I valori di Papa Francesco e il socialismo dell’Europa unificata di Eugenio Scalfari La Repubblica, 20 marzo 2016 Parlare di problemi è ormai un esercizio quotidiano. Necessario come notizie e analisi delle medesime. I media, giornali, televisioni, rete Internet, adempiono egregiamente a questo scopo e appagano un bisogno vivamente sentito da tutte le persone consapevoli, quale che sia la nazione in cui vivono, il loro linguaggio e la loro condizione sociale. Le persone consapevoli però non sono la maggioranza. La maggioranza è indifferente, si occupa di se stessa, del suo presente e del suo futuro prossimo. Le notizie che la riguardano direttamente interessano, ma tutte le altre no. I problemi generali sono dunque seguiti da una minoranza e il sistema mediatico cerca appunto di soddisfare questa loro curiosità. Perciò non parlerò di problemi ma piuttosto di personaggi, quelli che oggi contano di più per un europeo e italiano, per noi che viviamo e apparteniamo alla civiltà occidentale, per noi cittadini del mondo in una società sempre più globale che ormai riguarda l’intero pianeta. I personaggi più attuali in questo momento di passaggio sono Mario Draghi e l’Europa, Angela Merkel e l’Europa, Matteo Renzi e Italia ed Europa, Papa Francesco e il mondo. Questi, ciascuno con il suo peso specifico, giocano una partita molto importante e, almeno per alcuni, decisiva sulla sorte dei valori dei quali sono o dovrebbero essere portatori. Forse i lettori si stupiranno perché in questo mio elenco c’è Renzi il cui peso specifico non è paragonabile a quello degli altri ed anche perché non c’è il nome di Barack Obama. La spiegazione è semplice: il peso di Obama diminuisce di giorno in giorno man mano che si avvicina il prossimo novembre che segna la sua uscita dal ruolo di presidente degli Stati Uniti d’America. Quanto a Renzi, nell’elenco c’è perché rappresenta l’Italia ed io scrivo da europeo italiano. Fornite queste spiegazioni vediamo come i personaggi sopra indicati stanno giocando la loro partita. Mario Draghi e la Banca centrale europea da lui guidata - Il 10 marzo scorso la Bce adottò una serie di provvedimenti riguardanti la politica economica dell’eurozona, con ripercussioni in tutti i Paesi dell’Unione europea ed anche, sia pure alla lontana, le economie del mondo intero nei limiti di una Banca centrale che incide direttamente sui 19 Paesi la cui popolazione è a dir poco di 300 milioni di persone. Ho detto che i provvedimenti presi da Draghi incidono sulla politica economica dell’eurozona. Mi si potrebbe obiettare che si tratta di politica monetaria. Questa è certamente la loro forma, ma è una politica monetaria pensata in funzione delle ripercussioni sulla produttività, sulle banche, sugli investimenti, sul commercio con l’estero, sul prodotto interno lordo, sui consumi, sull’occupazione e quindi sulla politica economica dell’intera Europa. Dopo le indicazioni dei provvedimenti che entreranno in vigore tra pochi giorni, lo stesso Draghi ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori hanno dichiarato che i provvedimenti annunciati sono soltanto una prima tranche di interventi; altri ne seguiranno, soprattutto sull’Unione bancaria che dev’essere assolutamente realizzata e che non mancherà d’influire sulla politica del credito e sulle garanzie dei depositi bancari. È previsto l’acquisto diretto della Bce di titoli emessi da imprese pubbliche e private. E infine (sia pure come estrema ipotesi che ci si augura non necessaria) un finanziamento diretto ai cittadini provvisti di redditi insufficienti a sostenere la loro domanda di beni e servizi indispensabili. Ho scritto domenica scorsa che Draghi, con l’insieme di questi interventi in parte già decisi e in parte preannunciati, ha assunto di fatto quel ruolo di ministro delle Finanze dell’eurozona del quale lui stesso aveva chiesto la nomination ma che poi aveva trovato ferma opposizione da parte della Germania. Ebbene, la soluzione di questo dilemma è in gran parte risolta: quel ministro avrebbe dovuto fare ciò che Draghi sta facendo e farà, pur restando nei limiti del suo mandato statutario, quel mandato prevede due punti base: stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, mantenimento d’un tasso d’inflazione appena al di sotto del 2 per cento. Se adeguatamente interpretati, questi due obiettivi statutari offrono un amplissimo terreno sul quale la Bce gioca la sua partita. Draghi, con l’appoggio e la collaborazione di tutto il Consiglio direttivo della Banca salvo due sole eccezioni dei rappresentanti della Bundesbank, la partita la sta giocando con una finalità esplicita ed una implicita. Quella esplicita è una politica di crescita economica; quella implicita (della quale forse Draghi non è neppure consapevole) è l’inizio concreto d’un rafforzamento dell’Unione europea con finalità d’arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Percorso lungo e molto accidentato, ma inevitabile in una società globale dove gli Stati con dimensioni continentali sono i soli che determinano la politica multipolare dell’intero pianeta. Se gli Stati nazionali europei non capiranno la necessità di federare il nostro continente, essi non avranno voce alcuna nel mondo globale e saranno popoli subalterni e privi di futuro. La Bce può avviare e (lo sappia o non lo sappia) sta avviando questo percorso, ma il salto politico e l’acquisizione della consapevolezza spettano alla Merkel che guida il Paese obiettivamente egemone dell’Europa. È lei che deve decidere se condividere oppure no la creazione dello Stato federale. La Merkel è perfettamente consapevole del problema europeo e del dilemma che esso le pone. Ricordo ancora una volta Abramo Lincoln e la guerra di secessione americana che oppose nordisti e sudisti fino alla vittoria dei primi al prezzo di 600mila morti. Lincoln fu ucciso poche settimane dopo la fine della guerra che portò all’abolizione della schiavitù e all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Oltre a questi due risultati, il messaggio finale di Lincoln fu che gli Stati del Nord, vittoriosi, dovevano dedicare le loro risorse per sollevare gli Stati del Sud dallo stato di miseria in cui buona parte di loro si trovava, di modo che il benessere e l’etica pubblica tendessero ad esser conformi in tutto quel continente che era l’America del Nord. Questo fu il suo lascito e questo è il compito che incombe ora sulla Merkel, Cancelliera della Germania. È a lei che tocca la scelta perché è lei che guida la potenza egemone. Ma in un regime di democrazia, la Merkel ha bisogno del supporto pieno dei cittadini del suo Paese, i quali sono attualmente percorsi da fremiti di populismo che ne porta alcuni addirittura a ridosso d’un nazismo di nuovo conio ma di notevole pericolosità se dovesse espandersi ulteriormente. Perciò la Merkel attende l’appuntamento elettorale che avrà luogo tra pochi mesi. Poi, sperando che la tabe populista non si espanda e non degeneri nel peggio dovrà scegliere: se affiancare politicamente la politica economica della Bce oppure no. Noi, italiani europeisti, ci auguriamo che la Germania si ponga alla testa del corteo. Qui spunta il ruolo di Renzi. L’ha assunto da poco; prima era in tutt’altre faccende affaccendato, soprattutto quella di trasformare la sua presidenza del Consiglio in un Cancellierato italiano. È democratico il Cancellierato? Può esserlo, ma soltanto se ci sono dei contropoteri che abbiano il compito di assicurare il valore della libertà e quello dell’eguaglianza. E quindi un potere di controllo del Parlamento e soprattutto della magistratura e di una Corte costituzionale che tuteli diritti e doveri. La premiership inglese è un Cancellierato democratico, la presidenza francese è un potere esecutivo democratico, il Cancelliere tedesco anche, ma non sempre lo è stato: Hitler fu Cancelliere all’inizio del suo percorso dittatoriale ed anche a suo tempo Bismarck fu un Cancelliere piuttosto autoritario. L’Italia non ha tradizioni di quel genere, ma la tendenza del popolo italiano ad innamorarsi di tanto in tanto di un "Regime" fa parte purtroppo della nostra storia nazionale. Spero che Renzi non abbia tentazioni del genere. Ora sembra avere abbracciato l’idea di rafforzare l’Europa e sostiene nel documento inviato a tutte le Autorità europee (del quale abbiamo già riferito domenica scorsa) la creazione d’un ministro delle Finanze unico nell’eurozona, esattamente quello voluto da Draghi. Quel documento lo ha già illustrato nella riunione del Partito socialista europeo svoltasi qualche giorno fa a Parigi su sua convocazione e che si concluderà prossimamente a Roma. La sua nuova figura politica è caratterizzata dall’avere impugnato esplicitamente il manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli. A questo punto è la sinistra italiana che si schiera in Europa per la Federazione insieme ai socialisti europei. Questo è il vero compito della sinistra moderna: puntare sull’Europa federata, un Parlamento federale ed una presidenza federale eletta dai cittadini europei. Ci vorranno anni, ma occorre partire subito. L’obiettivo d’una Federazione, oltre a rappresentare uno degli Stati continentali tra i più importanti del mondo, dev’essere quello ereditato dal lascito di Lincoln: i Paesi più ricchi aiutino i più poveri sia all’interno del proprio continente sia all’esterno di esso. Questo dovrebbe essere il futuro dell’Europa. Sempre che il popolo tedesco e chi lo guida comprendano qual è la loro missione. Il motto e il valore spirituale oltreché materiale che esso contiene lo ricorda quasi tutti i giorni un personaggio che è ormai dominante sulla scena dell’intero mondo. Parlo di papa Francesco. Il suo insegnamento, al tempo stesso religioso per i credenti e civile per tutte le genti, è imperniato su due valori: l’amore verso il prossimo e la misericordia. Sono valori che hanno millenni di storia alle spalle. Ma quasi sempre venivano sventolati come bandiera ma contraddetti nei fatti dagli stessi che a parole li sostenevano. Francesco li sostiene come bandiera e lotta ogni giorno affinché siano attuati. Misericordia l’ha usata verso tutti. Non è il perdono dei peccati o dei reati commessi; è un dono di affetto che si sposa con l’amore del prossimo. Questi sono i pilastri della predicazione di Francesco che negli ultimi tempi sono stati ancor più rafforzati. Adesso infatti l’amore verso il prossimo deve essere "Ama il prossimo più di te stesso". Mi permetto di dire: questo dovrebbe essere il nocciolo politico della sinistra, europea ed italiana, e noi di questo giornale vorremmo che lo fosse. Nuova geografia giudiziaria: meno Corti d’appello e task force per gli uffici in difficoltà di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2016 Taglio delle Corti d’appello, riduzione (ulteriore) degli uffici di primo grado, creazione di una task force di magistrati di pronto intervento per affrontare le situazioni più critiche, riorganizzazione di procure e procure generali. Al ministero della Giustizia sta prendendo corpo un nuovo intervento sulle geografia giudiziaria, e, in generale, sull’organizzazione degli uffici. La Commissione guidata dall’ex vicepresidente del Csm, Michele Vietti, sta completando i lavori, il mandato scade a fine mese, e uno schema di articolato è in via dei definizione. L’intervento si propone una fase due della riforma del 2012, che ha condotto alla totale eliminazione delle sezioni distaccate, alla drastica riduzione degli uffici del Giudice di Pace, alla soppressione di 30 tribunali e relative procure, riducendone il numero complessivo a 135. La nuova distribuzione degli uffici giudiziari doveva rispettare due regole base: la conservazione dei tribunali con sede nei circondari di comuni capoluogo di provincia e la permanenza di almeno tre tribunali per distretto di Corte d’appello. Nel complesso, sottolinea il gruppo di lavoro interno alla commissione Vietti, che ha messo a punto il nuovo testo, si è trattato di una riforma che ha contribuito al calo delle pendenze in quest’ultimo biennio ma che è certo perfezionabile. Così, adesso, si pensa di andare oltre i limiti precedenti, puntando in maniera decisa a ristrutturare le Corti d’appello. Uffici, questi ultimi, in particolare sofferenza se si tiene conto che per smaltire tutto l’arretrato, nell’ipotesi di scuola di assenza di nuovi procedimenti in ingresso, ci vorrebbero 2 anni e 8 mesi. Oltretutto, osserva il gruppo di lavoro, "mentre gli uffici di primo grado erogano una serie di servizi direttamente collegata con il territorio amministrato (e, dunque, talvolta può giustificarsi, ad esempio per motivi orografici, l’esistenza di uffici anche di più modeste dimensioni), la natura del giudizio d’appello e i servizi erogati dalle Corti e dalle Procure Generali rendono assai meno rilevante il parametro della "distanza" tra la Corte e l’utenza amministrata e dovrebbero, invece, puntare con maggiore decisione sulla qualità e l’efficienza del servizio erogato che, anche per il giudice d’appello, non può prescindere da requisiti dimensionali minimi". Si potrà così procedere a una riduzione, tendenzialmente con una Corte d’appello per Regione. Tenendo conto però di una realtà che vede solo 6 distretti superare i 4 milioni di abitanti amministrati (Milano, Roma, Venezia, Napoli, Torino e Bologna), pari soltanto al 20% del totale. Solo 4 distretti (nell’ordine Firenze, Brescia, Bari e Palermo) superano i 2 milioni di abitanti amministrati, pari al 13% del totale. Nove distretti amministrano più di 1 milione di abitanti (Catania, Genova, Ancona, Catanzaro, Trieste, L’Aquila, Lecce, Cagliari e Salerno). Il distretto di Perugia si colloca sotto il milione di abitanti (884.000), mentre 7 distretti amministrano poco più di 500.000 abitanti (Potenza, Messina, Sassari, Taranto, Reggio Calabria, Trento e Bolzano). Chiudono la classifica i 2 micro-distretti di Caltanissetta e Campobasso, con meno di 500.000 abitanti amministrati. La bozza così prevede di cancellare le sezioni distaccate e di ridurre "mediante attribuzione di circondari o porzioni di circondari di tribunali appartenenti a distretti limitrofi, il numero delle Corti di appello esistenti, secondo i criteri oggettivi dell’indice delle sopravvenienze, dei carichi di lavoro, del numero degli abitanti e dell’estensione del territorio, tenendo comunque conto della specificità territoriale del bacino di utenza". Contestualmente e con i medesimi criteri andrebbero poi tagliati gli uffici giudiziari di primo grado, nel segno dell’efficienza dei tribunali ordinari, della specializzazione delle funzioni e dei risparmi di spesa. Ancora si istituisce un ruolo speciale di magistrati, sia giudicanti, sia requirenti, da destinare con delibera del Csm, per un periodo non superiore a 5 anni, agli uffici in maggiore sofferenza. Infine, quanto alle procure, spazio a un maggiore riconoscimento del ruolo dei procuratori aggiunti e del procuratore generale, chiamati entrambi al confronto sull’adozione dei progetti organizzativi e all’eliminazione della discrezionalità del procuratore capo nell’assegnare la delega al procuratore aggiunto per la cura di specifici settori di affari. Avvocati. Le priorità degli avvocati alla vigilia dell’incontro con i vertici della commissione del ministero della Giustizia L’Oua: no a una logica di soli tagli Non sposare una logica unicamente di tagli. L’Oua, alla vigilia dell’incontro con Michele Vietti, presidente della commissione ministeriale incaricata di predisporre i nuovi interventi sulle geografia giudiziaria, sollecita un maggiore equilibrio, anche rispetto al recente passato, e una più puntuale attenzione. Per la presidente Mirella Casiello "l’Italia è Paese che da anni tende al decentramento, per recuperare efficacia e ridurre la distanza tra i cittadini e le istituzioni, eppure da tempo assistiamo a una continua riorganizzazione degli uffici giudiziari che va nella direzione opposta: accentrare, e tagliare, a scapito della cosiddetta giustizia di prossimità e della stessa efficienza del sistema, come dimostra anche il bilancio del precedente provvedimento di revisione della geografia giudiziaria". "Invece di continuare a eliminare tribunali - avverte Casiello - si punti sulle proposte che privilegiano tanto la tutela dei diritti, di cittadini e imprese, quanto il buon funzionamento del servizio giustizia, come prospettate anche nel documento elaborato dalla commissione Oua e dalla recente Conferenza nazionale dell’Avvocatura e che consegneremo il prossimo 23 marzo al gruppo di lavoro guidato da Vietti". Nel dettaglio, il documento, quanto agli interventi sugli uffici di primo grado, sottolinea che "deve invece essere sicuramente richiamato e ricentrato il criterio del "riequilibrio territoriale, demografico e funzionale", configurando, distretto per distretto, le situazioni in cui esso può essere concretamente declinato o recuperato e stabilendo che vengano confermate e potenziate le situazioni in cui ha già trovato attuazione". Sul versante delle Corti d’appello, se l’obiettivo deve essere anche in questo caso un nuovo bilanciamento delle (scarse risorse), l’Oua mette in evidenza il paradosso per cui quella "regola del tre", cardine della riforma Severino, potrebbe e forse dovrebbe essere riproposta all’esito degli interventi sugli uffici di secondo grado, nel senso di conservare comunque un numero minimo di tribunali per distretto (3 o 4). Semaforo verde dell’Oua, invece, per la costituzione di un "pacchetto di mischia" di magistrati da utilizzare per tamponare, con una finestra di 5 anni di tempo che però potrebbe anche essere allargata su base volontaria, le situazioni di maggiore difficoltà: una soluzione che permetterebbe, tra l’altro, un’entrata in vigore meno impervia della fase 2 della riforma. Burocrazia "stalker": la musicista, il barista e il contadino, quelle vite in ostaggio di Michele Serra La Repubblica, 20 marzo 2016 C’è chi perde il lavoro per una carta bollata e chi deve spostare una maniglia. La semplificazione resta un miraggio. Raccontateci le vostre esperienze. Ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso. Per me la goccia è stato il riscatto dell’automobile che avevo preso in leasing: otto (otto!) i documenti richiesti, da spedire per raccomandata, per ribadire che io sono io a chi già mi ha come fedele cliente da cinque anni e di me sa tutto, a cominciare dall’Iban. Per la mia amica musicista la goccia è stata un lavoro saltato in aria perché il Registro provinciale di Qualcosa non aveva mai trasmesso non so quale fondamentale pratica al competente Registro regionale ("Non farmelo spiegare, ti prego: sono esausta"). Per il mio amico barista l’intimazione della Asl di spostare di dieci centimetri (!!) una maniglia non a norma, pena la mancata agibilità del locale. Per il mio amico agricoltore il disperato sforzo di pagare poche ore di lavoro stagionale con i voucher, che dovrebbero essere moneta corrente e sono invece buro-denaro riscuotibile solo dopo code agli sportelli, telefonate ai call center, decifrazione di clausole, scadenze, modifiche di legge... Se c’è una parola che incarna gli inganni della politica (e l’impotenza della politica) questa parola è semplificazione. Una parola-beffa di fronte alla costante lievitazione dei faldoni, delle incombenze, delle compilazioni, degli iter, delle fotocopie, dei solleciti, delle intimazioni, degli ostacoli imprevisti, di quelli prevedibili, dei ritardi, dei rinvii. La supposta transustanziazione elettronica della massa cartacea non ha avuto luogo; e anzi la burocrazia elettronica (avete mai provato a compilare una Fepa, fattura elettronica per la pubblica amministrazione?) spesso si somma a quella tradizionale, è una promessa di liberazione che si rivela un nuovo vincolo, per giunta non facile da padroneggiare ("Per me è come essere obbligato a imparare una lingua straniera a sessant’anni suonati", parola di artigiano obbligato per legge a fornirsi di Pec, posta elettronica certificata). Non so se sia mai stato calcolato quanto costa alla comunità, in termini di ore di lavoro, mattinate perse, giornate scialate alla ricerca di un bandolo, il vero e proprio stalking burocratico al quale siamo sottoposti. Ne sono certo, si tratta di miliardi di euro. E altri miliardi di euro (e migliaia di posti di lavoro) si perdono con la rinuncia di molti aspiranti imprenditori a fronteggiare la montagna orrenda delle adempienze burocratiche: una salita che non ha mai fine, quando credi di essere arrivato in cima la vetta si allontana, conosco chi, pur di farla finita, ha mollato tutto. "Non è solo fatica - mi dice un’amica ex imprenditrice - è proprio umiliazione. È come se qualcuno volesse punirti per avere osato alzare la testa e aprire bottega". "Umiliazione" non è una parola che si usa con leggerezza. Non appartiene alla sfera delle convenienze economiche, del daffare tecnico-amministrativo, della prassi sociale ordinaria. Appartiene alla sensibilità profonda, alla dignità personale, appartiene all’io. Parla di adulti che si sentono trattati come bambini, rimbrottati per una marca da bollo mancante, multati per un abbaino chiuso invece che aperto o viceversa, costretti per qualunque allacciamento o contratto di servizio ad allegare, confermare, dimostrare, comprovare, rispedire, leggere contatori, rileggerli perché i contatori sono pieni di numeri e codici, chissà quali sono quelli giusti. I tagli di personale conducono a un crescente bisogno (delle aziende) di autocertificazione, ma l’autocertificazione è quasi sempre incompleta, da perfezionare e da rispedire. È come se un intero sistema (pubblico, ma anche privato) di vincoli e di accertamenti ricadesse sull’unico soggetto che non è in grado di sottrarsi: il cittadino, il cliente, che si ritrova a essere esattore di se stesso, certificatore dei consumi, lettore di contatori, dichiaratore di redditi, ascoltatore di musichette di attesa, per giunta continuamente sottoposto a un rischio di errore che ricade sempre e solo su di lui. Gli esami non finiscono mai. L’esempio macroscopico e arcinoto è l’impossibilità di presentare la dichiarazione dei redditi senza l’ausilio di un professionista, augurandosi che almeno lui sappia orientarsi nella foresta delle leggi (e successive modifiche). Molte delle quali "da interpretare", sperando che l’interpretazione non sia contestata innescando un nuovo diluvio di raccomandate, ingiunzioni, ricorsi, un nuovo fronte burocratico che si aggiunge ai cento già aperti. Ma ci sono poi decine di micro-esempi, di minute incombenze, di reiterate richieste che compongono una specie di fitta nube perennemente sospesa sulle nostre giornate. Lo stalking burocratico è fatto soprattutto di questa sensazione: che nessuna pratica sia mai veramente chiusa, che il dover certificare ci accompagnerà alla morte e anche oltre. Ricevo ancora oggi una bolletta intestata a mio padre, che è morto nel 2002. Ho pregato di correggere il nome del destinatario, che è stato così aggiornato: Franco Serra, presso Michele Serra. Mi tiene compagnia. Non è per l’esborso di denaro (anche se quello, specie se non si hanno le spalle forti, conta eccome). È soprattutto per il tempo. Il tempo della vita (della nostra vita) che ci urge, ci appartiene, e invece viene sequestrato da code, telefonate, consultazioni, ricerche su internet, compilazioni, richieste di accesso. E i pin, e le password, un mazzo di chiavi virtuali che si ingrossa giorno dopo giorno. Tempo rubato al lavoro e dunque alla produzione di reddito e di idee. Oppure all’ozio, al riposo, al far niente, che sono anch’essi un diritto della persona libera. E non sembri, la liberazione del tempo dalla prigionia burocratica, solamente una rivendicazione "filosofica". Ha anche profonda rilevanza economica. C’è un "nero" di puro malaffare, di sottrazione alla comunità di quanto le è dovuto. Ma c’è un "nero" di pura semplificazione (semplificazione dal basso, visto che dall’alto non ce n’è traccia), che discende dall’enorme difficoltà di stare dentro la regola. Se pagare a qualcuno poche ore di lavoro "in chiaro" comporta non solamente pratiche e contro-pratiche, ma addirittura l’obbligo di frequentare un corso sulla sicurezza (indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia in cima a un’impalcatura, in fondo a un pozzo oppure seduto in ufficio davanti al suo computer), la tentazione di allungargli tre o quattrocento euro brevi manu è inevitabile. Molta economia sommersa (chissà in quale percentuale: ma non piccola) non discende dalla disonestà, ma dall’esasperazione per i troppi ostacoli lungo il cammino che conduce all’onestà. Se l’onestà diventa un campo minato, c’è chi decide di tenersene alla larga. Quanti onesti potenziali sarebbero recuperabili alla causa, in presenza di un vero processo di semplificazione delle leggi e della burocrazia? Per buttarla in politica: sappiamo tutti che le regole devono esserci, e spesso le regole sono seccature. Ma se le regole sono poche e chiare ci si adegua, e chi non si adegua è un fuorilegge e basta. Se invece le regole sono milioni, e incerte, e per essere rispettate chiedono di essere decifrate, risolte come un rebus, affrontate come un esercito nemico, e mettersi in regola diventa un traguardo continuamente spostato in avanti, allora il gioco cambia. E anche a un legalitario/statalista come me a volte capita, di notte, quando non riesco a prendere sonno perché temo di avere compilato male un modulo, o di essere in mora con un ente di bonifica, di guardare con occhi sognanti quei documentari sulle famiglie pazzoidi che fuggono in Alaska, nel profondo delle foreste, là dove non esiste catasto e non esiste anagrafe. Costruiscono una capanna di tronchi e vivono di pesca e di caccia, spariti al mondo e restituiti al mondo. Mafia: lunedì a Messina la cerimonia nazionale per le vittime innocenti La Repubblica, 20 marzo 2016 Nella Giornata della Memoria e dell’Impegno, promossa da Libera e Avviso Pubblico, torna a risuonare in tutta Italia l’elenco delle 900 persone uccise senza colpa. In Sicilia l’appuntamento principale. Don Ciotti: "Contro la malavita serve comunità solidale e corresponsabile". Il primo giorno di primavera è ancora nel nome delle vittime innocenti delle mafie. Lunedì 21 marzo, alle ore 11, a Messina, e in simultanea in mille luoghi d’Italia, verranno letti i nomi e i cognomi delle circa 900 persone cadute senza colpa per mano della criminalità organizzata: poliziotti, carabinieri e giudici, ma anche cittadini comuni, imprenditori e sacerdoti. E tanti bambini. "I loro nomi e cognomi saranno recitati in tutto il Paese come un interminabile rosario civile, per farli vivere ancora, per non farli morire mai", si legge in una nota di Libera, l’associazione che - insieme ad Avviso Pubblico - promuove l’organizzazione dell’evento che ormai si è proiettato anche fuori dai confini italiani, con iniziative a Città del Messico, Bogotà, Parigi, Bruxelles, Losanna. Quest’anno è Messina la località prescelta per l’appuntamento principale della XXI Giornata della Memoria e dell’Impegno: "Saremo lì - dichiara Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera - per risvegliare le coscienze, a cominciare dalle nostre, per ribadire che quando c’è di mezzo la giustizia e la verità le scelte non ammettono chiaroscuri, margini di ambiguità. Ma la novità è che Messina, quest’anno, si farà portavoce di una richiesta di verità che troverà risonanza in oltre mille luoghi d’Italia - scuole, carceri, associazioni, università, fabbriche, parrocchie - dove simultaneamente verranno letti i nomi delle vittime. A sottolineare, non solo simbolicamente, che per contrastare le mafie e la corruzione occorre sì il grande impegno delle forze di polizia e di molti magistrati, ma prima ancora occorre diventare una comunità solidale e corresponsabile". Molte le adesioni annunciate. Due anni fa anche papa Francesco aveva partecipato alla veglia di preghiera che si era svolta a Roma, nella chiesa di San Gregorio VII. In quell’occasione il pontefice, che aveva ascoltato in silenzio e con espressione commossa l’elenco dei nomi delle vittime innocenti, ha rivolto un messaggio ai mafiosi, che ha definito i "grandi assenti" di quell’incontro: "Convertitevi - ha detto - per non finire all’inferno, che è quello che vi aspetta se continuate su questa strada". A Bergoglio don Ciotti aveva messo sulle spalle la stola di don Peppe Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra nella chiesa di Casal di Principe il 19 marzo 1994, nel giorno del suo onomastico. "Per amore del mio popolo non posso tacere", aveva scritto il sacerdote nel suo atto di denuncia della malavita. E per ricordare il suo impegno, nel ventiduesimo anniversario del delitto, di è svolta una cerimonia nel cimitero del paese campano: "Sull’esempio di don Peppe - ha detto don Ciotti - e sulla strada da lui aperta e tracciata con la sua morte sono oggi necessarie tre cose: in primis, la verità per i familiari delle vittime di camorra, che ancora oggi in grande maggioranza, non sanno cosa è davvero successo ai loro cari, quindi la trasparenza perché, come dice la Corte dei Conti, camorra e corruzione avanzano insieme e sono due facce della stessa medaglia; ultima necessità è una piena assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, della politica ma anche dei cittadini". Fondi per le vittime di mafia. Di Maio attacca Renzi "Don Diana ucciso di nuovo" di Raffaele Sardo La Repubblica, 20 marzo 2016 Il vice-presidente della Camera: "Bloccati gli stanziamenti. Passerelle ipocriti". Rosy Bindi: "Io non accuso nessuno di controllo ipocrita". Don Ciotti: "Tanti ritardi. Serve trasparenza e verità". Il ministro: "Propaganda deprimente". Oggi a Casal di Principe 1.500 persone sfilano in corteo per ricordare don Peppe Diana, il parroco ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Ma la ricorrenza diventa palcoscenico di nuove polemiche su politica e camorra e sui fondi per le vittime di mafia. Luigi Di Maio attacca il governo sul presunto blocco dei fondi alle vittime di mafia, Rosy Bindi, presente alla cerimonia, respinge le accuse. Tra i due don Ciotti che parla di "tanti ritardi nella lotta alla camorra" e chiede "verità e trasparenza". Ma l’attacco di Di Maio non passa sotto silenzio. Interviene direttamente il ministro per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi: "Nessun taglio. È deprimente che il vicepresidente della Camera faccia bassa propaganda" La lettera di Di Maio. "Caro don Peppe, ti hanno ucciso un’altra volta. Non sono stati i camorristi, ma premier, sottosegretari e ministri". Il vice presidente della Camera Luigi Di Maio (M5s) depone questa lettera sulla tomba di don Peppe Diana: "Il Governo Renzi ha bloccato i fondi per risarcire i familiari delle vittime di mafia - si legge ancora. Chi ha trovato il coraggio di denunciare la camorra non riceverà neanche il sostegno per le spese legali. Oggi è una passerella di ipocriti. A Palazzo Chigi hanno scelto da che parte stare, purtroppo non la tua". "É imbarazzante che si presentino qui per commemorare don Peppe Diana; penso alla moglie e alla figlia dell’imprenditore Domenico Noviello (ucciso dai Casalesi nel 2008, ndr) che si sono visti bloccare i risarcimenti. Don Diana, purtroppo, è stato ucciso un’altra volta", ribadisce Di Maio all’uscita del cimitero di Casal di Principe. La risposta della Bindi: "Di Maio ci ha accusati di passerella ipocrita, io non accuso nessuno di controllo ipocrita". Pronta la presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, risponde alle critiche mosse dal vice presidente della Camera, Luigi di Maio, in merito ai fondi bloccati per i risarcimenti alle vittime delle mafie. La presidente della commissione Antimafia, presente a Casal di Principe, continua: "Trovo che si approfitti di questa giornata per esercitare la funzione legittima di controllo che tutti i parlamentari devono esercitare. Credo che questa polemica non sia nello spirito di questa giornata. Le funzioni di controllo vanno esercitate in Parlamento e non certo sulla tomba di don Diana". "In ogni caso - aggiunge Bindi - martedì avremo il ministro dell’Interno in Commissione e ne parleremo". La presidente della commissione Antimafia ricorda anche l’atteggiamento avuto da Di Maio a Casal di Principe: "Si è dissociato da tutti, dalle istituzioni, dal sindaco Renato Natale, da don Luigi Ciotti, dal vescovo di Aversa Angelo Spinillo, sia durante la funzione religiosa che qui al cimitero, per fare una contestazione privata che poi trattasi di istituzione anche nel suo caso". "Siamo tutti debitori verso don Peppe Diana - conclude la presidente della Commissione antimafia - per la strada che ci ha indicato e perché ha dato la vita per tutti noi. Le mafie non sono ancora sconfitte, la battaglia è ancora lunga, per questo è giusto che oggi si diano appuntamento a Casal di Principe le istituzioni ma anche tanti giovani". L’intervento del ministro Boschi. "Di Maio mente sapendo di mentire. Non c’è stato nessun taglio ai fondi alle vittime di mafia - precisa il ministro Boschi - Come è noto, il fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso si autoalimenta durante il corso dell’anno in base alle richieste che arrivano e che vengono valutate da un’apposita commissione. Lo ribadisco, non c’è stato nessun taglio e i numeri lo dimostrano: per il risarcimento delle vittime di mafia nel corso del 2015 è stato deliberato un importo complessivo di 56,520.287,46 Milioni con un incremento del 55% rispetto all’importo erogato nel 2014 pari a 36.441.741,93 Milioni. Inoltre nel periodo luglio 2015-febbraio 2016 l’importo complessivo deliberato è di euro 29.423.077,25". "In aggiunta - prosegue il ministro - con l’ultima legge di stabilità c’è stato un ulteriore aumento di spesa, a partire dal 2016, pari a 250 mila euro annui per borse di studio riservate anche agli orfani e ai figli delle vittime del terrorismo e della criminalità. Si stanno invece definendo criteri più rigidi per l’erogazione dei rimborsi delle spese legali alle associazioni delle vittime della mafia analogamente a quanto già avviene per le vittime dell’usura per le quali sono tenute appositi elenchi vigilati". "Rimane l’amarezza. Sfruttare la cerimonia in memoria di un martire della camorra per fare una bieca polemica di parte dimostra a quale livello di meschinità sia giunto il vicepresidente della camera, eletto a quella carica con i voti del Pd", conclude il ministro Boschi. L’intervento di Don Luigi Ciotti. Interviene anche don Luigi Ciotti, presidente di Libera: "Sono sempre venuto e continuerò a farlo perché credo che gli dobbiamo tanto per il suo impegno e il suo coraggio". "A distanza di 22 anni - dice - pensando a lui e a quello che ha fatto credo si possa tradurre in tre parole: la verità, perché ancora tante vittime non la conoscono, la trasparenza in un Paese in cui la corruzione è sotto gli occhi di tutti e la corruzione va a braccetto con le mafie e l’assunzione di responsabilità che chiediamo alle istituzioni e ai cittadini. Casal di Principe è molto cambiata in questi anni, ma il seme piantato da don Peppino va tutelato, sostenuto e valorizzato". E di assunzione di responsabilità don Ciotti parla anche in merito alla polemica suo fondi bloccati per il risarcimento delle vittime. "Chiunque ha la respinsabilità - ha detto - se ne faccia carico. Una delle grandi riforme di cui ha bisogno l’Italia è un’autoriforma: la riforma delle coscienze. La camorra è un cancro che si auto rigenera, non deve venire meno l’attenzione". La giornata. La giornata è cominciata alle 7,30, con la messa celebrata dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, nella chiesa di San Nicola di Bari, dove don Diana fu ucciso la mattina di 22 anni. Alla liturgia hanno preso parte una ventina di altri sacerdoti della diocesi. Dopo la messa una delegazione composta dai familiari dai fratelli di don Diana, Emilio e Marisa, con il sindaco di Casal di principe, il vescovo di Aversa, il presidente della Commissione parlamentare Antimafia e don Luigi Ciotti, il presidente dell’associazione Libera, si è recata nel cimitero di Casal di Principe per depositare fiori sulla tomba del sacerdote ucciso dalla camorra. Subito dopo un corteo a cui hanno partecipato più di 1500 persone, è partito dall’istituto "Guido Carli" di Casal di Principe per arrivare fino a "Casa don Diana". Qui, è stato inaugurato il museo della resistenza e la mostra sulle vittime innocenti, #Noninvano, alla presenza del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, della giornalista messicana Daniela Rea Gomez, Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif e don Luigi Ciotti. Crack Banca Etruria, sotto accusa il papà del ministro Boschi e gli altri consiglieri di Gianluca Paolucci La Stampa, 20 marzo 2016 Al vaglio degli inquirenti il dissesto da 1,1 miliardi. Nel mirino anche la buonuscita concessa all’ex dg. Concorso in bancarotta. Nel fascicolo aperto dalla procura di Arezzo sulle vicende del crac di Banca Etruria sono sotto accusa, secondo quanto ricostruito, le posizioni dell’intero consiglio di amministrazione dell’istituto insediatosi nel 2014 e rimasto in carica fino al febbraio del 2015, con Lorenzo Rosi presidente e Pierluigi Boschi vicepresidente. Le operazioni - All’esame dei Pm di Arezzo, coordinati dal procuratore capo Roberto Rossi, sarebbe tra le altre cose la buonuscita di 1,2 milioni di euro concessa all’ex direttore generale Luca Bronchi nel 2014. Secondo la relazione di Bankitalia che ha sanzionato il consiglio anche per questa vicenda, l’accordo per la risoluzione consensuale del contratto di Bronchi "non è risultato in linea con le disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione vigenti all’epoca dei fatti", in particolare per la mancanza di collegamento tra "compensi e performance realizzata e rischi assunti". L’accordo raggiunto, sottolinea Bankitalia nella sua relazione, non ha tenuto conto del "grave deterioramento della situazione tecnica della banca e non ha vagliato l’ipotesi di contestare al dirigente responsabilità specifiche". Le contestazioni - Bronchi, indagato con l’ex presidente Giuseppe Fornasari per l’ostacolo alla vigilanza nel primo troncone d’inchiesta sul crac dell’istituto, è stato direttore generale di Banca Etruria dal luglio del 2008 fino alla fine di giugno del 2014, quando il cda ha approvato l’accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro finito nel mirino prima di Bankitalia e poi della magistratura. Lo scorso primo marzo il direttorio della Banca d’Italia, che si è riunito in seduta collegiale, ha sanzionato 27 persone tra ex consiglieri e manager della vecchia Banca Popolare dell’Etruria. Le multe - Le sanzioni irrogate ammontano in totale a 2,2 milioni di euro. Ai singoli sono state comminate sanzioni che vanno dai 52.000 ai 130.000 euro a seconda del grado di responsabilità e del periodo di permanenza in carica di ciascuno. Nel 2014 la stessa Bankitalia aveva irrogato sanzioni per altri 2,5 milioni di euro sempre contro ex consiglieri e manager di Etruria. Lo stato d’insolvenza - Parallelamente, l’11 febbraio scorso il tribunale fallimentare di Arezzo ha dichiarato l’insolvenza della vecchia Banca Etruria e ha poi trasmesso gli atti alla procura, da cui è partita l’indagine per bancarotta. Il buco - Secondo la relazione del commissario liquidatore Giuseppe Santoni, il "buco" della Banca Popolare Etruria ammonta in totale a 1,1 miliardi di euro, con circa 305 milioni di euro di debito che sono ancora a carico di ciò che resta della vecchia banca dopo lo scorporo delle attività sane (in bonis) confluite nella nuova Banca Etruria e le sofferenze che invece sono finite nella bad bank comune con le altre tre banche in risoluzione: ovvero Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. Carceri: Dap, al via la III Giornata del teatro in carcere Adnkronos, 20 marzo 2016 Al via, il 27 marzo, la terza edizione la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere e numerose sono le Compagnie che vi hanno aderito. lo scrive il Dap in una nota. L’iniziativa, istituita nel 2014, si svolge il 27 marzo di ogni anno in concomitanza con la Giornata Mondiale del Teatro, indetta dall’Istituto Internazionale del Teatro presso la sede Unesco di Parigi, oggi alla 54° edizione. Il cartellone degli spettacoli messi in scena dalle Compagnie teatrali attive negli Istituti penitenziari verrà presentato il 24 marzo 2016 presso la sede del Museo Criminologico di Roma, alle ore 11,30, in occasione del rinnovo del Protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, documento già sottoscritto il 18 settembre 2013, esteso il 23 luglio 2014 all’Università Roma Tre. A firmare il protocollo saranno Santi Consolo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Vito Minoia Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Paolo D’Angelo Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. Lo sfascio del diritto tutto in un divieto di sosta di Giovanni Iacomini (Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia) Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016 Proprio davanti alla sede di un municipio, quindi dei vigili urbani, andavano potati degli alberi. Quindi per tutta la lunghezza del marciapiede, circa duecento metri, sono stati messi i classici paletti uniti dal nastro bianco e rosso, con appesi fogli in cui si imponeva il divieto di sosta fino alla fine dei lavori. Stranamente la potatura è finita il giorno stesso ma il divieto è rimasto. Per qualche giorno nessuno ha parcheggiato. Dopo la prima settimana qualche temerario, magari di zona, ha cominciato a lasciare la sua auto proprio di fronte a quei divieti così palesi. Molti hanno seguito l’esempio e in breve si è tornati all’intera strada piena di macchine parcheggiate. Nessuno si è degnato di togliere i paletti che piano piano si piegavano per il vento o i colpi delle auto, venendo riassorbiti dall’incuria generale. Questi i fatti; ora proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se un solerte tutore dell’ordine, passando da quelle parti, avesse voluto sanzionare una o più auto in palese contravvenzione. Certamente il cittadino colpito avrebbe pensato di essere vittima un’angheria, chissà perché rivolta proprio a lui: "ma come, lo fanno tutti…" e poi sono ben altri i delinquenti. Quindi, se proprio non si ha una conoscenza in municipio, ricorso al Prefetto, al Giudice di pace o chissà quale altro organo di garanzia, che infatti sono intasati di istanze assurde. Sempre con l’immaginazione, si può pensare che la ditta della potatura non è la stessa che aveva subappaltato la fissazione dei paletti, che magari ha fallito. E nessuno si prende la responsabilità di rimuovere quella situazione di irregolarità. Anche qui, come già in un mio precedente post sui limiti di velocità, credo sia facile per il lettore estendere questo banale esempio di disorganizzazione per rappresentare più generalmente il mancato funzionamento del nostro paese. Norme incoerenti, contraddittorie, spesso sconclusionate e inutili, sempre scritte male e di fretta, raggiungono risultati opposti a quella che sarebbe la loro funzione, di creare ordine e disciplinare la collettività. Tale struttura normativa si rispecchia nella destrutturazione dei rapporti gerarchici tipici di qualunque forma di potere, con scarico di responsabilità all’infinito. Nessuno, fino all’ultima ruota del carro di un qualunque ufficio pubblico, ha ben chiari i limiti della propria mansione. L’arbitrarietà delle norme porta all’arbitrarietà delle interpretazioni. Non solo quelle dei giudici, che si trovano a operare in un sistema che non fa che ampliare la discrezionalità, quindi la schizofrenia giurisprudenziale; ma anche il cittadino comune, davanti a tale confusione, comincia a regolarsi come può e come sa. Parcheggia quando ritiene che il divieto non sia più attivo; rispetta il limite di velocità quando crede che possa creare pericolo per sé e per gli altri (e che il cartello di 30 km/h non sia lì perché abbandonato da chissà quali lavori dello scorso anno); paga le tasse quando crede sia inevitabile, confidando in sanatorie e condoni; fa la fila solo se costretto e se proprio non riesce a trovare il modo di aggirarla; se ottiene un qualunque risultato in campo amministrativo è solo perché ha trovato la via giusta da oliare. Nessuno, grande o piccolo malfattore seppur colto in flagranza è disposto ad ammettere le proprie colpe, ributtando tutto nel "magna magna" generale e nel benaltrismo. Le forze dell’ordine si trovano, oltre che prive di mezzi, spiazzate a dover applicare norme spesso assurde e comunque consapevoli che il frutto del proprio lavoro non avrà nessun riconoscimento, talvolta essendo ribaltato contro di loro. Svanisce il regno dei diritti e si torna alle nebbie dei favori, di vago sapore medievale. Addio Stato di diritto, sovranità della legge, c’è persino chi si ripropone "legibus soluto". La Giustizia è la prima vittima (anche se a volte si trasforma in carnefice) di questa situazione, non riuscendo a garantire neanche il livello minimo del suo servizio. Si creano situazioni di disparità di trattamento: in un generale "si salvi chi può" solo i potenti, appunto, possono sperare di trovare il modo di non farsi travolgere. Il cittadino perde fiducia nella funzione giurisdizionale e, se proprio si sente vittima di ingiustizia, si prepara a chiamare non più la polizia ma "quelli della televisione, tipo "Striscia la notizia". Non c’è soluzione: accanto a quel partito che si richiama alla "Rifondazione comunista" (che credo ancora riceva finanziamenti pubblici), bisognerebbe crearne uno di "Rifondazione democratica" per ripartire dalle regole minime dello stare insieme in uno stato moderno. Luca Varani: se il padre di Foffo pensa che alla sbarra ci sia la sessualità dell’assassino di Dario Accolla Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016 Nella narrazione messa in campo sul caso Varani - e che sta facendo felici nell’ordine: fanatici da plastico televisivo, direttori di siti mangia-clic e utenza varia da prurito evidentemente necrofilo - emerge, in tutta la sua assurdità, la frase del padre di uno dei due indagati, che declama quasi con soavità: "A noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. E mio figlio non è da meno". Questa semplice frase apre vari scenari sulla considerazione comune che si ha delle "sessualità non normative" (Snn) e offre importanti spunti di riflessione. In primis: in sociologia le Snn sono quelle che sfuggono al paradigma dominante dell’eterosessualità. L’unica norma possibile starebbe nell’individuo che va a letto con persone di sesso opposto (con una predilezione per il maschio, soggetto attivo, che fruisce del corpo femminile, visto come oggetto passivo). In tale costruzione si consuma una vera a propria asimmetria di genere, poi riprodotta nella valutazione delle altre forme di sessualità. La confusione tra omosessualità e negazione del maschile, poi. "A noi Foffo piacciono le donne vere". Perché se il maschio è vero solo se va a donne, chi va con gli uomini diviene l’opposto dell’essere maschio. Il gay, quindi, imiterebbe la femminilità ma senza raggiungerla del tutto. Quando invece, più semplicemente, un gay si sente maschio esattamente come un eterosessuale. Ciò che cambia, semmai, è l’oggetto del desiderio o del sentimento amoroso, che è rivolto verso un altro uomo (di solito di pari orientamento sessuale, giusto per non avere problemi). Segue poi con "mio figlio non è da meno", che rievoca fantasmi di varia natura sullo scongiurare l’omosessualità della propria prole, preferendo qualsiasi disgrazia rispetto a quella che appare come la sciagura per eccellenza. Non riesce a capire, il signor Foffo, che alla sbarra non finirà l’identità sessuale del figlio, ma un suo atto che, ricordiamolo, è stato criminale e che ha determinato la morte di un altro ragazzo. E questo prescinde da tutte le valutazioni su quelle che possono essere predilezioni erotiche e identità più o meno fluide. Faccio notare, ancora, quanto segue: secondo Foffo, suo figlio "ha avuto un solo rapporto sessuale lo scorso 31 dicembre" e non anche nei momenti che precedevano l’omicidio. Ciò rende il ragazzo un MSM ovvero un maschio che fa sesso con altri maschi. Se in modo continuativo o occasionale è secondario, visto che l’identità omosessuale contempla il sentirsi tale e non solo la ricerca del piacere fisico. Invertendo i termini: io che sono gay potrei benissimo cercare il piacere fisico andando con una donna, ma questo non intaccherebbe di una virgola la mia identità, significherebbe solo che in quel momento ho fatto sesso con una persona di sesso diverso dal mio. Ma anche qui, non si riesce a capire perché tale rivelazione dovrebbe aggiungere o togliere qualcosa alla valutazione (anche da parte degli inquirenti) dell’omicidio perpetrato. Di certo, tale ricostruzione tenderebbe a smentire ulteriormente chi - proprio tra gli inseguitori del clic ad ogni costo sul proprio sito, anche a rischio di appiattire un’intera comunità su una visione delinquenziale della stessa - ha parlato di "festino gay" (che, ricordiamolo, ha lo stesso valore di "party eterosessuale" qualora a consumare il delitto fossero stati due "maschi veri", parafrasando il Foffo). Faccio infine notare che si insiste molto, dentro la ricostruzione dell’accaduto, sul fatto che sia stato Prato a sferrare l’ultimo colpo. Si sta riproducendo, in altre parole, una macabra tempistica della violenza - chi ha cominciato, chi ha finito? - come se ci fossero delle attenuanti nell’esecuzione di quel reato, sul piano morale. E allora, diciamo le cose come andrebbero dette: a noi del fatto che Foffo e Prato fossero etero, gay o bisessuali dovrebbe importare poco, così come non ci è saltato in mente di mettere in relazione orientamento sessuale e crimine commesso nei casi di Meredith Kercher, Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, ecc. La cosa che dovrebbe contare davvero è stabilire una verità processuale su un delitto efferatissimo in cui le persone indagate sono coinvolte in quanto ree confesse. E arrivare a una condanna conseguente, per un semplice fatto di giustizia. Se poi a gente come Manuel non piacciono i gay, da appartenente alla categoria posso solo tirare un sospiro di sollievo. Lombardia: Commissioni regionali in visita alla Casa di reclusione di Milano Opera Italpress, 20 marzo 2016 Per la prima volta un carcere milanese ha dato la possibilità a un gruppo di detenuti di dialogare direttamente con i rappresentanti delle istituzioni. È quanto avvenuto questa mattina nella Casa di reclusione di Opera, dove si è tenuta la visita della Commissione speciale sulla Situazione Carceraria presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni) e della Commissione speciale Antimafia presieduta da Gianantonio Girelli (Pd): nell’occasione erano presenti anche il Presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo e la Vice Presidente Sara Valmaggi, insieme ai Consiglieri Lara Magoni e Antonio Saggese (Lista Maroni), Michele Busi (Patto Civico) e Fabio Pizzul (PD). "Per tutti noi è stata una straordinaria lezione di umanità, che ci aiuta a guardare dentro noi stessi in modo più sincero e obiettivo" ha sottolineato al termine dell’incontro il Presidente Raffaele Cattaneo, che rivolgendosi ai detenuti ha aggiunto: "Un anticorpo si sviluppa solo se prima c’è la malattia: voi siete gli anticorpi della criminalità, e gli anticorpi, una volta formatisi, devono poi essere messi nelle condizioni migliori per poter circolare e diffondersi all’interno dell’organismo malato. Questo è il compito di noi istituzioni, aiutarvi e mettervi nelle condizioni, una volta usciti da questa struttura, di poter fare altrettanto nella vita di tutti i giorni all’interno della nostra società". I rappresentanti dell’istituzione regionale lombarda, dopo un breve incontro con il Direttore del carcere Giacinto Siciliano e con il Comandante della Polizia Penitenziaria Amerigo Fusco, si sono confrontati direttamente con i detenuti all’interno del teatro del carcere. Storie di vita, testimonianze personali, racconti di esperienze e di fatti vissuti, hanno condito gli interventi dei detenuti, che hanno tutti evidenziato di sentirsi oggi "diversamente liberi" all’interno di una struttura che in questi anni li ha aiutati a crescere e migliorare dal punto di vista umano e relazionale, ma anche sul piano culturale e professionale, restituendo loro consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie qualità e possibilità. "Quanto abbiamo ascoltato oggi -ha detto la Vice Presidente Sara Valmaggi- conferma i doveri e i compiti delle istituzioni, che devono aiutare queste persone nel loro reinserimento sociale e lavorativo: realtà come l’istituto penitenziario di Opera devono essere sostenute anche economicamente affinché possano proseguire nel migliore dei modi il percorso intrapreso in questi ultimi anni". All’interno del carcere sono presenti numerosi laboratori formativi e qui è possibile praticare corsi linguistici, di pedagogia e di letteratura, nonché laboratori di pittura, di teatro e di violini: una redazione composta da alcuni detenuti redige anche un giornale periodico intitolato "In corso d’Opera". "È giusto che chi sbaglia ripari agli errori commessi nel passato, ma, nel farlo, qui nessuno perde la propria dignità e la propria dimensione umana -ha evidenziato Gianantonio Girelli. Le istituzioni devono promuovere sempre la cultura della legalità, quella cultura che viene insegnata giorno dopo giorno anche in queste strutture. Mi auguro che, una volta uscite dal carcere, molte di queste persone possano essere testimoni di legalità in particolare nelle scuole". "Le istituzioni non sono il vostro nemico, il vostro dirimpettaio, ma siete voi stessi a farne direttamente parte e a esserne elemento attivo e partecipe. E ora che state sperimentando direttamente su voi stessi cosa vuol dire onorare e rispettare le regole più elementari della convivenza civile, aiutateci a migliorarle sempre di più", ha concluso Fabio Fanetti, che ha rivolto un sentito ringraziamento al direttore Giacinto Siciliano per il suo lavoro, proponendolo come candidato alla Rosa Camuna, il premio con cui ogni anno Regione Lombardia insignisce alcune figure che si sono particolarmente distinte con la loro azione quotidiana nei rispettivi campi professionali, sociali e culturali. Vasto (Ch): il Sottosegretario Chiavaroli "questo carcere eccellenza unica in Italia" Ansa, 20 marzo 2016 "La Casa circondariale di Vasto rappresenta un’eccellenza e in questa struttura i detenuti vivono in celle separate, con un ambiente per il giorno e uno per la notte, e questo rappresenta una unicità nel sistema carcerario italiano". Lo ha dichiarato dopo aver visitato la struttura penitenziaria di Torre Sinello di Vasto Federica Chiavaroli, sottosegretario di Stato per la giustizia. Presenta, invece, delle criticità importanti la casa lavoro ci sono gli internati che non hanno finito la loro pena ma che conservano una pericolosità sociale e che va eliminata attraverso il lavoro. "Sono qui per vedere come mai pochi di questi internati riescono a inserirsi nel mondo del lavoro. Le mie visite istituzionali nelle carceri italiane - aggiunge il sottosegretario - hanno anche questo scopo di aprire all’opinione pubblica il mondo del carcere nella speranza che ci siano imprenditori che possano mettere a disposizione la loro sensibilità. Sono presente con il sindaco di Vasto, Luciano Lapenna, l’on. Maria Amato e la Regione Abruzzo, perché tutte le istituzioni possano lavorare in modo sinergico". Per la Chiavaroli anche nel carcere di Vasto "il volontariato svolge un lavoro importante realizzando tanti progetti che qualificano la vita di chi è in queste strutture. I volontari svolgono un ruolo fondamentale permettendo che il sistema possa andare avanti". Il sottosegretario alla Giustizia ha affermato da Vasto: "Il problema del sovraffollamento è stato superato e anche l’Europa ce lo ha riconosciuto, purtroppo, e questo è inevitabile, ci sono ancora delle strutture che sono in condizioni migliori e questa di Vasto è certamente un esempio. Comunque l’Italia è uscita dalla fase dell’emergenza nella quale era". Orvieto (Pg): l’artista Salvatore Ravo copre di murales le pareti del carcere orvietonews.it, 20 marzo 2016 Il suo colore preferito è il giallo. Quello del sole, che ogni mattina cerca. Nel cielo e nelle persone, che guarda senza pregiudizi, né gerarchie sociali. "La luce - dice - è vita. E noi siamo fatti di acqua, da non far ristagnare ma lasciare fluire, mettere in circolo". Lui l’ha fatto insieme ai detenuti della Casa di Reclusione di Orvieto trasformata con decreto in Istituto a Custodia Attenuata. Una decina, rispetto al centinaio che lì segue percorsi di rieducazione. Insieme a loro, l’estate scorsa, Salvatore Ravo ha ricoperto di azzurro le pareti interne del muro di cinta della struttura di Via Roma. Duecento metri, dove ora nuotano delfini inseguendo il faro della libertà. Artista senza confini - ha vissuto in Spagna, Inghilterra, Scozia, India, Francia, Cuba, esponendo quadri in musei e collezioni private, tenendo seminari sul colore, laboratori con adulti e bambini (uno, attualmente in corso nelle scuole di Orvieto), performance work in progress con musicisti, collaborazioni con numerosi festival e poi le copertine per i dischi di Paolo Fresu - ha dato ossigeno a chi trascorre tempi dilatati in uno spazio costipato. Fogli bianchi, matite e ali a chi ha silenzi da far parlare, debolezza e rabbia verso una vita da trasformare in energia per il cambiamento. Ognuno è lì per un motivo. Conoscerlo, a lui non interessa se pregiudica il lavoro che andrà a fare con loro. Hanno età, etnia e storie differenti. Ma tutti condividono una condizione presente e un percorso formativo di educazione al colore e all’ascolto. Di sé stessi, prima di tutto. Il colore, fuori e dentro. E poi la musica, quella del sassofonista Francesco Pecorari coinvolto nel progetto promosso dall’associazione culturale Aitia - nata nel 1997 ed impegnata su più fronti, non ultimo quello del volontariato sociale - accolto con sensibilità e collaborazione dall’amministrazione penitenziaria. Dirigenza, direzione e personale. "I primi ad essere scettici o un po’ diffidenti - confida il maestro - erano proprio i detenuti. Poi, man mano, ho sentito crescere il loro entusiasmo. Ad aprile presenteremo il numero 7 della rivista letteraria Mastro Pulce, altro progetto dall’associazione, che contiene un racconto e un’illustrazione realizzati da due di loro". È con questo spirito che nell’ambito del Laboratorio di Pittura ha preso forma la grande opera pittorica andata ad ingentilire il cosiddetto "Spazio Verde", destinato a diventare un luogo accogliente per l’incontro di detenuti e familiari. Nell’idea che il reinserimento sociale di un individuo non possa prescindere dall’apporto/supporto della famiglia. In prospettiva, c’è la realizzazione delle quattro stagioni con una cronologia sovvertita. Si è partiti, infatti, dall’Estate e, in circa due mesi, su una superficie di almeno altri 250 metri in più è fiorita la Primavera. Un paesaggio, pitturato in un corridoio interno, dove continua a dominare l’acqua perché "aiuta il fluire di sé, quella leggerezza che consente una visione diversa del mondo". "Il colore come la musica - spiega Ravo - si serve di una scorciatoia per suscitare emozioni, interagisce con l’ambiente e contribuisce a un miglioramento psicofisico. Fonte d’ispirazione, gli elementi della natura. Tempo, spazio e coscienza per arrivare al sé. Quello che veste di luce la parete nuda è il risultato di un percorso introspettivo che porta fuori quello che è dentro. E da dentro offre gli strumenti per vivere il fuori. È nell’assunzione della consapevolezza che, pur nella detenzione, si agevola una condizione di benessere e si promuovono i rapporti affettivi. Tracciare un segno porta a sentire oltre ogni limite. E anche il carcere, allora, può farsi luogo di ricerca, di scoperta di un mondo dentro e di spazi infiniti da ricostruire attraverso immagini e pensieri. La libertà dell’immaginazione è sognare qualcosa che nessuno può portare via. Per pochi secondi, le sbarre non ci sono e nemmeno i vecchi modelli, quelli che appartengono ai pregiudizi. Ho sempre creduto che in ogni essere umano esiste un tesoro e questo percorso di crescita l’ho fatto anche io, insieme a loro". Firenze: alle Murate una mostra con opere realizzate all’interno delle carceri laprimapagina.it, 20 marzo 2016 L’Associazione Volontariato Penitenziario Onlus di Firenze in collaborazione con il Cesvot, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e con il patrocinio del Comune di Firenze, presenta la mostra di pittura conclusiva del progetto "Trompe l’Oeil. Schiudi l’arte e mettila da parte", composta da opere realizzate dai detenuti all’interno delle carceri della Toscana. Il progetto ha voluto contribuire al miglioramento delle condizioni detentive, mediante l’attivazione, il consolidamento e la valorizzazione dei laboratori artistici interni. La mostra si terrà il 22, 23 e 24 marzo presso lo spazio "Semiottagono" del Complesso delle Murate in Piazza Madonna della Neve. L’inaugurazione avverrà il 22 marzo alle 18.15 con un breve seminario di presentazione coordinato da Saverio Migliori dell’Associazione volontariato penitenziario onlus di Firenze, nel quale interverranno Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana; Sara Funaro, assessore al welfare del Comune di Firenze; Eros Cruccolini, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze; Raoul Fiordiponti, vicepresidente delegazione Cesvot di Firenze, e Corrado Marcetti, direttore della fondazione Giovanni Michelucci. L’ingresso alla mostra è gratuito e sarà possibile accedervi anche il 23 e il 24 marzo nella fascia oraria 15-20. Le opere prodotte dai detenuti sono state valutate da una commissione formata da 9 membri: Sandro Bellesi, Benedetta Cappello, Franco Corleone, Ardo Kekezy, Corrado Marcetti, Giuseppe Martone, Alessandro Masetti, Serena Padovani e Francesco Petri. La commissione di esperti ha provveduto a selezionare le opere secondo quattro "fasce di qualità", attribuendo in questo modo non solo un valore artistico, ma anche un valore economico di riferimento per eventuali donazioni che, in accordo con gli autori detenuti e/o le strutture penitenziarie di provenienza, saranno retroattivamente reinvestiti per la prosecuzione delle attività nei laboratori artistici. La mostra ed il progetto sono stati realizzati in partnership con Cesvot; provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria; istituti penitenziari della toscana; istituto penale per minorenni "Meucci" di Firenze; ufficio servizi sociali per minorenni di Firenze; Accademia delle belle arti di Firenze; associazione italiana cultura e sport (aics); Comune di Firenze; conferenza regionale volontariato giustizia; fondazione Giovanni Michelucci; garante regionale dei diritti dei detenuti della regione toscana; garante comunale dei diritti dei detenuti di Firenze. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito internet: avpfirenze.org/trompeloeil dove dal 23 Marzo sarà possibile visionare le opere provenienti da tutte le carceri coinvolte nel progetto. La Costituzione e la pena…. rispettiamo l’articolo 27 di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Vigevani Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2016 Ci sono libri che turbano, di cui però la società ha davvero bisogno. Due sono di recente pubblicazione e affrontano in modo originale e affascinante temi così irritanti e spinosi da essere generalmente rimossi, salvo dagli studiosi e... dai radicali: il "ritorno alla vita" dei terroristi degli anni di piombo e la condizione di coloro che espiano la pena dell’ergastolo nella sua forma più dura. Si tratta di testi diversi, nel contenuto e nell’impostazione, che hanno, tuttavia, tratti comuni: prendono sul serio l’art. 27 della Costituzione, secondo cui "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" e sollevano questioni che bruciano sulla pelle della società. Il primo è "Il libro dell’incontro", curato dal padre gesuita Guido Bertagna, dal criminologo Adolfo Ceretti e dalla penalista Claudia Mazzucato. Riassume anni di avvicinamento e di cammino insieme tra terroristi e familiari delle vittime della lotta armata. Un’esperienza straordinaria, unica in Italia, che riprende un metodo sperimentato per sanare le ferite aperte in Argentina, Sudafrica e Ruanda. Nel nostro caso, però, l’obiettivo non è stato la ricerca della verità ma la condivisione di memorie diverse, nel confronto tra chi ha provocato e chi ha subito la stagione dell’odio e della violenza. Inoltre, non è lo Stato ad aver proposto una soluzione politica, ma si è trattato di un dialogo sviluppatosi in uno spazio privato e liberamente scelto. Alla base vi è l’idea della "giustizia riparativa", la consapevolezza che il ritorno nella comunità e in particolare il dialogo con chi ha sofferto consentano al carnefice di fare i conti con la Storia e con la propria responsabilità personale. Protagonista, però, è anche la vittima, che attraverso questi incontri può uscire dall’eterno presente di "familiare delle vittime degli anni di piombo" e, come emerge dal testo, convivere a volte in modo forse meno doloroso con il passato. Alcuni, addirittura, sono giunti ad affermare che un simile percorso corrisponda alla loro idea di giustizia ben più della semplice segregazione dei colpevoli. Il libro dell’incontro è soprattutto un libro vivo, con le voci dei protagonisti che declinano al singolare le vicende drammatiche del Paese e disvelano le loro inquietudini e le loro sofferenze. Forse, però, i terroristi non sempre sembrano prendere su di sé la colpa delle "cose orrende e violentissime" allora fatte e gridate. La sensazione complessiva è di una immersione in un passato lontano, abitato da scheletri che inquietano; un passato che ancora ci riguarda, perché tanta parte ha avuto nel determinare la storia di questo sfortunato Paese. Il secondo volume "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo", non è un trattato per adepti, come il titolo potrebbe far supporre, ma un libro appassionante e insolito, in cui si sommano la voce di un ergastolano, Carmelo Musumeci, e quella di un fine giurista dalla penna straordinariamente felice, Andrea Pugiotto. Conclude l’opera una ricca appendice di Davide Galliani. La prima parte è occupata dal racconto in prima persona della giornata vuota e sempre uguale di chi è condannato all’ergastolo ostativo, ovvero a quella forma che non dà diritto ai benefici, se il reo non collabora con la giustizia. Questi sono i casi in cui la pena non finisce mai, se non con la morte. Si tratta della testimonianza di una umanità dolente che trascina il proprio tempo senza speranza, di fronte a una "clessidra senza sabbia". Nella seconda, Pugiotto unisce rigore argomentativo e passione civile per dimostrare, passo dopo passo, che l’ergastolo ostativo è ingiusto, inopportuno e non ha cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale. Parafrasando un titolo di Eco, egli mostra come si scrive un saggio scientifico di piacevole lettura. Discute una serie di argomenti, illustrando la propria tesi, le obiezioni e la confutazione di queste ultime. Propone ad esempio l’argomento dell’errore giudiziario, ove dimostra come il condannato innocente, la cui collaborazione è impossibile, non abbia alcuna possibilità di eludere l’ergastolo a vita. Alla fine del libro il lettore è portato a concludere, con l’autore, che l’ostacolo al "superamento dell’ergastolo senza scampo non è quindi di ordine giuridico" e che "la pena certa, dura, esclusivamente retributiva, possibilmente neutralizzatrice" è "un mantra costituzionalmente stonato" perché mortifica la dignità della persona. E questa, come scrive nella prefazione Gaetano Silvestri, "non è un "premio per i buoni" e quindi non può essere tolta ai "cattivi"". G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato, "Il libro dell’incontro", il Saggiatore, Milano, pag. 466, € 22; C. Musumeci, A. Pugiotto, "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo", Editoriale Scientifica, Napoli, pag. 216, € 16, 50. Migranti, scatta l’operazione rimpatri e ora Atene teme il grande caos di Francesco Battistini Corriere della Sera, 20 marzo 2016 Per la Grecia è un’operazione quasi impossibile: dovranno esaminare 2 mila richieste di diritto d’asilo al giorno (quanti tutto il 2015). Servono 60 giudici, 1800 poliziotti, 20 mila posti letto, 8 navi. "Habibi, si gioca!". Al molo del Gate 1 arrivano i clown senza frontiere. Non c’è granché da fare, ma il sole sì, e qualche palloncino verde, un tric e trac, due terapeutici Augusti con la lacrima finta in una valle di lacrime vere, con le scarpe giganti che fanno invidia a chi gira scalzo. I bambini sentono la chiamata, s’affacciano dalle tende, escono dal Terminal passeggeri diventato un dormitorio. Corrono dai pagliacci. Qualcuno però non si muove: il papà dice no. "Bisogna stare attenti - si preoccupa Ahmed Sredene, 42 anni. Ho letto su Facebook che useranno tutti i trucchi per portarci da un’altra parte e rispedirci in Turchia…". Una volontaria americana della Croce rossa gli spiega che no, è solo un gioco e il suo bambino può andarci tranquillo: l’accordo nuovo comincia con l’alba della domenica e chi è al Pireo ci resta, dovrà essere interrogato e accettato oppure respinto, poi si vedrà… Sredene non si fida. Indica un posteggio dall’altra parte del molo, pullman tutti uguali: "Vogliono farci salire lì sopra, su quelli blu! E rimandarci indietro!". La Grecia e il patto europeo - Hanno una fifa blu. Blu come i bus e le divise della Guardia costiera e il mare che, se diventa color del vino, è per il sangue raggelato di chi ci annega. Stamattina sulle spiagge di Smirne han trovato una bambina di 4 mesi che galleggiava (mentre al largo della Libia una trentina di migranti annegava per il ribaltamento dei barconi). Sui moli del Pireo dicono che la pietà dell’Europa l’è morta e sta per cominciare l’Operazione Tutti a Casa: "Un salvataggio delle frontiere anziché delle persone", protesta Save the Children; "un duro colpo al diritto d’asilo", secondo Oxfam. E comunque una sfida troppo grande e troppo rapida, come scrive il Financial Times. O una fatica d’Ercole, nella retorica del presidente della Commissione Ue, Juncker. I turchi hanno avuto sei miliardi, ma come farà la stremata Grecia a rispettare questo patto europeo - fermare gli sbarchi sulle isole, aspettarsi migliaia di rientri dai Balcani ormai chiusi, vagliare caso per caso i 50mila rifugiati che già son qui, aspettare i ricorsi, rispedire chi non ha diritto - e fare entro il 4 aprile quel che un continente non ha saputo combinare in sei mesi? Fino al 2015 i centri d’accoglienza greci esaminavano sì e no duemila pratiche d’asilo politico all’anno: ora l’Ue impone d’esaminarne duemila al giorno. "L’accordo verrà applicato gradualmente", non può che dire il premier greco Tsipras. "C’è solo una decisione politica, ora bisogna metterla in pratica", avverte il suo ministro dell’Interno, Balafas, che a Bruxelles chiede subito 400 interpreti più 400 esperti in diritto d’asilo (e a piè di lista: 600 impiegati che parlino inglese, 60 giudici per i processi d’appello, mille soldati per la sicurezza, 1.825 poliziotti Frontex per eseguire i rimpatri, 8 navi da 3-400 passeggeri, 28 autobus, 20mila posti letto per l’accoglienza a breve termine nelle isole, 190 container…). Previsioni per il turismo e appartamenti vuoti occupati da rifugiati - Mezzanotte e poi basta. Stabilisce il patto che da domattina chi è fuori ci resta, chi è dentro ci prova e in ogni caso, chiunque chieda asilo, deve mettersi in coda: aspetti, dal 4 aprile le faremo sapere... Dalla Turchia salpano i gommoni last minute, più del doppio rispetto al solito. I prezzi salgono di colpo, i migranti salgono di corsa: 300 sbarchi solo ieri a Lesbo, 1.500 nella notte di venerdì, "abbiamo avuto la fortuna d’entrare appena in tempo!", bacia gli scogli Fatima, ripresa dalla tv greca. Il governo di Atene ha ricevuto le previsioni del turismo 2016, le prenotazioni calano del 30%, vuole evitare che le isole siano hot spot permanenti e spera invece che i respingimenti siano un bello spot. "I profughi lascino i campi improvvisati e vadano nei centri d’accoglienza", twitta Tsipras, anche se non è faccenda che si liquidi in 140 battute: nessuno sa bene come spostare i 12mila che bivaccano a Idomeni, "la Dachau d’Europa" (parole del ministro Balafas), e il sinistrorso premier non può certo permettersi blindati & manganelli, "garantiremo il rispetto di tutti i diritti". Il sindaco d’Atene s’aspetta l’invasione, 200 appartamenti sfitti per la crisi saranno riempiti coi rifugiati. Mica basterà: il Pireo è il più grande porto d’Europa, già Socrate diceva che entrarci era come scendere agl’inferi e immaginarsi cosa dicono i cinesi che se ne sono comprati un bel pezzo e ora si trovano le banchine invase da ambulatori da campo, tende, cessi chimici, barbieri all’aperto. "Nessuno ci ha detto ancora se sloggiarli o no - spiega un ufficiale della polizia portuale - ma la situazione è insostenibile. Dormono alle biglietterie, negli uffici delle compagnie, nei wc. Gli equipaggi delle navi devono fare guardia doppia, perché c’è sempre chi prova a imbarcarsi clandestino". Noi siamo l’anticamera dell’Europa, scrive un giornale greco, ma è la Turchia che tiene le chiavi di casa: "Facevo l’università a Idlib - racconta Majid Sredene, 20 anni, figlio più grande del severo papà siriano che vieta ai bambini i pagliacci scacciapensieri - è venuto l’Isis e ha arrestato me e tutti i miei compagni. Dieci giorni di galera. Pensavo di morire. Se adesso mi rimandano in Turchia, saprò che ero morto davvero". Fermiamo la strage: andiamo noi a prendere i profughi di Riccardo Magi (Segretario di Radicali Italiani) L’Unità, 20 marzo 2016 Mentre in Grecia decine di migliaia di uomini, donne e bambini in cerca di protezione continuavano ad accalcarsi, abbandonati a loro stessi in condizioni igieniche e sanitarie disperate, a Bruxelles i capi di stato e di governo mostravano il volto peggiore dell’Europa. L’intesa siglata con la Turchia per la gestione dei profughi descrive in modo drammatico la debolezza dell’Europa. Ancora una volta la logica dell’emergenza ha vinto sulla responsabilità. E ancora una volta, invece di guardare in prospettiva, l’Unione europea ha scelto una comoda via di fuga, appaltando ad Ankara il controllo delle frontiere esterne. Una mossa miope e pilatesca, con cui si accetta il rischio che si compiano, ai confini del nostro continente, violazioni gravissime dei diritti e della dignità di migliaia di persone, rinunciando di fatto a difendere quanto previsto dalle convenzioni internazionali alla base della nostra identità politica europea. Il governo italiano ha ancora l’occasione di porsi alla guida di un cambio di approccio alla questione drammatica ed epocale che stiamo vivendo, puntando, da paese fondatore, sulla difesa dei valori europei. L’unica strategia possibile per arginare la vergognosa mancanza di consapevolezza e volontà a livello europeo è intervenire con azioni precise e di impatto immediato. Il presidente Renzi ha una prima possibilità: il flusso di profughi nelle prossime settimane; per evitare la riammissione, si sposterà cercando altre strade. E probabilmente le famiglie ora bloccate in Grecia - più di 40.000 persone - si affideranno nuovamente ai trafficanti. Non aspettiamo che si apra una nuova rotta della disperazione e della morte. L’Italia stringa un accordo bilaterale con la Grecia per creare un canale umanitario che consenta a quei profughi di attraversare, assistiti, quel tratto di mare Adriatico. Una volta giunti e accolti nel nostro paese, venga loro riconosciuta una protezione umanitaria temporanea a livello nazionale, come è già stato fatto più volte in passato. Sappiamo infatti che i profughi siriani, iracheni e afghani hanno bisogno di protezione e non possono essere rimpatriati: la misura della protezione temporanea permetterebbe il rilascio immediato di un permesso di soggiorno consentendo eventuali spostamenti interni all’Ue. Saranno poi i singoli Stati membri a doversi assumere il peso di respingere, alle frontiere con l’Italia, persone con un permesso di soggiorno valido in mano. Solo esercitando questo tipo di pressione sugli altri Stati si può mettere in discussione l’ennesimo fallimentare tentativo europeo di chiudere la fortezza e rifiutare di soccorrere e proteggere chi fugge dalla guerra. A Bruxelles si sostiene che l’obiettivo dell’accordo con la Turchia è creare un canale sicuro per i richiedenti asilo da quel paese verso l’Europa, mettendo fine al traffico di esseri umani. Ma è evidente che, così come concepito, l’obiettivo è irrealizzabile, riguarda un numero bassissimo di eventuali destinatari e soprattutto ha un costo altissimo in termini di respingimenti e violazioni del diritto all’asilo. I canali umanitari si fanno in tutt’altro modo, come ha dimostrato il progetto di reinsediamento avviato dalla comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle chiese evangeliche e dalla Chiesa Valdese, una strada legale e sicura per portare le persone in salvo dalla guerra e assicurare protezione esiste: investiamo su quei progetti e aumentiamo le quote di persone da reinsediare. I fondi enormi destinati alla Turchia per l’ultima fallimentare e inaccettabile strategia europea sarebbero più che sufficienti per finanziare programmi efficaci di reinsediamento e ammissione umanitaria a livello Ue. In attesa di riuscire a costruire una sempre più necessaria politica comune europea, abbiamo infatti il dovere di fare tutto quanto nelle possibilità dell’Italia, anche provando a dettare una nostra linea nel nome della difesa dei diritti e della vita umana. Anche perché il rischio che il flusso si sposti nuovamente verso la Libia è altissimo sappiamo fin troppo bene cosa questo significherebbe per il nostro Paese. Migranti, rivolta Ong: duro colpo ai diritti umani di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 20 marzo 2016 Da Amnesty a Msf, le organizzazioni umanitarie insorgono contro l’accordo sui rifugiati con Ankara: un passo verso l’abisso della disumanità. Oxfam, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, Save The Children, Unhcr. Cambiano le parole, ma non il concetto: l’accordo Ue-Turchia sugli immigrati è un "ulteriore passo verso l’abisso della disumanità". Un giudizio pesante, dettato da una esperienza vissuta sul campo, nei campi profughi. "Si tratta di un colpo senza precedenti inferto al diritto di asilo e alle persone che richiedono protezione: l’Europa rinnega il suo passato di patria dei diritti umani e mercanteggia con il destino di centinaia di migliaia di persone in fuga, calpestando in un solo colpo la propria legge, la propria storia e il proprio senso etico", rimarca Oxfam. "L’accordo tra Ue e Turchia sulla crisi migratoria viola il diritto internazionale e quello dell’Unione, scambiando vite umane concessioni politiche - afferma Elisa Bacciotti, direttrice campagne di Oxfam Italia. Dopo il blocco della rotta balcanica, questo nuovo accordo con la Turchia è un ulteriore passo verso l’abisso della disumanità, peraltro mascherato, con raggelante ipocrisia, da strumento per smantellare il business dei trafficanti. Il costo del controllo dei confini europei non può continuare a essere pagato con vite umane". Oxfam chiede all’Unione Europea di adottare soluzioni efficaci per gestire il fenomeno migratorio, in particolare corridoi sicuri e legali per coloro che cercano di entrare nell’Unione. Gli Stati membri devono accogliere i rifugiati secondo la quota che gli spetta. Non si può mettere un tetto a questa fondamentale responsabilità. La migrazione non si può impedire: si può solo gestire nel migliore dei modi possibili, ma l’Europa che esce da questo ennesimo vertice è drammaticamente lontana da questo approccio. Non meno duro è il giudizio di Amnesty International. Secondo Amnesty, il "doppio linguaggio" collettivo dei leader europei non riesce a nascondere le enormi contraddizioni dell’accordo siglato, venerdì scorso, tra Unione europea e Turchia sulla gestione della crisi dei rifugiati. "Il doppio linguaggio con cui è stato ammantato l’accordo non ce la fa a celare l’ostinata determinazione dell’Unione europea a girare le spalle alla crisi globale dei rifugiati e a ignorare i suoi obblighi internazionali", rimarca John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty International. "Le promesse di rispettare le norme internazionali ed europee appaiono sospette, una zolletta di zucchero sulla pillola di cianuro che la protezione dei rifugiati in Europa è stata appena costretta a inghiottire", prosegue Dalhuisen. "Le garanzie sullo scrupoloso rispetto del diritto internazionale sono incompatibili con lo strombazzato ritorno in Turchia, a partire dal 20 marzo, di tutti i migranti irregolari arrivati sulle isole greche. La Turchia non è un Paese sicuro per i migranti e i rifugiati e ogni procedura di ritorno sarà arbitraria, illegale e immorale a prescindere da qualsiasi fantomatica garanzia possa precedere questo finale già stabilito", conclude Dalhuisen. "L’accordo con la Turchia dimostra ancora una volta come i leader europei abbiano perso completamente il contatto con la realtà. Il cinismo di questo accordo è evidente: per ogni siriano che dopo aver rischiato la vita in mare sarà respinto in Grecia, un altro siriano avrà la possibilità di raggiungere l’Europa dalla Turchia. L’applicazione di questo principio di porte girevoli riduce le persone a semplici numeri, negando loro un trattamento umano e il diritto di cercare protezione in Europa. L’accordo Ue-Turchia è la perfetta illustrazione di questo approccio pericoloso", incalza Loris Filippi, presidente di Msf Italia. E questo perché, spiega, "lo schema di ammissione volontaria proposto per i siriani in Turchia non è basato sui bisogni di assistenza e protezione di chi fugge dalla guerra, ma sulla capacità della Turchia di frenare le partenze verso l’Europa. Di fronte alle ragioni di vita e morte di chi cerca protezione in Europa è vergognoso che il solo passaggio sicuro offerto dai leader europei sia condizionato al numero di persone che saranno respinte. Allo stesso modo, anche l’assistenza umanitaria che l’Europa offre alla Turchia è null’altro che uno strumento per ottenere un "contenimento" del numero di rifugiati e migranti dalle proprie coste. Questo è del tutto inaccettabile. L’assistenza umanitaria dovrebbe essere basata sui bisogni delle persone, non sulle agende politiche dei governi". Dovrebbe, ma non è. "Questo accordo creerà solo maggiori incertezze per le migliaia di profughi che sono bloccati nel fango, al freddo e all’umido", gli fa eco il direttore generale di Save the Children, Valerio Neri. "I rifugiati hanno bisogno di protezione, non respingimenti rileva Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Noi temiamo che l’accordo sui reinserimenti riguardi solo una quantità minima di persone e possa mettere a rischio le persone che non sono siriane". Inoltre, aggiunge Sami, "al momento la situazione che troviamo in Grecia ed in Turchia fa sì che non si veda ancora una riflessione concreta sulle garanzie da offrire ai rifugiati. In Grecia manca ancora un’accoglienza adeguata, basta vedere Idomeni, e la possibilità di espletare le richieste di asilo in maniera veloce". Il Cardinale Bagnasco: "soltanto uno Stato triste decide di legalizzare l’eutanasia" di Andrea Tornielli La Stampa, 20 marzo 2016 Il presidente della Cei spiega perché la Chiesa rifiuta il concetto della "dolce morte". In Italia è illegale, ma a pochi chilometri dai nostri confini, in Svizzera, si può fare... Ci sono sempre più persone che silenziosamente chiedono il suicidio assistito perché non desiderano più vivere, come ha documentato nei giorni scorsi il nostro giornale. "Una società, una cultura dovrebbe sentirsi condannata di fronte a questo", commenta il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, che in questa intervista con La Stampa spiega perché l’eutanasia sia una sconfitta. Eminenza, perché c’è tanta gente che vuole morire? "Non so se ci sia davvero così tanta gente, spero proprio di no. Comunque è un segnale e come società dovremmo prenderlo in seria considerazione. Il problema principale non è quello di legiferare il come e il dove. Il vero problema è di non arrivare a questo. È un segno dell’angoscia esistenziale che una certa cultura può favorire, ma che si potrebbe annullare con la vicinanza, l’accompagnamento e ideali che diano senso alla vita, compresa la fase della sofferenza e della morte. Una società, una cultura dovrebbe sentirsi condannata di fronte a questo, perché incapace di sostenere e accompagnare le persone". L’eutanasia è un diritto? "Assolutamente no". Perché no? "Perché la vita è un dono, nessuno se la può dare. È dono da custodire, non da possedere con un senso di proprietà assoluta. Non dimentichiamoci poi che la nostra Costituzione, garantendo le cure, riconosce che la salute e la vita sono un bene per tutta la comunità. Un aspetto veramente importante, che corrisponde a una visione della persona e della società come "relazionale". La tua salute e la tua vita interessa anche me. Purtroppo ci stiamo allontanando da questo". Che cosa direbbe a un malato incurabile che non ce la fa a sopportare la malattia e vuol farla finita? "Due cose. La prima è che oggi, grazie alla scienza e alla tecnologia, ci sono cure palliative di altissimo livello e di grande efficacia per combattere il dolore fisico. La seconda cosa che direi riguarda invece il piano psicologico ed emotivo: non sei solo! Credo che il sentirsi soli sia la malattia più grave e mortale. Se una società non riesce a far sentire a chi è in difficoltà una compagnia, una solidarietà, una rete di affetti e attenzioni, è una società malata. Su questo sono intervenuto spesso, specialmente parlando di qualità della vita: oggi la si concepisce come autonomia, efficienza, produttività individuale. Si dovrebbe invece partire dall’essere dentro una rete di relazioni, dal sentirsi amati". Ma nel caso uno viva ormai in stato di incoscienza? "Innanzitutto: siamo davvero sicuri di ciò che uno percepisce, sente o non sente quando è in quello stato? E poi, quel malato, anche se in stato di incoscienza e bisognoso di tutto, resta persona. Suscita e sprigiona una rete di attenzione, presa in cura, affetto, dentro la quale continua a vivere come un dono per tutti". Le religioni affermano che la vita è sacra. Che cosa dice a chi non crede che ci sia qualcosa dopo la morte? "La vita è sacra e questo termine ha un duplice valore: quello squisitamente religioso, in quanto la vita viene da Dio; ma la vita è sacra anche in un senso laico, perché ci precede, perché non la decidiamo noi nel suo iniziale originarsi, e tutto ciò che precede la decisione dell’uomo, possiamo dire che, in un certo senso, sia sacro. La vita ha valore in se stessa, non in rapporto a quanto si è efficienti, ma innanzitutto in rapporto all’essere dentro una comunità". La Chiesa è per mantenere in vita sempre e comunque il malato incurabile? "La Chiesa non è favorevole all’accanimento terapeutico". Che cos’è l’"accanimento terapeutico"? "Quando medicine e farmaci sono ormai "rigettati" dal corpo, si sospendono le cure che risulterebbero un accanimento. La Chiesa è favorevole a sospendere queste cure e a dare dei palliativi che in qualche modo potrebbero anche accelerare l’inevitabile fine, con l’intento di lenire il dolore. Ma in questo caso l’obiettivo è lenire il dolore, non dare la morte, come invece purtroppo avviene nei casi che lei citava all’inizio, quando si somministrano farmaci per interrompere la vita". Dopo il riconoscimento delle unioni civili, nel mondo politico c’è chi avanza proposte sull’eutanasia. Che cosa ne pensa? "Se si esalta il desiderio individuale come prioritario, si instaura una concezione individualistica della vita nella quale la libertà di ciascuno è senza relazioni o con relazioni fragili con gli altri. Ci consideriamo come degli "assoluti", senza legami. La cultura dei legami è invece da recuperare: quei legami che oggi sono spesso intesi come una negazione della libertà individuale. Mentre sono la condizione della vera libertà di ciascuno, perché noi siamo esseri sociali e relazionali". Che cosa si augura che faccia l’Italia in proposito? "Mi auguro che continui a far prevalere la cultura dei legami e delle relazioni". Mi dica tre buone ragioni per dire di no a una legge sull’eutanasia. "Prima: la vita è un dono prezioso e vale sempre. Seconda: la vita, pur essendo mia, è un bene di tutti. Terza: in qualunque fase, anche la più debole, la vita sprigiona bontà, relazione e presa a cuore e dunque vale la pena di essere vissuta". Come giudica l’esperienza di quei Paesi europei dove il suicidio assistito è legge da anni? "Mi sembrano società tristi, che finiscono per essere senza speranza. Perché uno Stato che si arrende fino a questo punto, è uno Stato triste, che non crede nel futuro". Come risponde a chi sostiene che la Chiesa è un fattore che impedisce la "modernizzazione" del Paese e nega i diritti alle persone? "La Chiesa ama radicalmente e profondamente l’uomo e tutto ciò che lo riguarda. Ed è profetica anche quando dice parole esigenti. Ogni parola d’amore è parola esigente, come quella dei genitori verso i propri figli". Lei ritiene che sia giusto che i sacerdoti siano vicini e accompagnino anche le persone che hanno deciso di mettere fine alla loro vita? "La missione del prete è essere vicino a chiunque, in qualunque situazione, con l’amore e la verità del Vangelo". Turchia: il prezzo delle spericolate politiche di Erdogan di Alberto Negri La Stampa, 20 marzo 2016 È l’inestricabile strategia della tensione alla turca che forse soffoca in gola lo slogan "Siamo tutti Istanbul", come è avvenuto dopo le stragi di Parigi. Il massacro, il secondo in città dopo l’attentato alla moschea Blu, è inferiore per numero di morti eppure non si può non essere solidali con il popolo turco, con le famiglie delle vittime, quasi tutti stranieri: è stata colpita la vena pulsante di Istanbul, Istiklal Caddesi, dove passa chiunque vada sul Bosforo perché è la via commerciale, dei pub, dei cinema, delle librerie, che poi sfocia nella celebre Piazza Taksim. Via dell’Indipendenza, un tempo Grand Rue de Péra e prima ancora il Cadde Kebir, il Grande viale ottomano, non appartiene solo alla Turchia, ma a un universo cosmopolita che ha secoli di storia: questo era l’approdo degli stranieri e in tre chilometri è racchiuso il mondo del Levante, dove si parla turco, greco, arabo, curdo e mille altre lingue. Qui si sfila davanti a una serie di edifici storici e politicamente significativi, come il Çiçek Pasaji, il passaggio dei fiori, il Balik Pazari (mercato del pesce), le chiese cattoliche di Santa Maria e Sant’Antonio di Padova, la chiesa grecoortodossa di Haghia Triada, quella armena, sinagoghe e moschee. È qui che ha colpito un giovane kamikaze facendosi saltare al centro commerciale Demiroren. Non è la prima volta che il terrorismo colpisce il Grande viale. Ero a Istiklal Caddesi, all’angolo del consolato inglese, quando il 19 novembre 2003 un camion bomba distrusse la sede diplomatica. Fu ucciso anche il console. Ovunque macerie, vetri e il corpo di una donna senza vita davanti a me. Quasi nello stesso momento un altro attentato suicida faceva esplodere la banca Hsbc a Levant. Ci furono 27 morti da aggiungere ai 25 degli attentati alle sinagoghe della settimana precedente. Allora come oggi ipotesi e rivendicazioni si moltiplicavano senza nessuna certezza: da al-Qaeda a un gruppo islamista dai contorni oscuri. Anche questa volta la pista indicata da fonti filogovernative è quella islamica: un kamikaze membro di una cellula dell’Isis di Adana. In Turchia si continua a morire negli attentati - come è accaduto domenica ad Ankara quando si è seguita la pista curda del Pkk - ma la verità del momento è spesso una verità di comodo. Come quella che ha spinto la Ue a stringere un accordo sui profughi siriani con Erdogan dando alla Turchia la patente di Paese "sicuro". Ma tutto sembra contraddire il certificato europeo, accompagnato da miliardi di euro e promesse sull’allargamento dei visti. A metà settimana, la Germania, mediatrice dell’intesa con Erdogan, ha chiuso per timore di attentati l’ambasciata di Ankara e il consolato a Istanbul, ma anche la scuola tedesca: grande irritazione dei turchi perché questa è una decisione che non spetta alle autorità tedesche. Forse anche per questo si sono affrettati due giorni fa ad andare dal console generale italiano, Federica Ferrari Bravo, per assicurare che "la Turchia ha la situazione sotto controllo". Il consolato, due scuole italiane e l’Istituto di cultura sono a un passo da Istiklal. In realtà la Turchia è in guerra su due fronti: quello interno curdo e in Siria, dove ha appoggiato i jihadisti non solo per estromettere Assad, ma anche per tagliare la strada ai curdi siriani che, proclamando una Federazione autonoma da Damasco, hanno materializzato il peggiore incubo di Ankara. Per questo gli attentati, oltre che nell’ottica di una strategia della tensione che destabilizza la Turchia, sono interpretati anche come il cortocircuito delle politiche spericolate di Erdogan. Tunisia: anniversario dell’indipendenza, concessa l’amnistia a oltre 1.400 detenuti Aki, 20 marzo 2016 Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha deciso di concedere l’amnistia in via eccezionale a 1.477 detenuti in occasione del 60esimo anniversario della proclamazione dell’indipendenza. La decisione è stata annunciata al termine di un incontro tra Essebsi e il ministro della Giustizia Omar Mansour, come recita un comunicato della presidenza. Nel testo viene precisato che la grazia presidenziale prevede la scarcerazione di 1.065 persone e la riduzione delle sentenze per gli altri. Norvegia: l’avvocato di Breivik "5 anni di isolamento, trattamento inumano in carcere" Askanews, 20 marzo 2016 Il legale di Anders Breivik, il nazista che ha ucciso 77 persone nell’isola norvegese di Utoya nel 2011, ha chiesto oggi la condanna dello Stato per trattamento "inumano" nella sua requisitoria al termine di un processo nel quale il killer si è lamentato dell’isolamento carcerario, ma anche del Caffè servito freddo. Le autorità norvegesi hanno respinto le accuse, spiegando che il regime d’isolamento s’è reso necessario a causa della pericolosità sociale del detenuto. "Il ricorrente non è e non è mai stato sottoposto a un trattamento inumano", ha affermato Adele Matheson Mestad della procura generale. Il 22 luglio 2011 Breivik ha ucciso 8 persone facendo esplodere una bomba presso un edificio governativo e ne ha ammazzate altre 69 attaccando un campo della Gioventù laburista presso l’isola di Utoya. Per oltre un’ora il killer, armato fino ai denti, ha dato la caccia ai circa 600 adolescenti che si trovavano sull’isola, sparando alla testa di molti di loro. Breivik è stato condannato a 21 anni di carcere ed è detenuto in isolamento, mentre i suoi contatti con il mondo esterno sono strettamente controllati. Insistendo sulla durezza della detenzione, il suo avvocato Oystein Storrvik ha accusato la Norvegia di violare due disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’una delle quali vieta i trattamenti "inumani" e "degradanti" e l’altra che garantisce il rispetto della segretezza della corrispondenza. "I motivi per i quali l’interessato è stato condannato devono essere messi di lato", ha detto Storrvik, nell’aula della prigione di Skien, dove si tiene il processo civile. Breivik, come previsto, ha utilizzato il processo per fare dichiarazioni politiche. Dopo un saluto hitleriano, il primo giorno, ha dichiarato di rivendicare la sua adesione all’ideologia nazista. E ha affermato di essere maltrattato, paragonandosi a Nelson Mandela. Il suo legale ha definito questi sproloqui come "segni di vulnerabilità mentale" legati al regime carcerario a cui è sottoposto. Un’interpretazione respinta dalla procura generale: "Non è un uomo affranto che soffre di turbe legati all’isolamento, ma lo stesso uomo narcisista e ideologicamente perturbato" che ha dovuto rispondere di crimini gravissimi nel 2012, ha detto Mestad. Breivik dispone di 31 metri quadrati divisi in tre settori: area notte, area studi e area per esercizi fisici. Ha un televisore, un lettore Dvd, una console per i giochi, una macchina da scrivere, libri e giornali. "È chiaro che ha bisogno di parlare contro altre persone". Le lamentele del nazista si estendono al vitto: il caffè viene servito freddo e i piatti cucinati "sono peggiori del water-boarding", una tecnica di tortura. Filippine: il Cardinale Tagle porta il Giubileo nel carcere di Manila Radio Vaticana, 20 marzo 2016 L’Anno Santo della Misericordia arriva nelle carceri filippine: il prossimo 23 marzo il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, celebrerà la Messa ed aprirà la Porta Santa della cappella posta all’interno della casa circondariale della città. Alla cerimonia, si legge sul sito web dei vescovi filippini, sarà presente anche il nunzio apostolico del Paese, l’arcivescovo Giuseppe Pinto. I detenuti "strumenti di misericordia" - Dal suo canto, padre Bobby dela Cruz, membro della Pastorale per la Giustizia ripartiva, dedicata ai detenuti e portata avanti dalla Caritas di Manila, sottolinea l’importanza che il Giubileo raggiunga anche le persone in cella: "Vogliamo dimostrare - spiega - che siamo accanto ai detenuti in questo Anno della Misericordia, affinché anch’essi divengano strumenti di misericordia per gli altri". La porta della cella, simbolo della Porta Santa - La Porta Santa che verrà aperta dal cardinale Tagle raccoglie così l’indicazione di Papa Francesco contenuta nella Lettera con cui si concede l’indulgenza giubilare, siglata lo scorso settembre. In essa, il Pontefice sottolinea che i detenuti "potranno ottenere l’indulgenza nelle cappelle delle carceri, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". Nuova Zelanda: marijuana introvabile, il prezzo schizza fino a 900 euro all’etto di Luigi Grassia La Stampa, 20 marzo 2016 Una maxi retata e il meteo sfavorevole azzerano l’offerta. Ma agli antipodi l’erba è fumata dal 42% dei ragazzi, e il prezzo schizza fino a 900 euro all’etto. La Nuova Zelanda si è piazzata all’ottavo posto nella classifica dei Paesi più felici del mondo redatta per conto dell’Onu e resa pubblica qualche giorno fa (noi italiani, tanto per fare un paragone, siamo al cinquantesimo). Ma la Nuova Zelanda è anche uno dei Paesi che consuma più marijuana pro-capite, e la quota dei ragazzi e delle ragazze che la fumano regolarmente o almeno ogni tanto è addirittura il 42%. Però la marijuana resta illegale in quel lontanissimo Paese, a parte la possibilità di farsela prescrivere a scopo medico. Di conseguenza molti giovani neozelandesi stanno vivendo come una nube sulla loro felicità da ottavo posto l’improvviso tracollo nell’offerta di cannabis sul mercato degli antipodi. Non si sa bene perché questo sia successo. Ha di certo a che fare con una maxi-retata della polizia neozelandese che ha smantellato, in un colpo solo, tutta la rete della coltivazione e dello spaccio nella metà meridionale del Paese. Ma i giornali locali commentano che questo non basterebbe a spiegare la quasi completa scomparsa del prodotto. Pare ci sia di mezzo anche una combinazione meteorologica che ha compromesso la coltivazione nel Nord proprio mentre il Sud tracollava per altre ragioni. Ed essendo la Nuova Zelanda non solo priva di confini terrestri con altri Paesi ma anche remota via mare rispetto a qualunque altro posto, inclusa la "vicina" Australia, un flusso supplementare di importazioni via nave o via aereo non si improvvisa. Il vuoto verrà sicuramente colmato, ma per il momento la marijuana per le strade della Nuova Zelanda non si trova, a meno che non si sia disposti a pagare le poche scorte residue fra i 300 e i 400 dollari neozelandesi per oncia, cioè (mal contati) fra i 650 e i 900 euro all’etto. Dice a un giornale locale Christian, consumatore abituale: "Di solito bastano 50, massimo 100 dollari l’oncia. Per quattordici anni non ho mai avuto problemi a trovare l’erba. Ma adesso sto pensando di farmi diagnosticare una depressione e farmi prescrivere la marijuana a scopo terapeutico". E non sarebbe un imbroglio al sistema sanitario nazionale, lui adesso si sente veramente depresso. Una nube sulle felicità neozelandese.