsione che la Corte, invece di dichiarare preventivamente la inammissibilità del ricorso nei casi previsti dalla legge, sia tenuta a dichiararne la ammissibilità. Al di là dei tecnicismi, quel che non possiamo più nasconderci è che i forti interessi - i quali impediscono alla Cassazione di tornare a essere, come in tutti i Paesi una vera corte di legittimità - ormai creano un danno rilevante alla giustizia e di conseguenza all’economia della Nazione. Impugnazione misure cautelari, i termini per il deposito partono dalla decisione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 8 febbraio 2016 n. 4961. In materia di impugnazione di misure cautelari personali, il termine per il deposito della motivazione dell’ordinanza del Tribunale del riesame decorre dalla data della deliberazione in camera di consiglio attestata nel dispositivo e non dalla eventuale diversa data del deposito in cancelleria del dispositivo medesimo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 8 febbraio 2016 n. 4961, fornendo una importante precisazione a favore dell’indagato dopo che la legge 16 aprile 2015 n. 47, in vigore dall’8 maggio scorso, ha riformato l’articolo 309 comma 10 del c.p.p. introducendo un nuovo termine perentorio prima inesistente. La vicenda parte dalla conferma da parte del tribunale di Riesame di Catanzaro dell’ordinanza del Gip della medesima città che aveva disposto la custodia cautelare in carcere per un indagato per mafia. La difesa si era opposta sostenendo che la motivazione dell’ordinanza era stata depositata oltre il 45 giorno dalla decisione effettiva la cui data veniva riportata nel dispositivo e la Cassazione ha accolto il ricorso. La decisione infatti venne assunta nella camera di consiglio del 30 luglio 2015 e nel dispositivo il tribunale si riservava di depositare i motivi entro quarantacinque giorni. Il dispositivo stesso venne poi depositato il 3 agosto successivo mentre la motivazione il 16 settembre, dunque fuori temine. E non conta neppure il fatto, spiega la sentenza, che il Tribunale avrebbe potuto prolungare la camera di consiglio fino al 3 agosto, rispettando ancora il primo termine, in quanto per un verso ne avrebbe dovuto dare esplicitamente conto, visto il rilievo assunto dal momento decisionale, per l’altro, tenuto conto dei valori in gioco, non sono ammessi meccanismi surrettizi volti a dilatare i tempi. Il novellato articolo 309 del Cpp prevede che la decisione sulla richiesta di riesame deve intervenire entro dieci giorni dalla ricezione degli atti; l’ordinanza del tribunale dev’essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione, o quarantacinque giorni nei casi di motivazione particolarmente complessa; nel caso in cui i suddetti termini non siano rispettati l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia. Il Legislatore dunque fa scattare il dies a quo per il deposito della motivazione, senza alcuna soluzione di continuità, direttamente dalla decisione. La precedente disciplina invece prevedeva unicamente che entro dieci giorni dalla ricezione degli atti, il tribunale assumesse una decisione, mentre non era previsto alcun termine per il deposito della motivazione, per cui era del tutto irrilevante stabilire quale fosse il termine della decisione "effettiva" essendo sufficiente che la decisione (rectius: il dispositivo) fosse depositata entro il suddetto termine. I giudici dunque hanno accolto il ricorso affermando il seguente principio di diritto: "ai sensi del novellato art. 309/10 codice procedura penale, la motivazione del tribunale dev’essere depositata in cancelleria entro trenta o quarantacinque giorni "dalla decisione" per tale dovendosi intendere la data in cui il tribunale attesti, nel dispositivo, essere avvenuta la deliberazione in camera di consiglio. Di conseguenza, è da questo momento che incominciano a decorrere i termini per il deposito della motivazione (sempre che non sia contestuale), e non dalla diversa data del deposito del dispositivo che, quindi, serve solo a verificare che il primo termine previsto a pena d’inefficacia (decisione assunta entro dieci giorni dalla ricezione degli atti), sia stato rispettato e a consentire, in caso di mancato rispetto, alla parte interessata di proporre immediatamente istanza per la declaratoria di inefficacia della misura cautelare senza attendere il deposito della motivazione". Pedo-pornografia: cessione impunita se la foto è realizzata con l’autoscatto dal minore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 21 marzo 2016 n. 11675. Non è punibile chi cede o detiene materiale pedopornografico se le foto sono state realizzate con l’autoscatto dallo stesso minore che, di sua iniziativa, le ha date a terzi. Con la sentenza 11675 la Cassazione respinge il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Tribunale dei minorenni che aveva dichiarato di non doversi procedere contro alcuni imputati che avevano detenuto e ceduto le foto di una minore (articoli 600-ter e 600-quater del codice penale). Secondo il Tribunale la giovane non era stata "utilizzata" da terzi, come prevede la norma, avendo agito da sola. Per il Pm i giudici minorili avevano fornito un’interpretazione della legge tale da creare un pericoloso vuoto di tutela proprio in situazioni come quella esaminata. Ma la Suprema corte legge la norma in modo letterale, analizzandola nella sua evoluzione. L’articolo 600-ter, introdotto dalla legge 269/1998, parlava inizialmente di "sfruttamento", sanzionando con il comma 1, lo sfruttamento del minore attraverso la realizzazione materiale pornografico. Lo stesso faceva il comma 4 che, utilizzando sempre lo stesso termine puniva, la cessione anche a titolo gratuito del materiale pedopornografico. Il legislatore è poi intervenuto in due battute sulla norma, sia con la legge 38/2006, anche a contrasto della pedo-pornografia su Internet, sia con la legge 172/2012 con la quale è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote. Si è così giunti al testo attuale che sanziona le condotte di detenzione e cessione del materiale realizzato "utilizzando i minori". Ma anche se è stato sostituito il verbo, con l’evoluzione normativa non è cambiata la premessa a monte. Perché le azioni previste siano considerate reato è necessario che l’autore sia un soggetto diverso dal minore. Una condizione di alterità e diversità che non c’è quando è lo stesso minore a "distribuire" le sue foto. Una lettura diversa - avverte la Cassazione - porterebbe ad un’interpretazione in malam partem della legge, vietata dall’ordinamento. Sicilia: al Provveditorato regionale delle carceri i "pizzini della gioia e della speranza" monrealenews.it, 22 marzo 2016 L’iniziativa è stata organizzata dal Parlamento della Legalità. Un fiume di studenti arrivati dal capoluogo e da diversi Comuni della provincia come San Cipirello, San Giuseppe Jato, Monreale, Cerda, ha fatto visita oggi al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per consegnare al provveditore Gianfranco De Gesu tanti "pizzini della gioia e della speranza" per i detenuti delle carceri siciliani. A guidare la marcia il presidente del Parlamento della Legalità Internazionale Nicolò Mannino con monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale e guida del movimento. Il presule ha omaggiato al provveditore De Gesu un originale Crocifisso realizzato in Perù, un dono che introduce la settimana Santa e ricorda tutti i poveri cristi crocifissi dalla solitudine e dall’odio. Gli studenti dell’istituto comprensivo "Luigi Pirandello " di Cerda hanno dato il via con l’Inno nazionale mentre a seguire la consegna di messaggi, lettere, pizzini colorati e tanti libri per i detenuti. La manifestazione si è conclusa con l’insediamento dell’ambasciata della Giustizia proprio al Provveditorato Regionale delle Carceri a firma del Parlamento della Legalità Internazionale. Parole di stima e di gratitudine sono state rivolte dal provveditore Gianfranco De Gesu a tutti i presenti e al parlamento della legalità, essendo un ottimo conoscitore del cammino culturale che questo movimento sta portando avanti su tutto il Paese. Monsignor Pennisi ha poi omaggiato ai docenti presenti la lettera episcopale nella quale esorta tutti a vivere la gioia della Pasqua. Parma: "Sprigioniamo il lavoro", così le imprese entrano in carcere La Repubblica, 22 marzo 2016 Il progetto, sostenuto anche dal ministero Giustizia, sarà illustrato alla Camera. Tra i promotori Fondazione Cariparma. "Sprigioniamo il lavoro" è il nome dato al progetto che sarà presentato alla Camera dei Deputati mercoledì 23 marzo con i sottosegretari al ministero della Giustizia Gennaro Migliore e Cosimo Maria Ferri, la deputata Pd Patrizia Maestri, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri, il direttore degli istituti penitenziari di Parma Carlo Berdini e il presidente della Fondazione Cariparma Paolo Andrei. Al progetto hanno aderito la Confederazione nazionale dell’artigianato di Parma e l’Unione parmense industriali. Da aprile, negli istituti penitenziari di Parma, si cercherà di portare il lavoro in carcere attraverso una rete di soggetti istituzionali e privati che sono confluiti nell’operazione. In particolare partirà la chiamata di interesse per l’avvio di attività lavorative nel carcere di Parma che potranno essere presentate da soggetti imprenditoriali singoli o associati tra loro. Le proposte di avvio o dislocazione di attività lavorative nel carcere parmense potranno essere presentate attraverso la compilazione di un form nel sito www.sprigioniamoillavoro.it I servizi di supporto alle imprese riguarderanno la possibilità di visitare gli spazi messi a disposizione (oltre 300 metri quadrati), di confrontarsi con i partner del progetto e ricevere assistenza per la valutazione dei vantaggi costituiti dalla possibilità di avere gratuitamente spazi idonei e accedere ai benefici fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia. I progetti saranno selezionati secondo la dimensione dell’impatto del progetto nel carcere, soprattutto in termini di numero dei detenuti assunti, la solidità dell’idea imprenditoriale anche in termini di durata nel tempo e la presenza di un’analisi di sostenibilità tecnico-economica-ambientale di medio periodo. La Fondazione Cariparma valuterà le forme di sostegno ai progetti reputati idonei. Torino: l’asilo comunale apre le porte ai bimbi delle detenute di Letizia Tortello La Stampa, 22 marzo 2016 Oltre le sbarre, per giocare con gli altri bambini e respirare un’atmosfera di normalità. I bimbi e le bimbe delle mamme carcerate, dal prossimo anno scolastico, frequenteranno la scuola materna fuori dalla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno per cinque giorni alla settimana dalle 9 alle 13, compreso anche il momento del pasto. Un progetto che già esisteva per i piccoli da 0 a 3 anni, accolti nel nido Elvira Verde di via delle Primule 5. Ora, la sperimentazione si estende ai più grandi, i bambini in età prescolare, che nella materna di via delle Primule 36 troveranno insegnanti pronti a includerli nei progetti educativi insieme ai compagni, tentando di azzerare le differenze tra chi vive dentro e fuori dal carcere. "Almeno una parte della loro giornata - spiega l’assessora all’Istruzione, Mariagrazia Pellerino - la trascorreranno fuori. È un modo concreto per contribuire ai percorsi di reinserimento nella vita sociale". Fino a 6 anni con loro Ieri, il Comune ha siglato con il carcere il protocollo in favore di bambini, mamme e papà. L’anno scorso hanno frequentato il nido 11 bimbi, che da dodici mesi abitano con le loro madri in una nuova sezione del Lorusso e Cutugno, l’Icam (Istituto a custodia attenuata per le detenute madri), una sorta di comunità dove si scontano anche pene lunghe, nell’area della semilibertà, "senza sbarre, per ridurre al massimo l’impatto della detenzione sui bimbi", spiega il direttore del carcere, Domenico Minervini. Un contesto ben diverso, "molto più civile", per costruire un rapporto migliore genitori e figli". Il numero delle detenute dell’Icam varia a seconda delle scarcerazioni: "Nelle passate settimane avevamo raggiunto il tetto di 9 - continua Minervini, ora siamo a 2". Tranquillità delle mamme L’accordo per mandare i bambini a nido e materna pubbliche "dà anche la possibilità alle mamme di stare tranquille e studiare - puntualizza la garante dei diritti dei detenuti, Monica Cristina Gallo. La maggior parte di loro è minorenne e non ha nemmeno la licenza media". Grazie alla legge 62 del 2011, i piccoli possono restare con le mamme in carcere fino a 6 anni, e non solo fino a 3. Ma l’importanza di creare rapporti affettivi il più possibile stabili con i genitori è un’esigenza molto sentita anche da quei figli che il carcere lo frequentano perché vanno a trovare alle Vallette papà e mamme detenuti. "Oggi è permesso un semplice incontro - continua Gallo, non un momento di affettività vero, come accade nelle carceri di Danimarca, Spagna, Svizzera, dove genitori e figli hanno a disposizione appartamentini che servono per non spezzare ancor di più relazioni già molto complesse". Per andare incontro a questi problemi, il carcere inaugurerà ad aprile un’area verde, per consentire colloqui più distesi, con passeggiate, tra figli e genitori. Saluzzo (Cn): Sappe "fine settimana di follia in carcere, per una serie di eventi critici" obiettivonews.it, 22 marzo 2016 È stato un fine settimana di autentica follia quello appena trascorso nel carcere di Saluzzo. Alcuni gravi eventi critici posti in essere da alcuni detenuti hanno infatti messo a serio rischio la sicurezza della Casa di Reclusione, comunque presidiata al meglio dagli uomini della Polizia Penitenziaria. La denuncia è del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che sollecita "urgenti determinazioni per il carcere saluzzese e la sospensione del regime penitenziario aperto, concausa di situazioni di allarme tra le sbarre". Il resoconto della giornata di follia è affidata a Vicente Santilli, segretario regionale Sappe per il Piemonte: "Nella giornata di venerdì, presso il Reparto isolamento della Casa di Reclusione di Saluzzo, è iniziata una protesta da parte di 5 detenuti, di cui uno ad Alta Sicurezza, che hanno distrutto tutti gli arredi ubicati nelle proprie celle; nella giornata di sabato, intorno alle ore 10,00, sempre gli stessi detenuti hanno incendiato materassi e lenzuola, causando un grosso incendio all’interno del reparto sopracitato. Sono intervenuti tempestivamente una serie di eroici Agenti di Polizia Penitenziaria che hanno portato in salvo tutti i detenuti. Gli Agenti sono stati condotti al primo nosocomio per le cure del caso, la maggior parte di loro ha riportato forte intossicazione da fumo. Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di Saluzzo a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". Il SAPPE esprime il proprio "plauso al personale di Polizia Penitenziaria che, tra mille difficoltà, cerca quotidianamente con professionalità e spirito di sacrificio di mantenere ordine e sicurezza nell’istituto saluzzino, nonostante la carenza di organico e l’affollamento di 269 detenuti, 18 imputati e 251 condannati. 109 gli stranieri". Da Roma, il Segretario Generale del Sappe Donato Capece aggiunge: "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri, espellendo i detenuti stranieri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati". Capece conclude sostenendo che "la Polizia Penitenziaria continua a ‘tenere bottà, nonostante le quotidiane aggressioni. Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità, altro che le reazioni stizzite delle Camere Penali ai nostri costanti allarmi sulla critica quotidianità delle carceri italiane. Le polemiche strumentali e inutili come le loro non servono a nessuno. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto per i detenuti", conclude il leader del Sappe. "Quelli del carcere non sono problemi da nascondere come la polvere sotto gli zerbini, ma criticità reali da risolvere. I numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti, i tentati suicidi e purtroppo anche le morti per cause naturali si verificano costantemente, spesso a tutto danno delle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria che in carcere lavora 24 ore al giorno. Con buona pace di talune dichiarazioni corporative che non rappresentano affatto la realtà quotidiana che si vive nelle nostre strutture detentive. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori. Come dimostra quel che è accaduto questo fine settimana nella Casa di Reclusione di Saluzzo". Milano: non solo per cena, al carcere di Bollate si va anche a teatro di Marta Calcagno Baldini Il Giornale, 22 marzo 2016 Dopo il ristorante dietro le sbarre debutta la rassegna di spettacoli. E i detenuti si cimentano sul palco. Se vostra moglie nelle prossime sere vi inviterà ad una serata in carcere, non dubitate: non vuole accompagnarvi in un posto dove lasciarvi imprigionati. Quello di Bollate a Milano è il primo in Italia che propone ai detenuti determinati progetti che potrebbero aiutarli a far nascere in loro nuovi interessi e a costruirsi un futuro per quando usciranno. Se l’invito di vostra moglie è rivolto a Bollate, quindi, non andrebbe rifiutato, anzi, si può rivelare un modo originale per trascorrere una serata insolita. In un luogo particolare come il carcere. È cominciata il 10 marzo, infatti, "F.e.s.t.i.a!", la rassegna che fino al 13 maggio apre le porte del teatro nel Carcere di Bollate per assistere ai migliori spettacoli prodotti dal 2003 ad oggi, da quando, cioè, nasce la Cooperativa Estia, associazione culturale che ha come obbiettivo ultimo quello di "favorire il reinserimento sociale e professionale di persone detenute ed ex detenute". Dopo ore ed ore di prove, gli attori di sentono pronti e vanno in scena. Dopo "Pinocchio", primo spettacolo completamente autogestito dai detenuti e realizzato da Estia a Bollate, se ne attendono altri sei. Una vera e propria rassegna teatrale, ben articolata e studiata. Tra i vari lavori come "Ci avete rotto il caos!", dal 17 al 19 marzo, che parte dalla violenza di un gruppo di black block in una manifestazione e delinea i contorni della vita di "un ladro gentiluomo" e di una baby-gang, di diverso genere sarà "Ora d’aria" per il 7 maggio, un concerto di e con Paola Franzini, che non è una detenuta: il processo di reinserimento, infatti, avviene anche lasciando a persone civili incensurate la possibilità di seguire il corso di teatro con i carcerati e, come nel caso della Franzini, di portare in scena, poi, il proprio lavoro. "Quella di iscrivermi a questo corso è stata una scelta motivata dal desiderio anzitutto di fare teatro dice la Franzini, non tanto del volontariato. E, paradossalmente forse, quello che più mi ha colpito è stata la sensazione di libertà che provavo durante quelle lezioni". "Se noi riusciamo a coinvolgere circa cinquanta persone ogni anno che sono già detenute a Bollate dice Michelina Capato Sartore, fondatrice di Estia-, e di cui poi solitamente una quindicina è molto partecipe mentre le altre meno, sono poi frequenti i casi di esterni che seguono le nostre attività". La rassegna si conclude il 13 maggio con "Camerieri della vita", una vera e propria cena-spettacolo con intrattenimento teatrale. La cucina è della cooperativa Abc che è quella che lavora In Galera, primo ristorante in un carcere d’Italia. Che si rivela essere un ottimo dopo teatro, per una serata fuori dai soliti schemi. Tra il programma di Estia, il servizio di catering, il vivaio interno, il ristorante e tanti altri progetti, a Bollate amano "pensare in grande. Ascoltiamo le esigenze della popolazione detenuta e studiamo insieme il loro futuro sulla base di un percorso di consapevolezza". Indirizzo: Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Via Cristina Balgioioso 120, Milano (MM1 Rho Fiera). Per prenotazioni e info: cooperativaestia.org, 3315672144. Libri: perché il bisogno di giustizia è più forte del relativismo etico di Vito Mancuso La Repubblica, 22 marzo 2016 "Il costituzionalista riluttante" (Einaudi). La poliedrica riflessione scientifica di Gustavo Zagrebelsky interroga studiosi di molte discipline. La trasversalità del suo approccio invita giuristi e non giuristi a confrontarsi col suo pensiero. La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico. Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico. Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di "nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia". Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge? È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius). Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente "nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia". Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di "fame e sete di giustizia", quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro. Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo. Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità. La logica che ci dà forma, che ci informa, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni. Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo "voce della coscienza". Accordo Ue-Turchia. Un mercato sulla pelle dei migranti di Christopher Hein (Portavoce del Consiglio Italiano per i Rifugiati) Il Manifesto, 22 marzo 2016 Riconoscere la Turchia come paese sicuro porterà i migranti a cercare nuove rotte pur di arrivare in Europa. I 28 Paesi dell’Unione Europea hanno scritto con la Turchia una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. Quello siglato venerdì è un mercanteggiamento sulla pelle dei rifugiati, la cui reale attuabilità è però tutta da verificare. L’unica certezza che abbiamo è la sua esplicita finalità: "esportare" il problema dei rifugiati, non certo risolvere questa complessa partita. Analizzandolo tecnicamente, tutto l’accordo si basa sul riconoscimento della Turchia come "Paese terzo sicuro" o come "Paese di primo asilo". Nella normativa comunitaria è previsto infatti che le persone che provengono da Paesi inclusi dalle legislazioni nazionali nella lista dei cosiddetti "Paesi terzi sicuri" o "Paesi di primo asilo" possano presentare una domanda d’asilo di cui verrà valutata l’ammissibilità, e solo in caso positivo i requisiti per il riconoscimento della protezione. E qui un aspetto politico rilevante: la Grecia e Tsipras sono pressati da mesi affinché inseriscano nella propria procedura d’asilo questa clausola. Le persone saranno quindi sottoposte a una procedura accelerata nell’ambito della quale dovrà comunque essere individualmente valutata l’effettiva sicurezza di tale Paese per il richiedente asilo. In caso di mancato accoglimento della domanda, la persona ha diritto a presentare un ricorso individuale. Ma fino ad oggi una istanza per i ricorsi in Grecia esiste solo sulla carta e non è istituita. Come questa procedura, già duramente criticata quando inserita nella normativa comunitaria perché introduce standard di garanzie ben inferiori rispetto all’iter ordinario e che in esempio in Italia non è ancora fortunatamente prevista, si possa coniugare con i numeri e le strutture di accoglienza, identificazione e registrazione presenti in Grecia è davvero tutto da verificare. Anche l’annuncio dell’arrivo, non ancora realizzato, di 2.300 tra esperti, mediatori, traduttori da parte dell’Unione Europea, potrà difficilmente rendere realmente esecutiva questa procedura nei tempi auspicati dai capi di Stato. Ci chiediamo anche quanti avvocati, per i ricorsi che le persone hanno comunque il diritto di presentare, verranno inviati sulle isole greche. Questo su un piano di realtà operativa, mentre su un piano di diritto crediamo che l’utilizzo di entrambe le definizioni non possa in nessun modo essere applicato alla Turchia. Un Paese che mantiene tutt’ora la limitazione geografica alla Convenzione di Ginevra, un fatto che esclude siriani, iracheni, afgani dal riconoscimento dello status di rifugiato, non può evidentemente essere considerato un "Paese terzo sicuro" dove rinviare persone bisognose di protezione internazionale. Per quanto riguarda invece la considerazione della Turchia come Paese di primo asilo non crediamo che tale concetto si possa applicare a questo Paese visto che il livello di protezione che garantisce non è in alcun modo equivalente a quello prescritto dalla Convenzione di Ginevra e dagli altri strumenti di protezione internazionale previsti dalla normativa comunitaria. Temiamo che l’unico reale effetto dell’accordo possa essere quello di un fortissimo deterrente per i rifugiati oggi in Turchia. Terrorizzati dall’idea di essere rimandati indietro, dopo aver messo la propria vita a rischio nel Mediterraneo, probabilmente cercheranno strade e rotte considerate ancora aperte. E qui è uno degli aspetti fondamentali del mondo dell’asilo che sfugge ai Capi di Stato: i flussi di rifugiati non si possono fermare. Chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla morte non si ferma fino a quando non trova protezione. Se la rotta greca si chiuderà, siamo certi che altre se ne apriranno: la rotta con la Bulgaria o quella del Nord Africa. E questo ci preoccupa moltissimo, la Bulgaria è stata tra i primi paesi ad erigere un muro a protezione dei propri confini e l’unica che per ora ha visto un suo agente delle forze di polizia sparare a un rifugiato, un ragazzo afgano, che cercava di attraversare quel confine. O ancora una volta vedremo la riapertura della rotta libica, con le conseguenze drammatiche che potrebbero esserci in termini di sicurezza per i rifugiati sia in territorio libico sia nella traversata di uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo. La nostra esperienza ci dice, purtroppo, che misure così restrittive non impediscono ai rifugiati di arrivare, ma complicano e rendono ancor più insicuro il loro viaggio. In questi momenti davvero bui per l’asilo, il Cir sta lanciando la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi telefonica "Al di là dei muri", con la quale è possibile sostenere le nostre attività in favore dei richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura: dal 21 marzo al 9 aprile con SMS o da rete fissa al 45503. Mai come ora il nostro lavoro è importante. Migranti: la guardia costiera turca mobilita 5 mila uomini di Mariano Giustino Il Manifesto, 22 marzo 2016 Dopo l’accordo Ue-Turchia. Vi è il reale pericolo che tra le misure che Ankara adotterà per bloccare il flusso migratorio verso l’Ue vi saranno anche quelle repressive. Il controverso accordo sui rifugiati tra Ankara e Bruxelles sul respingimento in Turchia dei migranti giunti sulle isole greche dell’Egeo, a partire dalla mezzanotte del 20 marzo, ha preso ufficialmente il via con l’arrivo, nella mattinata di ieri, di funzionari turchi sulle isole greche di Lesbo, Chios, Kos, Samos e Leros. In queste ore sono in corso le procedure necessarie per dare inizio al ritorno in Turchia dei migranti che vi sono appena sbarcati. Con la firma dell’accordo di Bruxelles tra Ue e Turchia sono stati rafforzati i pattugliamenti lungo la costa egea sia da parte delle forze navali turche che da parte di quelle greche. Non si era nemmeno concluso il vertice e già era scattata una vasta operazione di contrasto dell’immigrazione illegale da parte della Guardia costiera turca, durante la quale sono stati arrestati 1.724 rifugiati che tentavano di raggiungere l’isola greca di Lesbo e 16 trafficanti di esseri umani. Molti rifugiati, per lo più provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan, sono stati portati in alcuni ostelli della costa. Si sono levate urla di disperazione tra i rifugiati che non intendevano rinunciare alla loro speranza di raggiungere l’Europa. Donne e bambini piangevano in preda al panico. Sulle coste greche gli sbarchi non sembrano affatto conclusi. Sull’isola di Lesbo sono arrivati in questo fine settimana 823 rifugiati, molti dei quali sono destinati ad essere respinti in Turchia. Le Ong giudicano ingiusta l’intesa che prevede che l’Ue accolga legalmente un profugo per ogni irregolare rispedito in Turchia, un piano che Atene, come ha appena fatto sapere, considera irrealizzabile. Di fatto, i circa 50 mila rifugiati presenti in Grecia rischiano di rimanere bloccati in una pericolosa situazione di stallo. Nella notte tra sabato e domenica, la Guardia costiera turca ha effettuato il salvataggio di 126 profughi al largo della costa della Turchia occidentale intenti a raggiungere l’isola di Lesbo su gommone. Altri 101 rifugiati sono stati salvati dal naufragio di due gommoni al largo di Çesme. Una bambina di 4 mesi è annegata al largo di Çesme davanti all’isola di Chios; un gommone carico di profughi si era ribaltato e la Guardia costiera era intervenuta salvando 21 persone. Çesme è una località turistica a soli tre miglia nautiche dall’isola di Chios, ed è una delle rotte preferite dai rifugiati. Nella notte appena trascorsa 875 rifugiati hanno attraversato l’Egeo per andare in Grecia. E oggi ad Ankara ci sarà una riunione tra le autorità greche e turche per organizzare i trasferimenti. Ankara non applica del tutto la Convenzione di Ginevra del 1951, dal momento che prende in considerazione dei criteri geografici. Questo significa che lo status di rifugiato viene concesso solo a un numero di richiedenti asilo provenienti dagli Stati europei, mentre ai rifugiati provenienti da altre zone, inclusa la Siria, viene concesso solo lo status di "ospite in protezione temporanea" e dunque con forti limitazioni per una completa integrazione. Vi è il reale pericolo che tra le misure che Ankara adotterà per bloccare il flusso migratorio verso l’Ue vi saranno anche quelle repressive. È di questi giorni la notizia che la guardia costiera turca ha mobilitato 5 mila uomini lungo le sue coste e che ha in programma di innalzare presto questo numero a 17 mila unità. Rimpatri, la Ue si muove per far decollare l’intesa di Vittorio Da Rold e Beda Romano Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2016 Mogherini: applicazione non facile nelle isole greche. Nelle isole greche di Lesbo e Chios, nell’Egeo nordorientale, sono arrivati ieri i primi tra i 25 funzionari turchi che dovranno collaborare con i colleghi greci nel supervisionare il nuovo accordo Turchia-Ue volto a limitare l’arrivo in Europa di profughi e rifugiati provenienti dalle coste turche e in ultima analisi dal Vicino Oriente. Mentre la situazione nelle isole greche appare sempre difficile (come ha rilevato ieri l’Alto rappresentante per la politica estera comune della Ue, Federica Mogherini, parlando di un accordo la cui applicazione "sarà complicata e non facile, specialmente nelle isole" greche e sottolineando la necessità che la Ue mostri concretamente tutta la sua "solidarietà alla Grecia") la Commissione europea ha presentato ieri una cruciale modifica legislativa che deve servire a mettere in pratica l’intesa. In base all’accordo siglato la settimana scorsa a Bruxelles tra i Ventotto e Ankara, i migranti arrivati nelle isole greche a partire da domenica scorsa saranno tutti rispediti in Turchia. L’intesa prevede che per ogni cittadino siriano rinviato in Turchia, un siriano già sul territorio turco sarà reinsediato in un Paese dell’Unione. Prima, tuttavia, bisogna identificare la persona nei centri di accoglienza (hotspot), accoglierne la eventuale domanda di asilo, dare una risposta e confermare la possibilità di ricorso. La Grecia ha visionato l’anno scorso duemila domande di asilo, mentre secondo il piano attuale ne dovrebbe verificare addirittura duemila al giorno. Si capiscono le difficoltà pratiche. Scorciatoie burocratiche non sono possibili: se non venissero rispettate le procedure legali, il piano potrebbe essere bocciato dal giudizio della Corte europea di Giustizia. Peraltro, le cifre dell’esodo sono da bollettino di guerra: dal gennaio 2015 più di un milione di migranti e rifugiati sono entrati nell’Unione provenienti, via mare, dalla Turchia. Solo dall’inizio del 2016, sono giunti in Grecia 143mila migranti. Per ora, l’intesa firmata venerdì scorso non ha fermato gli arrivi: 1.662 migranti sono arrivati sulle isole greche ieri mattina. In questo contesto, l’operazione di scambio uno-a-uno dei cittadini siriani, che deve servire a lottare contro gli impresari dell’immigrazione clandestina, è prevista inizialmente per 72mila persone: 18mila posti di un programma volontario di reinsediamento dei rifugiati ancora non ultimato; e altri 54mila posti provenienti da uno schema di ricollocamento obbligatorio di migranti già sul territorio europeo, anch’esso non pienamente utilizzato. A seguito di questo accordo, la Commissione ha presentato una delicata modifica legislativa per consentire che i 54mila posti inizialmente previsti nel sistema di ricollocamento dall’Italia e dalla Grecia, e mai utilizzati, possano ora essere usati nello schema di reinsediamento dalla Turchia. Natasha Bertaud, portavoce dell’esecutivo comunitario, ha confermato che la modifica dovrà essere approvata alla maggioranza qualificata dei Paesi membri e che il meccanismo di reinsediamento rimarrà volontario, mentre il sistema di ricollocamento è obbligatorio. Due possibili problemi saltano agli occhi. Il primo è il passaggio legislativo: l’approvazione è probabile, non certa. La seconda incertezza riguarda la messa in pratica del reinsediamento, una volta approvato, tenuto conto che questo rimane volontario, non obbligatorio. Dal canto suo, riferendosi al totale dei 72mila posti messi a disposizione, il commissario per í diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, ha definito la cifra "chiaramente insufficiente". Peraltro, secondo lo stesso Muiznieks, "sarebbe illusorio credere che la sofferenza dei migranti da una parte e la pressione migratoria sui paesi europei dall’altra possano scomparire con questo accordo". Tra i tasselli mancanti vi è l’approvazione da parte della Grecia di una legge che riconosca la Turchia come Paese sicuro per i rifugiati. Bruxelles sta lavorando con i tecnici greci per preparare il testo legislativo. Infine, sul fronte operativo è da segnalare che i Ventotto invieranno in Grecia 2.50o funzionari per aiutare le autorità greche nell’effettuare l’accoglienza, la registrazione e íl ritorno dei migranti arrivati sulle isole greche da domenica scorsa. Mobilitati anche i mezzi navali: per far rientrare in Turchia i migranti dalle isole greche dell’Egeo sono state prenotate otto navi con una capacità di 300-400 passeggeri ciascuna e 28 autobus. Migranti, il piano Ue-Turchia non decolla. "Ma è solo una pezza" Redattore Sociale, 22 marzo 2016 Corsa contro il tempo per mettere in pratica l’intesa che dovrebbe fermare gli sbarchi sulle coste greche. Tsipras: "Se Ankara non ferma i trafficanti non potremo metterlo in atto". Venti stati mettono a disposizione personale, ma occorrono 4 mila persone. Critico il Commissario Muiznieks: "Servono misure a lungo termine". Sulla carta dovrebbe essere attivo e funzionante, ma nella pratica regna ancora la confusione su quando e come si potrà effettivamente riuscire a mettere in atto l’accordo tra Ue e Turchia per bloccare il flusso di migranti in arrivo attraverso l’Egeo. Dall’ufficiale entrata in vigore, domenica, dell’accordo che avrebbe dovuto bloccare gli arrivi di migranti, oltre 1.500 persone sono sbarcate sulle coste greche, mentre si sta ancora cercando il personale necessario per trattare le domande di asilo e gestire le operazioni di ritorno verso la Turchia. "Siamo coscienti delle difficoltà e lavoriamo 24 ore al giorno, sette giorni su sette, per assicurare che venga fatto tutto quello che deve essere fatto perché questo accordo funzioni presto", commenta il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas. "La Commissione farà tutto il possibile per fare sì che questo accordo sia messo in pratica sul terreno", promette, ricordando le parole del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker che, al momento della firma dell’accordo, aveva parlato di uno sforzo "erculeo" da compiere per rendere funzionante l’intesa. Ad evidenziare le difficoltà è anche il premier greco, Alexis Tsipras, che oggi ad Atene ha incontrato il commissario europeo per l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos proprio per lavorare sui dettagli del piano. "Dobbiamo fare uno sforzo arduo perché la messa in atto di questo accordo non sarà una cosa facile", ha ammesso Tsipras, che a Bruxelles ha chiesto soprattutto di aumentare la pressione su Ankara affinché questa compia maggiori sforzi nella lotta contro la rete di trafficanti che porta i migranti dalle coste turche a quelle elleniche. "Purtroppo ieri c’è stato un grande numero di arrivi, circa 1.500", ha ricordato Tsipras, avvertendo: "Se non ci sarà una riduzione dei flussi non saremo in grado di evacuare con successo le isole così che il piano possa iniziare ad essere messo in atto con successo". A creare problemi, oltre alle partenze che continuano, è la carenza del personale necessario a condurre le operazioni. Secondo i piani della Commissione servirebbero in tutto circa 4 mila persone messe tra interpreti, ufficiali per valutare le richieste di asilo dei migranti ed eventuali ricorsi, personale per assistere alle operazioni di ritorno e forze di polizia per la sicurezza. Frontex ha chiesto agli Stati membri di mettere a disposizione 1.500 ufficiali di polizia e 50 esperti per riammissioni e ritorni. "Finora - annuncia il portavoce della Commissione europea - venti Stati membri hanno dato dettagliate indicazioni sui loro contributi". Si tratta in particolare di Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Ungheria, Italia, Cipro, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia e Finlandia, ma "anche tutti gli altri hanno mostrato la volontà di impegnarsi", assicura Schinas. Berlino e Parigi si sono impegnati a mettere a disposizione, ciascuna, 100 persone per i processi di asilo e 200 poliziotti. C’è poi da regolare tutta la questione legislativa. Perché l’accordo possa funzionare, la Grecia deve modificare la sua legislazione per certificare che la Turchia rientra tra i paesi terzi considerati sicuri, quelli in cui i migranti possono essere rimandati. Proprio in queste ore gli esperti della Commissione europea sono ad Atene per tentare di aiutare il governo a velocizzare le pratiche legislative. La speranza è di arrivare ad emendare la legislazione greca entro il 28 marzo. Prima i ritorni verso la Turchia non saranno consentiti. Dall’altro lato, intanto, anche Ankara deve mettere mano al suo ordinamento per assicurare le necessarie tutele ai migranti siriani a cui, ad oggi, non viene garantito lo status di rifugiato. Il governo turco ha assicurato che provvederà, ma la pratica resta ancora da vedere. Il Commissario Nils Muiznieks: "Valutazioni soggettive e rispetto dei diritti". Sul fronte delle obiezioni all’accordo Ue-Turchia ecco anche la presa di posizione del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, secondo il quale ora che l’accordo tra Ue e Turchia è stato raggiunto, "massima attenzione deve essere data alla sua attuazione al fine di dissipare una serie di gravi preoccupazioni che l’operazione suscita dal punto di vista dei diritti umani". Afferma ancora: "È positivo che l’accordo contenga alcune garanzie giuridiche, come ad esempio l’adesione alle leggi internazionali ed europee. Questo dovrebbe impedire rimpatri collettivi automatici e offrire una valutazione oggettiva di ogni richiesta individuale di asilo o di protezione internazionale". Allo stesso tempo, per il Commissario, per fare in modo che l’accordo rispetti efficacemente i diritti umani, l’Unione europea, la Grecia e la Turchia devono garantire che i principi aggiuntivi guidino l’attuazione del Piano. "Prima di tutto garanzie legali dovrebbero applicarsi non solo ai siriani, ma a tutte le persone che raggiungono la Grecia o qualsiasi altro paese dell’Ue - afferma -. In secondo luogo, l’Ue ei suoi Stati membri devono fornire un aiuto urgente per la Grecia, il cui disfunzionale sistema di asilo ha portato a violazioni dei diritti umani dei migranti, in particolare per quanto riguarda le condizioni di accoglienza e di accesso. Questo aiuto dovrebbe assumere la forma di risorse finanziarie e umane, ma anche quella di una ricollocamento dei rifugiati all’interno dell’Unione europea". Un ulteriore elemento sollevato dal Commissario è che sia la Grecia che la Turchia devono "limitare l’uso di detenzione dei migranti solo a casi eccezionali, perché l’ingresso e il soggiorno irregolare in un paese non è un crimine. Particolare attenzione deve essere posta a persone particolarmente vulnerabili, come i bambini, le donne incinte e le vittime di tratta e torture". E conclude: "Illusorio credere che la sofferenza dei migranti e la pressione sui paesi europei sarebbero scomparsi grazie a questo accordo. È solo una pezza per chiudere uno dei buchi nell’approccio altamente disfunzionale degli Stati europei alla migrazione. Altre misure più a lungo termine sono necessarie". "Proteggere i rifugiati è sia un fatto morale che un obbligo di legge. Non è un compito facile, ma non è neanche impossibile. L’accordo Ue-Turchia può essere parte della soluzione, ma i paesi europei devono fare di più per proteggere coloro che fuggono da guerre e persecuzioni". Amnesty: "pessimo accordo, la Turchia non rispetta le leggi sui diritti umani" di Francesca Caferri La Repubblica, 22 marzo 2016 Il direttore di Amnesty International per l’Europa John Dalhuisen: "Serve la solidarietà obbligatoria". "Un colpo di proporzioni storiche ai diritti umani". Amnesty International usa termini durissimi per condannare l’accordo appena siglato fra Unione europea e Turchia sulla gestione della crisi del rifugiati. John Dalhuisen, direttore dell’organizzazione per l’Europa e l’Asia centrale, spiega perché. Cosa c’è che non va in questo accordo? "Molte cose. La prima è l’idea stessa che ne è alla base, ovvero che la Turchia possa essere un luogo sicuro per i rifugiati: stiamo parlando di un paese che in questa materia non rispetta né le leggi internazionali né gli standard europei. Per diverse ragioni: prima di tutto, perché non esiste un sistema davvero funzionale per ottenere lo status di rifugiato. Possiamo contare sulle dita di poche mani gli iracheni e gli afgani che, ben prima dell’inizio della crisi siriana, sono riusciti a ottenere lo status di rifugiato in Turchia dopo anni di attesa. In secondo luogo, non considererei sicuro un luogo dove oggi migliaia di bambini siriani, per prendere questo come standard, non possono andare a scuola. In terzo luogo ci sono centinaia di siriani che sono stati respinti al confine dalla Turchia, rimandati indietro verso le zone di provenienza, dove c’è la guerra". Che soluzioni alternative avrebbero potuto esserci, secondo voi? "Riguardo alla Turchia, è necessario che la Ue usi tutta la sua influenza perché questo paese ampli in tempi rapidi lo spazio di protezione per i rifugiati: servono norme migliori, ma anche più garanzie in termini reali, quando queste persone si trovano a chiedere assistenza o asilo. Parlando invece dei membri Ue, è necessario insistere sul principio della solidarietà obbligatoria. Questa crisi non riguarda pochi paesi: tutti devono farsene carico tramite i programmi di smistamento dei rifugiati". Questo tentativo è stato già fatto però: e non ha funzionato. "Nel lungo periodo il dibattito pubblico è cruciale: i cittadini europei devono capire, e qui una grossa responsabilità è dei media, che o da questa crisi si esce insieme o l’idea stessa di Europa cade a pezzi. Nel breve periodo è chiaro che di fronte al muro dei paesi dell’Est, spetterebbe a poche nazioni fare il lavoro maggiore: penso a Germania, Olanda, Francia e ai paesi scandinavi, oltre che a quelli direttamente coinvolti dagli sbarchi. È stato così anche negli anni Novanta, quando dai Balcani arrivò un numero di persone ben più alto di quello che vediamo giungere ora. E furono accolti". Cosa c’è di diverso tra l’Europa di allora e quella di oggi? "Era un’Europa pre-11 settembre, meno spaventata. Un’Europa ottimista, non ancora travolta dalla crisi economica. Oggi molta gente pensa che stiamo ammettendo delle persone fondamentalmente diverse da noi, che non sono assimilabili, che arrivano per cambiare il nostro modo di vivere. È un pensiero che porta alla crescita dei populismi". Proprio questo è uno degli elementi chiave per capire l’accordo con la Turchia: secondo molti leader è necessario fermare i profughi per fermare il populismo. È un’idea sbagliata? "Non diciamo che le cose siano semplici. Ma l’Europa sta mettendo in gioco la sua anima. Accogliere queste persone oggi costa molto ed è difficile: lo sappiamo benissimo. Ma se non lo faremo fra 15-20 anni ci guarderemo indietro e ci chiederemo come abbiamo potuto lasciare che questo accadesse. La politica non può arretrare di fronte al sentimento populista: la Merkel e pochi altri hanno provato a spingere una visione europea basata sui valori comuni, tanti altri hanno ceduto il passo". San Marino: ripensare alla privazione di libertà in modo più avanzato di Fausta Morganti La Tribuna, 22 marzo 2016 "Si dice che, per deliberazione del Governo, siano stati stanziati 30milioni di euro per costruire tra le altre cose le nuove carceri. È quasi impossibile crederlo a meno che non sia un modo per finanziare occultamente altre imprese che non possono essere dette. Ma anche se si trattasse di sperperare tanto denaro per un carcere modello (si suppone di non tante celle per un territorio come San Marino perché mai potremo ospitare persone da fuori se non compiono crimini nel nostro Paese e, speriamo, di non ritrovarci mai con un territorio invaso dalla delinquenza) sarebbe molto più intelligente pensare alla privazione di libertà in modo più avanzato e più adatto a un piccolo Stato di grande tradizione democratica. Basterebbe avere una diversa apertura verso problematiche che sono oggetto di ampio confronto nelle democrazie occidentali, che in qualche caso hanno adottato soluzioni molto interessanti. Anche il carcere può essere motivo di dibattito e di partecipazione dei cittadini, così come la scuola e la sua ubicazione o i luoghi della cultura e le loro funzioni o l’ospedale e gli ambulatori. Avere le carceri piene, anche se di politici, tanto votati e ora vituperati da tutti non può essere motivo di soddisfazione né per la cittadinanza né di orgoglio per una magistratura, che si è mostrata lenta nella azione prima e dopo mesi di carcere preventivo ancora non si conosce alcun esito di pena, anche se sappiamo che le indagini sono legate a fatti giudiziari che spesso non riguardano soltanto la Repubblica di San Marino. Il carcere deve senz’altro essere un luogo di rieducazione, deve rispondere ad una qualità della vita al suo interno, ma potrebbe anche essere occasione di integrazione con un territorio così piccolo. Non si riesce a capire, a meno che non corrano grandi interessi, perché ogni volta che si pensa ad una struttura per questo piccolo fazzoletto di terra si debba sempre prevederlo come uno spazio chiuso, autoreferenziale, ripiegato su se stesso, recintato, separato dal resto del Paese. Perché, poi, si vogliano creare artificiosamente poli che sono più consoni alle grandi periferie delle grandi metropoli. La nostra vita si è sviluppata per secoli nei borghi che richiedono integrazione e condivisione. Perché chi decide queste avventure così costose e inutili non riflette sulla nostra storia di piccolo Stato, sul suo senso, su una tradizione che ci ha tramandato la natura e le caratteristiche del nostro vivere?". Cuba: la rabbia di Raul Castro "qui non ci sono prigionieri politici" di Paolo Mastrolilli Il Secolo XIX, 22 marzo 2016 "Chi ti ha detto che abbiamo prigionieri politici? Dammi la lista! Dammi la lista e li libero subito". Raul Castro si è chiaramente irritato durante la conferenza stampa di ieri dopo l’incontro con il presidente Obama, quando l’inviato della "Cnn" Jim Acosta, figlio di un rifugiato cubano, gli ha chiesto perché non rilascia i detenuti politici. E questo scontro, oltre a rendere la conferenza imbarazzante, ha dimostrato anche quanto sia ancora difficile il dialogo tra Cuba e gli Stati Uniti. Il capo della Casa Bianca, infatti, si è detto "sicuro che l’embargo verrà tolto", ma ha posto due condizioni necessarie a smuovere la maggioranza in Congresso: primo, fare progressi economici e sociali concreti, dimostrabili; secondo, superare l’ostacolo delle differenze di opinione sulla democrazia e i diritti umani. Entrare nel palazzo presidenziale sulla Piazza della Rivoluzione, davanti al monumento dedicato a José Martí, significa varcare la soglia del luogo più sacro e misterioso del potere cubano. L’idea era dimostrare al mondo che il dialogo fra Washington e L’Avana è davvero cominciato, ma la conferenza stampa era rimasta in dubbio fino all’ultimo: Obama voleva farla, Castro no. Durante il colloquio bilaterale Barack ha detto che lui avrebbe comunque risposto ai giornalisti, e Raúl allora ha accettato di prendere una domanda. È bastata quella, però, a mettere a nudo tutte le diffidenze che ancora restano. Nella sua dichiarazione iniziale, Raúl ha detto che le relazioni bilaterali hanno già fatto molti progressi, ma non ha rinunciato a dare lezioni. Ha detto che "l’embargo resta l’ostacolo principale alla normalizzazione", ha chiesto "la restituzione della base militare occupata illegalmente a Guantánamo", e ha anche detto che in tema di diritti umani gli Stati Uniti hanno molto da imparare, visto "come trattano i poveri, le minoranze razziali, le persone lasciate senza assistenza sanitaria". Obama ha cercato di seguire il copione della riconciliazione, affermando che è cominciato "un nuovo giorno" nelle relazioni bilaterali. Ha detto che Washington continuerà a difendere valori come la democrazia e il rispetto dei diritti umani, ma ha aggiunto che proprio il dialogo in corso può far superare il disaccordo che ancora esiste. Poi però è arrivata la domanda di Acosta, e la scena è cambiata. Castro si è rivolto a un assistente, mentre Obama parlava per sapere se era rivolta anche a lui, e il presidente si è interrotto: "Ehi, sto parlando". Quando ha preso la parola, Raul ha attaccato Acosta: "Dammi la lista!". Obama ha cercato di riprendere il filo del dialogo, dicendo che "l’embargo non è servito ai nostri interessi, e quindi verrà tolto. Per ottenere la maggioranza in Congresso, però, servirebbero due cose: primo, progressi economici e sociali concreti; secondo miglioramenti sul terreno dei diritti umani". Castro però ha replicato duro: "Ci sono 61 leggi internazionali sui diritti umani: sapete quanti paesi le rispettano? Nessuno. Noi ne applichiamo 47, e poi assicuriamo il diritto alla sanità e all’istruzione gratuita. Non sono questioni altrettanto importanti? I diritti umani non andrebbero politicizzati". Il dialogo dunque è cominciato, ma ne servirà ancora molto per affrontare tutti i problemi ancora sul tavolo. Indonesia: l’inferno del "pasung", i malati mentali in vengono tenuti in catene di Antonio Bonanata Il Messaggero, 22 marzo 2016 Sfruttamento, abusi fisici e psicologici, totale assenza dei più elementari diritti: è il quadro terribile che emerge da un rapporto, curato da Human Rights Watch, che illustra lo stato in cui versano migliaia di malati indonesiani, affetti da disabilità mentale e rinchiusi - è il caso di dire - nelle strutture sanitarie preposte alla loro assistenza, trasformatesi in vere e proprie carceri. Si parla approssimativamente di 57mila persone che subiscono o hanno subito un simile sfruttamento, ma il numero potrebbe essere più alto. In Indonesia viene definito "pasung" e, seppure messo al bando nel 1977, continua ad essere sistematicamente praticato, come documenta la denuncia dell’associazione umanitaria internazionale, da anni in prima fila contro le violazioni dei diritti umani nel mondo. Nel documento si parla di 175 persone recentemente "salvate" dal pasung e di altre 200 recuperate in anni recenti. Ma il rapporto si estende anche alle spaventose condizioni in cui sono costretti a vegetare i pazienti di pseudo strutture sanitarie e di assistenza. Pare che ve ne siano solo 48 in tutto il paese (abitato da 250 milioni di persone), dove per giunta l’infermità mentale è considerata frutto di maledizioni o possessioni da parte di spiriti maligni. Yeni Rosa Damayanti, a capo dell’associazione di salute mentale "Perhimpunan Jiwa Sehat", ricorre a un esempio molto efficace - riportato nel documento di Human Rights Watch - per dare un’idea di quanto sia diffusa la pratica del pasung: "Puoi lanciare una pietra ovunque, a Java, e colpirai qualcuno in pasung". Il caso più lungo di detenzione, tra quelli documentati, riguarda una donna, tenuta chiusa in una stanza per quasi 15 anni. Ismaya, invece, ha passato solo tre settimane in un centro di recupero. Racconta: "Mi hanno legato le mani con un guinzaglio e mi hanno incatenato le gambe. Ho provato a liberarmi. Più ci provavo, più mi tenevano legato. Non mi hanno mai lasciato. Non c’erano servizi. Anche se avessi urlato per andare in bagno, non me l’avrebbero permesso". La maggioranza dei casi di pasung si registrano nelle più remote aree rurali, dove vivono famiglie con uno scarso livello di consapevolezza circa la disabilità mentale o con ridotte possibilità di accesso alle strutture di cura. In tutto il paese, circa il 90 per cento di coloro che necessiterebbero di questo tipo di assistenza non ha modo di ottenerla, vuoi per ignoranza, vuoi per povertà. "L’Indonesia ha un buon sistema sanitario" spiega Shantha Rau Barriga, che cura per Human Rights Watch i diritti dei disabili, "ma sfortunatamente l’assistenza per i malati di mente non è compresa". Nel rapporto si legge anche della storia di Carika, 29 anni, tenuta rinchiusa quattro anni nella stalla dove la sua famiglia custodiva le capre, nel centro di Java, costretta a mangiare, dormire e defecare insieme alle bestie, pregando invano i suoi familiari di liberarla. Anche quando è riuscita a fuggire, però, ha subìto un periodo di reclusione in uno dei cosiddetti centri di assistenza, dove l’hanno sottoposta all’elettroshock. Queste pratiche sono di routine nelle strutture predisposte all’assistenza dei disabili. Il governo indonesiano ha promosso varie iniziative per combattere la pratica del pasung ma, denuncia Human Rights Watch, permane nel paese una scarsa consapevolezza su quello che dev’essere l’approccio adeguato con cui trattare situazioni così delicate; mancano, soprattutto, i luoghi adatti per prendersi cura di persone indifese e deboli. Le autorità parlano di circa 18mila individui che attualmente si trovano in queste condizioni disumane. Russia: Mosca condanna top gun ucraina. Berlino guida la protesta: liberatela di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 22 marzo 2016 "Colpevole di due omicidi". Oggi si saprà l’entità della pena. Nadia lo aveva capito già all’inizio del mese, quando aveva iniziato lo sciopero della fame e della sete: "La sentenza contro di me è già scritta, questo processo è inutile". Ieri il giudice che conduce il procedimento nella cittadina di Donetsk, al confine con l’Ucraina, ha confermato i peggiori timori della vigilia. Nel leggere i capi d’accusa contro la pilota ucraina detenuta da due anni ha praticamente sposato la tesi della procura, facendo capire che Nadezhda Savchenko sarà ritenuta colpevole di complicità nell’uccisione di due giornalisti russi che si trovavano nel Donbass durante i combattimenti tra forze regolari ucraine e ribelli filo-russi. La lettura della sentenza e l’annuncio dell’eventuale pena detentiva (sono stati chiesti 23 anni di carcere) è stata rinviata a oggi, ma le proteste sono scattate immediatamente dopo le prime frasi del giudice Leonid Stepanenko. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha definito l’intera vicenda "una farsa", mentre sua moglie Marina ha chiesto a Michelle Obama di unirsi al la campagna internazionale per il ritorno a casa dei prigionieri ucraini in Russia, "a cominciare proprio da Nadia Savchenko". Ð governo tedesco chiede il rilascio della pilota e, dal ministero degli Esteri, commenta: "La condanna è il risultato di un processo contrario ai principi giuridici". Dichiarazioni sdegnate sono venute anche dagli oppositori russi. Yashin, vice presidente del partito Parnas, fondato da Boris Nemtsov, assassinato a Mosca, ha sostenuto che la pilota "è stata rapita e imprigionata, creando un vergognoso precedente legale. Si tratta di una pagina triste della storia russa". Secondo la presidenza ucraina, la donna dovrebbe essere subito liberata in base agli accordi firmati a Minsk tra le parti in lotta. È però probabile che la pilota, una volta condannata, sarà usata per uno scambio di prigionieri con Kiev. Nadia fu catturata nel 2014, durante i combattimenti. Lei ha sempre detto di essere stata presa in Ucraina dai nazionalisti che l’hanno poi "passata" ai russi dopo la morte dei giornalisti avvenuta nel corso di bombardamenti attribuiti alle truppe di Kiev. La procura russa sostiene invece che fu lei a dirigere da terra il tiro dei cannoni e che dopo l’uccisione dei due reporter varcò illegalmente la frontiera e venne catturata sul territorio russo. (Quest’ultimo fatto appare però assai poco verosimile, visto che difficilmente un militare ucraino avrebbe scelto di attraversare il confine con la Russia. Nelle carceri russe ci sono altri prigionieri. In Ucraina, invece, sono stati arrestati due cittadini russi che le autorità di Kiev hanno identificato come agenti del Gru, il servizio segreto dell’esercito. Mosca sostiene invece che i due erano già stati congedati. Potrebbero essere loro i protagonisti di un futuro scambio.