Un’agenda per l’umanità, i leader devono fare di più di Ban Ki-moon (Segretario Generale dell’Onu) Corriere della Sera, 1 marzo 2016 Mai così tante persone, dai tempi della seconda guerra mondiale, sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Non c’è tempo da perdere. Mai così tante persone hanno avuto un tale disperato bisogno di assistenza umanitaria da quando esistono le Nazioni Unite. Sempre più attori in situazioni di conflitto stanno violando senza remore il diritto umanitario internazionale. Mai così tante risorse sono state richieste per soddisfare bisogni umanitari in vertiginoso aumento. Eppure, ci troviamo di fronte alla più grande carenza di finanziamenti di sempre. Per questa e tante altre ragioni, il 23 e 24 maggio a Istanbul indirò il primo Vertice Umanitario Mondiale. Incoraggio tutti i leader del mondo, le organizzazioni internazionali ed altri attori ad impegnarsi a fare di più, e meglio, per quanti hanno bisogno di aiuto. Non c’è tempo da perdere. Il cambiamento climatico sta influenzando la vita e i mezzi di sostentamento in tutto il nostro fragile pianeta. Conflitti brutali e apparentemente ingestibili, estremismo violento, crimine transnazionale e crescenti disuguaglianze stanno sconvolgendo la vita di milioni di uomini, donne e bambini, destabilizzando intere regioni. Mai così tante persone, dai tempi della seconda guerra mondiale, sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Un senso di umanità comune e condiviso deve ispirare il nostro modo di fare politica e guidare le decisioni finanziarie. In vista del Vertice, ho elaborato un’Agenda per l’Umanità che rappresenti un quadro di riferimento per l’azione, il cambiamento, e per una responsabilità reciproca. L’Agenda delinea cinque responsabilità chiave. In base alla prima i leader devono aumentare i loro sforzi per trovare soluzioni politiche per prevenire e porre fine ai conflitti. Il loro enorme costo umanitario ed economico rende i conflitti il più grande ostacolo per lo sviluppo umano. Dobbiamo passare dalla gestione delle crisi alla loro prevenzione. La seconda responsabilità riguarda l’obbligo dei Paesi di rispettare le norme a salvaguardia dell’umanità. Ciò significa rispettare il diritto umanitario internazionale e i diritti umani, fermare bombardamenti e attacchi contro bersagli e aree civili, oltre che impegnarsi per la giustizia nazionale e internazionale e porre fine all’impunità. Il terzo punto dichiara che non dobbiamo lasciare indietro nessuno - occorre prima di tutto raggiungere le persone più emarginate. Questo significa trasformare le vite dei più vulnerabili, di chi vive in situazioni di conflitto o di povertà estrema, e di coloro che sono esposti a calamità naturali e all’innalzamento del livello del mare.. La quarta responsabilità fondamentale riguarda il passaggio dal fornire aiuto umanitario al porre fine ai bisogni. È necessario eliminare il divario umanitario e dello sviluppo una volta per tutte. Dobbiamo anticipare l’arrivo delle crisi, anziché attendere che esse accadano. Infine, secondo il quinto e ultimo principio vanno trovati modi intelligenti e innovativi per mobilitare risorse economiche. Questo richiederà diversificare ed espandere la base delle nostre risorse e utilizzare una più ampia varietà di strumenti finanziari. Ho proposto una nuova piattaforma finanziaria internazionale con la Banca Mondiale per individuare nuovi meccanismi di finanziamento che rispondano a crisi che si protraggono nel tempo. L’Agenda per l’Umanità offre azioni chiave e cambiamenti strategici che il mondo richiede per ridurre i bisogni umanitari e contribuire al raggiungimento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile. Voglio incoraggiare i leader mondiali a partecipare al Vertice Umanitario Mondiale impegnandosi a promuovere un progresso umano sostenibile e una vita dignitosa e sicura per tutti. La difficile sintesi di emendare e di governare di Montesquieu Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 In questi giorni il Senato della Repubblica, camera agonizzante, ha approvato il progetto di legge sulle unioni civili, prospettando e facendo ampio ricorso a quelli che Michele Ainis sul Corriere della Sera ha chiamato "riti irrituali". Ossimoro incisivo, per la sintesi impietosa con cui sottolinea la distanza tra i procedimenti di formazione delle leggi in uso nei due rami del Parlamento e il limpido disegno tracciato in Costituzione: ma ossimoro addirittura timido, se si limitasse a segnalare differenze formali, o abitudinarie negligenze, anziché autentici strappi di un precetto costituzionale. L’articolo 72 della Costituzione dispone, in sintesi, che ogni progetto di legge sia prima istruito dalla commissione parlamentare competente e quindi approvato in sede plenaria dall’Assemblea di ognuna delle due camere. Con un vincolo che almeno in questa seconda sede non risulta rinunciabile: l’esame e la votazione dei singoli articoli, in cui ogni testo deve essere suddiviso fin dalla sua proposizione, previa votazione dei rispettivi emendamenti. Questo - della presentazione di emendamenti - è un diritto, che i "riti irrituali" tendono, tutti o quasi, a comprimere se non ad eliminare: attraverso strumenti vari e differenti, oltreché spesso dotati di nomi fantasiosi e suggestivi. Come "tagliola" o addirittura - senza riguardi o ipocrisie - "ghigliottina"; o, fantasiosamente, "canguro", animale dall’esemplare abilità nel saltare gli ostacoli (nel caso, gli emendamenti). O, con realistica crudezza, "maxiemendamento": immane cumulo sotto un unico cappello di un numero imprecisabile ed illimitabile di commi, molti dei quali delle dimensioni autonome di articoli. A questi strumenti, che hanno in comune un palese intento predatorio di un duplice diritto - di proporre modifiche e di votarle - si accompagna di fatto la posizione della questione di fiducia: istituto, almeno questo, previsto in Costituzione, che inserito nell’iter legislativo non consente di conoscere la reale volontà dell’assemblea. Il vezzo di procedere con maxiemendamenti senza limiti ha prodotto la sostanziale impossibilità di interpretare una norma da parte di professionisti o cittadini normodotati, sempre comunque tenuti a rispondere delle conseguenze della sua eventuale, spesso inevitabile, inosservanza. Tra i "riti irrituali" e la riforma del Parlamento - cardine dell’intera riforma costituzionale - si colloca l’obiettivo proclamato di semplificare e abbreviare i procedimenti parlamentari, per rendere possibile la fisiologica attuazione degli impegni di governo: e quello, conseguente ed implicito, di tornare al rispetto della formula costituzionale di cui all’articolo 72. Attuazione fisiologica che consiste nel ritorno ad una dialettica parlamentare basata sul principio di maggioranza, per cui chi è maggioranza ha diritto di vedere approvate le proprie proposte, e le minoranze quello di denunciare efficacemente all’opinione pubblica la propria contrarietà. Tra gli obiettivi anche quello di rimuovere deplorevoli pratiche in voga quali i traffici di parlamentari: privati spesso, deputati e senatori, di identità a causa di leggi elettorali che li rendono non collegabili al "popolo sovrano" di cui sono giuridici rappresentanti. In breve, l’eventuale entrata in vigore della riforma della struttura del parlamento dopo il referendum d’autunno dovrà accompagnarsi, da parte delle camere e d’intesa con l’esecutivo, alla ripulitura degli archivi della presidenza e degli uffici delle camere dalla sovrastruttura costituita da decenni di prassi e precedenti creati alla bisogna, primi tra tutti quelli che hanno dato corpo proprio ai deplorati "riti irrituali". Precedenti dapprima introdotti (nella prima repubblica del muro di Berlino e della conventio ad excludendum) per dare qualche respiro ad esecutivi impotenti davanti alla dominante consociazione parlamentare; quindi, nella seconda, per la sostanziale assimilazione delle camere da parte di esecutivi poco rispettosi, taluni e talora, del principio di distinzione tra poteri costituzionali. Con questa accortezza, il nuovo parlamento, sostanzialmente la nuova Camera dei deputati, dovrà costruire quando necessario i propri precedenti, le proprie prassi, con la trasparenza spesso mancata fin qui nella formazione e nella gestione degli stessi. Tutto ciò fermo restando il giudizio che ciascuno dia sulla riforma, e che il referendum confermativo consentirà democraticamente di esprimere. Ogni attacco alla funzione difensiva si traduce in un attacco alla stessa idea di libertà di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Ucpi) camerepenali.it, 1 marzo 2016 Abbiamo già assistito, ciclicamente, ad attacchi generalizzati nei confronti della funzione difensiva e degli avvocati. Continuiamo a pensare, forse illudendoci, che in uno Stato democratico e liberale l’avvocato non sia un ostacolo alla giustizia, e che ogni attacco alla funzione difensiva si traduca in un attacco alla stessa idea di libertà. La confusione, creata ad arte, tra difesa degli imputati e difesa dai reati, serve infatti ad accreditare l’idea che gli avvocati, e la funzione che svolgono, siano del tutto inutili se non dannosi. Con buona pace anche dei principi della nostra Costituzione, che insegna come la difesa sia un diritto inviolabile e come il processo debba essere strumento di verifica della responsabilità delle persone, innocenti sino a prova contraria, nel contraddittorio tra le parti, e davanti a un giudice terzo. Richiami inutili, fuori moda. La tentazione di prendersela con l’avvocatura è rispuntata impetuosa in questi giorni. Prima il Procuratore Dott. Gratteri ha sostenuto, in un’intervista, che gli avvocati fossero normale strumento di trasmissione di messaggi di morte, di richieste di mazzette, e di minacce ai testimoni per conto dei mafiosi, poi il giornalista Gramellini, in un editoriale su "La Stampa", ha affermato che "l’avvocato difensore dei colpevoli è mestiere infame che costringe a qualsiasi genere di arrampicata sui muri ospitali della legislazione italiana". Ad onor del vero, il Dott. Gratteri ha precisato che non intendeva offendere l’onorabilità degli avvocati e della funzione, e che si era trattato di una esemplificazione poco felice. Abbiamo preso atto della puntualizzazione, anche se prendere ad esempio casi singoli, connotando di negatività una intera professione, rappresenta pur sempre un errore: sarebbe come dire, viceversa, che se si scopre un magistrato corrotto è corrotta l’intera magistratura. Gramellini è andato oltre, "l’avvocato difensore dei colpevoli" non sarebbe per lui più una professione ma un "mestiere", e per di più "infame". Inutile ricordare, anche a Gramellini, che l’avvocato assiste chi, fino a prova contraria, è innocente e che anche difendere colui che un equo processo dimostrerà poi essere colpevole non è affatto una infamia, ma un diritto che non ci stancheremo mai di difendere da chi, invece, desidererebbe evidentemente processi sommari auspicando l’avvento di uno Stato autoritario, nel quale inquirenti e magistrati potrebbero certamente bastare per ristabilire l’ordine violato, magari senza il rispetto di quelle fastidiose leggi poste a garanzia di tutti. Continuiamo a pensare, forse illudendoci, che in uno Stato democratico e liberale l’avvocato non sia un ostacolo alla giustizia, e che ogni attacco alla funzione difensiva si traduca in un attacco alla stessa idea di libertà. Intervista a Donatella Ferranti (Pd) "nei tribunali ordinari i minori saranno più tutelati" di Viviana Daloiso Avvenire, 1 marzo 2016 Non cancellare, ma "valorizzare" il patrimonio della giustizia minorile italiana. Che deve "uscire dalla sua nicchia e intrecciarsi con quella ordinaria, contaminandola con le sue buone pratiche". Ma anche superare alcuni limiti: "Il "fai da te" di certe procure, la mancanza di un procedimento cadenzato, il dialogo problematico o addirittura assente con gli altri tribunali". Donatella Ferranti, parlamentare del Pd e presidente della Commissione giustizia della Camera, difende a spada tratta il ddl delega sulla riforma del processo civile, in cui un suo emendamento prevede l’accorpamento dei Tribunali dei minori a quelli ordinari e la trasformazione della Procura minorile in un gruppo specializzato presso la Procura ordinaria. Presidente, perché la necessità di cancellare Tribunali e Procure dei minori e accorparli a quelli ordinari? "Non si tratta di sopprimere e tanto meno eliminare i tribunali dei minori, ma anzi di valorizzarne l’esperienza, che è sicuramente importante e positiva ma che non può più essere vista come separata dal resto della giurisdizione, in quanto per il minore le famiglie esigono da tempo un giudice unico specializzato che mantenga, però la necessaria prossimità con i servizi del territorio e un processo rafforzato nei principi del contraddittorio, del diritto di difesa e dell’ascolto". Queste cose oggi mancano? "Al processo minorile manca oggi un rito specifico, un procedimento cadenzato nelle sue fasi specifiche. Anche la Cedu (la Corte europea dei diritti dell’uomo, ndr) ci ha rimproverato su questo punto". Sono numerosi i dubbi e le criticità avanzate negli ultimi giorni non soltanto in ambito giudiziario, ma anche sociale, da chi da anni lavora a contatto col disagio e la fragilità dei più piccoli. Il timore diffuso è che si perda una esclusività e un’autonomia essenziali alla materia e alle tempistiche della giustizia minorile. "Qui credo si debba sgombrare il campo da timori del tutto infondati, legati a una certa resistenza ad abbandonare lo status quo, che presenta invece obiettivamente diverse disfunzioni. Autonomia e indipendenza sono riconosciute dalla Costituzione a tutta la magistratura, così come la specializzazione in alcune materie - per esempio, impresa, lavoro, fallimento, criminalità organizzata - rientra in modelli già ampiamente collaudati nella giurisdizione ordinaria". Come coniugare la turnazione che vige in una Procura ordinaria con le urgenze, gli episodi di abuso o maltrattamenti per esempio, in cui viene richiesto alla giustizia di intervenire entro le 24 ore? Cosa succederà in questi casi, se il procuratore starà lavorando anche su un blitz con decine di arresti? Oggi la priorità dei Tribunali dei minori sono i minori... "Rispondo con un esempio: a Roma già ora, presso la procura, è previsto un turno specifico e permanente, 24 ore su 24, per i magistrati che compongono il gruppo, guidato dall’aggiunto Maria Monteleone, che si occupa dei reati di violenza. Una turnazione che funziona ottimamente e non ha mai creato alcun problema, e un domani quello stesso gruppo, in sede distrettuale, potrà arricchirsi del prezioso contributo dei magistrati della procura minorile e quindi garantire turni esterni rafforzati e specializzati". La proposta approvata in Commissione giustizia prevede la formazione di "sezioni specializzate" dei tribunali distrettuali e di corrispondenti "gruppi" nelle Procure: non c’è il rischio che i magistrati chiamati a comporli col tempo finiscano per essere privi di una specifica professionalità, dovendosi occupare dei compiti più eterogenei? "Assolutamente no. In sede di tribunale distrettuale, dove confluirà il tribunale dei minori, le sezioni specializzate saranno istituite sul modello della sezione lavoro e i magistrati assegnati eserciteranno le funzioni in via esclusiva. Anche per la procura distrettuale la specializzazione dovrà essere garantita attraverso l’istituzione di gruppi specializzati, secondo il modello della Dda (Direzione distrettuale antimafia, ndr). Dunque, dov’è il pericolo?". Un’altra preoccupazione diffusa è che la riforma, così com’è, possa disperdere la cultura e le buone pratiche maturate in decenni di lavoro. "Anzi, credo che si potrà creare un’osmosi al contrario: le buone prassi e la specializzazione maturate nell’esperienza minorile non saranno più un patrimonio e un "mondo" separati dal resto della giurisdizione. Anche perché il minore ha bisogno di un giudice accorto e professionalmente specializzato sia quando è autore di reato sia quando è vittima di violenze, abusi o disagi familiari. E in questi ultimi casi, voglio specificarlo, di un minore oggi non si occupa il Tribunale dei minori, ma quello ordinario". Ci sono regioni che contano su quattro Tribunali dei minori - come la Sicilia - e altre - è il caso di Valle d’Aosta e Piemonte - che si devono accontentare di un solo Tribunale per due. Non sarebbe più facile intervenire su questi casi, e magari accorpare Tribunali e procure dei minori, piuttosto che farli sparire tutti d’un colpo? "Questo è un problema che va oltre la riforma perché afferisce alla distribuzione delle corti d’appello sul territorio nazionale. Un domani ogni capoluogo di distretto, sede di corte d’appello, avrà la sezione specializzata distrettuale con competenza e funzioni esclusive in materia di famiglia, minori e persona; in sede circondariale, ogni tribunale del distretto avrà una sezione specializzata per persone, famiglia, minori. Quindi di fatto non sparisce nulla, ma aumenta la specializzazione che deve essere garantita anche in secondo grado davanti ai collegi di corte d’appello". Sul nostro giornale il professor Mario Chiavario si chiedeva che ruolo avranno in futuro i giudici onorari, vale a dire gli esperti in problematiche dell’età evolutiva che fino a oggi hanno affiancato così proficuamente le procure dei minori. "Rimarranno come oggi assegnati di diritto alla sezione specializzata presso il tribunale distrettuale. Quel tribunale che d’ora in poi avrà la competenza esclusiva, oltre che per il penale minorile, per tutta la materia delle adozioni e la decadenza della responsabilità genitoriale". L’Autorità nazionale anticorruzione chiede più incompatibilità per i politici di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Più barriere per chiudere le "porte girevoli" fra politica e incarichi amministrativi di vertice, estendendo le incompatibilità e le inconferibilità prima di tutto alla politica nazionale, per coprire un buco che rappresenta "una delle più vistose carenze" delle norme attuali, e rivedendo le regole per gli altri. Diventano ufficiali i 25 correttivi alla legge Severino che l’Autorità nazionale anticorruzione chiede al Governo, e che insieme a un dossier su misura per la sanità e uno sugli enti di diritto privato regolati o finanziari da Pubbliche amministrazioni, rappresentano il pacchetto di richieste per una definizione più efficace delle norme anticorruzione. Griglia più estesa - In fatto di incompatibilità e di impossibilità di conferire incarichi, il filo rosso delle proposte targate Anac passa da un’estensione dei vincoli che provano a frenare conflitti d’interesse e passaggi "compiacenti" dalla politica all’amministrazione. Prima di tutto, com’è ovvio, si chiede di estendere ai membri di Camera e Senato le regole già previste per i politici di Regioni ed enti locali, sanando un’asimmetria "curiosa" che fin dal principio aveva sollevato le critiche intorno ai decreti attuativi della legge 190/2012. Possibili stop alle cariche politiche - Più in generale, però l’Autorità guidata da Raffaele Cantone chiede di prevedere un sistema speculare a quello che già vieta agli ex politici di occupare subito dopo la fine del mandato un posto di vertice nelle amministrazioni, per superare il paradosso attuale per il quale "le medesime situazioni di conflitto di interessi vietano l’accesso alle cariche amministrative, ma non alle cariche politiche che dovrebbero indirizzarle". La sede più indicata, secondo il dossier Anac, sarebbe rappresentata dal disegno di legge sul conflitto d’interessi che è stato appena approvato dalla Camera e che, "per motivi che non è dato conoscere, ignora le problematiche relative ai regimi di inconferibilità e ai divieti post-carica". Apertura sulle deroghe - Anche le inconferibilità già in vigore, però, meritano secondo l’Autority di essere riviste, integrando il criterio della "prossimità" con quello della visibilità": l’ipotesi sarebbe quella di prevedere un periodo di raffreddamento più lungo per le provenienze dall’alto, come quella di un ex parlamentare che va a dirigere un ente controllato da una Regione, e più breve per quelle dal basso: l’Anac, in questo senso, apre anche alla possibilità di eliminare del tutto il blocco in caso di provenienze particolarmente distanti (per esempio l’ex sindaco di un Comune medio-piccolo che ottiene l’incarico di dirigente in un ministero). Ma l’obiettivo di rendere più flessibile la normativa potrebbe essere raggiunto, spiega il dossier, anche con la previsione di deroghe possibili alle regole automatiche su inconferibilità e incompatibilità, per evitare ad esempio il rischio di doversi privare di una professionalità specifica e riconosciuta che però ha ricoperto, magari per un breve periodo, una carica politica che ne blocca la nomina. Le deroghe, da estendere anche ai casi in cui il conflitto d’interessi non sia chiaramente individuabili, andrebbero però sempre vigilate da un parere Anac che le renda possibili. Intervista al Commissario unico Franco Corleone "Opg, 6 mesi per voltare pagina" di Lucilla Vazza Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 "Lavoro con le Regioni". Per 114 non si trovano le misure alternative. Si scrive Opg, si legge manicomi giudiziari. Una pagina oscura, nel libro triste della storia penitenziaria del nostro Paese, ma che è destinata a chiudere per sempre. Per definire le ultime situazioni pendenti, è arrivata nelle scorse settimane la nomina del Commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone. Dell’ex sottosegretario alla Giustizia e attuale Garante per i diritti dei detenuti della Toscana, colpisce la pacatezza, unita alla determinazione, con cui racconta la situazione attuale e i prossimi passi da compiere. Nel segno dell’umanità, che m questo ambito è tutt’altro che scontata. Dottor Corleone, a un anno dalla chiusura ufficiale degli Opg, c’è stato bisogno di arrivare al commissariamento... "È un passaggio importante. Difficile, ma che si può portare a compimento. Nei vecchi Opg sono rimaste 97 persone. Da dicembre è stato chiuso Secondigliano (Reparto Verde), mentre a Firenze è stato svuotato il reparto femminile. Numeri che possiamo gestire. Ben lontani dalla vergognosa situazione fotografata dalla Relazione choc del 2011, curata da Ignazio Marino e che fece indignare tutti, compreso il Presidente della Repubblica Napolitano". Le Regioni hanno fatto muro contro questo commissariamento... "È stata solo la prima reazione. Ci stiamo parlando, le Regioni hanno nel commissario un alleato che può aiutare a sistemare le situazioni, arche dove vi fossero i comuni di traverso. Gli Opg sono reperti di orrore archeologico, istituzioni fuori della storia. E su questo siamo tutti d’accordo". Quali saranno i prossimi passi? "C’è un calendario. La prossima chiusura sarà l’Opg di Reggio Emilia, dove sono rimasti 6 pazienti-detenuti. In Veneto stiamo lavorando con la Rems di Nogara, dove c’è un sindaco molto motivato a costruire un vero progetto di reinserimento. Poi via via tutte le altre: Piemonte, Veneto, Toscana. Abruzzo. A breve faremo un primo punto della situazione con il Governo e le Regioni. Perché sono state costruite Rems provvisorie, ognuna con una propria gestione eun proprio regolamento. La situazione e in evoluzione, c’è da lavorare. E un capitolo nuovo, tutto da costruire. Ma è chiaro che con le Rems non devono risorgere i manicomi". Il rischio è proprio questo: Rems come mini-manicomi, più nuovi, più puliti... Lo spirito della legge 81 è chiaro: bisogna deistituzionalizzare, la Rems è l’ultima ratio, bisogna avere progetti persona lizzati per ogni persona. Su questo abbiamo avviato una riflessione con il Csm, un tavolo, ma è un processo culturale e il confronto non sarà ne facile ne breve. Ognuno deve fare la propria parte, inclusa la magistratura. Le Rems non possono essere un sistema a porte girevoli, da cui si entra e si esce. Siamo in una fase nuova che impone anche nuove forme di monitoraggio. Per alcune persone, ripeto, bastano i servizi territoriali, non devono entrare provvisoriamente nelle Rems per poi uscire dopo poco. Non è questo lo spirito della legge 81. E questo deve essere chiaro ai giudici. Le persone tuttora negli Opg troveranno via via posto nelle Rems, ma abbiamo un’altra emergenza da gestire. Ci sono 114 persone a cui è riconosciuta l’infermità mentale, ma che non hanno trovato posto nelle Rems. Sono a piede libero, perché non c’è modo di eseguire le misure alternative alla pena e non possono entrare in carcere". E chi ha priorità di entrare nelle Rems: i 97 ex Opg o i 114 "vaganti"? "E uno dei nodi da sciogliere. Parliamo di persone e non di corpi da collocare qua o là. Bisogna valutare ogni situazione. Con spirito di umanità e grande collaborazione interistituzionale. Per questo sollecito un provvedimento che affronti questa criticità e m generale il capitolo Rems. La legge 81 è il secondo pilastro della riforma Basaglia. Ci sono voluti quasi 40 anni e ora bisogna agire (bene!) nell’interesse di tutti". Lei parla di scrivere una pagina nuova, dove finalmente la salute mentale e la detenzione possano fare ponti" e non muri. "Sì, e ribadisco il no alla contenzione e ad altre forme di sopraffazione e coercizione dei malati. Ma per cambiare le cose bisogna coinvolgere il personale che lavora nelle Rems. Dev’essere motivato e formato. E, naturalmente, ascoltato nelle istanze, nelle difficoltà che legittimamente esprime". Intervista a Donato Capece (Sappe) "almeno 15mila persone non dovrebbero stare in carcere" di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 1 marzo 2016 "Il problema delle carceri non è solo il sovraffollamento, ma la concezione delle strutture, in rapporto con il territorio e con il recupero dei detenuti". Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, uno dei sindacati degli agenti penitenziari, non lesina critiche alla programmazione degli istituti di pena. Cominciamo dalle cifre. È vero che ci sono troppi carcerati? "È vero che siamo scesi dai 66mila di alcuni anni fa ai 53mila attuali, ma il numero dei letti previsti è di 46 mila. Gli agenti di custodia, poi, a fronte di una pianta organica di 45 mila unità, conta 38 mila unità. Siamo sotto organico di 7mila agenti". È vero che il sovraffollamento è il primo problema? "No, è un falso problema. Il vero problema è la mancanza di una seria programmazione da parte della politica e dell’amministrazione penitenziaria. Servirebbe una riforma strutturale, perché il sistema del carcere-albergo è ormai superato, non ha senso". Il motivo? "In carcere ci sono troppi soggetti che non vi dovrebbero stare. Bisognerebbe puntare per 15-20 mila persone, che non creano allarme sociale, al carcere-territoriale, grazie alle misure alternative, ai domiciliari, al braccialetto elettronico, ai lavori di pubblica utilità". E il carcere vero? "Dovrebbe servire per la criminalità vera e i reati gravi, al massimo per 30mila persone. Gli stranieri che hanno una pena detentiva da scontare dovrebbero essere espulsi, trasferiti nelle galere dei loro paesi d’origine. Ma anche i tossicodipendenti dovrebbero uscire: a loro il carcere non serve". Il principale difetto delle carceri attuali? "Non sono in grado di restituire cittadini in grado di reinserirsi. Troppi detenuti non fanno nulla, vivono nell’ozio, hanno tutto il tempo di creare disordini. Penso agli stranieri: stanno bene, mangiano e bevono gratis. Chi sta meglio di loro? E gli agenti penitenziari sono costretti lavorare da soli nel caos, facendo da assistenti sociali, sacerdoti ed educatori. E salvando la vita di tanti disperati". Senza decisione sul merito misura inefficace di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 8110/2016. Se il Tribunale, per ragioni formali, non decide nel merito sulla richiesta di riesame della misura cautelare entro 10 giorni dal deposito degli atti, questa diventa inefficace. La Corte di cassazione, con la sentenza 8110 depositata ieri, accoglie la tesi del ricorrente che contestava la possibilità di rinnovare la misura cautelare che era stata applicata nei suoi confronti e poi dichiarata inefficace a causa della mancata notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale (articolo 309, comma 8 del codice di procedura penale). Secondo la difesa del ricorrente, il Tribunale aveva avallato il rinnovo, interpretando in maniera distorta l’articolo 309 del codice di rito, che nella nuova "versione" introdotta dalla legge 47/2015 non consente di rinnovare le misura divenuta inefficace a meno che non ci siano eccezionali esigenze cautelari che vanno "specificamente motivate". Nel caso esaminato, il Tribunale aveva ravvisato il requisito dell’eccezionalità, richiesto dalla norma, solo nel reato contestato (concorso in rapina pluriaggravata), senza guardare agli sviluppi del procedimento e alla condotta dell’imputato che aveva confessato e collaborato. L’omessa notifica dell’avviso di udienza aveva fatto sì che l’incidente cautelare venisse chiuso con la declaratoria di inefficacia della misura applicata dal Gip, conclusione che non aveva però comportato alcuna decisione sul merito, riguardo alle contestazioni del ricorrente, come invece previsto. I giudici della Seconda sezione sottolineano che, facendo scattare il semaforo rosso al rinnovo, il legislatore ha, evidentemente, voluto sanzionare, in modo rigoroso il difettoso funzionamento della "macchina giudiziaria", nel caso di violazione dei termini fissati dall’articolo 309. Per la Suprema corte, affermare la possibilità di rinnovare "semplicemente" la misura nel caso di un incidente procedurale nella formazione del contraddittorio che impedisca la decisione nel merito, equivarrebbe ad aprire la strada alla reiterazione della misura coercitiva in modo del tutto discrezionale. Il nuovo reato di omissioni contributive non è retroattivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Corte di cassazione, Terza sezione penale sentenza 26 febbraio 2016 n. 7884. Nessuna applicazione retroattiva del nuovo reato di omesso versamento di ritenute. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 7884 della Terza sezione penale, che ricorda come la riforma dei reati tributari da pochi mesi in vigore per effetto del decreto legislativo n. 158 del 2015 ha esteso la portata della norma (prevista dall’articolo 10-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000), oltre che alle ritenute certificate alle "ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione", riformulando contestualmente la rubrica (ora: "omesso versamento di ritenute dovute o certificate"). La prova della ritenuta (di cui l’accusa contesta il mancato versamento) potrebbe quindi ora prescindere dalle certificazioni rilasciate al sostituito, potendo in ipotesi bastare che essa risulti dalla dichiarazione. Inoltre, la soglia di punibilità viene triplicata, passando da cinquantamila a 150.000 euro, per ciascun periodo d’imposta. La Corte si trova ad affrontare la condanna ricevuta sia in primo grado sia in appello, con una lieve riduzione della sanzione (da 8 a 5 mesi di carcere) dopo il secondo grado, da un imprenditore per non aver versato le ritenute per il periodo d’imposta 2008, per un importo complessivo di oltre 300mila euro. La Cassazione, in via preliminare, riconosce l’esistenza di una successione di leggi penali nel tempo e sottolinea come la modifica innestata dalla riforma nell’articolo 10-bis ha come conseguenza quella di non richiedere più la copia della certificazione. Misurando l’impatto per i processi in corso, la Cassazione avverte che si tratta di una norma più sfavorevole per l’imputato, escludendo quindi, sulla base della consueta regola tempus regit actum, che la novità possa avere un’applicazione retroattiva. La Cassazione, sgomberato il campo dalla possibilità di applicare la riforma, annulla la condanna ricevuta dall’imprenditore. Così, se da una parte resta per il caso preso in esame la necessità della prova attraverso la certificazione, dall’altra non si può pensare che questa prova possa essere fornita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 che arriva dal datore di lavoro. Va infatti sottolineato, nella lettura della Corte, che da nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto attesta, anche solo in maniera implicita, di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni. L’orientamento cui aderisce la sentenza della Cassazione valorizza poi le differenze tra i due atti, dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti: "si tratta, infatti, di documenti disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente". Tanto più, poi, che, mentre le certificazioni devono essere emesse solo quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione va invece presentata obbligatoriamente entro il termine stabilito per legge (in caso contrario scattano le sanzioni amministrative). Istiga alla corruzione il sindaco che per un voto promette vantaggi al consigliere di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 29 febbraio 2016 n. 8203. Scatta il reato di istigazione alla corruzione per il sindaco che "pressa" un consigliere comunale a dare voto favorevole sul bilancio dell’ente locale. Promettendogli un vantaggio personale. E la sua posizione non cambia anche se la volontà del consigliere si fosse "già" determinata in tal senso su accordo con altro consigliere. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 8203/16, depositata ieri, ha rigettato il ricorso di un sindaco che, seppur avvantaggiato dalla declaratoria dell’avvenuta prescrizione, non è riuscito a sfruttare nel ragionamento dei giudici di merito e ora di legittimità nessuno degli argomenti a propria difesa. Restano, quindi corrette per gli ermellini tanto la condanna per istigazione alla corruzione quanto quella correlata di minaccia nei confronti di una dipendente amministrativa la cui figlia svolgeva attività politica a lui contraria. L’istigazione alla corruzione - Sul reato di istigazione alla corruzione previsto dall’articolo 322 del Codice penale la Corte di cassazione ha messo soprattutto in luce la natura dell’atto di voto che il sindaco voleva condizionare. Si tratta appunto di atto discrezionale e non di induzione a realizzare un atto dovuto, da cui il tentativo di coartare la volontà del consigliere comunale verso il raggiungimento di un fine personale e non a tutela della collettività. L’atto non sarebbe più libero come il mandato politico impone. E, la conclusione non cambia se il consigliere oggetto delle pressioni del capo dell’esecutivo faccia parte della maggioranza che sostiene il sindaco. Non costituisce un’esimente neanche l’affermazione del sindaco secondo il quale il proprio comportamento era dettato dalla legittima (almeno, politicamente o umanamente?) volontà di compattare la maggioranza di governo dell’ente locale. Ancor meno è apparsa una giustificazione sufficiente a escludere il perseguimento di un fine illecito e individualistico il fatto che nel fare pressioni sul consigliere avesse più volte prospettato lo spettro del commissariamento. Infatti, tale scenario - appunto da evitare - poteva ben coincidere con l’interesse personale a non far emergere eventuali irregolarità che queste sì, invece, potevano danneggiare il sindaco in maniera concreta o almeno a livello di immagine. La minaccia - Stessa situazione incompiuta si è realizzata nel caso della condanna per minaccia ex articolo 612 del Codice penale. Infatti, anche su questo versante le "minacce" ascritte al sindaco contro una dipendente non avrebbero avuto conseguenze, ma sarebbero state sufficienti a indurre quello stato di soggezione che concreta la minaccia. Dalle intercettazioni emergeva il desiderio di licenziare la dipendente comunale, che di fatto non poteva essere licenziabile se non attraverso un sistema di garanzie che il sindaco non avrebbe potuto comunque superare solo con la propria volontà. Tant’è vero che dalle intercettazioni emergeva il paragone nel settore privato dove un capo d’azienda sarebbe stato libero di recidere il rapporto. Il licenziamento aveva finalità ritorsive per la parentela della dipendente con un concorrente politico del sindaco. Ma anche se il licenziamento veniva prospettato indirettamente da altri che avevano riferito le parole del sindaco ciò era sufficiente a realizzare lo stato di ansia e soggezione nella dipendente, ciò che concretizza nei fatti il reato. Abuso edilizio su beni culturali, per ordine di demolizione necessario parere del ministero di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 29 febbraio 2016 n. 8186. In caso di abuso edilizio relativo a beni immobili sottoposti al vincolo dei beni culturali, nel procedimento di emissione dell’ordine di demolizione deve essere coinvolto anche il ministero. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8186, depositata ieri, annulla con rinvio una ordinanza del Tribunale di Foggia con cui il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato un ordine di demolizione in relazione a illeciti compiuti "su beni culturali" ai sensi dell’articolo 169 del Dlgs 42/2004. I fatti - Stando a quanto sostenuto dal responsabile del reato, il Gip avrebbe "esorbitato la propria competenza" nell’ingiungere l’ordine di demolizione sostituendosi al soggetto legittimamente competente e cioè il ministero dei beni culturali. La decisione - La Cassazione parte con il riconoscere al giudice il potere di ordinare la "rimessione in pristino" dello stato dei luoghi una volta accertata la tutela dei beni culturali. Premesso questo, bisogna però tenere presente il valore del vincolo culturale e il rischio che la seppur doverosa rimozione degli effetti di un illecito penale può comportare una operazione di questo genere sul patrimonio culturale. È la stessa ratio che muove la disciplina della conservazione dei beni culturali nell’ambito della quale viene riconosciuto un ruolo di primario rilievo al ministero dei Beni e delle attività culturali e al soprintendente competente per territorio. Sono appunto questi i soggetti che devono intervenire, data la particolare tecnicità della materia, per garantire che gli interventi vengano svolti sotto il controllo di organi competenti. Ad esempio, il ministero può imporre al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo gli interventi necessari per assicurare la conservazione dei beni culturali, ovvero provvedervi direttamente. E proprio a questa disciplina - regolata dagli articoli 32, 33 e 34 del Codice dei beni culturali - fa ricorso la Cassazione per assimilarla al caso specifico e di specie della demolizione di un abuso. Anche in questo caso pare legittimo e conveniente la "presenza" del ministero a garanzia che nell’intento di eliminare il malfatto non si compiano danni ulteriori. La Cassazione, dunque, chiede che vengano meglio specificati i termini dell’ordine di demolizione con "evidente richiamo all’intervento degli organi preposti alla tutela del vincolo culturale violato". Il lavoro di un detenuto vale 2,50 euro l’ora di Stefano Cerutti Carte Bollate, 1 marzo 2016 Dal 7 agosto 2015 la quota giornaliera di mantenimento che un detenuto deve allo Stato è più che raddoppiata. Le buste paga dei lavoratori detenuti non sono aumentate in proporzione e di colpo, da un mese all’altro, hanno subito una svalutazione di circa il 25% del totale; mediamente il salario di un addetto alle pulizie è passato dai già miseri 220 euro netti mensili a circa 150. Diciamo subito che non utilizzeremo il linguaggio carcerario-ministeriale per definire le mansioni, le qualifiche e i lavoratori, perché è un linguaggio ridicolo, che sminuisce e avvilisce noi e il nostro lavoro. Il cedolino è la busta-paga; il lavorante è un lavoratore; lo scrivano è l’impiegato dell’ufficio spesa; lo spesino è l’operatore dell’ufficio spesa; lo scopino è l’inserviente o l’addetto alle pulizie. Impariamo a chiamare il lavoro, che quotidianamente svolgiamo con fatica, all’interno degli istituti penitenziari, come lo si chiama in tutto il mondo e in tutti i luoghi di lavoro; perché non siamo lavoratori diversi dagli altri. Svolgiamo compiti importanti all’interno delle strutture e lo facciamo con diligenza, impegno e serietà. Da noi dipendono la pulizia e l’igiene degli istituti, da noi dipende tutta la manutenzione ordinaria: lavori di muratura, verniciatura, carpenteria, idraulica, elettricità. Da noi dipendono tutti i servizi: il funzionamento dei laboratori, le cucine, la distribuzione delle vivande, gli sportelli giuridici e sociali, le cooperative, le biblioteche, la distribuzione della spesa, la cura degli orti e delle serre, i maneggi, la pulizia delle fontane e la manutenzione delle aree verdi, la pulizia e la manutenzione degli alloggi della polizia penitenziaria, la riparazione e la programmazione dei computer, persino i tavoli che arredano alcune celle sono fatti a mano in falegnameria da un detenuto che costruisce gli arredi e chissà quante altre cose ci sfuggono. Tutto nelle case di detenzione funziona grazie al lavoro dei detenuti. Lo diciamo a chi sta fuori: quando entrate nelle carceri e attraversate quei lunghi corridoi dai pavimenti lucidi e le pareti linde, sappiate che quelle pareti sono state verniciate dai reclusi, e quei corridoi vengono puliti la mattina presto e la sera tardi, sempre dai detenuti; non con la rotowash e la lucidatrice come fanno gli addetti alle pulizie negli ospedali, negli uffici delle grandi aziende e nei ministeri. Qui no! Qui tutto viene fatto a mano, con lo spazzolone e gli stracci, perché quella è la fornitura del ministero. Non ci vengono date nemmeno le attrezzature idonee per svolgere correttamente i compiti che siamo chiamati a svolgere. Ve lo spieghiamo così capite meglio: lo straccio in dotazione è quello classico da pavimenti che usate anche voi a casa, lo spazzolone invece è molto più grande; il povero carcerato posiziona sotto lo spazzolone tre stracci bagnati in acqua e detersivo e inizia a camminare in linea retta lungo il corridoio facendo attenzione a non lasciare impronte. Dopo qualche metro gli stracci si sporcano, ma lui non ha il carrello con il doppio secchio acqua pulita e acqua sporca e quindi si deve fermare, prendere gli stracci e andare a risciacquarli nel bagno più vicino. Un pomeriggio abbiamo visto al pian terreno del reparto in cui si trova la redazione l’addetto alle pulizie che lavava il corridoio con un mocio industriale e il doppio secchio: "Finalmente ti hanno equipaggiato con l’attrezzatura giusta, non è una rotowash, ma quantomeno non devi più piegare la schiena ogni cinque minuti e bagnarti le mani con l’acqua fredda per strizzare gli stracci". Lui, con malcelata mortificazione, ha spiegato che nessuno gli aveva fornito quell’attrezzatura. L’aveva fatta acquistare lui e se l’era fatta spedire per pacco postale, a sue spese, per poter svolgere dignitosamente il suo lavoro. Il carcere è anche questo, e da fuori non si vede. Colpa nostra che non ve lo abbiamo mai mostrato. Tagli, i primi a pagare sono i detenuti La spending review si abbatte sulle casse dell’amministrazione penitenziaria, e i primi a farne le spese sono i detenuti. Dal 7 agosto 2015 la quota di mantenimento che un detenuto paga allo Stato è più che raddoppiata, passando da 590,76 euro per ogni anno di reclusione a 1.321,30 euro l’anno. Le buste paga dei lavoratori detenuti non sono aumentate in proporzione e di colpo, da un mese all’altro, hanno subito una svalutazione di circa il 25% del totale. Il lavoro dei detenuti, che serve a far funzionare il carcere, è pagato dall’amministrazione penitenziaria mediamente 2 euro e 50 l’ora, se le stesse mansioni fossero appaltate a un’impresa esterna costerebbero almeno il quadruplo, e si tratta di servizi indispensabili come la pulizia, la manutenzione dei fabbricati, la distribuzione e la preparazione del cibo, senza i quali l’azienda-carcere non potrebbe funzionare. Il bilancio consuntivo dell’amministrazione penitenziaria per il 2013/2014 era di poco più di 3 miliardi di euro, una cifra che oggi è scesa perché è sensibilmente diminuita la popolazione carceraria, ma paradossalmente i costi per il mantenimento dei penitenziari italiani non calano proporzionalmente al numero dei detenuti, perché i costi per far funzionare la macchina restano quasi invariati. Se diminuiscono gli ospiti delle patrie galere non calano poliziotti, educatori, personale amministrativo e direttivo perché sono cronicamente sotto organico e quindi al massimo si crea una situazione più equilibrata. E i costi vivi di mantenimento del detenuto costituiscono una cifra quasi residuale del bilancio carcerario che, per giunta, è interamente rimborsata dai detenuti stessi, euro più, euro meno. Vediamo qual è la suddivisione della spesa: il 65,4% delle risorse finisce nella voce sicurezza; il 15,1% in funzionamento e manutenzione; il 10,4% mantenimento e trattamento dei detenuti; il 6,7% in direzione, supporto, formazione del personale; il 2,5% in esecuzione penale esterna (Uepe, solo 1.500 dipendenti per 31.000 persone prese a carico nel 2014). Il costo medio sostenuto dallo Stato per ogni detenuto rinchiuso in un penitenziario è di 125 euro al giorno. Di questi quattrini però, solo 9,26 euro vengono spesi per il suo mantenimento: 3,80 euro per i pasti e 5,46 euro per i servizi cosiddetti trattamentali, fra i quali rientrano trasporto nei tribunali e in altri istituti, costi del personale addetto al reinserimento, psichiatri, psicologi, educatori. Tutto il resto serve a mantenere la struttura, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria. Di quei 3,80 euro al giorno che servono per i pasti, 3,62 euro i detenuti una volta terminata la pena li restituiscono allo Stato, mentre a chi lavora negli istituti vengono trattenuti in busta paga. A questo aggiungiamo che buona parte delle persone recluse non consuma il cibo distribuito dalle cucine del carcere, ma provvede autonomamente a comprarselo, ovviamente a proprie spese. Quello che salta subito agli occhi è la scarsità delle risorse destinate a iniziative di rieducazione e reinserimento sociale e la netta prevalenza di risorse destinate alla sorveglianza. Insomma, il carcere continua a essere una macchina tarata per riprodurre se stessa, quasi a prescindere dai detenuti e dalle finalità di rieducazione e reinserimento che gli assegna la nostra Costituzione. "Messa alla prova": alcune riflessioni di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 1 marzo 2016 Da cinque mesi, ormai, lavoro con una redazione di uomini giovani e meno giovani "messi alla prova" e di studentesse universitarie. È un’esperienza molto interessante che non cessa mai di interrogarmi. E le domande senza risposta generano altre domande. L’altro giorno ho partecipato a un pomeriggio di lavori sulla "sospensione del procedimento con messa alla prova" organizzato dall’università di Parma in collaborazione con l’Ufficio di esecuzione Penale esterna dell’Emilia Romagna. Tanti gli argomenti sul tavolo; dai numeri in ascesa alle politiche di deflazione, dal tema delle vittime al coinvolgimento della società civile, dal sovraccarico di lavoro per gli uffici EPE alla mediazione penale. Alcune questioni mi sono apparse subito molto chiare: le persone "messe alla prova" sono soggetti non condannati ma sottoposti ad alcuni vincoli e prescrizioni. Per cui comunque in qualche modo accettano da "non colpevoli" di scontare una pena: potrebbe essere una contraddizione ma di fatto così è. Almeno così la vivono loro; più come una pena che come un patto. Inoltre è del tutto evidente che gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna sono sovraccarichi, non hanno avuto nessun supporto in termini di risorse professionali e si stanno "mettendo alla prova" in ambiti completamente nuovi; nel rapporto con la magistratura ordinaria innanzitutto e poi con questa nuova tipologia di utenti "non colpevoli" ma impegnati in lavori di pubblica utilità e/o volontariato. Infine c’è la società civile, le istituzioni, gli enti pubblici, le cooperative e le associazioni di volontariato che accolgono queste persone, si fanno carico di una forma di controllo raccogliendo le firme in entrata e in uscita dal servizio e redigendo una relazione nella fase conclusiva del percorso. Credo con grande generosità e senso di responsabilità. A questo si aggiunge il grande tema della mediazione penale. Premesso che seguo con passione e interesse ormai da anni i seminari di formazione di Jacqueline Morineau, che il libro dell’incontro è sul mio comodino dalla sua uscita, che stimo e voglio un bene speciale ad alcuni dei protagonisti di questo straordinario percorso, tuttavia fatico a tenere insieme la mediazione penale e le storie delle persone che incontro nell’ambito della "messa alla prova". Se li osservo, se penso al loro reato, se mi lasciano intravedere (e non è così facile) anche solo qualche tratto della loro storia, mi viene da pensare che potrebbero sicuramente aver bisogno di "mediare" ma forse non in un ruolo così ben definito come quello del colpevole. Inoltre se - come suggeriva recentemente Lucia Castellano - è più utile usare la parola responsabilità al posto della parola colpa; chi aiuterà queste persone a definire e a comprendere la propria responsabilità verso gli altri ma anche verso se stesse? Chi si farà carico di confrontare e mettere in discussione tutte le buone scuse? Chi restituirà un senso profondo a questo impegno che, comunque, viene vissuto come una restrizione anche perché nei fatti lo è? Credo che solo un confronto sereno con la società, con i cittadini potrà dare spessore e contenuto a quel tempo dedicato a un’attività di restituzione accettata ma spesso poco interiorizzata. Mercoledì sera nella nostra riunione di redazione abbiamo faticato proprio molto sul tema della responsabilità ma in programma abbiamo un incontro con l’assessore al Welfare del nostro Comune di Piacenza - in rappresentanza dei cittadini - e speriamo che sia utile e stimolante. Dopo tanti anni di lavoro in carcere, mi rendo conto che l’impegno con le persone resta molto complesso e delicato anche all’esterno. Scoprire, osservare e assumere le proprie responsabilità non è cosa facile. Specialmente se sono lievi, frutto di pratiche molto diffuse e socialmente accettate. Sento di dover stressare la fantasia e la creatività per riuscire a essere davvero un po’ utile. La tenuità del fatto spesso inibisce la presa di coscienza. Sembra un paradosso ma così è. Oltre i lacci della contenzione: riflessioni a margine delle morti durante i Tso di Silvia Jop (Coordinatrice redazionale lavororoculturale.org) Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 Cinghie, lacci, fascette, polsini, cinture, corpetti, bretelle, sedie, oppure dosi massicce di psicofarmaci: sono tana i modi che abbiamo inventato per contenere un essere limano. per trasformare una persona in un corpo domato, nudo di abiti e privato della sua storia, come quello di una bestia furibonda che va abbattuta. Quelli utilizzati a partire dalla fine del Settecento nella psichiatria manicomiale per trattenere una persona in un luogo o in una condizione contro la sua volontà, sono oggetti, o addirittura attrezzi, che portano con sé l’odore di un’atmosfera e così del suo rumore. Una sorta di nenia, di cantilena puzzolente che si aggrappa ai sensi, muti, entrando dagli occhi di chi ne è spettatore e dalle mani che all’occorrenza li impugnano. È significativo realizzare come un protocollo di pratiche e architetture che si immaginano trincerate in un tempo ormai remoto e all’interno di strutture, come i manicomi, die si pensano superate, siano in realtà parte integrante del nostro presente. A questo proposito, è il nostro cinema documentario a venirci in soccorso e a offrirei una sintesi dell’epoca m cui siamo. Lo fanno le "87 Ore", raccolte da Costanza Quatriglio in ottantasette minuti disposti tra loro come un panopticon che si sostituisce alla nostra retina, nel riunire con grande abilità le immagini provenienti dalle telecamere del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania. Li Francesco Mastrogiovanni, maestro di scuola elementare, è rimasto legato a un letto in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio che gli è costato la vita. È la bestialità dell’uomo a esploderci addosso. Ed è la medesima bestialità, m questo caso acquisita come dato di fatto, ma mai mostrata, a spingere il regista Pietro Marcello nel film "Bella e perduta" a rifuggire lo sguardo negli scampoli d’umanità presenti negli occhi umidi di un piccolo bufalo, scortato da Pulcinella, mentre attraversa il sud del Paese in cerca della salvezza svanita. Lo sguardo quasi commossi di questo animale, ultimo testimone della grazia e della cura che non sappiamo più garantire e concedere all’umanità di cui siamo parte e cosi alla terra che ci ospita, accanto al corpo frammentato in tanti grossi e ruvidi pixel di Mastrogiovanni, ci mettono davanti a uno specchio. Uno specchio che in realtà pochi hanno il coraggio di fronteggiare, perché paria di noi, parla della degenerazione della cultura da cui proveniamo e di quel seme che continuiamo a nascondere dietro agli abiti bianchi e intonsi delle grandi istituzioni di cura e assistenza che costellano l’Italia. Assieme ai Servizi psichiatrici infatti. a essere teatro di contenzione ancora oggi sono gli ospizi per gli anziani, le cliniche neuropsichiatriche per gli adolescenti, i centri di disintossicazione per tossicodipendenti, gli istituti per i disabili, le carceri per i carcerati e i centri di identificazione e espulsione per i migranti. Ogni luogo ha una sua popolazione che rischia quotidianamente di subire forme di reclusione e contenimento. Si tratta di soggetti dal profilo giuridico indebolito, le cui facoltà di scelta vengono messe m discussione una forma di apriori che anticipa la loro istituzionalizzazione. Questo indebolimento previo delle soggettività, che dunque introduce le persone a un ingresso in un’istituzione a volte volontario/altre forzato, già consente agli interlocutori/tecnici/operatori, di esercitare in quel territorio un’autorità assoluta e a senso unico. A fare da anticamera a questo processo di legittimazione della supremazia di uno sull’altro e quindi all’esercizio della coazione, c’è la storia della medicina classica di stampo biologista dove la relazione terapeutica, se non in rari casi, non ha avuto diritto di cittadinanza in Italia fino agli anni Sessanta. I contesti sanitari infatti, con i loro protocolli e i loro dispositivi, sono stati nei secoli uno spazio indiscusso di legittimazione dell’uso della contenzione. È cosi die l’atto del contenimento fisico viene decontestualizzato dal terreno della violenza per essere inserito in quello della necessità della cura. In virtù della difesa del sé da sé, degli altri dal sé violento - i corpi dunque sono stati e vengono tutt’oggi contenuti, ammansiti, mortificati, domati. A oggi, l’ultima delle poche ricerche di taglio nazionale di riferimento è risalente al 2005 ed è stata realizzata dell’Istituto Superiore di Sanità. In questo documento si segnala che nell’80% dei servizi si ricorre alla contenzione per sedare i pazienti. Le cosiddette "buone pratiche" invece corrispondono al mancante 20 per cento. Sebbene la contenzione non sia normata da una legge, e sebbene disponiamo di due articoli della Costituzione, il 13 e il 32, che impediscono l’uso della forza ai fini della negazione della libertà individuale, molte delle linee guida dei Servizi di Salute mentale prevedono la possibilità di farvi ricorso. Questo significa che assieme all’applicazione di un diritto vivo orientato al rispetto della persona, è necessario sviluppare pratiche concrete che sovvertano un impianto culturale governato dall’uso della violenza legittimato dalla paura di non sapere come altro fare. Fare altrimenti si può. Il 20% di strutture in cui si registra un’assenza del ricorso a tecniche contenitive, dove nemmeno la scusa del raglio dei finanziamenti fa scuola, si registra anche un livello di assistenza, cura. integrazione sul territorio di alfa qualità. Veneto: tensioni e affollamento, polveriera carceri di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 1 marzo 2016 L’eccesso di detenuti è la prima causa del disagio: 165 ospiti in più a Padova, 137 a Verona. Un colloquio con il comandante delle guardie carcerarie non ancora accordato. Una richiesta di trasferimento non esaudita. Basta un nonnulla, problemi quotidiani di vita dietro le sbarre, a scatenare la rivolta nella polveriera dei penitenziari italiani. È accaduto così, per banali motivi ingigantiti dalla situazione ambientale, anche nella notte tra sabato e domenica all’interno del "Baldenich", a Belluno. Le stanze date alle fiamme, le bombolette dei fornelli a gas lanciate come molotov nei corridoi, il fumo, il danneggiamento delle suppellettili. Si contano i danni causati nella sezione maschile e si stanno preparando le denunce all’autorità giudiziaria. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima. Il malumore è un contagio. Non è solo una questione di sovraffollamento, piaga endemica che però negli ultimi anni ha conosciuto una sensibile inversione di tendenza. A Belluno la capienza regolamentare è di 87 letti. In questo momento gli ospiti sono 96. Eccedenza di 9 unità, equivalente a una cella e mezzo di quelle che in 20 metri quadrati ospitano sei persone. Nulla di scandaloso, se rapportato alla media del surplus di presenze altrove. "Solo nel reparto maschile c’è una presenza maggiore. - spiega il direttore Tiziana Paolini - Ma la media di persone che lavorano è di circa il 40 per cento. I reclusi sono occupati nell’assemblaggio di occhialeria e mobili". I sindacati denunciano l’ozio della popolazione? "Non da noi. Abbiamo ristrutturato un padiglione, ci sono corsi scolastici, diverse attività". L’aumento dei detenuti è stato determinato anche da alcuni trasferimenti da Venezia e Padova, per risolvere situazioni di crisi. Il che dimostra come l’arcipelago carcerario sia attanagliato dagli stessi problemi. Basta leggere la tabella riportata in queste pagine per verificare come le eccedenze siano una costante. A Padova (alla data del 31 gennaio scorso) c’erano 203 presenze a fronte di una capienza di 173 letti e nella nuova struttura del Due Palazzi, il carcere più grande del Veneto, 571 unità, 135 in più delle 436 previste. Solo a Rovigo (34 presenze, 71 posti) e alla Giudecca (77 donne su 119 posti) la forbice è positiva. Saldo in rosso anche a Treviso (201 presenze, 143 posti), a Vicenza (209 contro 156 letti) e Verona "Montorio" (487 detenuti, capienza di 350). "E pensare che a Padova siamo anche arrivati a 900 detenuti. Quei tempi sono passati, ma restiamo sopra i livelli di guardia. - spiega Gianpietro Pegoraro, responsabile regionale della Cgil-Funzione Pubblica - Fortunatamente la percentuale di chi lavora raggiunge il 90 per cento". Un livello di eccellenza, che può contare su una lunga tradizione interna all’Istituto. Fatiscente è da sempre la situazione di Venezia Santa Maria Maggiore, con problemi sanitari per il via vai di detenuti legati anche all’immigrazione clandestina. Ma non è sempre detto che il nuovo o il moderno sia bello. "Hanno inaugurato il carcere di Rovigo, ma abbiamo riscontrato l’assenza di portoni automatizzati, il che richiede maggiore impiego di personale - rivela Pegoraro. E le "rotonde" di alcune postazioni hanno specchi sul soffitto che con il caldo creeranno problemi di temperature torride al personale". A Vicenza si lavora a un nuovo padiglione, ma sarà privo di sala-colloqui e imporrà lunghi trasferimenti interni. Liguria: il "prezzo" dei detenuti psichiatrici, la Regione inadeguata spende per trasferirli di Giulia Destefanis e Matteo Macor La Repubblica, 1 marzo 2016 Batte cassa, il tanto decantato modello Lombardia a cui dice di ispirarsi il governatore ligure Giovanni Toti. Perché ai "vicini", la Liguria ha anche affidato un compito oneroso, e costoso: ospitare i suoi internati. Autori di reato con problemi psichici che non possono più stare negli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, - gli ex manicomi criminali, già da oltre un anno fuori legge - ma allo stesso tempo, di fatto, in tutta la regione non possono neanche essere affidati alle Rems, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza che hanno sostituito gli Opg. Strutture alternative di cui la Liguria è sprovvista, e che attualmente - ma sarà così, probabilmente, ancora per almeno due anni - la Regione è andata a cercare proprio in terra lombarda. Costretta a pagare l’"ospitalità" della residenza di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, oltre un milione di euro: soldi pubblici che ogni anno, finché la Liguria non si doterà di una sua Rems, da piazza De Ferrari continueranno a ingrassare i conti del Pirellone. Dopo aver raccontato le assurdità del carcere-lazzaretto di Marassi, dove sono trattenuti decine di detenuti con disagio proprio per l’indisponibilità di spazi dedicati nelle strutture alternative, e da cui nei prossimi mesi inizierà il lavoro di "monitoraggio e verifica sul campo" del neo Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, Repubblica rivela così cosa accade fuori dal carcere, nel mondo parallelo che ruota intorno a chi il disagio psichico l’ha sempre manifestato, e per questo deve (o meglio, dovrebbe) essere affidato a strutture dedicate. Autori di reato che un tempo sarebbero stati destinati agli Opg, e che oggi la legge dovrebbe affidare alle più "sostenibili" Rems. Luoghi dove le esigenze di cura dovrebbero sovrastare quelle di contenimento, e che in Liguria - "e solo poche altre regioni", ammette ancora Mauro Palma - "mancano clamorosamente". Il problema non è solo di inefficienza del sistema (otto "casi" liguri sono addirittura ancora internati negli Opg di Napoli e Montelupo Fiorentino), ma anche e soprattutto di costi. La convenzione tra i due enti regionali per l’ospitalità degli internati liguri a Castiglione, siglata un anno fa, prevedeva 10 posti riservati alla Liguria per 300 euro al giorno a internato. Un milione l’anno, che con il passare del tempo è aumentato: quei posti non bastano mai, al 31 dicembre ad esempio i liguri erano 14. La Regione Liguria ha già chiesto (invano) che i posti convenzionati vengano aumentati da 10 a 20, ma la struttura lombarda è piena. E nel frattempo, però, rivede i prezzi al rialzo. E quando si libera qualche posto, accoglie nuovi pazienti a costo maggiorato: circa 500 euro a persona al giorno invece che 300. Così che, "quando arriverà il conto, bisognerà vedere quanto salirà - ammettono dalla Regione. La Lombardia sta facendo un’opera di mercificazione, e se può aumenta il prezzo". Per evitare tutto questo, "basterebbe" non avere più bisogno del supporto di Castiglione (per altro la meno adatta in Italia alle esigenze di cura, un ex Opg da 160 posti, perennemente sovraffollato). L’alternativa ligure è stata identificata nella Asl 5 da 20 posti di Calice al Cornoviglio, nello Spezzino. Un’operazione avviata anni fa con lo stanziamento di 5 milioni tra fondi ministeriali e regionali, poi rimasta ferma per lungo tempo, per cui serviranno ancora un paio d’anni. Liguria: "spesso il carcere è l’unica scelta, molti reclusi psichiatrici sono pericolosi" di Giulia Destefanis e Matteo Macor La Repubblica, 1 marzo 2016 Parla Daniela Verrina, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova. Finché la struttura ligure di Calice al Cornoviglio non sarà pronta, e le persone di cui venga provata la pericolosità sociale dovranno essere mandate in Rems di altre Regioni, non si uscirà dall’empasse". Daniela Verrina, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova, è a capo dei magistrati che decidono sull’applicazione delle misure di sicurezza: compreso l’internamento dei "folli rei", gli autori di reato, o piuttosto, se considerati non più a rischio, il loro trasferimento in piccole comunità sul territorio, meno onerose e più "curative". Dottoressa, i numeri degli internati aumentano e si ingrassano le casse della Lombardia: che cosa non funziona nel sistema ligure? "Le responsabilità sono molteplici, dello Stato che mentre dismetteva gli ospedali psichiatrici giudiziari ha accumulato ritardi nel varare le risorse per le Rems; e ora della Regione che ha in mano una vera a proprio patata bollente". Spesso si accusano i magistrati di alimentare il sistema, decidendo di mantenere i pazienti nelle Rems piuttosto che mandarli in comunità. "Bisogna essere chiari: le nostre esigenze sono legate alla giustizia. Se il reato c’è, e così la pericolosità sociale dell’individuo, l’aggressività, il disagio, non si può abdicare all’esigenza detentiva solamente per l’inadeguatezza del sistema a riceverlo. Non possiamo non mandarlo in Rems perché non ci sono i posti in Liguria, o perché in Lombardia costa troppo. Sarebbe come se un giudice dicesse: non condanno più perché le carceri sono sovraffollate. Certo la situazione è tesa e negli ultimi mesi sono capitati casi di difficile risoluzione". Ad esempio? "L’estate scorsa abbiamo avuto contemporaneamente tre persone, uscite dalla Rems e tornate in comunità o in famiglia, che improvvisamente si sono rivelate di nuovo pericolose. A quel punto noi siamo costretti ad aprire procedure di aggravamento della misura, e a ricollocarle in una struttura detentiva. I posti, però, a Castiglione delle Stiviere non c’erano: si è rischiato che fossero assegnati a un’altra Regione ancora. Ma si cerca sempre di favorire la Regione con cui si ha la convenzione, e alla fine siamo riusciti a trovare i posti, non senza difficoltà". Per chi invece, con l’aiuto delle cura, migliora, c’è un buona rete di comunità sul territorio ligure? "Questo sì, le soluzioni residenziali si trovano. A volte però servirebbero percorsi meglio costruiti". Quelli per cui, tra l’altro, le Regioni hanno ottenuto nuovi fondi dopo la dismissione degli Opg. "Eppure i dipartimenti di salute mentale sono spesso in sofferenza, lamentano mancanza di risorse. Dovrebbero essere in condizione di lavorare meglio, perché hanno un ruolo fondamentale: se con loro si riesce a costruire, per la persona in Opg o in Rems, un buon percorso esterno di cura che fronteggi la pericolosità, è difficile che il magistrato neghi l’uscita dalla struttura di detenzione". Poi c’è il capitolo delle persone detenute in carcere: anche quelle che, per condizioni psichiche, non dovrebbero esserlo. "È un’altra conseguenza della mancanza di posti in Rems. Ad esempio, quando un detenuto mostra problemi psichici, e il giudice della cognizione conclude che essi hanno avuto influenza sulla commissione del reato, la persona deve essere trasferita altrove, in Rems. Ma se i posti non ci sono, non c’è alternativa al carcere. Altro problema ancora è quello di chi deve rimanere in carcere ma con disturbi psichiatrici: dovrebbero esserci reparti ad hoc che garantiscano la cura, ma ad esempio a Marassi ci sono pochissimi posti". Rovigo: inaugurata la nuova Casa Circondariale, ma per adesso resterà vuota di Francesco Campi Il Gazzettino, 1 marzo 2016 Delrio: "Qui dentro daremo dignità a chi ha sbagliato". Zaia: "Finalmente, questa era un’opera incompiuta. Una cerimonia solenne, con i due ministri della Giustizia e delle Infrastrutture, Andrea Orlando e Graziano Delrio, insieme al Governatore Luca Zaia ed al sindaco di Rovigo Massimo Bergamin, a tagliare simbolicamente il nastro del nuovo istituto penitenziario rodigino, che chiude definitivamente la bocca ai "gufi", così come ha rimarcato il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia che, con soddisfazione, ha esordito con un eloquente "Ce l’abbiamo fatta". E se Zaia ha chiesto ad Orlando "un’attenzione particolare per Bassano, che merita il ripristino del Tribunale", il Guardasigilli ha sottolineato come grazie anche all’inaugurazione del nuovo padiglione del carcere di Vicenza "sarà data una risposta concreta all’organizzazione penitenziaria del Nordest". Ieri a Rovigo è stato il giorno della festa, ma in realtà la strada che ha portato a questo momento è stata più lunga (e costosa, con circa 30 milioni già spesi) del previsto. E, proprio nel settembre scorso, con la struttura già completamente edificata da ormai due anni e rimasta in stato di semiabbandono, la questione era salita alla ribalta nazionale con interrogazioni da parte di parlamentari di tutti gli schieramenti. Il 31 dicembre è avvenuto il passaggio dal ministero delle Infrastrutture a quello di Giustizia e, quindi, al Dap. E, due mesi dopo, è arrivata l’inaugurazione. "Finalmente - ha rimarcato il presidente Zaia - questa era un’incompiuta. È stato dato un grande segnale di civiltà. Ma servono inasprimento e certezza delle pene: questo ci chiedono i cittadini". "Certezza di opere pubbliche realizzate in tempi giusti e senza sprechi e corruzione", è stata la puntualizzazione del ministro Delrio. Che, indirettamente, ha ammesso le difficoltà che l’iter ha avuto da quando, nel luglio del 2007 l’allora Guardasigilli Clemente Mastella aveva presenziato alla posa della prima pietra: "Per fortuna siamo riusciti a finire questa struttura - ha rimarcato Delrio. Luminosa, con ampi spazi, anche per il lavoro, in grado di dare dignità anche a chi ha sbagliato. Con la nuova riforma, che andrà in Consiglio dei ministri questa settimana, speriamo di dare più certezza alle opere". Il nuovo penitenziario si sviluppa su un’area di oltre 95mila metri quadrati, che nelle previsioni sarà destinata ad accogliere 207 detenuti. Al momento, però, tutto rimarrà ancora vuoto. L’auspicio è che i primi "ospiti" possano essere accolti entro l’estate, in numero però inizialmente ridotto, pari più o meno alla capienza dell’attuale casa circondariale di via Verdi, ovvero una settantina circa. Questione di organico. "Dobbiamo ancora finire una serie di interventi che consentano l’utilizzo della struttura e, una volta terminati, avremo la possibilità di coprire esigenze di organico per l’effettiva apertura", ha rimarcato il ministro Orlando. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo ha parlato di 70 nuove unità in arrivo grazie alla mobilità interna. Ma ha lasciato "È stato fissato un cronoprogramma che è stato rispettato", ha aggiunto lasciando capire che lo "sblocco" non sia stato poi così agevole e che, fino a pochi mesi fa, l’apertura in tempi rapidi non fosse poi così scontata. Rovigo: Orlando inaugura il nuovo carcere "un’idea più evoluta dell’esecuzione penale" Ansa, 1 marzo 2016, 1 marzo 2016 Inaugurato ieri mattina il nuovo carcere di Rovigo, dai ministri Andrea Orlando e Graziano Delrio e dal presidente della Regione Veneto, Zaia. La nuova Casa circondariale, dove i detenuti saranno trasferiti solo nei prossimi mesi, perché mancano agenti, è stata definita una "cattedrale nel deserto". "Per la verità - ha commentato il ministro Orlando - oggi la cattedrale è stata aperta, quindi intorno non ci sarà più il deserto. Si tratta di una struttura molto innovativa, che finalmente comincia a funzionare e corrisponde ad un’idea più evoluta di esecuzione della pena e spero che, piano piano, possa essere lo standard al quale si adegua anche il nostro sistema penitenziario". La costruzione è iniziata ancora 9 anni fa, con l’allora ministro di Grazia e giustizia Clemente Mastella. Il costo è di 30 milioni. Una settantina i detenuti che saranno trasferiti dal vecchio penitenziario di Rovigo, ma la capienza potrebbe salire fino ad oltre 200. Orlando ha sottolineato che quello di Rovigo è il primo carcere da lui inaugurato da quando è ministro. Una cerimonia che "cade in un momento particolare - ha osservato Orlando - perché il prossimo mese, dopo un anno di lavoro, si concluderanno gli Stati generali dell’Esecuzione penale che hanno coinvolto 200 esperti, 18 tavoli, per riflettere sugli aspetti dell’esecuzione della pena". "Per questo - ha proseguito - è importante capire gli ampi spazi a disposizione dei detenuti in questo nuovo carcere. Siamo un Paese che spende 3 miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena, più di tutti gli altri in Europa e siamo il Paese con il più alto tasso di recidiva di tutta Europa. Significa che qualcosa non funziona. Il carcere non deve essere visto solo in maniera afflittiva. Il carcere non deve essere la struttura passiva che è oggi, al detenuto non viene chiesta nessuna assunzione di responsabilità". "Ma non si poteva discutere di tutto questo - ha evidenziato - se non avessimo risolto il problema del sovraffollamento. Quando ci siamo insediati c’erano 64mila detenuti e 45mila posti disponibili. Ora abbiamo risolto il problema. Come? Cambiando il rapporto tra esecuzione penale interna ed esterna. Adesso c’è un rapporto di 1:1 prima era 4:1. Dobbiamo lasciarci alle spalle il periodo dei commissari straordinari". Da mio insediamento 4 mila posti in più - "Dal mio insediamento ad oggi abbiamo realizzato 4.000 posti in più senza inaugurare un nuovo carcere, semplicemente facendo manutenzione sui raggi dei penitenziari non utilizzati". Lo ha detto il ministro della giustizia, Andrea Orlando, durante l’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo. "Credo che si debba andare avanti su questa strada - ha aggiunto - creare il nuovo solo per superare strutture fatiscenti (vedi San Vito al Tagliamento e Pordenone). Un carcere che accoglie delinquenti e restituisce delinquenti non garantisce sicurezza". "Si tratta di costruire - ha spiegato - un sistema che guardi più lontano, le strutture contano, come questo carcere. A Rovigo i problemi di personale saranno affrontati e risolti. Ma più in generale bisogna consolidare la rete che si è costituita attorno al carcere, parlo di attività di volontariato che possono essere occasione di produzione di valori e bene". Consolo: rispettate scadenze - "Gli incontri di novembre, in collaborazione con il provveditorato alle opere pubbliche sono stati proficui, ci siamo dati delle scadenze che abbiamo osservato". Lo ha osservato oggi a Rovigo Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria intervenendo all’inaugurazione del nuovo penitenziario. "Questa struttura di eccellenza si può proiettare nel territorio per uno sviluppo e progresso, è un segno di civiltà. L’area si sviluppa su 95 mila metri quadrati ed è destinata ad ospitare 207 detenuti. Una logica moderna, Venti sono gli alloggi per i dipendenti della polizia penitenziaria con aree ricreative per il benessere di chi lavora. Settantadue unità di polizia penitenziaria in questo istituto saranno presto saranno trasferite". Il presidente del Veneto, Luca Zaia, facendo riferimento all’inaugurazione del carcere ha detto: "Finalmente, questa era un’incompiuta, un grande segnale di civiltà. Rousseau avrebbe detto il contrario: quando si apre una scuola si chiude un carcere. Spero si risolvano le partite del personale e poter quindi dare un senso ad un investimento da 30 milioni di euro. In Veneto abbiamo attualmente 2.227 reclusi, il 55% dei quali sono stranieri. Porto il pensiero dei cittadini, non faccio parte della categoria degli amministratori che dicono che tutte le colpe e le disgrazie sono dei magistrati. Credo che i magistrati debbano applicare delle leggi fatte male e a volte molto permissive. Inasprimento delle pene e la certezza della pena, questo ci chiedono i cittadini. Al ministro Orlando mi rivolgo perché pensi al tribunale di Bassano, è una grossa partita, si tratta dell’ottavo tribunale del Veneto la cui ristrutturazione è costata 20milioni di euro, bisogna dare risposta ad un’area produttiva e valutare opportunità di dare ossigeno a Bassano". Zaia: carceri sovraffollate? Costruiamone di nuove - Pesante protesta, l’altra notte, dei detenuti delle carceri di Belluno, per i problemi di sovraffollamento: sono state incendiate anche alcune celle. "Se ci sono problemi di sovraffollamento, la soluzione non è svuotare le carceri, magari attraverso l’indulto, bensì costruirne di nuove, come si è fatto qui a Rovigo", ha dichiarato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, a margine dell’inaugurazione della nuova casa circondariale a Rovigo, alla presenza anche dei ministri Orlando e Delrio. "Se interpellassimo i veneti, quasi tutti sarebbero d’accordo su questa linea, anziché sulle misure di depenalizzazione, magari solo per alleggerire il numero di presenze in carcere", ha concluso Zaia. Belluno: a Baldenich torna la normalità dopo la rivolta, trasferiti i detenuti "bellicosi" di Filippo Tosatto Corriere delle Alpi, 1 marzo 2016 Il provveditore Sbriglia: "Vogliamo capire cosa ha scatenato la protesta". La protesta esplosa nella notte di sabato nel carcere di Baldenich ha indotto il ministero di Grazia e Giustizia ad avviare un’indagine che dovrà accertare le responsabilità dei detenuti autori della rivolta - lancio di bombolette di gas, distruzione di arredi, celle barricate e allagate - ma anche le eventuali "anomalie" nel comportamento del personale penitenziario, denunciate (a quanto si è appreso) da un recluso che, lamentando un trattamento ingiusto, ha acceso la scintilla della bagarre, alimentata poi da una cinquantina di detenuti. È quanto si apprende da Enrico Sbriglia, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, che nelle ore dei tumulti ha coordinato personalmente l’intervento delle forze di sicurezza: "Gli atti compiuti non sono giustificabili in alcun modo", commenta "tuttavia, dobbiamo comprenderne il senso, capire qual è stata l’origine della protesta, verificare se vi siano stati comportamenti impropri da parte del personale di custodia. Circostanza che, in ogni caso, non legittimerebbe la condotta violenta di alcuni". Nel frattempo, tornata la normalità nei padiglioni carcerari, sono già stati assunti alcuni provvedimenti, a cominciare dal trasferimento di un gruppetto di detenuti "bellicosi" in altri istituti. Sul caso, però, interviene anche il direttore dell’Amministrazione penitenziaria del ministero, Santi Consolo: "Da magistrato", esordisce "non mi pronuncio sulla dinamica prima di aver esaminato le prove e i rapporti sull’accaduto. Tuttavia, smentisco categoricamente che all’origine dei fatti via sia il sovraffollamento: Belluno dispone di 89 posti, quattro dei quali sono attualmente inagibili, a fronte di 94 detenuti. Un surplus pari al 110%, che non rientra nella "patologia" penitenziaria. Non è tutto. Noi garantiamo ai detenuti uno spazio medio pari a 7,6 metri quadrati più i servizi; altri Paesi europei si limitano a 4 o 5". Nell’istituto di pena bellunese vige da tempo la "custodia aperta": le persone possono circolare liberamente negli spazi loro riservati, trascorrendo in cella soltanto le ore serali e notturne. Qualcuno ha indicato in questa "concessione" un punto debole della sicurezza... "Nulla di tutto questo", ribatte Consolo "quando la protesta è scoppiata, tutti i reclusi si trovavano all’interno delle celle. La custodia aperta non c’entra nulla, semmai occorrerà una verifica attenta, di meritevolezza, prima di riconoscere - o di rinnovare - questa chance ai detenuti, che attualmente ne usufruiscono in una percentuale del 95%". Resta il problema degli organici, lamentato dai sindacati di categoria... "Belluno ha una dotazione sufficiente, quando è scattato l’allarme, nella notte tra sabato e domenica, sono giunti sul posto agenti da tutto il Veneto. La risposta è stata immediata, perfino sovrabbondante nelle risorse impiegate". Como: dalle borse di riciclo alla stampa 3D, i detenuti si scoprono artigiani Il Giorno, 1 marzo 2016 I prodotti realizzati nel carcere del Bassone sono in vendita nei negozi della provincia. Borse, zaini, portaocchiali e portafogli, prodotti all’interno dei laboratori di sartoria e pelletteria del carcere Bassone di Como, ma anche oggettistica progettata e realizzata nell’innovativo laboratorio di stampa 3D, e ora in vendita in una serie di negozi del territorio. Una decina di esercizi commerciali a Como e provincia in questi giorni ha introdotto i prodotti della casa circondariale. È tutto realizzato a mano, da una decina di detenuti impiegati nella sartoria, a cui si aggiungono i quattro o cinque della progettazione in 3D. Le borse più pregiate sono in pelle, a cui si affianca una linea, che comprende anche i portafogli e portaocchiali, pensata per utilizzare i teli affissi sulla facciata di Villa Olmo in occasione delle ultime due grandi mostre. Un’altra gamma è realizzata utilizzando i sacchi di materiale plastico del caffè in grani, con loghi, immagini e colori molto caratteristici. Si sono aggiunti anche i manifesti forniti dal Comune di Cernobbio, sempre nell’ottica del riciclo. Nel laboratorio stampanti vengono invece creati portamatite, portachiavi e altri oggetti. In entrambi i casi, chi lavora in questi laboratori, coordinati dalla cooperativa Impronte di libertà, ha imparato da zero ogni passaggio: utilizzo delle fustelle, taglio e cucitura per la sartoria, progettazione al computer e produzione con le due stampanti 3D. Al momento la rete dei punti vendita coinvolge l’associazione Azalai di via Aquileia a Cernobbio, il negozio Verde Sfuso di via Cavallotti a Como, e la Cooperativa Garabombo, nelle botteghe equo-solidali di Lurate Caccivio, Como, Cantù, Mariano Comense, Guanzate, Lomazzo e Lentate sul Seveso. In alcuni casi i prodotti sono già stati consegnati, in altri saranno pronti per inizio marzo. Riuscire a creare una rete di vendita esterna è un passaggio fondamentale. Innanzitutto per dare una dimensione commerciale, e quindi di lavoro autentico, al percorso formativo che affrontano i detenuti, il cui obbiettivo è spesso quello di crearsi un’opportunità professionale da portare avanti anche a pena espiata. Inoltre il contatto con la clientela può rivelarsi utile per affinare ciò che viene prodotto, capire quali sono i gusti e lavorare in modo sempre più mirato a ottenere uno spazio di mercato. Sanremo (Im): un detenuto-giardiniere al lavoro per il Comune di Taggia sanremonews.it, 1 marzo 2016 Per il momento si sta scegliendo un soggetto che possa coprire il territorio di Taggia e che si dedicherà alla manutenzione delle aiuole che si trovano proprio sotto il palazzo comunale. Il detenuto potrà facilmente raggiungere per due pomeriggi a settimana in bicicletta, percorrendo la pista ciclabile. Dopo il comune di Riva Ligure, anche quello di Taggia ha affidato alcune aiuole alle cure dell’Istituto di Agraria Aicardi e dei detenuti dell’Istituto Penitenziario di Sanremo. La seconda tappa di un progetto, che potrebbe essere esteso anche ai comuni di Santo Stefano al Mare e di Saremo e che nasce dall’idea del professor Guido Calvi, per anni dirigente scolastico dell’Istituto, ed oggi volontario presso la casa circondariale sanremese. "Il professor Calvi - spiega il Direttore del carcere Francesco Frontirrè - aveva già fatto rivivere una serra presente all’interno del nostro istituto, un’attività che aveva dato importanti risultati. È dimostrato infatti che un’esperienza lavorativa possa avere conseguenze positive sui detenuti, dando loro maggiore autonomia e diminuendo il rischio che questi possano nuovamente commettere illeciti una volta usciti dal carcere. Il nuovo regolamento permette ai detenuti di uscire dall’istituto anche per attività di volontariato e di utilità sociale, siamo convinti che questa sia un’opportunità importante per i detenuti e che possa avere conseguenze importanti sul lungo periodo." Il progetto è quasi a costo zero, probabilmente rispetto alla gestione delle aiuole, costerà al Comune di Taggia qualche centinaio di euro in più, giustificate però dal grande valore sociale del progetto per i detenuti, ma anche per l’intera collettività. "Sarebbe bello - prosegue il direttore - se questo potesse aiutare a migliorare l’idea che si ha del carcere dall’esterno, il timore è lecito, ma è bene conoscere e confrontarsi direttamente con questa realtà. Cambiare un po’ l’atteggiamento rispetto ai detenuti può davvero essere utile, è ovvio che progetti del genere potranno esser avviati con coloro che sono nelle condizioni di farlo, evitando ovviamente, che questo possa avere ricadute negative sulla città". Per il momento si sta scegliendo un soggetto che possa coprire il territorio di Taggia e che si dedicherà alla manutenzione delle aiuole che si trovano proprio sotto il palazzo comunale. Il detenuto potrà facilmente raggiungere per due pomeriggi a settimana in bicicletta, percorrendo la pista ciclabile. "Con le amministrazioni di Santo Stefano al Mare e Sanremo - spiega il professor Calvi, ideatore del progetto - siamo ancora in una fase di studio. La scuola, e in parte la casa circondariale, produrrà le piante e si occuperanno di piantarle nei tre cicli annuali di fioritura, mentre il detenuto che verrà scelto, avrà l’incarico di mantenere le aiuole". "Abbiamo deciso di aderire a questa progetto - spiega il Sindaco di Taggia Vincenzo Genduso - perché individuiamo in esso una missione di reinserimento sociale e lavorativo molto importante. L’idea di far gestire queste aiuole dai detenuti del carcere ci sembrava una cosa simpatica e interessante, anche rispetto alla sinergia innescata da questa attività". "Questo progetto è guidato dal principio di recupero sociale - spiega il dirigente scolastico Sergio Maria Conti - questa mi sembra una cosa molto importante, a cui si aggiunge una grande collaborazione e condivisione tra i tre istituti che rappresentiamo, non certo qualcosa di scontato". Velletri (Rm): detenuto finisce al pronto soccorso per sospetto caso di meningite castellinotizie.it, 1 marzo 2016 Attimi di paura, nei giorni scorsi, quando un detenuto proveniente dalla Casa Circondariale di Velletri è stato accolto presso il Pronto Soccorso dell’ospedale "Paolo Colombo" col sospetto di essere stato contagiato dal batterio della meningite. Questo quanto raccontato da Carmine Olanda, segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria (Si.P.Pe), che ha ricostruito quanto accaduto. "Solo grazie alla bravura e alla grande professionalità di quel poco personale medico e paramedico presente - ha premesso - il pronto soccorso è riuscito a gestire e garantire l’assistenza sanitaria a tutte le persone in continuo arrivo e con svariati codici. Purtroppo - ha aggiunto - l’Ospedale di Velletri scarseggia di personale e di strutture sanitarie per accogliere ed ospitare persone affette da malattie infettive come meningite, tubercolosi e scabbia, così come di apposita struttura operativa per la rianimazione. Dopo ore di ricerche - ha aggiunto Olanda - il detenuto è stato trasportato in stato di coma con presso l’Ospedale Malattie infettive dello Spallanzani di Roma per essere ricoverato nel reparto rianimazione. Per ovvie ragioni, tutte le persone che hanno avuto stretto contatto con lui, sospettato di aver contratto la meningite, sono state sottoposte alla profilassi sanitaria per garantire una maggiore sicurezza". L’uomo era stato ritrovato riverso a terra, privo di sensi e con la bava alla bocca, prima di essere soccorso dagli agenti della Penitenziaria, costretti a far fronte ad un numero di detenuti in sovrannumero, con un personale che è invece è numericamente carente. Padova: l’Università firma un rapporto sulla polizia penitenziaria di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 1 marzo 2016 Organici ridotti. Formazione scarsa. E ambiente di lavoro difficile, reso ancora più ostile dal sovraffollamento, come dimostra la rivolta accaduta nella serata di sabato fino a notte fonda con i detenuti che hanno tenuto in scacco una sezione prima del rientro alla normalità. Temi "caldi" di cui si parlerà nel convegno in programma venerdì dalle 9 alle 13.30 nella sala delle Edicole in piazza Capitaniato, dal titolo "La polizia penitenziaria in Veneto. Condizioni lavorative e salute organizzativa". Sarà l’occasione per presentare il rapporto sul lavoro degli agenti che operano nelle nove strutture penitenziarie della nostra regione: 2 a Padova, Venezia (dove c’è l’unico carcere femminile) e Verona; 1 a Belluno, Treviso e Rovigo (oggi l’inaugurazione del "nuovo" carcere). Interverranno Vincenzo Milanesi, direttore del Dipartimento Fisppa dell’università con Daniele Giordano, segretario generale Veneto Fp-Cgil; presenteranno la ricerca Francesca Vianello e Alessandro Maculan dell’università di Padova; poi discussione con Giuseppe Mosconi e Adriano Zamperini docenti nell’ateneo; a seguire interventi del vice-capo Dap Massimo De Pascalis, del provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Triveneto Enrico Sbriglia, di Massimiliano Prestini della Polizia penitenziaria nazionale e della segretaria nazionale Fp-Cgil Rossana Dettori. "C’è stato un forte abbandono della Polizia penitenziaria da parte dell’Amministrazione" spiega Giampietro Pegoraro della Fp Cgil Polizia penitenziaria del Veneto, "La situazione di lavoro è più dura nelle carceri dove c’è un grande turn over tra i detenuti che non sono impegnati nel lavoro. In più non c’è formazione e non ci sono protocolli d’intervento anche se dal 2015 è stato introdotto il regime delle celle aperte di giorno". Salerno: protocollo di intesa tra il Patronato Acli e il carcere di Fuorni gazzettadisalerno.it, 1 marzo 2016 Ieri, lunedì 29 febbraio presso la Casa Circondariale di Fuorni a Salerno, il Presidente provinciale delle Acli Gianluca Mastrovito e il Direttore dell’istituto Stefano Martone, hanno sottoscritto il protocollo d’intesa che da seguito all’accordo quadro stipulato nell’aprile del 2015 tra il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) ed il Patronato Acli, allo scopo di favorire il processo di integrazione, facilitare l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. "Si tratta di una intesa - ha affermato Gianluca Mastrovito, presidente delle Acli e del Patronato provinciale - volta a rafforzare e rilanciare una realtà che, già operante in 79 province d’Italia, sta dando dei risultati nel contrasto al fenomeno della recidiva, attraverso servizi di consulenza, di assistenza e di tutela a favore dei detenuti. Tutela e diritti sono le due parole chiave per comprendere il lavoro dei patronati: il loro compito non è solo quello di compilare le pratiche per facilitare l’Inps ma quello di far conoscere ai cittadini, soprattutto quelli più deboli come anziani, disabili e detenuti, i loro diritti e aiutarli a scegliere la prestazione sociale più adatta alle loro esigenze". "Questo contribuisce a non lasciare i detenuti a loro stessi - ha affermato Stefano Martone, Direttore della Casa circondariale - ma contribuisce a favorire, nell’ottica rieducativa della pena, il reinserimento sociale ed aiuta a rendere le carceri qualcosa di diverso. Un percorso quello iniziato stamani con il Patronato Acli Salerno, che si unisce alle tante iniziative di promozione della persona, che altri soggetti del volontariato e del privato sociale agiscono nell’istituto, rendendo Fuorni spazio di socialità nuova e partecipata. Alle Acli - continua Martone - chiederemo un ulteriore impegno per costruire percorsi di cittadinanza attiva e di orientamento al lavoro per quanti saranno chiamati al riappropriarsi di spazi sociali nelle comunità locali". Grazie alla legge 193/2008 i patronati possono svolgere la loro attività anche nelle carceri per garantire agli ospiti delle case circondariali l’accesso alla pensione, l’assegno familiare, l’invalidità civile, la disoccupazione o altre prestazioni previste dalla normativa italiana. Senza questi interventi i detenuti non potrebbero presentare all’Inps, che riceve tutto per via telematica, le domande di prestazioni previdenziali, assistenziali ed a sostegno del reddito. Dal 2009 - dichiara Giuseppe Paparo, Direttore provinciale del Patronato Acli - da quando il Patronato nazionale delle Acli è entrato in carcere, ha intercettato 4.520 persone e ha istruito 10.219 pratiche nelle 79 province coinvolte su tutto il territorio nazionale. Il tempo dedicato alle pratiche invece non è quantificabile: spesso gli operatori delle Acli lavorano, o meglio donano con gioia del tempo, più di quanto preveda la convenzione. La presenza del Patronato, allora, in una situazione così estrema con tempi molto dilatati e burocrazia decuplicata rispetto alla vita normale diventa essenziale, assumendo un valore sociale significativo. Cividale del Friuli (Ud): tutti a LexFest, nella giungla della giustizia Panorama, 1 marzo 2016 Accusa e difesa. Carceri e mafia. Cronaca giudiziaria e gogna. Magistrati, avvocati e cronisti in una grande kermesse dal 4 al 6 marzo, a Cividale del Friuli, Il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Ma anche il presidente dell’Unione delle camere penali Beniamino Migliucci, il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis. E poi componenti del Consiglio superiore della magistratura come Claudio Galoppi e Antonio Leone. E anche firme storiche della cronaca giudiziaria, come Piero Sansonetti e Massimo Bordin, insieme all’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara. Sono solo alcuni dei protagonisti della prossima LexFest 2016, un grande convegno nazionale dedicato alla giustizia e agli operatori del diritto, che si terrà da venerdì 4 a domenica 6 marzo a Cividale del Friuli (Udine). Ideata da Andrea Camaiora, giornalista ed esperto di litigation pr, promossa dal Comune di Cividale e organizzata da Spin, team di comunicazione attivo tra Roma e Milano, LexFest sarà una tre giorni di confronti e d’interviste sul mondo della giustizia. Cinque i grandi temi al centro dell’iniziativa: la condizione carceraria, la comunicazione della giustizia, accusa e difesa di fronte all’opinione pubblica, il rapporto tra giustizia, ambiente e imprese, il doppio binario tra tempi della giustizia e tempi delle imprese, il racconto della criminalità organizzata. Interverranno anche personalità istituzionali, studiosi e imprenditori. I lavori di LexFest saranno trasmessi integralmente da Radio Radicale. Roma: "guardie corrotte", quei brutti sospetti dietro l’evasione da Rebibbia di Andrea Ossino Il Tempo, 1 marzo 2016 Per la Procura i 2 detenuti romeni hanno "pagato somme di denaro". Evasi dopo aver corrotto le guardie penitenziarie. Per ora è una ipotesi della Procura della Repubblica. Sospetta il reato di corruzione a carico dei romeni Mihai Florin Diaconescu e Catalin Ciobanu (28 e 33 anni), presi dopo meno di una settimana nella zona di Tivoli. La nuova tesi dei magistrati è che la sera del 14 febbraio, nel carcere di Rebibbia, per segare le sbarre e fuggire i due avrebbero corrisposto "una imprecisata somma di denaro", ad alcuni agenti della polizia penitenziaria, ancora da identificare. Lo scenario non convince i difensori dei romeni. "I nostri assistiti - hanno commentato gli avvocati Cristiano Brunelli e Andrea Palmieri - non ci hanno detto nulla di questa ipotesi corruttiva, quindi ci sentiamo di poterla negare. Dinanzi al pm verrà ricostruita l’esatta dinamica dei fatti". Inoltre, la congettura lascia assai perplesso pure il sindacato della polizia penitenziaria. "Io trasecolo - commenta il segretario nazionale del Sappe, Donato Capece - questa cosa non mi risulta affatto. Se la magistratura ha comprovati motivi che attestano questa cosa noi non possiamo dire che chi ha sbagliato paghi. Rimango comunque esterrefatto. È vero che esiste una carenza di personale nelle carceri. È vero che ci sono falle nei sistemi di sicurezza. E sarebbe grave se questi operatori avessero usato i punti deboli a loro vantaggio. Ma non facciamo di tutta l’erba un fascio. Gli agenti penitenziari rischiano la loro vita per salvare chi sta dentro e fuori gli istituti di pena". Gli evasi sono stati catturati in due momenti diversi. Il 17 febbraio alle 5.30 è finita a Tivoli la fuga di Mihai Florin Diaconescu. Mentre la sera prima nella stessa caserma si è costituito Catalin Ciobanu. Il 33enne è accusato di sequestro di persona e morte in conseguenza di un altro reato del commerciante egiziano Abdel Hamid Mohamed Lashein Ebrahim. Invece il 28enne di rapina e ricettazione. Stando alla ricostruzione, i due hanno segato le sbarre del magazzino nel reparto G11 di Rebibbia, locale all’interno degli spazi detentivi usato come deposito e posto vicino alle docce. Si sono calati dal muro esterno, alto 7-8 metri, con delle lenzuola. Arrivati a terra, si sono spostati verso l’intercinta, avrebbero usato dei bastoni, realizzati unendo fra loro diversi manici di scopa, per issare e agganciare al muro di cinta, alto 5-6 metri, delle lenzuola a cui erano fissati dei ganci di metallo rudimentali realizzati dagli stessi fuggitivi. Calatisi dal muro di cinta, i due si sono poi arrampicati sulla rete elettrosaldata, superando così l’ultimo sbarramento. Florin Mihai Diaconescu aveva a disposizione arnesi di questo tipo perché era un lavorante: detenuto dal 2008, svolgeva come altri detenuti lavori di manutenzione all’interno del carcere. Napoli: domani e dopodomani quadrangolare di calcetto tra studenti e detenuti Ansa, 1 marzo 2016 Nei giorni 2 e 3 marzo - dalle 9.30 alle 13.00 - gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori napoletane Sannazaro, Genovesi e Serra, saranno impegnati in un quadrangolare di calcetto con i detenuti degli Istituti penitenziari rispettivamente di Poggioreale il 2 marzo e a Secondigliano il 3 marzo. L’iniziativa, suggerita dal Garante regionale dei detenuti Adriana Tocco, è stata realizzata in collaborazione con l’Assessore all’Istruzione del Comune di Napoli Annamaria Palmieri, che ha raccolto le adesioni delle scuole e con il Provveditorato Regionale all’Amministrazione penitenziaria, in particolare il dott. Claudio Flores, che ha coordinato la partecipazione dei detenuti. L’organizzazione tecnica del torneo si è avvalsa della preziosa collaborazione dell’UISP, che fornirà arbitri e palloni. L’evento, intitolato "Una partita per avvicinare, un incontro per raccontare", mira a diffondere tra i giovani la consapevolezza del significato reale dell’art. 27 della Costituzione, per il quale le persone private della libertà sono cittadini a tutti gli effetti e quindi titolari di diritti fondamentali non negoziabili. Dall’incontro tra detenuti e studenti intorno alla comune passione per lo sport e per il calcio si auspica di favorire l’abbattimento dei pregiudizi e la riflessione su come un pieno reinserimento nella società di chi ha commesso un reato possa contribuire alla sicurezza di tutti. "I nemici della Repubblica", di Vladimiro Satta. Anni di piombo, la dietrologia da sfatare di Paolo Mieli Corriere della Sera, 1 marzo 2016 Ne "I nemici della Repubblica" di Vladimiro Satta riletti tra gli altri i casi Pinelli e Moro "Non ha riscontri l’ipotesi che lo stato abbia pilotato i terroristi rossi e neri". Gli uomini armati, che tra gli anni Sessanta e gli Ottanta hanno provato ad aggredire la democrazia italiana, sono stati sconfitti. Le istituzioni repubblicane "hanno vinto e hanno vinto abbastanza bene, nel complesso", constata Vladimiro Satta in un importante e documentatissimo libro, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, pubblicato da Rizzoli. C’è un solo terreno sul quale le cose sono rimaste com’erano allora: quello della ricostruzione storica. Nel senso che le idee dietrologiche, anche le più bizzarre, diffusesi in quei momenti terribili sono sopravvissute come se i successivi dibattimenti giudiziari non ci fossero stati, le confessioni assai circostanziate su ciò che è realmente accaduto, l’assoluta assenza di riscontri alle ipotesi più fantasiose non fossero mai esistite. E pensare, scrive Satta, che "la scomparsa dalla scena di fenomeni del genere è una controprova che essi non erano frutto di complotti orditi in misteriose alte sfere del potere italiano o mondiale che tutto comandano, bensì di spinte che nascevano dall’interno della nostra società e della nostra (in)cultura politica in un dato momento. (...) Spinte che, fortunatamente, si sono esaurite". Di più: "I terrorismi, senza volerlo, hanno contribuito al consolidamento e alla depolarizzazione della democrazia italiana, che dalla dura prova è uscita migliore di prima". Non si può dire lo stesso della storia che (sia pure con qualche lodevole eccezione) ha codificato quegli anni come un’epoca in cui apparati deviati dello Stato hanno dapprima cospirato con terroristi di destra e di sinistra, per poi far naufragare i processi in modo da impedire che le loro responsabilità venissero accertate. E pensare che, a quasi cinquant’anni dai fatti, non esiste prova che anche un solo "uomo dello Stato" abbia avuto responsabilità diretta o indiretta nei misfatti di quell’epopea sanguinosa. Il massimo che si è ottenuto, in merito alla bomba di piazza Fontana, sono state le condanne di Gianadelio Maletti e Antonio Labruna per aiuti che il Sid aveva dato a Marco Pozzan e Guido Giannettini, "due personaggi niente affatto esemplari, entrambi assolti dall’accusa di strage". Satta smonta un centinaio di piccoli e grandi sospetti (legittimi) e di ipotesi (alcune davvero cervellotiche) che nella pubblicistica e in molti libri di storia si sono depositate come verità accertate. Ad esempio che le bombe fatte esplodere il 12 dicembre del 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano fossero due anziché una: la prima di bassa potenza messa lì nell’istituto di credito da Pietro Valpreda, la seconda, devastante, collocata nello stesso luogo da un sosia dell’anarchico. Ipotesi formulata dal libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie), smontata pezzo per pezzo da Giorgio Boatti e da Adriano Sofri (il presunto sosia di Valpreda sarebbe stato in realtà una fotomodella scandinava bionda e ventitreenne, ovviamente del tutto innocente), ma ripresa poi dal regista Marco Tullio Giordana per il film Romanzo di una strage. Parimenti bislacca la ricostruzione di Fulvio e Gianfranco Bellini che, dietro lo pseudonimo Walter Rubini, hanno scritto - in Il segreto della Repubblica (Flan) - che Giuseppe Saragat e Aldo Moro il 23 dicembre del 1969, undici giorni dopo la carneficina, avrebbero stretto un patto per avvolgere nel silenzio l’intera vicenda, così da coprire le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (il cui ruolo in questa storia sarebbe emerso, però, solo a metà del gennaio successivo). Saragat era stato presentato già all’epoca da "The Observer" come artefice della strategia della tensione e Satta dimostra punto per punto quanto quelle accuse fossero campate in aria. Al giudice istruttore Guido Salvini viene mosso il rilievo di aver usato "i concetti di "stato di emergenza" e di "golpe" come fossero interscambiabili": "Nel 1969", scrive l’autore, "le istituzioni repubblicane valutarono - correttamente - che non ci fosse necessità di proclamare lo stato di emergenza, ma resta il fatto che eventualmente si sarebbe trattato di una misura antifascista e non antidemocratica". Allo stesso modo Satta fa a pezzi l’idea, messa in campo a ridosso di quegli anni, che lo scioglimento anticipato delle Camere (peraltro praticato sistematicamente dal 1972 in poi) sarebbe stato una misura golpista. Assai brillante è il modo in cui lo studioso dimostra come Moro non fosse affatto depositario di chissà quali segreti a proposito dei rapporti tra lo Stato e gli stragisti. E allo stesso modo come alcuni atti o ripensamenti attribuiti all’allora presidente del Consiglio Mariano Rumor fossero o inventati o assai più lineari del modo in cui vennero presentati. ? Per quel che riguarda la morte di Giuseppe Pinelli, Satta dà atto all’allora giudice Gerardo D’Ambrosio di non aver mai definito quello dell’anarchico un "malore attivo" e sostiene che questa fu "un’invenzione giornalistica che gli venne appioppata allo scopo di gettare discredito sulla sentenza" che scagionava il commissario Luigi Calabresi. Il giudizio sui processi di Catanzaro e poi Bari è positivo: "Coloro i quali immaginavano che il trasferimento del processo sulla strage di piazza Fontana nella remota sede meridionale preludesse all’insabbiamento si sbagliavano, e di grosso… A Catanzaro si fece sul serio; il processo, anzi, si allargò a esponenti di primo piano dei servizi segreti e dell’autorità politica, la quale fu chiamata ad assumersi le proprie responsabilità in ordine agli addebiti contestati agli apparati dello Stato". Quanto al "giudicato definitivo", che addossa la strage di piazza Fontana ai neofascisti padovani di Ordine Nuovo, Satta mette in rilievo che esso "non precisa il movente dei criminali"; ciò che "è normale nell’ambito di una valutazione incidentale in sede giudiziaria, ma lascia un vuoto che la storiografia deve tentare di colmare". Cosa che, evidentemente, finora nessuno storico ha credibilmente provato a fare. L’attentato di piazza Fontana fu indicato da allora in poi come "la madre di tutte le stragi". Ma Satta invita a riflettere che "se così fosse, le gestazioni sarebbero state alquanto lunghe": tra il 12 dicembre del 1969 e il primo tra gli attentati mortali di natura eversiva, quello avvenuto a Peteano il 31 maggio 1972, passano quasi due anni e mezzo. Per quel che riguarda l’epoca successiva, l’autore mette in discussione lo schema di Guido Crainz - in Il paese mancato (Donzelli) - che tenderebbe a rintracciare un filo che collega il piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo dell’estate 1964 agli attentati degli anni Settanta, e a unificare in qualche modo golpismo e stragismo. Poi, sulla base de Il piano Solo (Mondadori) di Mimmo Franzinelli, ricorda con qualche malizia che se De Lorenzo avesse chiuso la propria carriera per limiti di età a fine 1966, gli storici lo presenterebbero oggi come il "militare di sinistra", protagonista della Resistenza, schedato nel dopoguerra per filocomunismo, paladino dell’apoliticità dell’esercito e modernizzatore dell’Arma dei carabinieri. L’autore nota in seguito come nell’inchiesta di Giovanni Tamburino su Amos Spiazzi e la Rosa dei venti sia presa per buona una testimonianza di Roberto Cavallaro circa l’esistenza nel 1964 di una struttura parallela assimilabile a Stay Behind (solo che Cavallaro, nato nel 1949, nel 1964 aveva quindici anni ed è perciò improbabile che parlasse di quei fatti per "conoscenza diretta"). Ci stiamo riferendo ad un processo che coinvolse l’ex capo del Sid Vito Miceli mandandolo assolto, anche se, ammette Satta, quel genere di sentenze "non furono le migliori possibili" e "qualche testa calda avrebbe meritato un trattamento più severo". Si osserva inoltre che "nell’ottica del nesso con Gladio, la strage di Peteano e i depistaggi che la riguardarono sarebbero fenomeni niente affatto uniti da un comune disegno eversivo, bensì eterogenei": l’attentato "apparterrebbe alla storia del neofascismo, che è italiana", mentre le deviazioni tese a coprire Stay Behind "apparterrebbero alla storia della guerra fredda". Per quel che riguarda la strage dell’Italicus (4 agosto 1974) il libro esprime dubbi sulla testimonianza di Maria Fida Moro, figlia di Aldo, secondo la quale suo padre stava per prendere quel treno ed era contro di lui che sarebbe stato ordito l’attentato. Più in generale l’autore fa notare come la tempistica del golpismo e dello stragismo di fatto non coincida per nulla con la cronologia dei successi del Partito comunista e neppure sia "correlabile ad essa in termini di reazione, perché la precede invece di seguirla". La verità è che sugli autori delle stragi degli anni Settanta si sa molto poco, ma è certo che la democrazia italiana ne uscì rafforzata (e il Pci conobbe una stagione di successi). Cosicché si può definire poco convincente una celebre frase rivolta agli stragisti dal giudice Libero Mancuso ("Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete"). Andrebbe piuttosto ribaltata: "Non sappiamo chi siete (ad eccezione di Freda, Ventura e pochi altri), però noi abbiamo vinto e voi perso". E tra quei "pochi altri", di cui si è appena detto, ci sono casi che provocano imbarazzo come quello di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, condannati per la strage di Bologna con una sentenza che lascia adito a più di un dubbio. Quanto al celeberrimo "Io so ma non ho le prove" di Pier Paolo Pasolini, coloro che si sono richiamati o (come Antonio Ingroia) hanno riproposto quelle parole sono, secondo Satta, "non dei coraggiosi eretici ma i continuatori di un intreccio tra il sospetto eretto a metodo, la presunzione e il dogmatismo". ? Passando alle Brigate rosse, il libro dimostra come non siano provate le tesi di Alberto Franceschini, secondo il quale Mario Moretti era manovrato dall’esterno, e quelle, caratterizzate da "assenza di riscontri, dimenticanze e valutazioni incongrue", di Rocco Turi (in Gladio rossa, edito da Marsilio, e Storia segreta del Pci. Dai partigiani al caso Moro, pubblicato da Rubettino), per cui i brigatisti erano in mano a "forze di oltre cortina". Assai ridimensionato esce da questa trattazione il ruolo dell’istituto linguistico parigino Hyperion, il cui leader, Corrado Simioni, fu addirittura identificato come il "grande vecchio" delle Brigate rosse. Così come non ha trovato riscontri l’"identità di vertice" tra l’Autonomia di Toni Negri e le Br ipotizzata dal giudice Pietro Calogero nell’inchiesta del 7 aprile 1979. ? Quanto al rapimento e all’uccisione di Moro - qui anche sulla scia di precedenti libri dello stesso Satta - vengono smontate tutte le ricostruzioni che attesterebbero un ruolo dei servizi segreti italiani o internazionali nell’affaire. È "insostenibile" che ci fosse un "auto dei servizi" in via Fani dove lo statista fu sequestrato. Stesso discorso vale per la misteriosa moto Honda che ha ispirato il film Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli. È "altamente inverosimile" persino che all’attacco di via Fani abbiano partecipato soggetti esterni alle Br. Neanche "compagni" stranieri. "Così come nessun brigatista rosso andò a Colonia per sequestrare Schleyer, nessun terrorista tedesco venne a Roma per rapire Moro". Assai circostanziate, con punte di perfidia, sono poi le contestazioni di Satta ad alcune estrose "ricostruzioni" di Ferdinando Imposimato, Miguel Gotor, Sergio Flamigni, Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca. Fortemente ridimensionato anche il ruolo della P2 (sulla quale viene in ogni caso pronunciato un giudizio assai severo) nell’affare Moro. Vengono spesso spacciati "per piduisti personaggi che non lo erano o che lo sarebbero diventati soltanto mesi e anni dopo" e, a torto, la loggia massonica viene considerata "responsabile di nomine volute da altri, talvolta dai comunisti (Giulio Grassini al Sisde), talaltra da comunisti e socialisti (Raffaele Giudice a capo della Guardia di finanza, nel lontano 1974) e talvolta addirittura dallo stesso Moro (Francesco Malfatti invece che Francesco Pompei al vertice dell’amministrazione della Farnesina). Un’organica mappatura degli assetti istituzionali alla viglia del sequestro Moro mostra", secondo Satta, "che, a parte Santovito e Grassini - i quali erano stati nominati ai vertici di Sismi e Sisde, ma non in quanto piduisti - i sodali di Gelli erano assenti dalla grande maggioranza dei posti chiave". La P2, è la conclusione dell’autore, "fu indubbiamente nociva al Paese, ma sarebbe iniquo incolparla di ogni sventura nazionale, caso Moro e brigatismo rosso compresi". Altrettanto improbabile il ruolo che nella vicenda avrebbe avuto l’"americano" Steve Pieczenik che addirittura si autoaccusò - assieme a Francesco Cossiga - di aver contribuito all’uccisione Moro. Salvo poi smentire tale affermazione. Basti dire che in tempi recenti Pieczenik in un suo blog ha sostenuto che Saddam Hussein è ancora vivo e "risiede sotto falso nome nella città russa di Barvikha", che le foto del cadavere di Gheddafi sono un inganno, che l’ex dittatore libico e la sua famiglia "se la stanno passando bene nel deserto subsahariano sotto la protezione dei tuareg" (e "non sono andati pure loro in Russia soltanto perché da quelle parti fa troppo freddo"). Forse è giunto il momento che la storia d’Italia, anche quella recente, venga raccontata in modo meno suggestivo di quanto lo sia nelle parole di Pieczenik. La rissosa Europa faccia pace coi migranti di Marco Bascetta Il Manifesto, 1 marzo 2016 Ormai non lo si può più nascondere. Le guerre che ci incalzano più da vicino sono almeno due. La prima è quella che dal Medio oriente si estende fino alle coste libiche. La seconda è quella, unilaterale, che si sta combattendo lungo le frontiere orientali dell’Unione europea. E, in misura più circoscritta, a Calais. È la guerra contro i migranti, poiché solo con un altra guerra si può tentare di respingere chi dalla guerra fugge. Nei Balcani, in Austria, in Ungheria, in Bulgaria, si fortifica la linea del fronte. In Francia si rade al suolo l’accampamento nemico, la "Giungla" sulle rive della Manica. Dall’altra parte, l’esercito dei migranti, uomini, donne vecchi e bambini, senza armi, senza odio, senza scelta, continua e continuerà ad avanzare, e a ingrossare le sue schiere. Non ha alternative. La prima tregua, il primo trattato di pace da siglare è quello tra l’Europa e i migranti. Ma l’Europa si sta rivelando ancora più rissosa e divisa delle fazioni che dilaniano la Libia. C’è poi la guerra combattuta dietro le linee dalle destre xenofobe che vanno conquistando consensi impensabili solo fino a poco tempo fa tra i cosiddetti moderati e tra le fila della stessa politica governativa. Un piccolo episodio per tutti: la signora Erika Steinbach, beffardamente responsabile del gruppo parlamentare Cdu/Csu per i diritti umani e gli aiuti umanitari, posta l’immagine di un pupo biondo circondato da persone di pelle scura e foggia orientale che gli domandano: "Ma tu da dove vieni?". Il titolo dell’eloquente scenetta è "Germania 2030". E non è la sola, tra i politici conservatori, a farsi paladina dell’identità minacciata del Volk e delle sue tradizioni. Senza contare gli squadristi di Pegida e di altre formazioni radicali, quotidianamente dediti ad attentati e aggressioni in un crescente clima da pogrom. Anche una volta varcate le frontiere della Germania per i fuggiaschi la guerra non è ancora finita. Angela Merkel cerca di fare fronte alla deriva che direttamente la investe. Nella sostanza ha dovuto retrocedere, e non di poco, con la restrizione del diritto di asilo, la facilitazione delle espulsioni, la moratoria dei ricongiungimenti familiari, ma non può cedere sul principio e l’ideologia della chiusura. Significherebbe compromettere la sua figura politica, consegnare il partito nelle mani delle correnti più conservatrici, minare tutta un’architettura della stabilità costruita nel corso di anni. E, questa volta, ha disperato bisogno di salvare quella stessa Grecia che pochi mesi fa condannava all’ostracismo. Ad Atene precipitano tutte le contraddizioni d’Europa. Dopo avere subito, nelle forme drammatiche che abbiamo visto, la frattura tra il nord e il sud del Vecchio continente, la Grecia patisce ora pesantemente la frattura tra Est e Ovest. Di fatto isolata dall’area Schengen, in seguito alla blindatura sempre più intransigente e aggressiva dei paesi balcanici e di quelli dell’Europa dell’Est, Atene si trova ad affrontare una situazione catastrofica. Intanto per il costo insostenibile sul piano economico, ma che presto potrebbe avere anche gravi ripercussioni sociali, malgrado la solidarietà fin qui mostrata dagli abitanti delle isole più toccate dal flusso dei migranti. Se la Grecia dovesse rovinare su se stessa questo non significherebbe solamente il fallimento della politica migratoria di Angela Merkel, ma una spaccatura, probabilmente irrimediabile, dello spazio politico europeo. E, visto le posizioni maramaldesche assunte dai governi dell’Unione nei confronti di Atene durante la crisi dei debiti sovrani, non c’è da attendersi oggi maggiore lungimiranza. Tutti intanto si aspettano che dal cappello della crisi esca il coniglio della Turchia, disponibile in cambio di soldi a sistemare un buon numero di profughi sul proprio territorio. Qualcosa di non dissimile da quello che i paesi più poveri facevano con i rifiuti tossici. Visti i sistemi con cui viene governata la Turchia, il paragone rischia di non essere solo una malevola fantasia. Ma non basterà spostare il problema più a oriente per celare all’opinione pubblica europea scene agghiaccianti come quelle che ci giungono dal confine greco-macedone. Un grande movimento sovranazionale per la pace tra l’Europa e i migranti. Questo servirebb La crisi dei migranti spacca le tradizionali alleanze nella Ue di Vittorio Da Rold Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016 La cancelliera tedesca, Angela Merkel, alleata con il premier greco Alexis Tsipras, Vienna con i paesi Balcani, i Paesi del blocco di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia) uniti contro tutti gli altri partner europei sul tema dei profughi. Senza scomodare vecchie reminiscenze da impero asburgico, la mappa delle alleanze europee viene completamente sparigliata dalla ennesima drammatica puntata della crisi dei migranti che neppure d’inverno dà tregua ai paesi dell’Unione. Tutto è rinviato al vertice europeo straordinario dei leader dei 28 con la Turchia che si terrà il 7 marzo prossimo a Bruxelles mentre il commissario europeo all’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, e il ministro dell’Interno olandese (presidenza Ue), Klaas Dijkhoff, hanno invitato tutti gli Stati membri, "ad agire in un congiunto spirito di solidarietà e responsabilità, specialmente in tempi in cui occorrono unità e soluzioni comuni". Belle intenzioni sulla carta smentite dai nuovi muri eretti in fretta e furia ai confini, dal rifiuto di accettare le quote di migranti e dai referendum indetti sul tema come ha fatto il Governo ungherese di Orban. Ognuno per sé sembra essere il nuovo motto dei 28 come se non si trattasse di flussi di migranti spinti da guerre (in Siria è appena iniziata una seppure fragile tregua) ma di invasione barbariche. Il 7 marzo a Bruxelles ci sarà l’ennesimo incontro tra l’Unione europea e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan che dovrebbe garantire di filtrare l’arrivo di migranti dalla Siria e Iraq visto che l’Afghanistan è diventato zona sicura, cioè senza conflitti in corso e quindi i suoi cittadini non avrebbero più diritto allo status di profughi. La Macedonia, che non è membro Ue, ma che vorrebbe entrare nel club, sta erigendo il muro per conto dei Paesi balcanici e dell’Austria, venendo così incontro alle esigenze anche dei Paesi di Visegrad. L’unico desiderio di tutti i membri europei sembra essere uno solo: "Non nel mio cortile di casa". Anche se questo approccio miope ed egoista potrebbe scatenare un effetto domino e alla fine alla dissoluzione di qualsiasi risposta comune con un respiro strategico. Calais. Ruspe e lacrimogeni la resistenza della Giungla di Anais Ginori La Repubblica, 1 marzo 2016 Lo sgombero è iniziato tra tende incendiate e lanci di pietre. I volontari: "Ci hanno impedito di avvicinarci". Calais nel fango gli operai raccolgono assi di legno rotte e teli di plastica. S’intravedono tazze, coperte, un libro in persiano. Anche se non sembra, l’ammasso di cose su cui passano le ruspe era qualcosa che assomigliava a una casa. "Lieu de vie…" ha scritto qualcuno sulle capanne per ricordare che anche in un non luogo come la "Giungla", in mezzo alla miseria che fingiamo di non vedere, c’è la vita. I poliziotti sono schierati a difesa dell’impresa privata a cui tocca cominciare lo smantellamento di una parte dell’immensa baraccopoli sorta fuori Calais, a ridosso del mare. Accanto agli agenti c’è un cartello "School", un rifugio per i bambini con una fornita biblioteca di libri in eritreo, persiano, afgano. Più in là un ristorante, "Ashram Kitchen", una moschea, una chiesa, uno spaccio alimentari. Esiste persino un parrucchiere e un "hammam" dove con un euro si può fare la doccia. Nell’ultimo anno la Giungla è diventata una piccola città improvvisata nel vuoto delle risposte all’emergenza migratoria. Il governo francese ha cercato una prova di forza per cancellare le tracce della vergogna. Doveva essere un sgombero "progressivo, volontario, e rispettoso della dignità umana", come aveva promesso il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. È finita con una coltre di fumo nero che avvolge la boscaglia, tende incendiate, scontri tra agenti e migranti, lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere la folla. "Ci hanno impedito di avvicinarci, non volevano testimoni" racconta Magalie Bourgoin dell’associazione Utopia 56. Di primo mattino, i volontari che da mesi portano soccorso alle famiglie di profughi sono stati tenuti alla larga da un cordone di sicurezza. Dopo che giovedì scorso il tribunale di Lille ha rigettato il ricorso delle Ong, l’evacuazione è iniziata all’alba. Le autorità avevano garantito che lo sgombero sarebbe stato l’ultima tappa di un dialogo con i migranti per convincerli a partire, trasferendoli in strutture pubbliche. Poi tutto è precipitato. "I funzionari della Prefettura hanno distribuito un volantino che dava un’ora di tempo per lasciare la zona prima della distruzione" spiega Magalie mostrando il pezzo di carta. Lo Stato offre in teoria ai migranti di essere ospitati nelle tende, nei container riscaldati sistemati qualche metro più in là oppure in uno dei cento centri di accoglienza per richiedenti asilo sparsi in tutto il paese. Ma molte associazioni sostengono che i posti non sono sufficienti. E soprattutto la maggior parte dei profughi sogna ancora di andare nel Regno Unito, non vuole saperne di restare in Francia, dove non c’è lavoro e la xenofobia cresce. Le Ong hanno presentato un nuovo ricorso al Consiglio di Stato ma intanto le ruspe sono entrate in azione. Nel pomeriggio scoppiano i primi incidenti, alcuni migranti lanciano pietre contro gli agenti che rispondono con lacrimogeni. La polizia spara cannoni ad acqua per spegnere l’incendio di diverse tende. Secondo le autorità, gli scontri sono organizzati dal movimento No Border: quattro militanti vengono arrestati. Un ragazzo curdo sale sul tetto di una baracca e minaccia di uccidersi con un coltello. Altri lo imitano ma senza crederci davvero. I profughi di Calais sono in un’impasse come ripetono i funzionari della Prefettura che da settimane tentano di convincerli a lasciare la Giungla. Quasi impossibile passare la Manica in modo clandestino, il ticket dei trafficanti costa oltre 10mila euro. Eppure stare in un vicolo cieco è l’ultima speranza. Quando è sera solo quarantina di migranti della Giungla accetta di salire su un pullman in direzione di Montpellier. "Non li obblighiamo a nulla, se poi vogliono tornare nella Giungla potranno farlo" dice con un paradosso Nathalie Seys, funzionaria della Prefettura. Un quinto dei migranti portati nei centri di accoglienza scappa e ritorna verso Calais oppure altrove sulla costa. Molti non hanno aspettato le ruspe. Hanno preso il loro fagotto e sono partiti verso Dieppe, Cherbourg, Ouistreham. Ovunque ci sia un porto, i sindaci temono nuove Giungle. Il Belgio ha deciso di chiudere la frontiera, e negli ultimi giorni ha già respinto centinaia di migranti. L’effetto domino che attraversa l’Europa assomiglia sempre più a un assurdo e crudele gioco. "Nella Giungla si è creata una comunità con regole di accoglienza, ora i migranti saranno dispersi, più soli ed esposti" spiega Maya Konforti, portavoce dell’Auberge des Migrants. La "locanda" dei Migranti, con il suo quartier generale a Calais, è un piccolo esempio di un’altra Europa possibile. L’associazione che si occupa di distribuire pasti e vestiti è gestita da volontari francesi ma anche inglesi, belgi, olandesi, tedeschi. Alcuni chef britannici hanno preparato menù per i profughi e ci sono artigiani che hanno costruito delle baracche per affrontare l’inverno. Una "sciocchezza" secondo la prefetta di Calais, Fabienne Buccio, che non vede di buon occhio questa gara di solidarietà. L’Auberge continua a ricevere telefonate di cittadini europei che vogliono venire a dare una mano. "L’impennata di doni c’è stata dopo la diffusione della foto del piccolo Aylan" ricorda Christian Salomé, presidente dell’associazione. Era il settembre scorso, prima di scivolare di nuovo nell’indifferenza. Macedonia: "sfondiamo!", l’urlo di rivolta dei migranti contro il muro di Matteo Pucciarelli la Repubblica, 1 marzo 2016 Nel campo al confine greco abbattuta la recinzione di filo spinato: "Così vi accorgerete di noi". L’invito alla rivolta è scritto cubitale in inglese con la bomboletta rossa sopra due tendoni bianchi: "Afgani, siriani, iracheni, libanesi, somali, pachistani, ghanesi: stanno morendo di fame. Oltrepassa la frontiera!". E trovandoseli davanti, questi migliaia di disperati che a conti fatti non hanno nulla da perdere, viene da pensare che forse nessun muro sarà mai alto abbastanza per fermarli. LA prima vera ribellione del centro profughi di Idomeni, con circa duecento migranti che a metà mattinata hanno abbattuto la recinzione in acciaio e filo spinato tirato su dalla Macedonia, è stata sedata nel giro di mezz’ora dalla polizia di Skopje con qualche gas lacrimogeno e la minaccia dei manganelli. Ma la pace è solo apparente: se qualcosa non cambia ci riproveranno presto e saranno di più. Il punto è che la Macedonia si è accodata alla decisione presa da numerosi governi balcanici di limitare a 580 il numero massimo giornaliero di migranti in entrata sul proprio territorio. Scelta adottata il 18 febbraio scorso durante un vertice dei capi della polizia dal quale era stata esclusa la Grecia. Le autorità di Skopje nella notte tra domenica e lunedì avevano autorizzato il passaggio di circa 300 persone, per poi richiudere immediatamente la frontiera: da qui l’esplosione della rabbia dei migranti, che invece vogliono continuare il loro viaggio della speranza verso Austria, Germania, paesi scandinavi. Nel frattempo il centro a due passi dalla frontiera e che in teoria potrebbe ospitare duemila persone sta scoppiando. Ad oggi ci sono dislocati almeno settemila migranti e aumentano giorno dopo giorno. Sono accalcati in condizioni disumane, i più fortunati stanno nelle strutture di Medici senza frontiere e Unhcr, altri si sono arrangiati da soli con le piccole tende da campeggio, molti dormono anche per terra, sul prato; in mezzo al campo c’è un acquitrino dove fino a due giorni non metteva piede nessuno, adesso l’avamposto si sta inghiottendo anche quello. La vera cittadina ormai è questa, più popolosa della vera Idomeni. Sono arrivati anche i cassonetti del Comune, già pieni stracolmi di rifiuti. Di giorno i testimoni di Geova fanno proselitismo. La sera i camioncini dei panini provano a venderli a un euro l’uno. "Adesso, dopo il caos e la sassaiola, ci vedranno o continueranno a fare finta di niente?", si domanda un ragazzo siriano con in mano lo smartphone, l’unico bene e il più prezioso di tutti. L’altro segno dei tempi, di come cambino le rivolte e la loro percezione, è proprio nella consapevolezza mediatica: "L’unico modo per farvi accorgere di noi è questo - commenta Mohamed, che si fa tradurre dal figlio di dieci anni - senza confusione nessuno saprebbe che siamo bloccati qui, noi che siamo gente scappata dalla guerra". A vedere la fila di furgoncini con l’antenna satellitare piazzati fuori e che fino al giorno prima dell’assalto non c’erano, viene quasi da dargli ragione. In serata cala un buio che mette soggezione, si sentono le rane dello stagno e i profughi si accendono fuochi per non patire il freddo e l’odore di legna e plastica bruciata prende alla gola. Oggi sono qui ma fino a pochi giorni fa queste famiglie fronteggiavano il mare: hanno ancora i giubbotti di salvataggio rossi che ora utilizzano come materassini per dormire. Fuori dall’ambulatorio di Msf c’è la fila, i medici si danno il cambio ogni dodici ore: "Il 40 per cento delle persone che vedete sono donne e bambini, arrivano sfinite e denutrite. E non sono neanche a metà del loro ipotetico cammino", dice una volontaria,. Mentre ieri una trentina di persone sono ricorse all’assistenza medica dopo il lancio di lacrimogeni, per problemi respiratori. Fuori dal centro opera anche una autoambulanza svedese, in arabo e in inglese c’è un cartello: curiamo gratuitamente. Intanto il governo di Skopje ha fatto sapere di aver dato il via libera, con l’ausilio dell’esercito, ai lavori di costruzione di una nuova recinzione al confine greco, in corrispondenza di Gevgelija. Un altro muro insomma, ufficialmente con lo scopo di garantire un flusso regolare e più ordinato dei migranti provenienti dalla Grecia. Dall’altra parte della recinzione, quindi del confine, il viavai di camionette dei militari macedoni fa capire che si comincerà presto con la nuova barriera. Per questo fra i migranti è già scattato un nuovo allarme e - si racconta - alcuni di loro sono pronti a oltrepassare il confine spostandosi di qualche chilometro da qui, dove i controlli sono più blandi e il filo spinato non è ancora arrivato. "Per quanto ci riguarda - spiega Ibrahim, iracheno di Tikrit, sbarcato a Salonicco solo tre giorni fa - non ci sono dubbi. La questione non è se riusciremo a passare, ma quando. È solo una questione di tempo e di resistenza. Abbiamo paura, ma ne avevamo di più a restare da dove siamo venuti". Se mai davvero Ibrahim e le altre migliaia ce la faranno, dovranno solo e semplicemente attraversare tutti i Balcani, cioè le frontiere di Serbia, Croazia e Slovenia. Dove si stanno formando a loro volta altri centri profughi. Da Prêsevo, ad esempio, arrivano notizie di centinaia di respinti al confine croato fatti tornare indietro, al confine tra Macedonia e Serbia. Una odissea davanti alla quale il triste purgatorio di Idomeni sembra quasi rassicurante. Il drone Italia verso la Libia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 1 marzo 2016 Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi ha "autorizzato caso per caso" la partenza di droni armati Usa da Sigonella verso la Libia e oltre. Quando è noto che già nel 2011 fu un drone Usa Predator Reaper, decollato da Sigonella e teleguidato da Las Vegas, ad attaccare in Libia il convoglio su cui si trovava Gheddafi, spingendolo nelle mani dei miliziani di Misurata. L’Italia entra così nell’elenco ufficiale delle basi dei droni Usa da attacco, sotto esclusivo controllo del Pentagono, insieme a paesi quali Afghanistan, Etiopia, Niger, Arabia Saudita, Turchia. Il ministro degli esteri Gentiloni, precisando che "l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento", assicura che ciò "non è preludio a un intervento militare" in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi - confermano il Telegraph e Le Monde - stanno segretamente operando in Libia. Dall’hub aeroportuale di Pisa, limitrofo alla base Usa di Camp Darby, decollano in continuazione aerei da trasporto C-130 (probabilmente anche statunitensi), trasportando materiali militari nelle basi meridionali e forse anche in qualche base in Nordafrica. Nella base di Istres, in Francia, sono arrivati aerei Usa KC-135 per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri francesi. L’operazione è diretta non solo alla Libia. Istres è la base della "operazione Barkhane", che la Francia conduce con 3mila militari in Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina-Faso. Nella stessa area e in Nigeria operano gli Usa con forze speciali e una base di droni in Camerun. Sempre con la motivazione ufficiale di combattere l’Isis e i suoi alleati. Contemporaneamente la Nato ha dispiegato nell’Egeo il Secondo gruppo navale permanente, sotto comando tedesco, e aerei radar Awacs (centri di comando volanti per la gestione del campo di battaglia), con la motivazione ufficiale di "sostenere la risposta alla crisi dei rifugiati" (provocata dalle guerre Usa/Nato contro la Libia e la Siria). A tale operazione si è aggiunta la "Dynamic Manta 2016", esercitazione Nato nel Mar Ionio e nel Canale di Sicilia con forze aeronavali di Usa, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Grecia, Turchia e Italia, che ha fornito le basi di Catania, Augusta e Sigonella. Si prepara così "l’operazione di peacekeeping a guida italiana" che, con la motivazione di liberarle dall’Isis, mira a occupare le zone costiere della Libia economicamente e strategicamente più importanti. Manca solo "l’invito", che potrà essere fatto da un fantomatico governo libico. Per l’intervento in Libia sta premendo a Washington Hillary Clinton, candidata alla presidenza, che - scrive il New York Times in un ampio servizio - ha "l’approccio più aggressivo verso le crisi internazionali". Fu lei nel 2011 a convincere Obama a rompere gli indugi. "Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli", mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come "legittimo governo della Libia". Le armi, compresi missili anticarro Tow e radar controbatteria, furono inviate dagli Usa e altri paesi occidentali a Bengasi e in alcuni aeroporti. Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale, con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando dall’esterno e dall’interno lo Stato libico. Quando nell’ottobre 2011 Gheddafi fu ucciso, la Clinton gioì con un "Wow!", esclamando "Venimmo, vedemmo, morì". Non sappiamo quale condottiero citerà per la seconda guerra in Libia. Sappiamo, però, chi ci telecomanda. Giulio Regeni, rinviati i risultati dell’autopsia. E l’Egitto preannuncia l’ultimo depistaggio di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 marzo 2016 Slitta di una settimana il referto completo dell’autopsia effettuata sul corpo di Giulio Regeni dal team del Prof. Vittorio Fineschi a Roma. I risultati definitivi non arriveranno al pm Sergio Colaiocco prima di lunedì prossimo. Novità investigative starebbero invece per arrivare dall’Egitto, almeno a giudicare da quanto riferisce una "fonte della sicurezza" cairota al quotidiano filogovernativo Akhbar Al Youm in un articolo pubblicato l’altro ieri. Gli inquirenti egiziani avrebbero infatti individuato "altre persone sospette" analizzando "il rapporto della compagnia telefonica consegnato agli investigatori", che "fornisce prove chiare". Secondo il quotidiano, "prima della sua scomparsa", tra il 24 gennaio e la sera del 25 gennaio, Regeni "effettuò 20 chiamate telefoniche". Ed è su queste che si concentrerebbe l’attività investigativa. In sostanza, ancora una volta, viene spostata l’attenzione sul giro delle amicizie e delle frequentazioni personali di Giulio. "I servizi di sicurezza stanno per completare l’interrogatorio delle persone che l’avevano chiamato e dei suoi amici", conclude l’articolo. Ma c’è un particolare che - prendendo per buona la traduzione delle agenzie - mostrerebbe la scarsa affidabilità quantomeno della "fonte" citata: "Il telefono mobile di Giulio - avrebbero riferito gli investigatori egiziani - è stato chiuso una mezz’ora prima del suo rapimento". Dunque, la procura di Giza sarebbe a conoscenza dell’ora esatta nella quale è stato rapito Regeni, anche se "le videocamere che si trovano nei negozi e imprese", come ribadisce lo stesso Akhbar Al Youm, "non hanno fornito alcun elemento su questo caso". Non solo: sui media egiziani, le "fonti" giudiziarie avevano già precisato nelle scorse settimane che "l’ultima chiamata del 28enne" era "stata fatta alle 19:20". Mentre, secondo la ricostruzione del Sottosegretario Della Vedova, in commissione Esteri alla Camera, il prof. Gennaro Gervasio che attendeva Giulio la sera della sua scomparsa "gli aveva parlato telefonicamente verso le 19:40", poi aveva "ripetutamente provato a chiamarlo tra le 20:18 e le 20:23, senza ottenere risposta; a partire dalle 20:25, invece, il cellulare del ragazzo risulta spento". A questo punto, aspettando di conoscere le novità investigative egiziane, c’è chi inizia a chiedere (da Casini a Fratoianni, passando per il M5S) il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo.