L’omicidio stradale è legge: ma davvero serve il carcere? Il Mattino di Padova, 21 marzo 2016 Al reato di omicidio stradale e alla sua efficacia per evitare ad altri il dolore di un figlio ucciso sulla strada credono soprattutto le madri di vittime di incidenti. Noi conosciamo però bene il carcere e sappiamo che è l’ultimo luogo dove le persone possono diventare più responsabili. La nostra proposta, di condannare chi ha commesso un reato del genere a lavorare in un centro di riabilitazione per politraumatizzati, non è una vuota formuletta, ma una pena dura, efficace, significativa, con una portata emotiva fortissima, che non può lasciare indifferente nessuno. Vedere la sofferenza che possiamo provocare per una imperdonabile superficialità fa sentire davvero colpevoli, cosa che invece non succede in galera. La pena in carcere costa e non responsabilizza, la pena utile è quella che si sconta nei luoghi difficili, dove c’è sofferenza ma anche il modo di mettersi a disposizione degli altri per riparare il male fatto. Il reato di omicidio stradale è legge: male con altro male Non dovrebbe essere facile mandare qualcuno in carcere sapendo che in Italia la galera è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto, eppure nel nostro Paese si fa di tutto per risolvere i problemi sociali con le pene carcerarie. Inizio col dirvi che anch’io penso che chi si rende colpevole di gravi incidenti stradali deve essere severamente punito, però non certo con più galera, ma con pene alternative al carcere. Credo che questo lo sappiano anche i nostri politici, che non basta alzare le pene per fare diminuire la piccola o grande criminalità, se no sarebbe tutto troppo semplice e lo farebbero tutti gli altri Paesi. È vero piuttosto il contrario, che proprio gli Stati che hanno la pena di morte o le pene più alte sono quelli che producono più violenza sociale. La classe politica dovrebbe saperlo, ma per un pò di consenso si venderebbe l’anima al diavolo. Già le nostre "Patrie Galere" nella stragrande maggioranza sono piene di emarginati sociali, extracomunitari e tossicodipendenti. Adesso dopo questa legge si riempiranno anche di "pirati della strada". E molti di loro andando in galera perderanno il lavoro e probabilmente qualcuno anche la famiglia. Poi quando usciranno non gli rimarrà altro che fare quello che il carcere gli avrà insegnato a fare. E probabilmente in seguito diventeranno dei disadattati o dei veri e propri delinquenti. Credo che la frequenza con cui si ricorre sempre e comunque al carcere per risolvere qualsiasi problema sia un segno di debolezza o di vigliaccheria. Se già per chi ha fatto delle scelte di vita sbagliate per mestiere le pene carcerarie non sono un deterrente, come potranno mai esserlo per le persone che non fanno una vera e propria scelta deviante o delinquenziale? In tutti i casi chi pensa che ci sarà più sicurezza sulle strade aumentando le pene carcerarie credo che si sbagli e di grosso. Penso piuttosto che questo potrebbe accadere con una adeguata informazione o con iniziative intelligenti come è accaduto con l’introduzione della patente a punti. Penso che il carcere non è mai la medicina e nella maggioranza dei casi reca più danni che benefici, perché quando si è chiusi in una cella è ancora più difficile crearsi una educazione o sensibilità civica. Soprattutto per questo penso che le prigioni dovrebbero servire per difendersi e fermare le persone più pericolose e non certo per scontare una pena afflittiva fine a se stessa. Certi reati non li punirei mai con il carcere, lo farei molto più duramente con pene risarcitorie educative e intelligenti. Credo che sarebbe più utile per la società punire una persona per omicidio stradale senza mandarla in carcere, obbligandola ad accudire disabili o anziani piuttosto che farla stare chiusa in una cella per anni e anni senza fare nulla. Colgo l’occasione per dare la mia solidarietà a tutti i famigliari di vittime di incidenti stradali, lo sono anch’io, ho avuto un fratello che insieme alla sua moto è stato investito da una macchina passata con il rosso, nonostante avesse il casco ha sbattuto con la testa sull’asfalto ed è morto sul colpo, a 22 anni. Carmelo Musumeci Stando in cella non si impara di certo a prendere consapevolezza del male che si è fatto Un provvedimento invocato da molti, promesso al momento del suo insediamento a Palazzo Chigi dall’attuale Presidente del Consiglio: mi riferisco all’approvazione della legge che introduce il reato di omicidio stradale. Il governo nell’ultimo passaggio al Senato ha posto anche la fiducia sul testo, segno di una decisa volontà di chiudere qui l’iter legislativo. Il perché di un provvedimento del genere è presto detto. Fino a prima dell’introduzione di questa legge si riteneva che gli autori di incidenti stradali causati da una guida in violazione delle norme del Codice della strada riuscivano a "farla franca", perché gli venivano applicate delle sanzioni non proporzionali al danno fatto. Si chiedeva da più parti che comportamenti irresponsabili come la guida in stato di ebbrezza, sotto l’azione di sostanze stupefacenti ma anche l’uso del telefonino quando si è alla guida, qualora siano causa di incidente con feriti o morti vengano sanzionati in modo più duro. L’omesso soccorso, la famigerata "fuga del pirata", viene riconosciuto come un fattore in grado di far salire di parecchio l’entità della pena, che con il riconoscimento di tutte le aggravanti può arrivare a 18 anni di reclusione. Ci si dimentica, tra l’altro, che comportamenti come l’omissione di soccorso, dettati spesso dal panico, sono messi in atto di solito proprio dalle persone "regolari", come quella donna di settant’anni che di recente ad Abano ha travolta una anziana in bicicletta ed è fuggita. Credo che queste pene non siano ben comprese da chi il carcere l’ha visto solo dall’esterno o in qualche film. In realtà un giorno trascorso dietro alle sbarre di uno dei 195 istituti di pena del nostro Paese è molto diverso da quello vissuto al di là del muro di cinta. Soprattutto nella percezione dello scorrere del tempo. Se non sei impegnato in qualche attività lavorativa e/o culturale, è molto più lento rispetto all’esterno. Il provvedimento ha lo scopo di fare da deterrente nei confronti di quelle persone che ritengono di potersi sballare a piacimento e poi tornarsene a casa alla guida di un mezzo, e leggendo le sanzioni a cui vanno incontro dovrebbero pensarci parecchio prima di intraprendere una condotta del genere. La normativa, invocata da tempo dalle associazioni dei familiari delle vittime della strada, coinvolge anche chi questi comportamenti non li ha mai messi in atto, mi riferisco a chi malauguratamente diventa artefice, da sobrio, di un sinistro che comporta il decesso o lesioni permanenti gravi a carico di una o più persone. Anche per lui le porte del carcere potrebbero aprirsi. Ogni errore nella vita si paga, il problema è come riparare un danno anche grave in modo da essere utili alla società. Questo può avvenire facendo vivere esperienze in luoghi in cui si tocca con mano il danno che si è provocato. Mi hanno raccontato di un medico di un nosocomio del veneziano che quando entrava in auto, sia da conducente che da passeggero, dimostrava una prudenza perfino eccessiva. Alla domanda del perché tutta quella meticolosità nell’attivare i sistemi di sicurezza a tutela dell’incolumità della persona, aveva risposto che lavorava come chirurgo nel reparto maxillo - facciale e aveva visto troppi disastri legati a incidenti stradali. A lui era bastato essere spettatore di certe immagini per comprendere come ci si doveva comportare alla guida di un autoveicolo. Stando in cella non si imparerà di certo a prendere consapevolezza del male che si è fatto. È un problema molto serio che vale per tutti i reati. Solo un confronto più serrato, con chi anche indirettamente è stato colpito dalla tua azione, può farti acquisire consapevolezza. Quella che ti permetta di non ripetere quel comportamento perché sei convinto nel profondo che sia un errore. Non credo che questo possa avvenire esclusivamente infliggendo carcere e sofferenza. Molto spesso questo stato di disagio, anche profondo, rispetto alle conseguenze del reato viene vissuto dal reo proprio quando riesce a comprendere l’insensatezza del suo gesto. Lì si può essere sicuri di un primo importante obiettivo raggiunto. Andrea Donaglio Un patto civico nei Comuni per rispettare i cittadini di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 21 marzo 2016 Se si vuole vincere disaffezione e astensionismo forse è il momento di discutere di programmi concreti. Con un’avvertenza. Inutile promettere ciò che un sindaco saggio e ragionevole sa di non poter mantenere. Tra primarie, gazebarie, rotture e sospetti, si è ormai definito il quadro delle candidature per le amministrative di giugno. A volte si ha l’impressione che gli aspiranti sindaci si occupino di tutto meno che dei destini del loro comune. Non sono poche le candidature di dispetto, se non di vendetta o di semplice bandiera. Ma se si vuole vincere disaffezione e astensionismo forse è il momento di discutere di programmi concreti. Con un’avvertenza. Inutile promettere ciò che un sindaco saggio e ragionevole sa di non poter mantenere. Dannoso lanciare idee su redditi di cittadinanza con i bilanci già dissestati. Ingannevole prefigurare un futuro di servizi municipali scandinavi quando le strade sono piene di buche e di spazzatura. Il miraggio della gratuità, poi, è semplicemente diseducativo. Un buon sindaco può fare molto per la sua città, ma è difficile che muti i destini di un Paese o incida sul processo di globalizzazione. Fa una certa tenerezza leggere nel piano strategico della città metropolitana di Reggio Calabria la promessa di felicità per i propri cittadini. Suscita persino simpatia il movimentismo planetario del sindaco di Messina che se ne va in giro con la maglietta "Free Tibet", evidentemente preoccupato di attirare investimenti cinesi in Sicilia. La definizione che diede Gabriele Albertini di se stesso quando era sindaco di Milano ("Sono un amministratore di condominio") era eccessivamente riduttiva. Un sindaco capace può innovare la politica meglio di chiunque altro e aspirare, con una buona gestione e nuove idee, a guidare un Paese. Ci provarono Rutelli e Veltroni. Ci è riuscito Renzi. Ci riuscì Chirac a Parigi. Ci proverà Johnson a Londra. Ci ha pensato, ma solo per un pò, Bloomberg a New York. Pragmatismo e concretezza sono qualità irrinunciabili. I programmi devono essere giustamente ambiziosi, densi di principi e valori, ma è assai improbabile che, anche il più importante municipio del Paese, possa mutare i destini di una guerra e battere il riscaldamento climatico. Un’idea non disprezzabile potrebbe essere quella di impegnare gli aspiranti sindaci a sottoscrivere una sorta di patto civico. Non un contratto, per carità. Già fatto, con gli esiti che sappiamo, ai tempi di un Berlusconi trionfante. No, solo un impegno morale, su alcuni punti che tocchino da vicino la vita quotidiana degli abitanti di metropoli chiamati a pagare, in questi anni, un aumento del tutto anomalo delle imposte locali, nonostante la detassazione della prima casa. Il primo aspetto riguarda il debito. Roma è un caso particolare. Il debito storico è di poco superiore a 13 miliardi e, dopo aver raggiunto un massimo di 22 miliardi, è stato trasferito, con il decreto 112 del 2008, a una gestione commissariale. Ogni anno lo Stato, cioè tutti gli italiani, versa 500 milioni per la gestione del debito romano, 200 dei quali raccolti con le addizionali locali della capitale (aumentate più che altrove). Ma il deficit del Campidoglio viaggia sempre intorno al mezzo miliardo l’anno. Circa il 10 per cento delle sue entrate. Si può fare qualcosa? Sì, si deve fare. Il debito di Milano è di poco inferiore a 4 miliardi, quello di Torino sotto i 3. In entrambi i casi in discesa. Sarebbe lodevole se tutti i candidati sindaci delle città assumessero l’impegno formale non solo a non aumentare i debiti, ma a ridurli gestendoli nel modo migliore. Una politica più attenta e responsabile sul debito avrebbe due effetti. Uno morale: non si aumenta il fardello a carico delle future generazioni. Uno pratico: si possono liberare risorse utili per investimenti e servizi. Il patto civico, o di responsabilità, chiamatelo come volete, potrebbe essere arricchito da altre clausole, non secondarie. L’equilibrio di bilancio dovrebbe essere realizzato per legge. Nel senso della parità tra entrate e uscite. Ma considerare i dividendi straordinari delle partecipate come entrate regolari, appare una forzatura. Legittima, ma lontana dalla scelta che farebbe un "buon padre di famiglia" attento alla conservazione del suo patrimonio. Gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere utilizzati integralmente per sostenere gli investimenti. La deroga a coprire spese correnti, con quegli incassi, è assai discutibile, anche se maledettamente necessaria per chi deve far quadrare i conti. E ancora: in tutte le città, con notevoli differenze però, uno degli argomenti più discussi e popolari riguarda la copertura delle buche. Ebbene, se venisse rispettata la destinazione per legge di metà delle multe (art. 208 del codice della strada) avremmo la migliore delle reti viarie, più controlli, più sicurezza. In realtà, quei proventi vengono utilizzati per coprire altre spese. Necessarie, per carità. Ma al cittadino è stato detto che le multe servono a pagare anche la sua sicurezza, non sono la pesca a strascico della tesoreria comunale. La lista potrebbe allungarsi, ma meglio fermarsi qui. Un patto civico di buon governo delle città sarebbe una forma di rispetto nei confronti dei cittadini chiamati al voto. Un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle difficoltà, a volte insormontabili, nella gestione di Comuni allo stremo finanziario, impegnati ad affrontare i costi della modernizzazione e dell’invecchiamento della popolazione. Un semplice patto morale che darebbe credibilità maggiore ai candidati più responsabili e preparati, ridurrebbe la insopportabile distanza tra istituzioni e cittadini. Serietà e pragmatismo, in campagna elettorale, non è detto che funzionino peggio del funambolismo degli annunci. Gli elettori più avveduti (la maggioranza) sapranno tenerne conto. Tribunali dei minori "eccellenza da salvare" di Ilaria Sesana Avvenire, 21 marzo 2016 Nelle ultime settimane ha fatto molto discutere la riforma (ora allo studio del Parlamento) che vorrebbe trasformare i Tribunali e le procure per i minorenni in sezione specializzate dei tribunali ordinari. Mario Zevola, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, affronta il tema con tono pacato, ma non nasconde le sue perplessità: "È un disegno di legge che vuole innovare il sistema, ma non si capisce come". La situazione è ancora in divenire. Dopo la presentazione di un primo disegno di legge sono stati successivamente avanzati i primi emendamenti che permettono di comprendere un pò meglio lo spirito della riforma. Ma i contorni della norma restano anco- ra poco chiari. "Mi auguro che non vada persa la specializzazione dei Tribunali e delle procure per i minorenni - spiega Zevola - organismi giudiziari tesi a proteggere i minori e prevenire la devianza". Un’eccellenza italiana che, come spesso accade, viene poco riconosciuta entro i confini nazionali. Ma che, al contrario, rappresenta un modello cui si ispirano molti Paesi stranieri. "Ci viene invidiato in tutto il mondo", spiega il responsabile del tribunale milanese. Zevola evidenzia anche come il sistema della giustizia minorile abbia bisogno di qualche aggiustamento. Ci sono delle "zone grigie", spiega, in cui occorre chiarire meglio "sotto il profilo processuale chi deve cosa e come lo deve fare". Tuttavia è fondamentale tutelare la specificità dell’organismo di cui è presidente che "deve rimanere il tribunale che si occupa dei minori nell’ambito delle relazioni familiari. Una struttura adeguata e competente a provvedere laddove ci sono carenze da parte del nucleo familiare. Una struttura dove opera una magistratura specializzata, che è bene sia mantenuta". Una specializzazione che non è legata solo ai codici e alle norme del diritto, quanto piuttosto alla capacità di cogliere e valutare le sofferenze dei minori. E se l’obiettivo del Tribunale deve essere quello di garantire la tutela e gli interessi dei minorenni (in materia penale ma soprattutto in ambito civile) è necessario che i magistrati possano continuare a occuparsi in maniera esclusiva dei minori e delle loro esigenze. La riforma - così come emerge dalle prime letture dei testi prevede dunque che i Tribunali e le procure per i minorenni diventino sezioni speciali all’interno dei tribunali ordinari per la materia familiare e minorile. Un pò come avviene per la sezione lavoro, che ha una sua autonomia. "Il rischio è che i pubblici ministeri vengano assorbiti dal lavoro ordinario legato alle questioni di famiglia - spiega Zevola -. Una riforma di questo tipo, senza una definizione precisa dei ruoli, potrebbe portare a una minore attenzione alle esigenze dei minori e di conseguenza una loro minore tutela". Occorre, dunque, "il giusto tempo" per prendersi cura degli interessi dei minori. Tanto più in un momento storico in cui le complessità e le difficoltà non mancano. Il Tribunale per i minorenni di Milano, per esempio, conta un organico di sedici magistrati togati e 64 giudici onorari "il cui contributo è essenziale per la gestione delle pratiche", sottolinea Zevola. Ogni, anno infatti, sulle scrivanie di via Leopardi vengono depositati circa 2.500 faldoni, per altrettanti procedimenti solo nell’area civile. Che si vanno a sommare ai 5.800 procedimenti pendenti. I delitti diminuiscono ma la paura aumenta, colpa dei media e dell’effetto moltiplicatore di Davide Maria De Luca Libero, 21 marzo 2016 Malgrado la propaganda, negli ultimi anni il numero di donne assassinate è costante. La vera emergenza sono i raid in appartamento, cresciuti dell’80% tra il 2006 e il 2014. Mai così pochi omicidi, mai così tanti furti in appartamento: sono questi i due dati più evidenti che emergono dalle ultime statistiche sul crimine in Italia, raccolte nel 2015 dal ministero dell’Interno e viste da Libero. Sono anche numeri che ci dicono qualcosa di più sull’andamento dei reati in Italia, quelli violenti e quelli contro la proprietà. Nel 2015, gli omicidi nel nostro Paese sono stati 445, in calo rispetto ai 476 del 2014. In numeri assoluti non si tratta della cifra più bassa mai registrata - negli anni Sessanta il numero totale era ulteriormente inferiore, ma era inferiore anche la popolazione. Se contiamo gli omicidi sul totale degli abitanti, allora scopriamo che nel 2015 il tasso di omicidi ogni 100 mila abitanti è stato il più basso in più di 150 anni di storia italiana. Oggi si verificano circa 0,9 omicidi ogni 100mila abitanti. Soltanto 30 anni fa, all’inizio degli anni Ottanta, il tasso era più che doppio e arrivava a superare i 2 omicidi ogni 100mila abitanti. Si tratta di un record che probabilmente sorprenderà molte persone, anche alla luce dei recenti fatti di cronaca nera. "Cento anni fa c’erano molti più omicidi di oggi, ma se ne sapeva anche molto meno", spiega il professor Paolo Savona, direttore del centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica. I moderni mezzi di comunicazione hanno creato un effetto moltiplicatore: "Oggi i delitti sono diminuiti, ma è aumentata la paura". Un caso particolare di questo fenomeno è il femminicidio, cioè gli omicidi di donne compiuti da uomini. Ciclicamente i media parlano di "un’emergenza femminicidi", ma le statistiche mostrano che il tasso di donne uccise da uomini è rimasto costantemente allo stesso livello negli ultimi anni. "Inoltre, se confrontiamo i nostri tassi con quelli di altri Paesi europei ci viene da tirare un sospiro di sollievo", aggiunge Savona. Per quanto ogni singolo omicidio sia gravissimo, infatti, il tasso italiano resta uno dei più bassi d’Europa. Più in generale, spiega Marco Dugato, ricercatore di Transcrime, "possiamo dire che negli ultimi anni abbiamo assistito a un calo generale dei reati violenti, specialmente rispetto ad alcuni Paesi dell’Est e del Nord Europa. In Italia il problema della violenza non è così forte come in altri Paesi". Ma se omicidi e reati violenti calano, c’è almeno un tipo di delitto la cui frequenza è invece in netto aumento: i furti in appartamento. Tra il 2006 e il 2014 c’è stato un aumento di più dell’80 per cento: da 141.601 a 230.515. Nello stesso periodo le rapine in casa, quelle che avvengono con i proprietari all’interno dell’abitazione e a cui fanno seguito minacce e in molti casi percosse, sono passate da 2.125 a 3.209, con un picco nel 2014 di 3.619: dieci rapine in casa ogni giorno. I dati del ministero dell’Interno visti da Libero mostrano che entrambi i reati hanno avuto una flessione nel 2015, un segno - secondo Dugato - che l’ondata di piena di reati contro la proprietà a cui abbiamo assistito nel corso della crisi sta iniziando a scemare. Ma i numeri restano comunque fuori scala rispetto a pochi anni fa ed è ancora tutto da vedere se quello che abbiamo davanti è una inversione del trend o soltanto un pausa momentanea. Ci sono numerose spiegazioni per questo aumento di reati contro la proprietà e dei furti negli appartamenti in particolare. La crisi economica ha fatto certamente la sua parte, ma l’aumento è iniziato anni prima della grande recessione globale. Alcuni avevano ipotizzato che una delle ragioni fosse l’arrivo in Italia di bande di ladri e rapinatori professionisti dall’est Europa, dopo l’ingresso nell’UE di Bulgaria e Romania nel 2007. Le indagini di polizia e carabinieri hanno confermato che in molti casi le rapine in abitazione sono state compiute da bande formate da cittadini dell’Europa dell’Est. Ma come abbiamo visto, le rapine rappresentano una piccolissima frazione del totale dei furti in appartamento. Inoltre, le analisi più dettagliate effettuate da Transcrime dimostrano che tra i responsabili di furti e rapine in abitazioni la proporzione di cittadini stranieri e cittadini italiani è rimasta più o meno costante. Se l’allargamento dell’Europa fosse stato un fattore più importante, avremmo dovuto assistere a un aumento della proporzione di stranieri tra chi commetteva questo tipo di reati. Infine, bisogna considerare che i grossi furti in abitazione, quelli in cui i ladri arrivano col furgone e ripuliscono tutto il contenuto di una villetta, o le rapine in cui i proprietari vengono sequestrati e costretti ad aprire la cassaforte, per quanto siano eventi tragici e spettacolari sono solo una ridottissima percentuale del totale. Nella grande maggioranza dei furti in abitazione vengono rubati i pochi oggetti di valore che sono in vista e facili da trasportare. Si tratta quasi sempre di furti di "opportunità", in cui il ladro decide all’ultimo momento dove colpire, spesso a causa di una piccola distrazione del proprietario, come ad esempio una finestra lasciata aperta. Un altro dato importante da rilevare è una sorta di "spostamento" del mirino dei criminali, da un tipo obiettivo ad un altro. Lo si può vedere chiaramente guardando più da vicino le statistiche fornite dal ministero dell’Interno. Ad esempio, le rapine in banca sono diventate un fenomeno quasi marginale: erano 2.821 l’anno nel 2006,mentre nel 2015 sono scese a 770, un crollo dell’80 per cento. Sono diminuite anche le rapine negli esercizi commerciali: erano 8.075 nel 2006 e sono scese nel 2014 a 6.176. Negli ultimi dieci anni, infatti, sia le banche che, in misura minore, gli esercizi commerciali, hanno investito molto in sistemi di sicurezza, trasformandosi in noci sempre più dure da rompere per i criminali che quindi hanno spostato i loro obbiettivi verso bersagli più facili, come le abitazioni private. E come si inseriscono in questo quadro le risorse a disposizione delle forze di polizia? Negli ultimi anni sono state spesso tagliate le cosiddette spese di esercizio, quelle che servono a comprare la benzina per l’auto, le ore di addestramento e il materiale di cancelleria. Ma il numero di agenti di polizia è rimasto stabile ed è tuttora tra i più alti d’Europa. Tra i grandi Paesi europei, Francia, Germania e Regno Unito, l’Italia è di gran lunga quello con il maggior numero dei poliziotti pro-capite. Nel nostro Paese si spende molto per il personale, poco per l’esercizio e ancora meno per gli investimenti. Secondo il professor Savona, proprio quest’ultima è la voce che invece andrebbe incrementata: "Il problema non è nel numero di forze impegnate, ma nei modelli organizzativi: bisogna ridurre il personale, aumentare le sue qualificazioni e dotarlo di tecnologie più innovative". Ad esempio, un modello diffuso in molti Paesi del mondo, ma che in Italia fatica ancora a diffondersi è quello della cosiddetta "legge 80/20": l’80 per cento dei reati viene commesso sul 20 per cento del territorio: "Dovremmo concentrare le risorse dove avvengono più reati, non è possibile che in certe parti d’Italia ci sia ancora un commissariato di polizia davanti a una tenenza dei carabinieri soltanto per fare un piacere a un politico locale". Imprese e legalità, i segnali di pericolo che troppi ignorano di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Dice il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ricordando il primo maxi-processo istruito trent’anni fa da Giovanni Falcone: "In Sicilia ancora esiste una struttura mafiosa che tiene l’ordine, anche se in alcune zone si sta sfilacciando. In Campania i vuoti di potere determinati dagli arresti hanno scatenato una guerra per bande. Da Roma in su, operano componenti evolute delle mafie - soprattutto la ‘ndrangheta - che non solo si sono delocalizzate, ma anche internazionalizzate. Queste offrono quello che chiedono migliaia di persone normali: stupefacenti, prostitute, falsi griffati. E ci sono tantissimi imprenditori ai quali queste mafie offrono servizi che abbattono i costi o incrementano i profitti, come lo smaltimento illegale dei rifiuti o la fornitura di manodopera sottopagata o schiavizzata. Questa mafia silenziosa ha con i territori non un rapporto aggressivo ma collusivo, utilizza la violenza solo se è indispensabile". Dice Saverio Capolupo, comandante generale della Guardia di Finanza, facendo un bilancio della caccia agli evasori, ai manager corrotti, ai giudici tributari che vendono sentenze: "Non credo che i controlli siano una leva idonea e sufficiente per eliminare il problema della corruzione e della concussione. Il problema è culturale: lo scarso senso della legalità economica. Il nostro obiettivo prioritario è combattere gli sprechi e l’uso distorto del denaro pubblico, per riportare la legalità nell’economia e far sì che tutti gli imprenditori possano lavorare in condizioni ottimali". Dice il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, commentando la relazione annuale del proprio Ufficio: "Un imprenditore che non denuncia dovrebbe essere espulso dalle gare pubbliche, perché quel suo fare affari con la mafia non significa soltanto andare contro la legge, ma anche alterare irrimediabilmente le regole del mercato. E non solo: sarebbe auspicabile anche una presa di posizione seria delle associazioni di categoria. Non basta annunciare protocolli anti-pizzo. Se un imprenditore o un commerciante taglieggiati negano davanti agli inquirenti, bisogna allontanarli dall’associazione". Dice il centro studi Economia reale fondato da Mario Baldassarri: "Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale, il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17% a quello attuale". Ma già il Governo Monti aveva calcolato che la corruzione farebbe salire di almeno il 40% il prezzo delle opere pubbliche e le analisi di Confindustria e di altri analisti hanno più volte dimostrato - cifre alla mano - che "la corruzione mortifica la concorrenza e blocca l’innovazione. Perché, infatti, investire per migliorare i prodotti e fare efficienza, quando si può vincere un appalto pagando un funzionario?". Senza bisogno di ripetere che quanto più la burocrazia si ingarbuglia e acquisisce spazi di potere, tanto più saranno a portata di mano le occasioni per corrotti e corruttori. Non c’è molto da aggiungere alle analisi e agli inviti sempre più circostanziati che provengono dagli apparati dello Stato, se non forse due brevi considerazioni. La prima: è un’illusione già vissuta quella di affidare alle sole strette repressive il superamento delle cattive abitudini di un popolo affetto da una profonda trasandatezza civica, grazie alla quale ingrassano criminali economici, evasori fiscali, corrotti, alleati delle cosche. La seconda considerazione è un corollario della prima: da qualunque angolazione la si guardi, la questione centrale resta la disarmante facilità con cui l’economia legale può essere ancora oggi aggredita da delinquenti di ogni genere e non per la loro astuzia o la loro forza, ma grazie alle immense praterie paludose dell’illegalità diffusa, tollerata e praticata, che non offrono alcuna difesa. Anzi. Queste paludi non hanno più segreti e sono ormai perfettamente segnalate, ma possono essere bonificate solo dalla determinazione dei singoli nel preservare il bene pubblico, rinunciando alle tante occasioni di elusione e aggiramento, copiosamente offerte dalla pessima qualità delle leggi, frutto di una pessima politica. Csm senza correnti (e con più donne), l’elezione dei togati a doppio turno di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 marzo 2016 La sezione disciplinare sarà raddoppiata per accelerare i tempi dei procedimenti. Le novità sono contenute nella proposta che la Commissione per la riforma del Consiglio superiore della magistratura ha appena consegnato al ministro Guardasigilli Orlando. Parità di genere per garantire un’adeguata presenza delle donne e doppio turno (con il primo aperto a tutti, senza vincoli di liste) per ridurre il peso delle correnti organizzate. Sono le due principali novità contenute nella proposta che la Commissione per la riforma del Consiglio superiore della magistratura ha appena consegnato al ministro Guardasigilli Andrea Orlando. Il quale dovrà ora decidere quali suggerimenti tradurre in un disegno di legge per provare a realizzare uno dei punti qualificanti del programma governativo sulla giustizia: la modifica dell’organo di autogoverno dei giudici. Ruolo del Consiglio - Il gruppo di studio insediato sei mesi fa, presieduto dall’ex magistrato ed ex ministro Luigi Scotti e composto da giudici, professori e avvocati, ha tratto le sue conclusioni dopo aver esaminato molte istanze e ascoltato le diverse componenti interessate: dall’Associazione magistrati al Consiglio nazionale forense, fino all’Associazione dei costituzionalisti. Arrivando a sottolineare una caratteristica di fondo del Csm: chiamato non solo a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma anche a contribuire al buon funzionamento della giustizia, attraverso un’adeguata amministrazione del corpo giudiziario; dalle nomine negli incarichi direttivi alle sanzioni disciplinari, e via via tutti gli altri compiti. Il punto più delicato e rilevante resta il sistema elettorale dei 16 componenti togati, che attualmente prevede la competizione tra liste in rappresentanza delle varie correnti, che a loro volta ricalcano più o meno gli schieramenti politici: destra, centro, sinistra e sedicenti indipendenti. L’argine alle liste - Di qui un autogoverno che di fatto è in mano ai gruppi organizzati, e che la riforma vorrebbe limitare. L’ipotesi del sorteggio dei candidati (vista con favore da una parte della politica e di magistrati fuori dalle correnti) è stata scartata per sospetta incostituzionalità; l’articolo 104 della Costituzione parla infatti di "magistrati eletti", formulazione che parrebbe escludere, anche nella scelta originaria dei concorrenti, l’estrazione a sorte. Il sistema proposto prevede invece un doppio turno di votazioni. Al primo si potranno presentare tutti i magistrati, senza liste o sigle di appartenenza, anche singolarmente; in questa ampia platea i magistrati saranno chiamati a selezionare, attraverso il voto, un numero di candidati quadruplo rispetto ai 16 posti in palio; 64 togati divisi per ruolo e distribuiti come i posti da assegnare: 8 magistrati di Cassazione per 2 seggi, 16 pubblici ministeri per 4 seggi e 40 giudici per 10 seggi. Solo dopo, i candidati eletti potranno riunirsi per correnti o liste distinte, sulla base di programmi elettorali e organizzativi, in modo da dare voce e riconoscibilità ai diversi orientamenti culturali (e politici) presenti in magistratura. La parità fra uomini e donne nell’organo di autogoverno (oggi pressoché inesistente: una sola magistrata siede a Palazzo dei marescialli) viene auspicata dal momento che ormai la metà o più delle toghe italiane è femmina. Per realizzarla il meccanismo elettorale proposto prevede la doppia preferenza vincolata: se si scelgono due nomi, è obbligatorio votare un uomo e una donna. Inoltre, se la parità fra candidati non emergesse dalle urne al primo turno, si andrebbero a pescare altre donne fra le più votate nella graduatoria dei non eletti, aggiungendole fino a raggiungere la metà dei posti da ricoprire (almeno 32). Sezione disciplinare - Sempre per depotenziare il peso delle correnti, è prevista la possibilità del voto differenziato fra le liste nelle tre diverse categorie di candidati (Cassazione, pm e giudici). Quanto alla eleggibilità, i magistrati che lavorano al Csm nei diversi ruoli "di supporto" (dal segretario generale in giù) non potranno partecipare alla competizione per la consiliatura successiva, così come sarà escluso (sempre per un "giro") chi ha ricoperto incarichi politici fuori ruolo, elettivo o meno: nel governo, in Parlamento o negli enti locali. Suggeriti anche meccanismi per rendere più rapide le procedure per le nomine e scoraggiare quelle "a pacchetto", spartite fra le correnti. Il tutto per dare vita a un organo di autogoverno che garantisca "più carriera per merito e non per "appartenenza", secondo lo slogan ideato da Matteo Renzi quando annunciò di voler mettere mano alla riforma. Per il settore disciplinare il premier ne aveva lanciato un altro: "chi giudica non nomina, chi nomina non giudica", ma la commissione Scotti non l’ha seguito. Escludere dalla Sezione che sanziona gli illeciti dei magistrati coloro che partecipano alle nomine (praticamente tutti i consiglieri, attraverso il plenum) sarebbe impossibile, a meno di istituire una commissione dedicata solo a quello. La controproposta è di istituire, in luogo dell’attuale Sezione composta da 6 componenti (2 laici e 4 togati) due Sezioni da 3 (1 laico e due togati), in modo da velocizzare i lavori. In casi di eventuali incompatibilità o conflitti d’interesse, sarà sempre possibile l’astensione del giudice disciplinare, o la ricusazione da parte dell’incolpato. Riforma degli avvocati al traguardo di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Dopo un lungo periodo di stasi, l’attuazione della riforma della professione di avvocato ha accelerato il passo e, seppur in ritardo rispetto alle scadenze inizialmente previste, comincia a intravedere il traguardo. In base alla legge 247/2012 il mosaico di decreti e regolamenti applicativi avrebbe dovuto essere completato entro due anni dall’entrata in vigore e cioè entro il 2 febbraio 2015. Così non è stato poiché, a quella data, erano solo tre i provvedimenti ministeriali e governativi che avevano visto la luce (diversa la situazione per quelli del Consiglio nazionale forense che sono stati messi a punto nel biennio 2013-2014). Ma negli ultimi mesi il processo si è velocizzato. Il 16 marzo scorso, è entrato in vigore il regolamento che individua i professionisti che possono partecipare alle associazioni tra avvocati, permettendo così la costituzioni di associazioni multidisciplinari (da non confondere con le società di avvocati). Nei prossimi giorni usciranno in Gazzetta sia il decreto che individua i requisiti per l’esercizio della professione sia quello che disciplina l’esame di Stato. Stanno inoltre per arrivare in porto i regolamenti su tirocinio e praticantato, entrambi firmati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando la scorsa settimana. Il delicato tema dell’esercizio della professione in forma societaria, che la legge 247 affidava ad un Dlgs con termini ormai scaduti, è oggetto del Ddl concorrenza attualmente all’esame della commissione Industria del Senato. . I provvedimenti in itinere sono ancora quattro ma al ministero assicurano che verranno varati entro l’estate. Fra questi spicca il decreto che definisce condizioni e massimali delle polizze assicurative: è stato messo a punto ma non è definitivo. Con molta probabilità seguirà un percorso più veloce degli altri in quanto non dovrebbe essere sottoposto alla lunga serie di pareri indicati dall’articolo 1 della legge 247. Associazioni multidisciplinari - Commercialisti, consulenti del lavoro, architetti, ingegneri e geometri. Ma anche psicologi, medici, biologi, veterinari e agronomi. Spazia a tutto campo l’elenco dei professionisti che possono far parte delle associazioni tra avvocati individuate dal Dm uscito in Gazzetta il primo marzo e che rende possibile la costituzione di associazioni multidisciplinari capaci di fornire ai clienti più prestazioni. La disciplina attuale consente all’avvocato di partecipare ad una sola associazione, ma il Ddl concorrenza cancella questo limite. Permanenza nell’albo - Il decreto che fissa i requisiti per l’esercizio "effettivo, continuativo e prevalente" della professione arriverà in Gazzetta in questi giorni. Molto atteso, individua le sei condizioni (da possedere congiuntamente) che permettono la permanenza nell’albo. In primo luogo la trattazione di cinque "affari" ogni anno, dove come spiega la relazione illustrativa, il termine "affari" include non solo gli incarichi di carattere giudiziale ma anche quelli stragiudiziali, come consulenze e pareri. Per aiutare i giovani avvocati gli incarichi possono essere inoltre assegnati anche da un altro avvocato e non necessariamente conferiti direttamente dal cliente. Bisogna poi essere titolari di partita Iva (o personalmente o attraverso una società/associazione), avere uno studio e un’utenza telefonica (anche con utilizzo non esclusivo), un indirizzo Pec, rispettare l’obbligo di aggiornamento professionale e possedere una polizza assicurativa. Quest’ultimo requisito sarà operativo solo dopo il varo del decreto che fissa condizioni e massimali. La verifica dei requisiti è triennale, tranne che per gli iscritti all’albo da meno di cinque anni. Ddl concorrenza - Dopo le modifiche inserite dalla commissione Industria del Senato la parte del Ddl concorrenza relativa alle società di avvocati dovrebbe essere praticamente definitiva. Le due novità rispetto al testo approvato dalla Camera assegnano ai soci avvocati la maggioranza all’interno dell’organo di gestione e chiariscono che i soci professionisti possono rivestire la carica di amministratori. Resta confermato che almeno due terzi del capitale sociale e del diritto di voto deve essere detenuto da avvocati o professionisti iscritti in albi . Secondo la tabella di marcia indicata dal relatore Luigi Marino (Ap) l’esame in commissione dovrebbe concludersi subito dopo Pasqua, cosicché il testo possa arrivare in aula entro metà aprile. Processo penale in contumacia e "ne bis in idem" a dimensione europea di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Processo penale con regole più chiare e in linea con l’Europa. In caso di absentia, il mandato di arresto europeo resta obbligatorio se l’imputato è stato presente almeno in una fase del giudizio; dal 22 marzo 2016 il principio del "ne bis in idem" supera i confini nazionali. Queste le novità principali contenute nei due decreti legislativi dello scorso 15 febbraio. Partiamo dal Dlgs n. 31 che ha definito la normativa sull’istituto della contumacia nel processo penale e attuato la decisione quadro 2009/299/Gai sui diritti processuali. Il Dlgs 15 febbraio 2016 n. 31 completa la cornice normativa delineate nel 2014 e attua la decisione quadro 2009/299/Gai sul rafforzamento dei diritti processuali delle persone e per promuovere l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo. Il provvedimento entrerà in vigore il 23 marzo 2016. La legge n. 67 del 2014 - La legge 67/2014 ha, com’è noto, definitivamente superato l’istituto della contumacia nel processo penale, introducendo una serie di complessi adempimenti per assicurare all’imputato un’effettiva conoscenza in ordine alla pendenza del processo a suo carico, almeno dalla fase dell’udienza preliminare. Era un incombente che la giurisprudenza della Cedu aveva più volte preteso ed era stato largamente insufficiente, in questa direzione, l’intervento realizzato con la legge 479/1999. La famosa sentenza Somogyi contro Italia n. 67972/01 del 18 maggio 2004 e la sentenza Sejdovic contro Italia n. 56581/00 del 10 novembre 2004 avevano già ampiamente dimostrato che il sistema processuale italiano di ricerca degli irreperibili e il congegno della dichiarazione della contumacia fossero incompatibili con le esigenze del giusto processo e con la necessità che l’imputato avesse piena conoscenza dei fatti a lui contestati (cfr. anche la sentenza Colozza contro Italia del 1985). Le modifiche alla legge 69/2005 - La normativa di adeguamento ha previsto alcune significative modifiche alla legge che ha previsto e regolato l’implementazione nel nostro ordinamento del cosiddetto "mandato di arresto europeo". Garanzie richieste allo Stato membro di emissione - L’articolo 2 del Dlgs 31/2016 prevede, infatti, che, all’articolo 19, comma 1, della legge 69/2005 - che disciplina le "Garanzie richieste allo Stato membro di emissione" ai fini dell’esecutività dell’atto di arresto nel territorio nazionale - la lettera a) vigente sia interamente riscritta. Il confronto tra il testo edito nel 2005 e quello del 2016 permette di evidenziare le significative modifiche che l’adeguamento alla Direttiva comunitaria ha preteso. Come dato a tutta prima rilevare si è in presenza di un significativo rafforzamento delle garanzie che l’autorità giudiziaria italiana deve vagliare nel caso in cui la decisione sia stata adottata in absentia dell’imputato. Le principali differenze attengono alla circostanza che, in primo luogo, si pretende per l’accesso alla valutazione discrezionale della Corte d’appello che deve vagliare l’esecuzione del mandato d’arresto (Mae) che l’imputato non sia comparso personalmente al giudizio che lo riguardava. In precedenza era sufficiente ai fini dell’esecuzione del Mae che il destinatario fosse stato citato, ora è indispensabile per l’esecuzione "obbligatoria" che l’imputato sia comparso almeno in una fase del processo concluso, alla fine, in sua assenza. È un upgrading importante delle guarentigie processuali, poiché il precedenza era sufficiente per l’Autorità straniera allegare l’avvenuta citazione dell’imputato per conseguire - praticamente in automatico - la consegna coattiva del soggetto. Con la modifica del Dlgs 31/2016 è indispensabile la comparizione personale dell’imputato. Se questa condizione non si realizzata la Corte d’appello può, comunque, concedere l’exequatur se l’interessato è stato citato tempestivamente e personalmente con l’informazione inequivoca della data e del luogo del processo da cui è scaturita la decisione pronunciata in absentia e del fatto che una tale decisione avrebbe potuto esser presa anche sua assenza. La citazione, come si vede, rientra oggi tra i canoni dell’accertamento della Corte nazionale. Unitamente a tale adempimento i giudici della "consegna" devono accertare che l’imputato nel processo sia stato rappresentato da un difensore. Ancora che l’interessato, ricevuta la notifica della decisione e informato del diritto di ottenere un nuovo processo o della facoltà di dare inizio al giudizio di appello. Di grande rilievo, a questo proposito, è la sostituzione - con riguardo alla rinnovazione nel paese richiedente del giudizio di primo grado celebrato in absentia - della clausola del 2005 secondo cui "la consegna è subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato d’arresto europeo la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro di emissione e di essere presenti al giudizio" con la prescrizione che il giudizio d’appello nello Stato estero deve prevedere il diritto dell’imputato di partecipare al processo e, soprattutto, consentire "il riesame del merito della causa e l’allegazione di nuove prove che possono condurre alla riforma della decisione oggetto di esecuzione" - In questo caso la Corte d’appello deve accertare che l’imputato abbia dichiarato espressamente di non opporsi a tale decisione di primo grado e non abbia chiesto la rinnovazione del processo o proposto ritualmente appello. Ove una di queste condizioni si sia realizzata il Mae non potrà avere esecuzione in attesa degli esiti della fase d’impugnazione nello Stato richiedente. Infine, ove l’imputato, non abbia ricevuto personalmente la notifica della decisione in absentia, la Corte deve verificare che la riceverà personalmente e senza indugio dopo la consegna nello Stato di emissione del Mae e, quindi, sarà espressamente informato dei termini entro i quali potrà esercitare il diritto a un nuovo processo o la facoltà di dare inizio al giudizio di appello. Anche in questo caso è indispensabile che il giudizio d’appello preveda il diritto dell’imputato a partecipare e consenta "il riesame del merito della causa e l’allegazione di nuove prove che possono condurre alla riforma della decisione oggetto di esecuzione". Certamente la Corte d’appello competente sarà chiamata a una verifica puntuale degli ordinamenti processuali degli Stati emittenti, posto che neppure nel nostro ordinamento esistente un vero e proprio diritto dell’imputato alla rinnovazione del giudizio d’appello e all’acquisizione di nuove prove (articolo 603 del Cpp). Almeno che non si voglia intendere il termine "allegazione" come mera prospettazione o istanza al giudice di secondo grado. Contenuto del Mae nella procedura attiva di consegna - L’articolo 30, comma 1, della legge 69/2005 (titolato al "Contenuto del mandato d’arresto europeo nella procedura attiva di consegna"), è stato modificato inserendo dopo le parole "decisione quadro" le seguenti: "come modificato dall’articolo 2, paragrafo 3) della decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009"; questo comporta una sostituzione del modello di Mae richiamato dalla legge 22 aprile 2005, n. 69 con il nuovo modello che costituisce l’Allegato I al Dlgs 31/2016. Per intendersi è il modello che l’Autorità giudiziaria italiana adopera per emettere il Mae da eseguire in uno degli Stati membri dell’Unione. La modifica del Dlgs 161/2010 - Il Dlgs 31/2016 interviene, anche, sul testo del Dlgs 161/2010 che, come noto, contiene le disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/909/Gai relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. In questo caso, a essere interpolate, sono alcune disposizioni di quel decreto al fine di prendere espressamente in considerazione gli effetti della decisione quadro 200/299/Gai di cui si discute. La sostituzione del modello di certificato da allegare al Mae - Ragione per cui all’articolo 2, comma 1, lettera n) che individua le decisioni quadro cui il Dlgs 161/2010 fornisce attuazione dopo le parole "decisione quadro" (con riguardo alla decisione 2008/909/Gai) è aggiunto il richiamo alla modifica apportata dall’articolo 5, paragrafo 2) della decisione quadro 2009/299/Gai del Consiglio, del 26 febbraio 2009. Questo ha comportato anche la sostituzione del precedente modello di certificato da allegare al Mae con quello che costituisce il nuovo allegato II del Dlgs 31/2016. I nuovi motivi di rifiuto del riconoscimento - Inoltre, quanto all’articolo 13, comma 1, Dlgs 161/2010 (dedicato ai "Motivi di rifiuto del riconoscimento" della sentenza penale) l’originaria lettera i) prevedeva che la Corte di appello rifiutasse il riconoscimento della sentenza di condanna "se la sentenza di condanna è stata pronunciata in contumacia, a meno che il certificato indichi che la persona ha avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e ha volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione o opposizione". Il Dlgs 31/2016 ha sostituito tale previsione con quella: "i) se l’interessato non è comparso personalmente al processo terminato con la decisione da eseguire, a meno che il certificato attesti: 1) che, a tempo debito, è stato citato personalmente e, pertanto, informato della data e del luogo fissati per il processo o che ne è stato di fatto informato ufficialmente con altri mezzi, idonei a comprovare inequivocabilmente che ne era al corrente, nonché che è stato informato del fatto che una decisione poteva essere emessa in caso di mancata comparizione in giudizio; ovvero 2) che, essendo al corrente della data fissata per il processo, aveva conferito un mandato ad un difensore, di fiducia o d’ufficio, da cui in effetti è stato assistito in giudizio; ovvero 3) che, dopo aver ricevuto la notifica della decisione ed essere stato espressamente informato del diritto a un nuovo processo o ad un ricorso in appello con possibilità di parteciparvi per ottenere un riesame nel merito della imputazione, compresa l’assunzione di nuove prove, ha dichiarato espressamente di non opporsi alla decisione o non ha richiesto un nuovo processo o presentato ricorso in appello entro il termine a tal fine stabilito". In linea, come visto, con la prescrizione di cui all’articolo 2 in tema di Mae onde garantire una simmetria tra provvedimenti in itinere e sentenze definitive di condanna, intese - ai sensi dell’articolo 2 della lettera b) del Dlgs 161/2010 come "una decisione definitiva emessa da un organo giurisdizionale di uno Stato membro dell’Unione europea con la quale vengono applicate, anche congiuntamente, una pena o una misura di sicurezza nei confronti di una persona fisica". Verso uno standard condiviso della prova - Come si vede un passo in avanti significativo nel percorso "a ritroso" che il diritto dell’Unione sta operando nel processo penale. Partendo dalle sentenze definitive per arrivare alle decisioni provvisorie si uniformano gli standard di partecipazione dell’imputato al processo in modo da garantire che le decisioni in absentia non siano adottate in violazione di una conoscenze effettiva dell’interessato circa le accuse che gli vengono rivolte. Un passaggio importante che, inevitabilmente, dovrà indirizzarsi - al di là della retorica delle clausole di stile ("oltre ogni ragionevole dubbio" e simili) - verso uno standard condiviso delle prove e delle condizioni di utilizzabilità delle stesse. Un processo fondato su prove che, nello Stato richiesto, siano inutilizzabili, di scarsa efficacia argomentativa o inammissibili pone concreti problemi di esecutività della decisione, ben oltre le salvaguardie offerte dalla legge 69/2005 (articolo 2) o dal Dlgs 161/2010 (articolo 10). Depenalizzazione: sfuma la soluzione e il problema torna alle sezioni semplici di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Provvedimento 26 febbraio 2016. "Non sussiste alcun contrasto giurisprudenziale, prospettandosi solo che la stessa possa dare luogo a contrasti interpretativi": sono queste le motivazioni con le quali, con provvedimento del 26 febbraio 2016, il Primo Presidente della Suprema corte ha restituito il fascicolo al collegio della sezione V penale che con l’ordinanza 9-23 febbraio 2016 n. 7125aveva posto la questione al "vertice" sull’opportunità di un esame delle sezioni Unite (si veda "Il quotidiano del diritto" di lunedì 14 marzo). Un intervento delle sezioni Unite forse solo rinviato - Secondo il Presidente Giovanni Canzio per la sussistenza di un contrasto di indirizzi è richiesta "l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale di legittimità dal quale il collegio mostri di volere discostarsi non essendo dunque sufficiente la mera eventualità di futuri ipotetici contrasti". Tenuto conto della complessità dei dubbi prospettati dalla sezione rimettente (e, consequenzialmente, del probabile imminente insorgere di orientamenti diversi o in contraddizione), forse, l’intervento delle sezioni Unite è solo rinviato. Le prime decisioni sul tema - Frattanto, le sezioni semplici hanno iniziato a percorrere una delle strade interpretative segnalate. Si registra, infatti, un primo inedito precedente: si tratta della decisione depositata in data 15 marzo 2016 (udienza dell’8 marzo 2016) dalla sezione II penale. In un caso di danneggiamento ex articolo 635 del Cp, la Suprema corte ha affermato che, essendovi condanna al risarcimento del danno, il giudice dell’impugnazione nel dichiarare l’estinzione del reato, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, deve pronunciarsi sulle statuizioni civili nonostante che il decreto legislativo 7/2016, diversamente dal decreto legislativo 8/2016, non lo preveda espressamente. L’ordinanza di rimessione - Nel caso esaminato dalla ordinanza n. 7125 del 2016, la Suprema corte, come noto, si era trovata a dover affrontare l’impatto dell’abrogatio cum abolitio, introdotta per effetto del Dlgs n. 7 del 2016, sui processi pendenti aventi a oggetto fattispecie di reato "trasformate" in illecito civile. Aveva così affrontato il dubbio interpretativo circa il potere del giudice della impugnazione che dichiara l’intervenuta abolitio criminis - con riferimento a una delle fattispecie penali abrogate dall’articolo 1 del Dlgs 15 gennaio 2016 n. 7 - di decidere l’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni concernenti gli interessi civili. Le soluzioni prospettate - Il Collegio, dinanzi al cennato nodo ermeneutico, aveva prospettato almeno tre soluzioni: aderendo a un primo percorso interpretativo, potrebbe ritenersi che, per effetto della intervenuta abrogatio cum abolitio, debbano essere revocate le statuizioni civili adottate; da qui, però, la possibilità di profilare dubbi di legittimità costituzionale per disparità di trattamento (del danneggiato) rispetto alle scelte operate nel Dlgs 8/2016. Secondo un altro profilo esegetico, potrebbe ritenersi che, al giudice penale spetti la pronuncia sui capi civili e anche l’applicazione delle sanzioni civili, per i fatti precedenti all’entrata in vigore della novella sui quali non si sia già formato il giudicato penale. Al lume di un’ultima lettura, le statuizioni civili resterebbero insensibili alle vicende del capo penale in applicazione analogica dell’articolo 578 del Cppe della disposizione di cui all’articolo 9 del Dlgs 8/2016, poiché espressione di un principio generale. La scelta della soluzione corretta era stata, come noto, richiesta alla sezioni Unite, alla cui attenzione l’ordinanza n. 7125 aveva rimesso gli atti. Omicidio e lesioni: aggravante anche senza responsabilità per stalking di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 1 febbraio 2016 n. 4133. In tema di omicidio e lesioni personali volontarie, l’aggravante di cui all’articolo 576, comma 1, numero 5.1, del Cp -e cioè l’aver commesso il fatto da parte di chi sia l’autore del delitto di cui all’articolo 612-bis del Cpnei confronti della medesima persona offesa - è configurabile anche nel caso di improcedibilità di tale reato e può essere ritenuta dal giudice anche in assenza di previa condanna dell’imputato. Lo ha stabilito la Cassazione penale con la sentenza n. 4133 del 1 febbraio 2016. Le motivazioni del giudice - A supporto della decisione la Cassazione ha osservato che, se la legge avesse preteso, per ritenere sussistente l’aggravante, una precedente condanna del responsabile di omicidio o lesioni per il delitto di atti persecutori avrebbe usato le espressioni presenti nell’articolo 99 del Cp sulla recidiva("chiunque, dopo essere stato condannato per un delitto… ne commette un altro"); al contrario, in base all’articolo 576, comma 1, numero 5.1, del Cp, la responsabilità per il delitto di atti persecutori può essere accertata - in via diretta o anche solo incidentalmente, in caso di improcedibilità - dallo stesso giudice che deve applicare la predetta aggravante. Del resto, ha ulteriormente osservato il giudice di legittimità, proprio la formula utilizzata dalla norma per indicare il presupposto dell’aggravante (l’essere il colpevole di omicidio o lesioni "autore del delitto di cui all’articolo 612-bis del Cp") dimostra la volontà del legislatore di sganciare l’applicazione dell’aggravante dalla condanna per il delitto di atti persecutori: infatti, si può essere "autori" di un reato anche senza essere per esso processati o processabili. In tale evenienza, il giudice, chiamato a giudicare sulla possibile configurabilità dell’aggravante, in base al principio di cui all’articolo 2 del Cpp, dovrà risolvere incidentalmente la relativa "questione penale", così da giungere alla decisione sulla sussistenza dell’aggravante. In ogni caso, ha concluso la Corte, la tesi opposta, che volesse cioè far dipendere l’aggravante dall’affermazione della penale responsabilità per il reato di stalking, porterebbe a conseguenze inique, perché farebbe derivare conseguenze assai gravi in punto di pena dal comportamento della persona offesa sottoposta ad atti persecutori. Altri precedenti - In linea con la sentenza, in precedenza, sezione V, 12 aprile 2013, Pm in procedimento I., che ha ritenuto quindi ravvisabile l’aggravante di cui all’articolo 576, comma 1, numero 5.1, del Cp, anche se sia stata rimessa la querela per il delitto di cui all’articolo 612-bis del Cp. Lo stesso principio qui affermato dalla Cassazione, è stato del resto affermato con riferimento aggravante del nesso teleologico di cui all’articolo 61, numero 2, del Cp,ritenuta configurabile anche quando il reato-fine sia perseguibile a querela di parte e questa non sia stata presentata, essendo irrilevante l’applicazione di una causa di improcedibilità (sezione II, 19 giugno 2012, D’Alessio). È abuso d’ufficio la mancata astensione se c’è conflitto di interessi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 8 febbraio 2016 n. 4973. L’articolo 323 del Cp ha introdotto nel nostro ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che si trovi in una situazione di conflitto di interessi. Pertanto, l’inosservanza di tale dovere comporta, in presenza di tutti gli altri requisiti previsti dalla legge, l’integrazione del reato di abuso di ufficio, anche qualora faccia difetto, relativamente al procedimento nell’ambito del quale l’agente è chiamato a operare, una specifica disciplina dell’astensione o quest’ultima riguardi un numero più ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente e senza che sia nemmeno necessario individuare alcuna violazione di legge o di regolamento perché possa ritenersi sussistente l’elemento materiale del reato. Lo ha chiarito la Cassazione penale con la sentenza n. 4973 del 2016. I principi espressi dalla Corte - La Corte ha motivato le proprie conclusioni sul rilievo che presupposto indefettibile per l’esercizio di prerogative di natura pubblicistica è l’assoluta estraneità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio o dei suoi prossimi congiunti agli interessi coinvolti nella situazione sulla quale incide il potere. Nella specie, conseguentemente, il reato è stato ravvisato a carico di un tecnico della prevenzione dell’Unità funzionale prevenzione, igiene, sicurezza dei luoghi di lavoro di una Asl che aveva impartito al Direttore generale della stessa Azienda, al responsabile della unità da cui dipendeva e ad altro referente del presidio aziendale un foglio di prescrizioni, contestando la violazione di norme di rilievo penale, che riguardavano le proprie mansioni e attività, e trasmettendolo poi alla procura della Repubblica; così arrecando ai denunciati un ingiusto danno, essendo stato iniziato a loro carico un procedimento penale. Va ovviamente precisato che, ai fini dell’integrazione del reato di abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell’obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si aggiunga l’ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato (di recente sezione VI, 15 marzo 2013, De Martin Topranin e altri): ciò che nella fattispecie è stato ravvisato valorizzandosi gli esiti negativi derivati ai "denunciati" in conseguenza dell’iscrizione di procedimento penale a loro carico. Reati ambientali, sequestro preventivo di impianti dei rifiuti solo se c’è pericolo reale di Mauro Calabrese Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2016 Non sono sufficienti l’evidenza e l’incontestabilità della violazione penale in materia di gestione non autorizzata di rifiuti, anche aggravata da un effettivo danno ambientale, a legittimare il sequestro preventivo degli impianti interessati, richiedendo l’accertamento del pericolo di reiterazione del reato la presenza di requisiti di concretezza e attualità tali da rendere altamente probabile che i beni sequestrati possano aggravare le conseguenze del reato ambientale contestato o agevolare la commissione di altri reati, da valutarsi durante tutta la vigenza della misura cautelare. La sentenza - La terza sezione penale della Cassazione, con la sentenza 8 marzo 2016 n. 9461, ha confermato l’illegittimità del decreto di sequestro preventivo di un impianto di trattamento di rifiuti liquidi, adottato dal Giudice per le indagini preliminari di un Tribunale calabrese, nel procedimento che contesta ai responsabili della struttura il reato di gestione non autorizzata di rifiuti di cui all’articolo 256 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, aggravato, tra gli altri, dall’aver disatteso le prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale e dall’aver causato la distruzione o il deturpamento di bellezze naturali ai sensi dell’articolo 734 del codice penale. Confermando la pronuncia emessa dal Tribunale del riesame, il Collegio ha ritenuto adeguata la motivazione dell’annullamento del sequestro disposto in quanto, anche sulla scorta delle verifiche condotte dalle autorità di tutela ambientali relativamente alle criticità presenti nell’impianto e fonte dell’inquinamento prodotto, per effetto degli interventi e dei lavori realizzati, conformemente alle autorizzazioni del Gip, sono venute meno le ragioni di pericolo e di rischio di reiterazione dei reati o di aggravamento delle conseguenze, che avevano giustificato l’emissione del sequestro. Danno ambientale - Il procedimento penale instaurato e tuttora pendente, riconosce la Corte fondato su evidenze difficilmente confutabili, nei confronti dei responsabili della gestione dell’impianto, contesta la perdurante e sistematica violazione, nel corso degli anni, delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale rilasciata dalla Regione Calabria, trattando quantitativi di rifiuti liquidi superiori ai limiti di esercizio dell’impianto e senza attuare le dovute cautele per la perdita di percolato durante le operazioni, condotte che, puntualmente, avevano causato lo smaltimento notevole di rifiuti liquidi non pericolosi e non trattati in un vicino torrente, affluente del fiume Noce, quindi nel Mar Tirreno. La Procura - Nel proporre ricorso per cassazione, la Procura della Repubblica competente ha sostenuto che proprio l’evidenza inconfutabile delle condotte contestate, reiterate per anni, sarebbe decisiva non solo della presumibile colpevolezza degli imputati, ma bensì anche dell’attualità e concretezza del periculum in mora che giustifica l’adozione della misura cautelare del sequestro preventivo, dovendo presumersi la reiterazione del reato e l’aggravamento delle conseguenze dalla sola possibilità di ripresa delle attività di esercizio dell’impianto, specie in considerazione del danno ambientale provocato sul territorio fluviale, costiero e marino dallo scarico incontrollato. Periculum in mora - Al contrario, gli Ermellini, senza necessità di delibare la questione della presumibile fondatezza delle accuse, ritengono di dover confermare l’annullamento della misura cautelare in ragione dell’insussistenza delle esigenze cautelari, riconoscendo l’adeguatezza degli interventi e delle modifiche realizzate sull’impianto, con l’installazione di appositi campionatori dei liquami per il monitoraggio e il controllo, oltre alla sostituzione delle tubazioni volanti con altre fisse, ispezionabili in caso di guasto, seguendo le prescrizioni impartite proprio dal Gip e volte a prevenire possibili violazioni dell’Aia, nonché il rischio di sversamenti accidentali. Conclusioni - Pertanto, conclude la sentenza in oggetto, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso e confermata la motivazione adottata dal Tribunale cautelare, che ha escluso la concretezza e l’attualità del pericolo, in quanto basato su ipotetiche ed eventuali ripetizioni della condotta criminosa, poiché in tema di sequestro preventivo, il periculum in mora "deve presentare i requisiti della concretezza e attualità, da valutare in riferimento alla situazione esistente non soltanto al momento dell’adozione della misura cautelare reale ma anche durante la sua vigenza, di modo che possa ritenersi quanto meno probabile che il bene assuma carattere strumentale rispetto all’aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato ipotizzato o all’agevolazione della commissione di altri reati". Vittime di mafia: è uno sbaglio delegittimare lo Stato di Valeria Valente (Parlamentare Pd) Il Mattino, 21 marzo 2016 Ho letto le dichiarazioni di Luigi Di Maio nel giorno del ricordo di Don Peppe Diana. Ho pensato a lungo prima di scrivere, non voglio alimentare altre polemiche: stiamo parlando di dolori che sono innanzitutto privati, delle lacrime inesauribili delle tante persone che hanno intrecciato la propria vita con quelle tante vite spezzate da una follia assassina che nega le ragioni stesse dell’essere umani. Giusto o sbagliato che sia l’allarme lanciato dall’onorevole Di Maio sul blocco dei fondi a beneficio delle vittime di mafia, non si può usare il sangue delle vittime innocenti di criminalità per fare demagogia. Non esistono scorciatoie, dobbiamo essere seri e rigorosi, tutti. Per parte mia, da parlamentare ho lavorato concretamente per sanare la pericolosa ed ingiusta contrapposizione tra vittime di criminalità organizzata e vittime di criminalità comune, presentando una proposta di legge in tal senso, finalizzata all’equiparazione giuridica tra le vittime di tutti i reati intenzionali violenti. Occorre conquistare su questo tema un orizzonte giuridico pienamente europeo; in quest’ottica, insieme al Governo continueremo a lavorare per affermare sempre di più i diritti dei familiari delle vittime e per sostenere il lavoro prezioso degli avvocati nel contrasto al racket e all’usura. Continueremo a farlo perché crediamo davvero che la tutela delle nostre vittime sia un dovere e un valore. La lettera lasciata dal parlamentare del M5S sulla tomba di Don Peppino Diana nel giorno del 22° anniversario della sua uccisione attecchisce sull’emotività delle vittime in misura chiaramente strumentale e demagogica. Ma sarebbe opportuno, prima ancora di cedere alla facile retorica che lo stesso Di Maio stigmatizza e di cui poi diventa vittima, valorizzare quanto di buono viene realizzato nell’ambito del contrasto alla criminalità, sia attraverso azioni concrete che attraverso atti di grande impatto simbolico. Ieri l’Aula del Consiglio Regionale della Campania, in cui si decide il futuro dei cittadini del nostro territorio, è stata intitolata a Giancarlo Siani. È stata tracciata in Campania una strada importante, che auspichiamo venga seguita da altre istituzioni e che dimostra quanto sia necessaria la convergenza di tutte le forze politiche sul tema del contrasto alla mafia. Nel 22° anniversario dell’uccisione di don Peppe Diana, faccio mio il suo testamento spirituale: "Per amore del mio popolo non tacerò", voglio guardare al futuro con gli occhi di Don Peppe per amore del mio popolo, non del facile populismo e della campagna elettorale. L’occasione della memoria del sacrificio di Don Diana serve a ricordare gli innegabili passi avanti compiuti nella lotta alla camorra negli ultimi decenni, sia sul versante istituzionale che sociale. Lo scorso 7 marzo ricorreva il ventennale dell’approvazione della Legge 109 per il riuso dei beni confiscati, grazie alla quale sono nate tante belle esperienze di riscatto sociale e sono stati restituiti alla collettività tanti patrimoni sottratti ai clan, spesso attraverso il reinserimento nel tessuto socio - lavorativo di persone affette da disabilità. Questa non è retorica, siamo di fronte a dati di fatto; oggi si celebra in tutte le piazze d’Italia la XXI Giornata della Memoria e dell’Impegno, un’iniziativa che si radica sempre di più nei singoli territori per costruire ponti di memoria e di impegno. Non possiamo altresì dimenticare il fondamentale lavoro repressivo svolto da Magistratura e Forze dell’Ordine, che ha portato nel corso degli anni all’arresto di quasi tutti i capi storici della malavita organizzata e ad ingenti sequestri di beni. Certo, occorre fare ancora tanto per dare il colpo definitivo alle mafie. Occorre innanzitutto investire in prevenzione, e qui si innesta la Legge sui 1.000 giorni, che abbiamo promosso con il mondo dei pediatri ed è destinata a garantire migliori prospettiva di crescita per i nostri bambini. Occorrono più asili nido, più scuole per i nostri ragazzi, soprattutto nei quartieri a rischio di reclutamento mafioso. Servono tante altre azioni, è una battaglia durissima; sicuramente non serve, delegittimare lo Stato, non aiuta sparare sulle Istituzioni democratiche: questo può servire a prendere qualche voto in più non certo a sconfiggere la camorra. Calabria: una Pasqua di visite ai penitenziari per i Radicali Quintieri e Moretti cn24tv.it, 21 marzo 2016 Anche quest’anno, durante la vigilia di Pasqua, una delegazione dei Radicali Italiani e della Camera Penale di Paola (aderente all’Unione delle Camere Penali Italiane), si recherà in visita alla Casa Circondariale di Paola, nel cosentino, per verificare che le condizioni di vita ed il trattamento dei detenuti e la conduzione dell’Istituto siano conformi ai principi sanciti dalla Costituzione e dalla Legge Penitenziaria. La delegazione, autorizzata dal Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione del Ministero della Giustizia, Massimo De Pascalis - su richiesta del Senatore della Repubblica Francesco Molinari - sarà guidata da Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani, accompagnato da Valentina Anna Moretti, esponente dello stesso partito, dall’avvocato Sabrina Mannarino, Tesoriere della Camera Penale locale e dagli avvocati Carmine Curatolo e Salvatore Carnevale, del Foro di Paola. Nella Casa Circondariale gestita da Caterina Arrotta, secondo gli ultimi dati diffusi nelle scorse settimane dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, vi sarebbero ristretti 178 detenuti, 46 dei quali stranieri, tutti appartenenti al Circuito della Media Sicurezza, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti detentivi. Lo scorso anno, invece, durante la vigilia di Pasqua, nel corso di una ispezione fatta dai Parlamentari Enza Bruno Bossio (del Pd) e Francesco Molinari (Misto), accompagnati da Quintieri e Mannarino, erano presenti 194 persone detenute (12 in esubero), e 34 delle quali straniere. I Radicali ed i Penalisti faranno ingresso nello stabilimento penitenziario intorno alle 15 e visiteranno con attenzione tutti i reparti, compreso quello di Isolamento nonché il Padiglione adibito a custodia attenuata in cui vi sono allocati detenuti a basso indice di pericolosità e con fine pena a breve termine. La delegazione sarà accompagnata dal personale del Reparto di Polizia Penitenziaria diretto dal Comandante Maria Molinaro. Il giorno seguente, domenica di Pasqua, alla stessa ora, gli esponenti radicali entreranno nella Casa Circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza, Istituto eccellentemente guidato dal Direttore Filiberto Benevento. Anche in questa circostanza, i rappresentanti saranno accompagnati dagli uomini del Vice Commissario Davide Pietro Romano, Comandante di Reparto di Cosenza. Nel Carcere del capoluogo, a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti, sono ospitate 209 persone, 25 delle quali di nazionalità straniera, appartenenti ai Circuiti Penitenziaria dell’Alta e della Media Sicurezza. Ulteriori visite saranno effettuate nei giorni successivi ed allo stesso orario negli altri Istituti della Calabria e, più precisamente, martedì 29 alla "Ugo Caridi" di Catanzaro, giovedì 31 a Rossano e sabato 2 aprile alla "Rosetta Sisca" di Castrovillari. Faranno parte della delegazione anche Shyama Soodevi Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus e Mediatrice Culturale volontaria alla Casa Circondariale di Paola e Marco Calabretta, Laureando in Giurisprudenza all’Università della Calabria. Catanzaro: Dieni (M5S) "consentire alla famiglia di assistere detenuto malato terminale" newz.it, 21 marzo 2016 "Aggiungo la mia voce all’appello di Yairaiha Onlus affinché le autorità competenti permettano ai familiari di Antonio, detenuto e paziente terminale, di stargli accanto nelle ultime ore di vita". Con queste parole la parlamentare del Movimento 5 Stelle reggino Federica Dieni esprime il proprio appoggio alla denuncia dell’associazione che lotta per i diritti dei detenuti e che sta denunciando casi di malasanità relativi al carcere di Siano. "Condivido la preoccupazione dei volontari - continua la deputata - circa alcuni episodi denunciati che sembrano confermare la violazione del diritto alla salute nei confronti della popolazione carceraria. Non è ammissibile che per coloro che stanno scontando la propria pena, pagando il proprio debito nei confronti della società, si cumuli alla prigionia l’indifferenza che, come nel caso denunciato, rischia di trasformarsi in una condanna a morte. Invito coloro che possono prendere questa decisione, a piegarsi almeno ad un gesto di pietà, riconoscendo la possibilità ad un paziente terminale di non morire da detenuto, lontano dalla famiglia. Per quanto possa essere grave il suo crimine, una tale pena va oltre il concetto stesso di umanità." Napoli: attori in carcere con la rassegna cinematografica promossa da Arci Movie napolipost.com, 21 marzo 2016 I detenuti del carcere di Secondigliano incontreranno, lunedì 21 marzo alle ore 15, il regista, sceneggiatore e saggista Roberto Faenza a coronamento di un percorso laboratoriale incentrato sui film del maestro torinese. L’incontro si inserisce all’interno della rassegna di cinema che Arci Movie sta curando nell’ambito dell’iniziativa "Napoli Dentro & Fuori": una rassegna di incontri e laboratori (cinematografici, letterari e filosofici) promossa nei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano dalla Fondazione Premio Napoli in collaborazione con il portale Napoli Click, progetto editoriale del gruppo di imprese sociali Gesco. Grande partecipazione dei detenuti ai laboratori, studiando sceneggiature, personaggi, tema e soggetto. "Anita B", "Sostiene Pereira" e "Alla luce del sole" sono i tre lungometraggi visionati dai detenuti di Secondigliano: tre film tratti da altrettanti romanzi che affrontano temi molto diversi tra loro: dalle drammatiche esperienze nei campi di concentramento alle violenze del regime salazarista sino alla tragedia delle mafie. Grazie a schede informative, i detenuti hanno potuto studiare i singoli film nel dettaglio: personaggi, situazioni, sceneggiatura, tema e soggetto prima di incontrare Faenza. "La partecipazione, circa un centinaio di detenuti, è sempre stata attenta, nel corso degli appuntamenti le osservazioni, le domande, le curiosità ci hanno sorpresi, il dibattito a volte si è fatto emozionante e coinvolgente" racconta Imma Colonna presidente del consiglio direttivo di Arci Movie. Dopo Secondigliano, la rassegna cinematografica promossa da Arci Movie si sposterà a Poggioreale con la proiezione dei film di Stefano Incerti. Napoli Dentro e Fuori: il progetto Un laboratorio permanente di attività con l’obiettivo di mettere in contatto la Napoli di fuori con la Napoli di dentro in un dialogo costruttivo e di crescita reciproca. È questa l’idea lanciata dalla Fondazione Premio Napoli in collaborazione con il portale NapoliClick. Un laboratorio sperimentale collettivo aperto che rappresenta un’innovazione nel sistema penitenziario e che vuole mostrare la sensibilità non solo di chi offre i propri servizi e le proprie competenze ma anche degli istituti che a loro volta promuovono buone prassi volte all’integrazione con il territorio e con tutta la comunità civile. "L’arte è una cosa che si dona - conclude Gabriele Frasca, presidente della Fondazione Premio Napoli - siamo dunque contenti di fare questo dono alla città di Napoli ma non per questo possiamo mancare la necessità di sottolineare l’urgenza d’intervento da parte delle istituzioni comunali e regionali per far sì che questa iniziativa vada avanti. La sfida è trasformare queste attività in permanenti e di essere affiancati da qualcuno che le renda programmazione consueta all’interno dei penitenziari". Padova: "Una storia che sa di buono", incontro con i detenuti della Pasticceria Giotto padovando.com, 21 marzo 2016 Incontro con alcuni detenuti della Pasticceria Giotto e i rappresentanti della parrocchia del carcere che racconteranno attraverso testimonianza diretta, video e infine degustazione. La tavola è uno dei luoghi attorno a cui ruota la vita in tutte le sue sfaccettature e dinamiche: quotidianità familiare, lavoro, religione, incontri personali, feste e anniversari. A tavola, grazie alla condivisione del cibo, ci si incontra, ci si conosce e riconosce, ci si relaziona. Ce lo ricorda, in questo periodo, l’ottava rassegna internazionale di illustrazione "A tavola! I colori del Sacro", fino al 26 giugno al Museo diocesano di Padova. Ma la tavola è anche molto altro. A rammentarci anche la dimensione profondamente solidale e rigenerativa che può avere il preparare il cibo per altre persone, arriva l’appuntamento "Una storia che sa di buono". In sala Barbarigo si terrà un incontro con alcuni detenuti della Pasticceria Giotto e i rappresentanti della parrocchia del carcere che racconteranno attraverso testimonianza diretta, video e infine degustazione, come un lavoro - in questo caso realizzare dolciumi, colombe e panettoni ? può offrire a un detenuto un’occasione per ricominciare. Ogni giorno tre maestri pasticceri entrano nel carcere Due Palazzi di Padova per trasmettere a un gruppo di detenuti un’arte ma soprattutto per far riscoprire a persone che hanno sbagliato un modo diverso di vivere. È un metodo che comincia dalla scelta accurata delle materie prime, continua attraverso la lavorazione manuale, la cura nelle ricette di ogni minimo dettaglio. La serata vedrà l’introduzione e i saluti di Andrea Nante, direttore del Museo diocesano di Padova e Matteo Marchetto, presidente della cooperativa sociale Work Crossing. Quindi la parola passerà a don Marco Pozza, cappellano della Casa di reclusione Due Palazzi; Matteo Florean, responsabile Pasticceria Giotto dal Carcere di Padova e ai detenuti pasticceri. I profughi e l’europiano incerto, con il terrorismo che avanza di Marco Zatterin La Stampa, 21 marzo 2016 Si parla ancora di rifugiati, purtroppo. L’accordo chiuso venerdì dai leader dell’Unione europea con la Turchia doveva cominciare ad essere operativo da ieri, ma è chiaro che non era e non è stato possibile. Ci vorrà tempo per far arrivare i quattromila funzionari necessari per garantire i diritti di chi attraversa l’Egeo in cerca di speranza, il che rappresenta solo l’inizio della storia. Intanto gli sbarchi continuano copiosi, nonostante l’intesa, complessa al punto da poter fallire per troppe ragioni diverse. Occorre impegno e serietà globale. Lo sforzo deve essere collettivo. Ci prova anche l’Alto rappresentante per la Politica europea, Federica Mogherini, oggi in missione in Libano. Terra d’accoglienza da cui dovremmo prendere l’esempio. Dall’attuazione del patto del 18 marzo dipende il futuro dell’area Schengen. Nessuno ne parla, ma fra due mesi si dovrà verificare la tenuta della frontiera esterna per poter assicurare la riapertura di quelle interne, a partire da Germania e Austria. La chiusura della rotta balcanica dovrebbe essere un passo in questa dirizione. Il pericolo che si aprano altre strade resta però concreto. Se ne parlerà nel pomeriggio in Commissione Libertà Civili al parlamento europeo. Oggi ci si aspetta anche la pubblicazione delle nuove proposte europee per i nuovi capitoli da includere nelle negoziazioni sul Ttip e riguardanti cooperazione e buone pratiche regolamentari. Il tempo stringe. Se si chiude l’amministrazione Obama senza un’intesa commerciale fra Usa e Ue, è chiaro che si andrà alle calende greche. Il rischio è che Washington possa scegliere di anticipare i legami asiatici lasciando fuori l’Europa. Due ex premier italiani a Bruxelles. Oggi il commissario europeo Marianne Thyssen riceve il presidente del gruppo internazionale sulle risorse dell’Unione europea Mario Monti. Il responsabile per l’economia Pierre Moscovici incontra riceve Enrico Letta. Nella capitale europea continuano ad avere una maggioranza. A Bruxelles code dell’arresto di Salah Abdeslam, che potrebbe essere ascoltato di nuovo in giornata. A Parigi, il presidente francese Francois Hollande incontra i parenti delle vittime degli attentati di novembre, consapevole che la minaccia non è finita. In missione per conto dell’euro. Il vicepresidente della Bce, Vitor Costancio, è a Londra a tener buoni i mercati britannici davanti al rischio di una Brexit. In bocca al lupo. Il Papa: "a tanti non interessa il destino dei profughi" Avvenire, 21 marzo 2016 Gesù fu a suo tempo vittima "dell’indifferenza" che oggi colpisce i emarginati e profughi nel mondo: quella di coloro "che non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino". Così Francesco all’omelia della Messa per la Domenica delle Palme. La liturgia solenne è stata aperta dalla processione e dalla benedizione papale delle palme e degli ulivi e conclusa dal lungo giro di saluto di Francesco tra la folla. La condizione di uomo, Lui che era Dio. Poi una vita da servo, Lui che era Re. E poi sempre più giù, lungo la scala di una spogliazione che nelle ultime ore di vita diventa atroce: venduto, tradito, falsamente accusato, insultato, frustato, preferito a un omicida, inchiodato sulla croce, marchiato con l’infamia da una esecuzione riservata alla feccia della società, Lui che dell’umanità era la redenzione. Dopo aver preso parte alla consueta processione verso l’obelisco di Piazza San Pietro e aver benedetto le palme e gli ulivi alzati dalla folla, all’omelia della Messa che apre la Settimana Santa Papa Francesco elenca quasi con puntiglio ciò che la lettura del Passio ha appena rievocato nel silenzio delle circa 70 mila persone presenti: "l’abisso" dell’umiliazione patita da Gesù che, afferma, "sembra non avere fondo". È il "mistero dell’annientamento", dice, il quale tuttavia inizia senza lasciare presagire ciò che sarà, con gli osanna della folla lanciati al Maestro mite che entra a Gerusalemme cavalcando un asino: "Sì, come è entrato a Gerusalemme, Egli desidera entrare nelle nostre città e nelle nostre vite (...) Niente poté fermare l’entusiasmo per l’ingresso di Gesù; niente ci impedisca di trovare in Lui la fonte della nostra gioia, la gioia vera, che rimane e dà la pace; perché solo Gesù ci salva dai lacci del peccato, della morte, della paura e della tristezza". Ma la Settimana Santa è una discesa verso l’annullamento. Il Figlio di Dio che "svuotò sé stesso" per farsi "Figlio dell’uomo" - il "senza peccato" in "tutto solidale con noi peccatori" - sceglie, sottolinea Francesco, di lavare i piedi ai discepoli. Gesto da schiavo ma segno di quell’amore "sino alla fine": "Ci ha mostrato con l’esempio che noi abbiamo bisogno di essere raggiunti dal suo amore, che si china su di noi; non possiamo farne a meno, non possiamo amare senza farci prima amare da Lui, senza sperimentare la sua sorprendente tenerezza e senza accettare che l’amore vero consiste nel servizio concreto". Dal Cenacolo in poi le ore si fanno convulse. Gesù, ricorda Francesco, è "umiliato nell’animo" con scherni e sputi e straziato nel corpo con violenza feroce, fino alla "condanna iniqua" da parte di autorità che hanno altri interessi che fare realmente giustizia. Una situazione che il Papa rivede in uno dei più grandi drammi di oggi: "Gesù prova sulla sua pelle anche l’indifferenza, perché nessuno vuole assumersi la responsabilità del suo destino. E penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati dei quali tanti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino". E c’è ancora il gradino più basso. Appeso al patibolo, oltre alla derisione, Gesù "sperimenta il misterioso abbandono del Padre", al quale però Lui stesso si abbandona con fiducia totale, senza mai smettere di amare né chi gli è vicino, né chi lo ha messo a morte: "Gesù (…) all’apice dell’annientamento, rivela il volto vero di Dio, che è misericordia. Perdona i suoi crocifissori, apre le porte del paradiso al ladrone pentito e tocca il cuore del centurione. Se è abissale il mistero del male, infinita è la realtà dell’Amore che lo ha attraversato, giungendo fino al sepolcro e agli inferi, assumendo tutto il nostro dolore per redimerlo, portando luce nelle tenebre, vita nella morte, amore nell’odio". "Può sembrarci tanto distante il modo di agire di Dio, che si è annientato per noi, mentre a noi - conclude Francesco - pare difficile persino dimenticarci un poco di noi" stessi: "Siamo chiamati a scegliere la sua via: la via del servizio, del dono, della dimenticanza di sé. Possiamo incamminarci su questa via soffermandoci in questi giorni a guardare il Crocifisso, è la ‘cattedra di Diò. Vi invito in questa settimana a guardare spesso questa cattedra di Dio per imparare l’amore umile, che salva e dà la vita, per rinunciare all’egoismo, alla ricerca del potere e della fama". Torna di moda l’eroina, la sniffano i minorenni Il Tempo, 21 marzo 2016 Roma. Minori e tossici. Hanno dai 13 ai 18 anni e sono soprattutto studenti. Comprano droga dagli spacciatori che gironzolano attorno alle stazioni della metro quando i giovani vanno o tornano da scuola. L’altro ieri alla fermata Ottavia (zona nord della città) gli agenti del Commissariato Borgo hanno arrestato uno dei pusher che sembra faccia grandi affari. È l’africano Lamin Ceesay, alto due metri, nato 25 anni fa nel Gambia e residente a Castelnuovo di Porto, stessa cittadella alle porte di Roma dove si trova il Centro immigrati richiedenti asilo politico e dove risulta che in passato anche lui abbia fatto domanda ma non sia stata accolta. Da tempo i poliziotti sapevano di un tizio che spacciava davanti alla metropolitana. Quando si sono avvicinati per controllarlo Lamin se ne è accorto e ha inghiottito in fretta una palletta di stupefacente, finendo in ospedale. Stando agli investigatori, l’involucro potrebbe contenere in maggioranza eroina. Un sospetto che sarà presto risolto, ma che gli agenti credono fondato. L’africano con sé non aveva documenti d’identità ma solo banconote per un valore di 300 euro. Tutte di piccolo taglio. Motivo che fa supporre i poliziotti della squadra investigativa che i suoi clienti fossero proprio dei minori, che non disponevano di grosse cifre ma dei soldi necessari all’acquisto. Infatti più della cocaina, l’eroina consente cessioni a poco prezzo. Una dose di 0,5 grammi costa 30 euro, e di 0,2 la metà. Quindi è tornata di buon mercato, specie tra le fasce basse (di età) dei tossici. Costa poco e si assume facilmente. Non tanto iniettandosela in vena, come si faceva negli anni 70. Ma pippandola o fumandola nello stessa carta argentea in cui viene venduta. Qualche dato. Secondo la relazione sulle dipendenze da droga inviata al Parlamento nel settembre 2015, il sequestro di cocaina ha subito un decremento del 21,90% e l’eroina un incremento del 5,30%. E il Lazio è al secondo posto della classifica (prima la Lombardia) per numero di sequestri eseguiti dalle forze dell’ordine: 2.479. Caos Libia, corsa contro il tempo per formare il governo. Ma la strada resta in salita di Guido Ruotolo La Stampa, 21 marzo 2016 A Bengasi scendono in piazza i simpatizzanti del generale Khalifa Haftar chiedendo che l’uomo dei francesi (ed egiziani) formi un Consiglio militare per guidare la Libia. A Tripoli, si registrano i primi scontri tra il "Fronte Samud" e le milizie favorevoli al governo Sarraj. A guidare la resistenza all’insediamento del Consiglio Presidenziale di Sayez al Sarraj a Tripoli è un cartello di milizie guidato dal misuratino Saleh Badhi, lo stesso comandante militare che espugnò l’aeroporto di Tripoli affidato alle milizie di Zintan. Sono i primi segnali di una guerra civile alle porte, come se da cinque anni in Libia regnasse la pace. Giornate decisive, quelle che ci aspettano. La comunità internazionale sostiene la legittimità di un governo, quello Sarraj, che non ha avuto (ancora) la legittimazione del Parlamento di Tobruk. La legittimazione che non passa attraverso il voto del Parlamento non è pienamente condivisa per esempio dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che vorrebbe che il Parlamento si pronunciasse. "Servono politiche inclusive - chiede il senatore Nicola Latorre - soprattutto quando si affronta la crisi libica. Serve un governo autorevole e legittimato: occorre cercare attraverso il dialogo la più ampia convergenza". Dall’osservatorio libico, il bicchiere mezzo vuoto è una somma di interrogativi inquietanti che porta a una conclusione: tutto va nella direzione della divisioni della Libia in tre aree: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Chi c’è dietro questo disegno? Sono solo forze interne libiche o giocano un ruolo decisivo le potenze mondiali? Spingono i francesi perché la Ue sanzioni il presidente del Parlamento di Tobruk Saleh Aghila ma anche il presidente del Congresso nazionale e il premier di Tripoli, Khalifa al Ghwell, che ancora in questi giorni ha avvertito Sarraj: "Se Al Sarraj vuole entrare a Tripoli come cittadino libico è benvenuto. Se vuole venire come presidente del governo, lo arrestiamo". In queste ore Sarraj ha ribadito che arriverà a Tripoli nei prossimi giorni. Entro venerdì, quando scadono i quindici giorni fissati dal delegato Onu Martin Kobler che, in caso negativo, dovrà convocare il Comitato del dialogo. Se non fosse la Libia, si dovrebbe registrare positivamente il successo che è riuscito a conquistare Sarraj. Se non la maggioranza reale del Paese sicuramente una significativa quota. Ma chi è contrario, non subirà passivamente l’insediamento del governo sostenuto dalla coalizione internazionale a Tripoli. A Misurata, centro fondamentale per disegnare qualsiasi scenario futuro della Libia, il Consiglio comunale, quello militare e infine il Consiglio dei saggi hanno deciso di costituire un coordinamento per prendere qualunque decisione. Salvo, il Consiglio comunale, prendere posizione a favore di Sarraj con il risultato di avere reazioni piccate del comandante del Consiglio militare, il colonnello Ibrahim Omar Ben Rajab, e del Consiglio dei saggi. Insomma, tutti contro tutti. E in questo clima il governo dovrebbe insediarsi a Tripoli. Città stremata anche dagli effetti della crisi. Da quattro mesi senza stipendi o sussidi, con le banche in crisi di liquidità, una guerriglia urbana tra i sostenitori e gli oppositori del governo Sarraj, quali ripercussioni potrà avere sulla capitale della Libia?