Cassazione a rischio default di Nicola Ferri (già Sostituto Procuratore Generale della Cassazione) Corriere della Sera, 19 marzo 2016 Il disastrato panorama della giustizia italiana è connotato, da un lato, dallo spaventoso moltiplicarsi delle cause pendenti e, dall’altro, dalle crescenti difficoltà per i tribunali di farvi fronte, irretiti da vetuste, spesso irrazionali norme procedurali che, tra inutili formalismi, termini intermedi e decisionali inesorabilmente lunghi, ritardano a dismisura le sentenze definitive, senza contare i 130.000 procedimenti penali bruciati ogni anno dalla prescrizione. Tutto questo genera un sentimento diffuso di sfiducia nella Giustizia e nelle istituzioni rappresentative, e per quella civile incide negativamente anche sull’economia del Paese tenendo lontani gli investitori stranieri, spaventati dai nostri tempi biblici di risoluzione delle controversie. In questo quadro così fosco appare drammatica la crisi della Corte di Cassazione. Organo supremo della Giustizia, istituzionalmente preposto ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale (art. 65 dell’ Ordinamento giudiziario), soffre non solo a causa della mancanza di adeguate strutture di supporto (uffici studi e ricerche per le singole Sezioni, assistenti dei consiglieri, ecc.), ma soprattutto per la gigantesca massa dei ricorsi, arrivati nel 2015 a 80.000 di cui 53.000 penali, con un arretrato civile di ben 105.000 processi. Il Primo presidente Giovanni Canzio il 1° marzo, nella Giornata di studio sulla crisi in cui versa la Giurisdizione di legittimità, ha lanciato un accorato grido di allarme sul suo possibile "default", chiedendo un decreto-legge per semplificare le procedure, snellire il rito della camera di consiglio e reclutare per le udienze i magistrati del Massimario (Corriere, 2 marzo). Si tratta di misure importanti, volte a ridurre le statistiche della crisi, che Canzio definisce "mostruose e strabilianti". Ma esse potrebbero rivelarsi insufficienti se non accompagnate da più avanzate riforme ordinamentali e organizzative quali: 1) limitazione del ricorso per cassazione alla sola "violazione di legge" come previsto dall’art. 111 della Costituzione, vizio che comprende anche la nullità della sentenza impugnata e l’omesso esame di fatti rilevanti e prove decisive; 2) riduzione dei membri dei Collegi da 5 a 3 magistrati, al fine di recuperare le risorse umane necessarie all’ aumento dei Collegi giudicanti; 3) nomina di Consiglieri di cassazione, per meriti insigni, di professori universitari e avvocati cassazionisti ai sensi dell’art. 106 della Costituzione, da destinare alle Sezioni specializzate "Lavoro" e "Tributi" maggiormente oberate dall’arretrato e dai ricorsi sopravvenienti; 4) adozione, per la sentenza, della formula sintetica dell’ordinanza. Si tratta di riforme audaci e forse "visionarie": ma senza il coraggio di spezzare obsolete tradizioni non avremo mai, per la Corte Suprema, una vera rivoluzione nel segno della modernità e dell’efficienza. Una banca dati del Dna contro il terrorismo, ma in ritardo di 7 anni Italia Oggi, 19 marzo 2016 Dopo oltre un anno di stand by il decreto è pronto per l’ultimo esame del cdm. Una banca dati del Dna contro il terrorismo. Basata su un software organizzato su due livelli: il primo impiegato ai fini investigativi a livello nazionale, il secondo per le finalità di collaborazione internazionale di polizia, grazie al quale verranno raccolti i profili genetici di tutti i condannati. Con un ritardo di ben sette anni dalla legge n. 85/2009, che l’aveva prevista, e di un anno e mezzo rispetto al primo step sembra essere ormai in dirittura il dpr contenente "disposizioni di attuazione della legge 30 giugno 2009, n. 85, concernente l’istituzione della banca dati nazionale del Dna e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna, ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 85 del 2009". Un piccolo record, probabilmente, quello del provvedimento, che venne approvato dal consiglio dei ministri in via preliminare il 3 luglio 2015 e ora è atteso al sì definitivo per la prossima settimana (è all’ordine del giorno del pre-consiglio dei ministri di lunedì prossimo). La banca dati nazionale del Dna dovrebbe essere gestita secondo le bozze, dal dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno, prevedendone l’autonomia rispetto agli altri sistemi informatici di pertinenza del centro elaborazione dati del ministero e l’organizzazione del software su due livelli, quello ai fini investigativi in ambito nazionale e quello per le finalità di collaborazione internazionale di polizia. Il laboratorio centrale nell’ambito del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia dovrà invece assicurare la tracciabilità del "campione biologico" e delle varie operazioni compiute, utilizzando un Lims (cioè un sistema informatico idoneo a gestire i dati e il flusso di lavoro di un laboratorio). L’archivio dovrebbe essere predisposto, sempre secondo le bozze, per la raccolta e il raffronto dei profili del Dna di cinque categorie di persone: coloro ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari, chi viene arrestato in flagranza di reato o sottoposto a fermo di indiziato di delitto, i detenuti e gli internati per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo, coloro ai quali è applicata una misura alternativa al carcere sempre per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo e quelli che scontano una misura di sicurezza detentiva in via provvisoria o definitiva. Il personale in servizio presso i laboratori delle forze di polizia e la banca dati avrà la facoltà di procedere a una consultazione automatizzata tramite la ricerca e il raffronto dei profili del Dna, essendo, a livello nazionale, la consultazione effettuabile solo caso per caso. Comunità PGXXIII: alternative al carcere, modello vincente per i minorenni smtvsanmarino.sm, 19 marzo 2016 Soddisfazione per l’incontro con il Capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. "Il colloquio molto cordiale di ieri avuto con Francesco Cascini - dice Giorgio Pieri, responsabile del servizio Carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII - ha avuto come tema centrale il riconoscimento istituzionale ed amministrativo delle comunità educanti, che ad oggi accolgono oltre 300 detenuti in Italia e che abbassano la recidiva dal 75% delle carceri tradizionali al 10%". Francesco Cascini, Capo Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, aveva visitato il 12 gennaio una di queste strutture alternative al carcere in provincia di Rimini; le relazioni tra Comunità Papa Giovanni XXIII e il nuovo Dipartimento di giustizia minorile oggi si intensificano. Pieri propone l’allargamento del modello: "Le misure di alternative al carcere sono vincenti ad esempio con i minorenni. Cascini ha riconosciuto la validità dei percorsi educativi che proponiamo; la collaborazione tra istituzioni e privato sociale può rappresentare allora una valida alternativa all’attuale, oneroso e per certi aspetti fallimentare, sistema carcere". Macchina del fango nei confronti di magistrati e avvocati? La pena è detentiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2016 Giustificata la pena detentiva nei confronti del giornalista che usa la "macchina del fango" nei confronti di magistrati e avvocati di un ufficio in prima linea nella lotta alla mafia. La Corte di cassazione, con la sentenza 11417, conferma la condanna al carcere per diffamazione a carico del direttore di un giornale locale che, pur partendo da notizie vere, utilizzava i fatti per lasciarsi andare a vere e proprie invettive personali. Per la Cassazione è escluso che quanto scritto negli articoli, finiti nel mirino dei giudici, potesse rientrare nel diritto di cronaca, dal momento che il ricorrente, giornalista-pubblicista, aveva fatto "generiche insinuazioni esorbitanti dalla base fattuale divenuta mero pretesto per la consumazione di condotte intrinsecamente offensive". Correttamente la corte di merito aveva dunque escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento anche dell’esimente del diritto di critica a prescindere dall’interesse pubblico a conoscere i giudizi espressi risolvendosi, questi in un vero e proprio attacco all’uomo. Senza successo il ricorrente denuncia l’illegittimità della pena detentiva, perché a suo avviso, non ricorrevano le circostanze eccezionali idonee a giustificarla, come richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Belpietro contro Italia. Per la Cassazione invece gli estremi sono nella gravità dei fatti. La Suprema corte valorizza poi un dato non trascurabile: il periodico diretto dall’imputato, coinvolto nella vicenda giudiziaria, era considerato uno strumento delle cosche mafiose. L’ossessione per la giustizia finisce per uccidere la libertà di Piero Ostellino Il Giornale, 19 marzo 2016 Fra i due valori c’è, concettualmente e di fatto, frizione, se non una certa incompatibilità e che l’imposizione di un tasso elevato di giustizia sociale provoca la fine della libertà e perciò del progresso, della crescita economica e persino sociale. La società aperta già adombrata da Croce prima di Popper è conflittuale; non è pacificata. Vi alberga una quantità di ingiustizia sociale, di fatto, fisiologicamente accettabile perché l’ingiustizia è il motore del progresso, della crescita economica e persino umana, sociale. Sono la competizione, la concorrenza, persino il conflitto, che fanno crescere la società aperta, mentre sono le società totalitarie che soffocano la libertà in nome di una malintesa giustizia. Fra libertà e giustizia c’è frizione lo diceva ancora Croce e l’avrebbe ripetuto Popper - se non incompatibilità logica e naturale. L’imposizione, da parte del potere politico, di un certo tasso di giustizia sociale riduce la libertà e crea le condizioni dell’illibertà. Con ciò non voglio dire che, da liberale, auspico l’ingiustizia sociale. Dico che fra i due valori c’è, concettualmente e di fatto, frizione, se non una certa incompatibilità e che l’imposizione di un tasso elevato di giustizia sociale provoca la fine della libertà e perciò del progresso, della crescita economica e persino sociale. Il comunismo realizzato ne è stato l’esempio storico. Non c’era libertà nei Paesi del comunismo reale e, tanto meno, giustizia sociale, perché la giustizia sociale si regge sulla libertà e non sopravive senza di essa. Se, in Italia, vogliamo restare un società aperta e libera, dobbiamo abbandonare l’utopia della giustizia sociale generalizzata e credere, come diceva Croce, nella libertà. Che è concorrenza, competizione, persino conflitto. Siamo diventati, invece, la società dei diritti e tendiamo a trasformare ogni desiderio in diritto. Non c’è un diritto ad avere figli, né all’omosessualità; che sono fenomeni attinenti alla natura umana. In una società aperta, conflittuale, gli omosessuali si sono conquistati la loro libertà col conflitto e in punta d diritto, non perché tale diritto sia stato loro concesso autoritariamente dal potere politico. L’omosessualità è naturale - nel senso che è una condizione di natura esattamente come è l’eterosessualità. Non si impone per legge un fatto naturale. Lo si accetta e non lo si discrimina in nome della libertà di ciascuno di essere ciò che più gli pare. Sono personalmente contrario alla proliferazione di diritti e favorevole alla diffusione delle libertà. Da Archimede, sappiamo che ciò che è naturale è spesso anche libero. Non stravolgiamo un principio filosofico e reale, negandogli autenticità per legge. Ho avuto due figli e so che non era mio diritto averli; ho alcuni amici omosessuali, che amo non in quanto tali, e non sosterrei mai il loro diritto ad esserlo, ma li amo e sono miei amici come esseri umani. Punto. Ritengo che ci portiamo appresso l’idea che ogni desiderio debba tramutarsi in diritto grazie ad una malintesa cultura egualitarista di sinistra, che ha letteralmente egemonizzato il principio di umanità distorcendolo oltre ogni ragionevole dubbio. Sostenere che certe differenze sono naturali, non è indulgere nel razzismo, come è reputata una certa omofobia; è prendere atto che la natura non fa salti e ciò che ci appare innaturale in una certa fase storica e in certe condizioni sociali, non lo è in altre. Un certo margine di relativismo etico è fisiologico alla società aperta. Non dimentichiamolo perderemmo libertà a e giustizia se lo dimenticassimo. Emilia Romagna: l’associazione studentesca che svela le trame della ‘ndrangheta di franco giubilei La Stampa, 19 marzo 2016 Le video inchieste di Cortocircuito hanno portato alla luce elementi poco chiari su appalti, e comportamenti degli amministratori pubblici. Che ci fosse qualcosa che non quadrava, proprio qui nel cuore dell’Emilia rossa, i ragazzi dell’associazione Cortocircuito hanno cominciato ad avvertirlo quando ancora frequentavano le superiori, scoprendo che la discoteca dove facevano le feste della scuola in realtà nascondeva un’attività di riciclaggio di denaro sporco, come sarebbe stato appurato in seguito. "È da allora che abbiamo cominciato a interessarci a questi problemi", spiega Elia Minari, studente universitario di Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione, che da allora ha cominciato a scavare sotto la superficie di una realtà apparentemente sana, ritenuta fino a poco tempo fa tradizionalmente immune alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Le video inchieste pubblicate nel corso degli ultimi anni sul web hanno invece portato alla luce dubbi ed elementi poco chiari su appalti e comportamenti degli amministratori pubblici di alcuni comuni del reggiano, puntualmente documentati nei servizi "La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana" e "Non è successo niente. 40 roghi a Reggio Emilia". A fare le spese del video-giornalismo dell’associazione è stato l’allora sindaco di Brescello, Marcello Coffrini, che al microfono degli studenti si lasciò andare a una serie di commenti perlomeno incauti su Francesco Grande Aracri, suo concittadino e condannato per mafia nel 2008, definito "gentilissimo, molto tranquillo ed educato". Sull’onda dello scandalo sollevata da quelle frasi, il primo cittadino del paese di Peppone e Don Camillo si sarebbe poi dimesso un anno dopo pur continuando a godere, particolare che va ricordato, della fiducia dei brescellesi. Un filmato realizzato da Cortocircuito è stato persino proiettato in un’aula di tribunale, nel corso di un processo collegato alla maxinchiesta "Aemilia", il cui dibattimento prenderà il via a Reggio il 23 marzo. Sarà un processo-monstre per numero di imputati, 150, e testimoni, già più di 300 (ma si stima che potrebbero arrivare a mille), che si apprestano a comparire nell’aula bunker allestita nel palazzo di giustizia della città emiliana. A seguirlo ci saranno anche loro, i ragazzi di Cortocircuito, che nei quasi sette anni di vita dell’associazione si sono presi più di una soddisfazione per il loro lavoro di inchiesta e di informazione sulle mafie condotto nelle scuole (oltre 180 i convegni e gli incontri organizzati in tutto), come il premio ricevuto dall’Università di Bologna nel 2013 in qualità di migliore web-tv di denuncia in Italia e il "Premio scomodo" consegnato dal presidente del Senato Pietro Grasso nel 2014, durante il 20° Vertice nazionale antimafia. Porto Azzurro (Li): Fp-Cgil "carcere aperto? serve selezione dei detenuti e più personale" tenews.it, 19 marzo 2016 Il sindacato Fp Cgil della provincia di Livorno, in merito ai gravi fatti recentemente occorsi nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro, chiede con forza un intervento da parte del Provveditorato Regionale della Toscana e dalla Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria per reperire le risorse necessarie al buon funzionamento della struttura. "Riteniamo particolarmente urgente - si legge nella nota del sindacato - la messa in sicurezza di tutti gli ambienti della struttura, compresi quelli di lavoro, ponendo attenzione al fondamentale ruolo delle attività rieducative ivi presenti e, purtroppo, troppo spesso inutilizzabili". "Riteniamo - continua la nota - che la particolare situazione di struttura carceraria aperta, voluta dagli uffici superiori, sia condivisibile se orientata al riscatto e alla rieducazione dei detenuti, che usufruiscono di ampi spazi comuni, questa scelta, però, rende necessaria un’ accurata selezione dei reclusi e soprattutto un organico adeguato al progetto rieducativo. La nostra organizzazione ritiene necessario porre l’accento sulla scelta di trasferire a Porto Azzurro persone resesi già partecipi di gravi aggressioni in altri istituti della Toscana, senza aver provveduto, preliminarmente, ad integrare il già carente personale della struttura, 161 addetti su 234 previsti in pianta organica, un vuoto pari al 31% degli operatori previsti, che conta un solo sovrintendente ed è tuttora carente in educatori e psicologi. Ciò crea una situazione ormai insostenibile, che, a nostro avviso, va inserita all’interno di un percorso di più ampi e necessari investimenti nell’Amministrazione Penitenziaria e di riordino delle carriere. Grazie alle fruttuose relazioni sindacali tra nuova Direzione e rappresentanza dei lavoratori è stato possibile pianificare il miglioramento delle condizioni di vita sia dei reclusi che del personale, vedi il progetto di area verde usufruibile per le visite parentali. Non vorremmo che un’ idea virtuosa di Casa di Reclusione, finalizzata al recupero e al reinserimento all’interno della società dei detenuti, venga inficiata da scelte esterne, che già oggi hanno portato a un acuirsi delle problematiche della struttura. I 4 eventi accaduti all’interno della struttura nell’ultimo mese, infatti, evidenziano la necessità di un intervento immediato, purché l’episodio di evasione, per quanto ci viene riferito, sia legato ad un permesso premio. Nella C.R. di Porto Azzurro il personale si trova costretto, ormai da troppo tempo, a ricoprire posti di servizio con responsabilità e rischi non conformi alle proprie qualifiche e formazioni d’inquadramento: nella sorveglianza generale, per esempio, assistenti capo ricoprono funzioni di ispettori e sovrintendenti, figure ancora assenti nella struttura, gravata si ribadisce, da un’insostenibile carenza d’organico". Siracusa: il difensore civico di Antigone "chiudere indagini sulla morte di Alfredo Liotta" Ristretti Orizzonti, 19 marzo 2016 Tre anni e mezzo fa, il 26 luglio 2012, Alfredo Liotta veniva trovato cadavere in una cella della C.C. di Siracusa. All’inizio la causa della morte veniva attribuita ad un presunto sciopero della fame di cui non verrà invece trovata traccia nel diario clinico. In un esposto depositato a luglio 2013, il Difensore civico di Antigone denunciava i molti aspetti oscuri e contraddittori delle cause che hanno portato alla morte di Alfredo: quali interventi sono stati realizzati per i problemi fisici e psichici del detenuto considerati solo "strumentali" dal personale sanitario? Perché, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già dal 2 luglio 2012 "non riusciva più a stare in posizione eretta", non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? E perché dinnanzi al precipitare degli eventi, non è stato disposto un trattamento sanitario obbligatorio? Arriviamo a novembre 2013 e la Procura della Repubblica di Siracusa iscrive dieci persone nel registro degli indagati tra Direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dal Tribunale. Dopo sei mesi, il 23 giugno 2014, in modo tempestivo il collegio dei periti nominati deposita la relazione. Perché ad oggi la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini? Chiediamo con forza la chiusura delle indagini per evitare che ancora una volta quando parliamo di ingiuste morti dentro alle carceri sia la parola "prescrizione" a mettere fine alla vicenda. Piacenza: sarte in cella per le donne di Armonia di Simona Segalini Libertà, 19 marzo 2016 Otto detenute dell’alta sicurezza stanno cucendo le sacche porta-terapia. Trecento donne operate al seno ogni anno a Piacenza, e per almeno la metà di esse è necessario il ricorso a terapie post-operatorie (drenaggi). Nasce da una felice intuizione tutta femminile il primo vero "gadget" fabbricato alla Casa circondariale delle Novate di Piacenza dalle detenute dell’alta sicurezza: una sacca di varie misure da portare in vita come una cintura con chiusura a velcro, all’interno della quale posizionare la strumentazione che ogni donna, nella fase post-operatoria, deve portarsi appresso per circa 3 settimane. Le prime 70 sacche color glicine sono state già confezionate e consegnate alla presidente di Armonia, l’avvocato Romina Cattivelli. Ma la storia non sarebbe diventata realtà se non ci fossero state anche Valeria, Simona, Marzia, Donatella, Maria Rosa, e tutte quelle donne per noi senza nome - legittimamente sconosciute - detenute a Piacenza e tutte originarie del Sud Italia, che da subito hanno accolto con gioia l’idea di fare qualcosa per le "sorelle" di Armonia. Ieri alcune delle protagoniste si sono ritrovate per fare il punto sulla mappa e ripartire con un nuovo viaggio. C’erano il direttore delle Novate, Caterina Zurlo, Valeria Viganò, presidente dell’associazione di volontari in carcere "Oltre il muro", Marzia Ardemagni, sarta professionista che, con Donatella Rossetti, va in carcere per tenere i corsi di "taglio e cucito" alle detenute, e Simona Ceruti, imprenditrice di Confabi (produzione tessile-abbigliamento a San Rocco, e punto vendita in città) che ha messo a disposizione materiale e professionalità all’impresa; con loro Romina Cattivelli. "L’idea nasce lo scorso ottobre - racconta la presidente di Armonia - dopo che mi sono sottoposta ali ultima operazione e mi sono stati messi i drenaggi. Se uno può starsene in casa a riposo magari il problema lo risolvi lo stesso, ma se devi muoverti quasi subito fuori casa la strumentazione diventa un fardello. Ne ho parlato col professor Giorgio Macellari, direttore di Senologia, che mi ha spiegato come in passato fossero utilizzate delle mi nisportine a tracolla, mentre ora non c’era nulla. Ho riunito il consiglio di Armonia, esplorando la possibilità di riprendere la produzione per risolvere questo problema post-operatorio. Tenendo conto che altrove questo "stratagemma" è ampiamente usato, Armonia ha deciso l’iniziativa. E siccome abbiamo una socia che è anche volontaria di Oltre il muro, Maria Rosa Ponginebbi, da cui abbiamo saputo che alle Novate stava per partire il corso di taglio e cucito, con l’utilizzo della macchina da cucire, abbiamo pensato di unire le forze, le due realtà. È stato bellissimo riscontrare la grande, grandissima adesione che ne è venuta". Il progetto è partito a novembre 2016, e prosegue tuttora. Finora le detenute del corso - una decina sulle 15 ospiti attualmente a Piacenza - hanno confezionato una settantina di sacchette, coprendo il 50 per cento del fabbisogno, stimato in almeno 150 pazienti bisognose del trattamento. In ognuna delle sacchette glicine col logo di Armonia è contenuto un piccolo messaggio in bottiglia: questo articolo è prodotto dalle detenute della Casa circondariale delle Novate. Il direttore, Caterina Zurlo: stavolta aiutiamo noi "Per una volta, la prima volta, siamo noi ad aiutare gli altri, e non il contrario". È una bella giornata, anche se fa freddissimo e minaccia pioggia, per la Casa circondariale delle Novate, e a sancirlo è il suo direttore, Caterina Zurlo. "C’è stata da subito una grandissima adesione all’idea di mettersi al lavoro, gratuitamente, per le donne operate al seno di Armonia. È stato per tutte un momento di grande emancipazione cultura, e di crescita interiore", ha detto ancora il direttore delle Novate, dove ieri erano ospitati 330 detenuti. "Ho trovato una grande voglia di fare, da persone, da donne che non mi sarei aspettata", spiega Marzia Ardemagni, super sarta stilista di Confabi che con grandissima umanità ha condotto la sua esperienza e la sua professionalità a favore delle detenute delle Novate. I progetti per proseguire le collaborazioni sono già in cantiere: Valeria Vigano, presidente dei volontari, è un vulcano in ebollizione, e la sua energia capace di contagiare chiunque. Simona Ceruti, l’imprenditrice: "Dobbiamo continuare a fare gioco di squadra". Rimini: si festeggiano i papà in carcere, figli dei detenuti ospiti ai Casetti altarimini.it, 19 marzo 2016 Una festa del papà del tutto speciale quella organizzata sabato mattina nella casa circondariale di Rimini, dove i papà reclusi avranno la possibilità di incontrare e scambiarsi i doni con i propri figli. Un momento voluto fortemente dal Comune di Rimini, dal nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Ilaria Pruccoli, e dalle associazioni che si occupano di attività sociali in carcere, la "Madonna della carità" e la "Papillon". La festa sarà il momento conclusivo di una serie di laboratori artigianali nei quali i detenuti hanno sviluppato competenze artigianali utili per la preparazione dei regali da donare domani ai loro figli in visita. Si tratta di cornici realizzate interamente in carcere, che conterranno pensieri e poesie scritti dai detenuti nel corso di un altro laboratorio svolto in carcere insieme alle educatrici del Centro per le Famiglie del Comune di Rimini. Ai laboratori hanno partecipato una ventina di papà detenuti. L’Associazione Papillon invece curerà la ricezione dei figli, ai quali verranno consegnate le magliette con la scritte "papà ti voglio bene" da consegnare ai loro papà. La festa si svolgerà nella nuova ludoteca inaugurata lo scorso settembre, una stanza adiacente alla sala dei colloqui in cui i bambini possono giocare e avere un momento di svago quando vengono a trovare i loro papà in carcere, arredata e abbellita dai lavori dei detenuti stessi. Un angolo di serenità ideato, pensato e vissuto per rispettare e favorire il più possibile il ruolo genitoriale anche in queste difficili situazioni di vita "Essere papà e genitore è un legame più forte di qualsiasi sbarra - con queste parole il Vicesindaco con delega alla protezione sociale del Comune di Rimini, Gloria Lisi, ha voluto salutare l’iniziativa - Sviluppare la genitorialità in carcere è un obiettivo a cui stiamo lavorando da tempo, durante tutto l’anno, tramite laboratori e attività di sensibilizzazione. La nuova ludoteca appena inaugurata è il cuore pulsante e simbolico di queste attività, che domani si arricchiranno di un altro momento di grande umanità. Il mio ringraziamento più sentito va alle operatrici sociali all’interno del carcere, che svolgono spesso lontano dai riflettori un lavoro di grande valore. A tutti i papà detenuti e alle loro famiglie i miei auguri per una giornata speciale da vivere finalmente insieme". Lecce: Giornata mondiale del teatro, Semeraro in scena al carcere di Borgo San Nicola di Elena Carbotti ilpaesenuovo.it, 19 marzo 2016 Anche al carcere di Lecce si celebra la cinquantaquattresima Giornata mondiale del teatro, con due iniziativa promosse dalla compagnia di attori-detenuti "Io ci Provo" diretta dalla regista Paola Leone. Venerdì 18 marzo, dalle 15.30, il teatro ospiterà lo spettacolo "Digiunando davanti al mare", la cui visione è riservata ad un gruppo di detenuti e alla stampa. Un racconto su Danilo Dolci di e con Giuseppe Semeraro, con la drammaturgia di Francesco Niccolini, la regia di Fabrizio Saccomanno e la produzione di Principio Attivo Teatro. La figura di Danilo Dolci sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione: poeta, intellettuale, pedagogo. Dopo un breve viaggio in Sicilia decide di ritornarci e di mettersi al fianco degli ultimi, dei diseredati, dei banditi come li chiamava lui stesso. Negli anni cinquanta organizza e promuove tantissime manifestazioni e scioperi in difesa dei diritti dei contadini, dei pescatori, dei disoccupati. Il suo attivismo gli valse due candidature a premio Nobel per la pace e il riconoscimento a livello internazionale del suo operare. Sempre in quegli anni con i contadini progetta e realizza una radio clandestina, un asilo, una diga, l’università popolare insieme a tanti progetti culturali. Quello che più mi interessa in questa figura sono le sue qualità umane, il suo grande potere comunicativo e soprattutto la fiducia che sapeva spargere attorno a sé. Qualità che gli permisero di creare un grande movimento popolare che sfociò nel grande "Sciopero alla rovescia"; manifestazione che rivendicava il fatto che dei disoccupati per protesta andavano a lavorare rendendosi utili in lavori per la collettività. Danilo Dolci voleva, con i disoccupati Siciliani, ricordare all’Italia intera che per la Costituzione Italiana il lavoro è un diritto ma anche un dovere se questo lavoro ha una utilità pubblica. Durante la manifestazione Danilo Dolci fu arrestato assieme ad alcuni collaboratori, ne segui un processo che segnò un profondo spartiacque nell’Italia del dopoguerra. Dalle vicende umane di questo gigante dimenticato è nato un pezzo teatrale che tenta non solo di raccontarne i momenti più importanti ma di evocarli con il corpo nudo del teatro. Seconda iniziativa il seminario intensivo per gli attori-detenuti che prendono parte al progetto "Io ci Provo", in programma da lunedì 21 a mercoledì 23 marzo, con l’attore Carmine Paternoster. In teatro ha lavorato con molti registi tra cui Sergio Longobardi, Alessandra Cutolo, Peppe Lanzetta, Francesco Saponaro, Andrea De Rosa. Nel cinema lo ricordiamo nel ruolo di Roberto in Gomorra di Matteo Garrone con Toni Servillo, e accanto a Salvatore Ruocco ne L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, e ancora nel Il giovane favoloso di Mario Martone. Firenze: alle Murate una mostra con opere realizzate all’interno delle carceri toscane met.provincia.fi.it, 19 marzo 2016 Dal 22 al 24 marzo. Ingresso libero. L’Associazione volontariato penitenziario onlus di Firenze in collaborazione con il Cesvot, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e con il patrocinio del Comune di Firenze, presenta la mostra di pittura conclusiva del progetto "Trompe l’Oeil. Schiudi l’arte e mettila da parte", complosta da opere realizzate dai detenuti all’interno delle carceri della Toscana. Il progetto ha voluto contribuire al miglioramento delle condizioni detentive, mediante l’attivazione, il consolidamento e la valorizzazione dei laboratori artistici interni. La mostra si terrà il 22, 23 e 24 marzo presso lo spazio "Semiottagono" del Complesso delle Murate in Piazza Madonna della Neve. L’inaugurazione avverrà il 22 marzo alle 18.15 con un breve seminario di presentazione coordinato da Saverio Migliori dell’Associazione volontariato penitenziario onlus di Firenze, nel quale interverranno Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana; Sara Funaro, assessore al welfare del Comune di Firenze; Eros Cruccolini, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze; Raoul Fiordiponti, vicepresidente delegazione Cesvot di Firenze, e Corrado Marcetti, direttore della fondazione Giovanni Michelucci. L’ingresso alla mostra è gratuito e sarà possibile accedervi anche il 23 e il 24 marzo nella fascia oraria 15-20. Le opere prodotte dai detenuti sono state valutate da una commissione formata da 9 membri: Sandro Bellesi, Benedetta Cappello, Franco Corleone, Ardo Kekezy, Corrado Marcetti, Giuseppe Martone, Alessandro Masetti, Serena Padovani e Francesco Petri. La commissione di esperti ha provveduto a selezionare le opere secondo quattro "fasce di qualità", attribuendo in questo modo non solo un valore artistico, ma anche un valore economico di riferimento per eventuali donazioni che, in accordo con gli autori detenuti e/o le strutture penitenziarie di provenienza, saranno retroattivamente reinvestiti per la prosecuzione delle attività nei laboratori artistici. La mostra ed il progetto sono stati realizzati in partnership con Cesvot; provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria; istituti penitenziari della toscana; istituto penale per minorenni "Meucci" di Firenze; ufficio servizi sociali per minorenni di Firenze; Accademia delle belle arti di Firenze; associazione italiana cultura e sport (aics); Comune di Firenze; conferenza regionale volontariato giustizia; fondazione Giovanni Michelucci; garante regionale dei diritti dei detenuti della regione toscana; garante comunale dei diritti dei detenuti di Firenze. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito internet: www.avpfirenze.org/trompeloeil dove dal 23 Marzo sarà possibile visionare le opere provenienti da tutte le carceri coinvolte nel progetto. Bologna: il Poetry Slam entra al Pratello, i giovani detenuti gareggiano in versi di Ilhame Hafidi La Repubblica, 19 marzo 2016 PER la prima volta in Italia, la poesia entra nell’istituto penale per minorenni del Pratello di Bologna nell’ambito del progetto "Streets of freedom poetry slam", una gara di poesia orale che coinvolgerà i giovani detenuti. L’iniziativa - promossa da Silvia Parma, poetessa e responsabile del coordinamento regionale per l’associazione Lips (Lega Italiana Poetry Slam) - fa parte del Campionato Nazionale organizzato proprio dalla Lips e si terrà all’interno dell’istituto il 21 marzo,data che l’Unesco ha designato come "Giornata Mondiale della Poesia". I contendenti si sfideranno in tre turni ad eliminazione diretta e leggeranno i propri versi davanti ad una giuria composta da poeti e docenti. Il vincitore accederà poi alle finali regionali ed eventualmente a quelle nazionali. "Un adulto è cosciente di delinquere mentre i ragazzi spesso nascono all’interno di quell’ambiente e non conoscono altro - sottolinea Silvia Parma - l’arte aiuta a prendere coscienza di sé. Ho letto gli elaborati e sono entusiasta. Hanno scritto poesie d’amore e raccontato le loro esperienze". Le poesie verranno raccolte in un volume che verrà distribuito nelle scuole e nelle biblioteche. L’assessore alle politiche giovanili del Comune Nadia Monti si è presa l’impegno di promuovere il progetto anche nel carcere della Dozza. Il corpo e l’anima di Manconi contro i moralismi della gauche. Un bel libro di Salvatore Merlo Il Foglio, 19 marzo 2016 È un piccolo affettuoso monumento alla passione civile e politica della sinistra come non è (o come potrebbe essere), una carezza alla biografia d’un uomo morale, questo libro-colloquio, contrappuntato d’ombre malinconiche e d’improvvise digressioni più leggere, che Christian Raimo costruisce assieme (e intorno) a Luigi Manconi, protagonista e narratore di se stesso. S’intitola "Corpo e anima" (Minimum fax), che sono poi la materia di cui queste duecento pagine sono composte, malgrado la parola scritta sia sempre insufficiente testimone del mondo che la esprime. Ed ecco allora gli anni Settanta, il servizio d’ordine di Lotta continua di cui Manconi fu uno dei capi, l’amicizia con Adriano Sofri che si affaccia appena, ma c’è, come pure quella con Mauro Rostagno. E poi il sangue di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, le lotte civili, l’impronta di Marco Pannella, mai citato eppure presentissimo, in una dimensione in cui la politica non è uno spazio di cinica o libera espressione, ma è impegno carnale, emotivo, sentimentale, severo, persino eccessivo: i diritti degli omosessuali, la solidarietà come risorsa di giustizia, e il garantismo che è risvolto d’umanità e d’uguaglianza, perché, dice Manconi in una delle tante pagine felici di questo libro, "dobbiamo tenere conto dell’individuo e della distanza tra la norma astratta e la dura concretezza della vita, delle sue contraddizioni e dei suoi dolori", delle storie "che non stanno tutte dentro il perimetro della legge". Tutto si tiene, la letteratura, la politica, la poesia, la scrittura e il gusto ponderato per la parola, per la serietà del suo uso, poiché "nelle ambiguità e oscurità della vita", la parola non è mai fine a se stessa, ma è codice, pensiero, interpretazione, senso: dunque politica. Così, segnato dai rigori di un’implacabile e progressiva perdita della vista, da una cecità quasi completa, con un’ombra di delicata malinconia, in queste pagine Manconi racconta a Raimo come il suo terrore vero sia dimenticare le parole lette un tempo, "quella riserva di conoscenze e sensazioni, esperienze e nozioni, storie e interpretazioni, informazioni, dati e date, titoli nomi e cognomi", che oggi lui non può più rinnovare. Uomo di sinistra ma di una sinistra che forse non c’è, Manconi esprime un distacco sarcastico, aggressivo, per una certa gauche da opinione pubblica, forse oggi sconfitta, in disarmo, ridotta agli ultimi stanchi barbagli, che tuttavia lui si spinge a detestare, tratteggiandola con ironia contundente. "Figure quasi grottesche", scrive, "il giornalista sudaticcio che parla sempre e comunque a nome della gente", "l’attrice comica che fa l’imitazione di Berlusconi senza rendersi conto che sta facendo l’imitazione dell’attrice comica che fa l’imitazione di Berlusconi", "il teorico del cicorione a chilometro zero", "il musicista che usa la tv del concerto del Primo maggio per parlare male della tv", "il romanziere che giura: non scriverò mai più un libro perché in Italia c’è troppa volgarità, cazzo". Eppure, attenzione, Manconi non ha niente a che spartire con Matteo Renzi, né con il suo universo semantico, ovviamente. I libri degli uomini politici in Italia non si leggono, al massimo si sfogliano, non si comprano ma vengono regalati dall’autore, sono dei non libri, si citano per servilismo o per burla, fanno politologia pronto (dis)uso, memorialistica da strapaese, talvolta - ahinoi - persino letteratura da trastullo. E Manconi è un uomo politico, sì, eppure non lo è nel senso che s’intende oggi: la sua biografia è laterale al Palazzo e alle sue meccaniche, che pure ha conosciuto anche da sottosegretario del governo Prodi. Ma dopo gli anni della contestazione, il suo è stato piuttosto un costeggiare domestico della sinistra berlingueriana, l’impegnata marginalità d’un certo modo d’essere Verdi prima che arrivassero Pecoraro Scanio e il caravanserraglio delle manette, una passione più vissuta che raccontata, e che il curatore di questo libro, Raimo, ha forse voluto rendere nel sottotitolo. Quasi un invito a partecipare a un mondo che non c’è: "Se vien voglia di fare politica". Uno scambio miserabile di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 19 marzo 2016 Lo scambio tra Unione europea e Turchia. Niente di umanitario. Occhi chiusi sul destino dei profughi. Sull’accordo di ieri tra Consiglio d’Europa e Turchia bisogna reprimere un senso opprimente di vergogna. I 28 statisti che governano questo continente di 506 milioni di abitanti hanno negoziato con Davutoglu (cioè con il suo padrone Erdogan) il seguente accordo: l’Europa accetterà 72.000 profughi e ne rimanderà altrettanti dalla Grecia in Turchia. In cambio Ankara ottiene per il momento 3 milioni di Euro per progetti sui migranti (i termini qui sono vaghi per occultare le promesse europee di altro denaro), l’avvio della procedura di ammissione della Turchia alla Ue e una facilitazione, anch’essa vaga, dei visti d’ingresso dei cittadini turchi in Europa. Davotoglu ha avuto la faccia tosta di definire questo accordo non un mercanteggiamento ma una questione di "valori". Certo, basta dividere i 3 miliardi ottenuti dalla Turchia per 72.000 e otteniamo poco più di 40.000 euro a persona. Ecco il valore di migranti e profughi per Ankara. E che cosa ne faranno Erdogan e Davutoglu del gruzzoletto? Pasti caldi e comodi alloggi per tutti o magari, con i quattrini risparmiati sui rifugiati, un pò di armi e di bombe? Bisognerà chiederlo ai curdi. Ma accusare la sola Turchia di speculare sull’umanità alla deriva tra Egeo e Macedonia sarebbe ingiusto. Perché i veri mercanti di uomini sono gli stati europei. Come ha scritto ieri la Tageszeitung, 72.000 sono solo gli stranieri arrivati in un anno a Berlino. Una cifra irrisoria se proiettata sull’intero continente. Un numero che non risolve nulla, che lascia le cose come stanno e che serve solo ad alleggerire il peso dell’accoglienza che si è scaricato negli ultimi mesi sulla Grecia. Ora, orde di funzionari, poliziotti e guardie di confine europee invaderanno le isole dell’Egeo per "selezionare" gli stranieri buoni da quelli "illegali". Per uno che entra, uno deve uscire. È la roulette russa del profugo. L’ipocrisia europea ha toccato in questo caso cime abissali. Poiché una recente sentenza della Corte di giustizia prescrive che un profugo possa essere espulso in uno stato terzo solo se questo è "sicuro". Paese "sicuro", cioè non specializzato in torture, ecco che alla Grecia basterà riconoscere alla Turchia questa qualifica e, voilà, i giochi sono fatti. La Turchia uno stato "sicuro"? Quella che rade al suolo le sue città abitate dai curdi? Quella che manganella manifestanti a tutto spiano? Quella che chiude i giornali non allineati al regime di Erdogan? L’accordo di ieri non ha nulla a che fare con l’umanità, di cui ha parlato qualche tempo fa Frau Merkel. È la risposta miserabile della Ue alle paranoie di Hollande, all’eccezionalismo high brow di Cameron, alle pretese fascistizzanti di Orban, del governo ultra-reazionario di Varsavia, dell’estrema destra tedesca e di tutti gli altri cultori del filo spinato. E anche delle istituzioni finanziarie che ora, se l’emergenza di Idomeni finirà, potranno dedicarsi a spennare ancora un pò Atene. E probabilmente della Nato, di cui la Turchia è membro irrinunciabile. Che fine faranno i 72.000 rimandati in Turchia e tutti gli altri che dovevano essere ricollocati da mesi e vagano tra Sicilia, Calais e chissà dove? Che ne sarà di quelli che arriveranno ora, con la stagione calda, e che sicuramente la Turchia farà passare per spillare ancora quattrini agli europei? Renzi ha dichiarato che la questione dei migranti si risolve in Africa. Bisognerà dirlo agli afghani, agli iracheni e a tutti gli altri che non sono africani, non sono riconosciuti come profughi ed errano in quell’enorme campo minato che si stende tra Istanbul e Kabul, passando per Damasco e Baghdad. Con l’accordo di ieri l’Europa ha chiuso gli occhi sul loro destino. Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea. L’allarme del Viminale "con la rotta balcanica chiusa 200mila profughi pronti a partire" di Vladimiro Polchi la Repubblica, 19 marzo 2016 Riprendono gli sbarchi: negli ultimi giorni salvate 4mila persone. Pressing per interventi anti-scafisti sulle coste di Tripoli. "La chiusura dei Balcani è una beffa per l’Italia. Ora la Libia torna a fare paura". Al Viminale non nascondono la preoccupazione. I numeri sono lì a dimostrarlo. Negli ultimi quattro giorni, oltre 4mila profughi sono stati messi in salvo nel Mediterraneo centrale da navi italiane, tedesche e libiche. La chiusura di una rotta rischia di aprirne un’altra: "Da qui a luglio - avvertono fonti dell’intelligence tedesca - si rischiano 200mila partenze dalla Libia". L’allarme ha il volto di sei profughi siriani sbarcati giovedì scorso a Messina: partiti dalla Libia, potrebbero essere l’avanguardia di un nuovo esercito di disperati pronto a imbarcarsi per l’Italia. L’apertura della rotta libica - In Italia proseguono gli sbarchi. Nel 2016 (dati del Viminale aggiornati a ieri) il numero delle persone arrivate via mare ha toccato quota 12.623: ben il 36% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Di questi, oltre 9.500 sono partiti dalla Libia. In gran parte provengono da Nigeria (1.767), Gambia (1.463), Senegal. Insomma flussi tradizionali dall’Africa, indipendenti dalla chiusura della rotta balcanica. Ma qualcosa sta cambiando. "Giovedì il nostro personale ha incontrato a Messina sei siriani partiti dalla Libia - racconta Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr - Ci hanno spiegato di essere entrati dall’Algeria per aggirare le altre frontiere chiuse". Basti pensare che la via balcanica nel 2015 ha portato nel cuore dell’Europa 860mila migranti. "Ora la sua chiusura - conferma Sami - rischia di far riesplodere la rotta via mare Libia-Italia". E non c’è solo l’allarme dell’intelligence tedesca. Anche l’Alta rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, (come ha rivelato il sito Politico), in una lettera ai ministri degli Esteri Ue, ha avvertito che "l’incerta situazione in Libia" potrebbe tradursi nell’arrivo di 450mila profughi in Europa. La nuova regia degli sbarchi - Stando a fonti della flotta Ue impegnata nel Mediterraneo, le partenze degli ultimi giorni sembrano avere una regia centralizzata. Si parte su gommoni sostanzialmente identici e dalle stesse zone della costa libica. Il motivo è semplice: ormai si viene intercettati subito fuori dalle acque internazionali e agli scafisti non conviene correre il rischio di perdere un barcone. La nuova ondata di sbarchi sfrutta le buone condizioni meteo, ma il fatto che ci sia una sorta di regia non permette di escludere che i "signorotti" libici tentino così anche di esercitare una pressione contro un eventuale intervento militare europeo in Libia. E poi il traffico di migranti resta un’attività redditizia. "Nel canale di Sicilia - conferma il comandante Filippo Marini, portavoce della Guardia costiera italiana - le unità navali hanno salvato 3.130 persone negli ultimi tre giorni. Nelle operazioni di soccorso vengono impegnati anche mercantili italiani e stranieri dirottati dalla centrale operativa della Guardia costiera di Roma del ministero delle Infrastrutture". I rischi che si corrono su questa rotta sono altissimi: "Nel Mediterraneo centrale - conferma Marini - intercettiamo qualche barcone fatiscente prossimo al cedimento strutturale e tanti gommoni a tubolare unico, dove basta una foratura per andare a picco". La guerra agli scafisti - L’allarme Libia è stato ieri al centro del vertice tra la Mogherini e i leader italiano, francese, tedesco, maltese, spagnolo e britannico. Il risultato? La missione militare Eunavfor Med deve passare dalla fase 2A a quella 2B, pena il fallimento. L’ultima fase prevede interventi non più solo in acque internazionali, ma anche sulle coste e nelle acque territoriali libiche per fermare gli scafisti già in porto. Per farlo, però, occorre avere il consenso delle autorità locali. E questo ancora manca. La guerra delle impronte di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 19 marzo 2016 Il ministro Alfano vuole che sia previsto per legge l’uso della forza. I sindacati di polizia contro il Viminale: "Ci espone a denunce penali e a tumulti, è incostituzionale". Angelino Alfano, appena risalito sul palcoscenico del centrodestra in un nuovo ipotetico abbraccio pre-elettorale con Berlusconi, ha pensato bene di sfruttare le luci del vertice di Bruxelles per anticipare un provvedimento del governo che preveda l’uso della forza per procedere al rilevamento delle impronte digitali in caso di migranti recalcitranti. L’annuncio però è servito solamente a scatenare un alveare di commenti critici non solo dalle associazioni che si occupano dei rifugiati, dalla Caritas al centro Astalli, ma soprattutto dai sindacati di polizia. Il ministro dell’Interno, prima di partire per il summit europeo, ha diffuso una comunicazione del suo dipartimento della pubblica sicurezza in cui si annunciava una norma da inserire nel disegno di legge sull’asilo e gli hot spot che il governo vorrebbe adottare quanto prima. Il provvedimento mira - si dice - a "disciplinare il soccorso, la prima assistenza, l’identificazione nonché il rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche forzoso, dei migranti". Ieri mattina intervenendo a Radio Anch’io, Alfano, è tornato sull’argomento ammettendo che oltre l’85 % dei migranti che sbarcano in Italia sono identificati e registrati. "Abbiamo le impronte digitali praticamente al cento per cento", ha addirittura precisato. E però ha confermato l’idea di inserire in un prossimo ddl la possibilità di prelievo forzoso delle impronte dal momento che "la Cassazione dice che un uso della forza è possibile e si tratterebbe di scrivere una norma che senza affidarci alle interpretazioni dei giudici tuteli tutti". I poliziotti però non si sentono affatto più tutelati. Il rilevamento coatto delle impronte agli immigrati che sbarcano in Italia "non è proprio possibile", fa notare Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil, perché "non siamo in presenza di criminali ma di persone che scappano da situazioni di difficoltà". E non è neanche auspicabile, al contrario, come segnala Felice Romano, segretario del Siulp, sul quotidiano dei vescovi l’Avvenire, definendo l’uscita di Alfano nient’altro che "una boutade", "che, oltre a non aiutare le forze di polizia, espone i suoi appartenenti, oltre al carico di lavoro, anche a responsabilità penali ed esistenziali". "L’utilizzo delle forza su chi scappa dalla violenza della guerra - spiega - è la peggiore risposta che si può dare ad un profugo, ma è anche la trappola più diabolica alla quale si vuole esporre il personale delle forze di polizia, in quanto la responsabilità penale, nel nostro Paese è e resta personale e non di chi fa le leggi che poi non possono essere attuate". Il collega della Cgil precisa che una norma simile sarebbe anticostituzionale e oltretutto anche discriminaroria se riguardasse solo "i cittadini extracomunitari all’interno dei centri d’identificazione". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ieri si è limitato a dichiarare che "parlare di uso della forza può essere fuorviante". E che "noi chiediamo collaborazione a chi fa domanda di per ottenere lo status di rifugiato, in funzione del riconoscimento di un diritto. È evidente che questo deve realizzarsi nel rispetto dei diritti dell’uomo e con le garanzie del controllo dell’autorità giudiziaria", una frase che assomiglia a una presa di distanza da Alfano. Il problema di migranti che si oppongono all’identificazione in Italia - lo segnalano anche i sindacati degli agenti - sono le regole della convenzione di Dublino in base alle quali il paese dove si viene identificati è anche quello dove si deve chiedere l’asilo. Gli eritrei, che come e più dei siriani sulla rotta balcanica sanno di aver diritto all’asilo e vogliono arrivare in Nord Europa, spesso in Italia fanno resistenza. Ma finché è solo passiva possono al massimo essere fermati per 24 ore, come si può verificare dalla scheda sul sito dei giuristi dell’Asgi. Unhcr: nel campo di Idomeni è "tortura" sui rifugiati di Emanuele Confortin Il Manifesto, 19 marzo 2016 Confine greco-macedone. L’attesa di notizie da Bruxelles tra i 14mila bloccati nel fango. Nel campo di Idomeni è "tortura" "È il peggior campo che io abbia mai visto in 14 anni di assistenza umanitaria. Vivere in queste condizioni è una tortura per gli esseri umani". Queste le parole con cui il responsabile relazioni esterne di Unhcr, Babar Baloch, sintetizza le condizioni dei 14 mila di Idomeni. Qui, al confine tra Grecia e Macedonia, le cose non possono che peggiorare, malgrado un peggio a quanto si vede nella tendopoli sia difficile da immaginare. Non è solo una questione di alloggi degradati, di condizioni sanitarie insufficienti, o di carenza di cibo e acqua. Per riuscire a sopportare un luogo simile bisogna saper convivere con il dolore, la frustrazione e scendere a compromessi con la propria dignità. Immaginate un padre e una madre, non importa da quale guerra fuggano, costretti a cucinare per i figli un intruglio di pomodori, patate e uova nel fondo di un barattolo di latta sospeso su un fuoco di combustibile improvvisato, soprattutto plastica. Questo accade di giorno in giorno da troppo tempo. Se ne stanno rendendo conto tutti, a partire dai rifugiati maschi in viaggio da soli, adolescenti o poco più, che vedono nelle famiglie dei loro connazionali un destino cui mai avrebbero pensato. L’inevitabile conseguenza è la rabbia. Una forma di autodifesa naturale, necessaria per non essere sopraffatti dalla miseria, per continuare a resistere a 200 metri dal filo spinato macedone. Ed è questa rabbia che giovedì notte ha provocato una violenta rissa tra rifugiati siriani e afgani, circa una cinquantina di persone armate di spranghe di ferro e pietre. Malgrado le avvisaglie delle ultime ore (scontri recenti di minore entità erano avvenuti mercoledì sera e giovedì), a far precipitare le cose è stato un tentativo di stupro ai danni di una bambina siriana di 7 anni nel pomeriggio, attribuito a un afgano consegnato alla polizia poco prima del linciaggio. Malgrado la responsabilità non fosse stata accertata, in poche ore la voce si è diffusa all’interno del campo innescando le violenze in serata, sedate solo con il massiccio intervento della polizia. La frustrazione della notte a Idomeni si è poi consumata nel rogo delle tende di alcuni afgani e pachistani, costretti ad abbandonare l’area. "Le persone sono esaurite, stanche, quindi la tensione cresce - spiega Baloch - a volte persino i bambini perdono il controllo, ad esempio quando sono in fila per il cibo. In questo caos tutto è possibile e i più vulnerabili sono donne e bambini, è indispensabile capirlo e trovare un meccanismo umanitario per ripristinare la dignità, a partire da ripari adeguati per tutti. Così come stanno le cose lasciamo massima libertà a criminali e trafficanti". Passata la notte al campo torna la luce del giorno, e sull’asfalto infangato diretto al confine si riversa la stessa desolazione di sempre. Alle 8 del mattino è il turno di Panagiotis Kouroumplis, ministro dell’Interno greco per il quale le condizioni della tendopoli sono paragonabili al campo di concentramento di Dachau. Mentre le code per il cibo tornano a formarsi, sopra un terrapieno di sabbia e ghiaia poco lontano trova spazio un nuovo tendone. All’esterno della struttura decine di volontari si affrettano ad unire telai metallici a stoffe di tela per montare le brande del dormitorio destinato ai rifugiati. Non a tutti però. "Qui c’è troppa tensione dovuta agli scontri di ieri, noi andiamo con le tende alla stazione di benzina, qualche chilometro a sud, sulla strada per Salonicco", spiegano alcuni pachistani in marcia lungo le rotaie, ormai lontani. La ghettizzazione del campo è una realtà di fatto, e per capirlo basta consumare una tazza di tè in compagnia di una famiglia di iracheni di Sinjar, impauriti a tal punto da dichiararsi sottovoce Yazidi. "Non siamo musulmani, dobbiamo stare attenti per evitare problemi qui al campo", assicurano mentre descrivono la loro fuga nel Kurdistan iracheno seguita alle incursioni di Daesh. "Vogliamo andare in Germania. Siamo disposti a tutto, ad ogni lavoro, pur di lasciare questo fango". Qualche centinaio di metri a sudest dell’accampamento principale, un vecchio allevamento ospita centinaia di rifugiati, soprattutto famiglie. Qui, siriani e afgani condividono serenamente ogni centimetro della piattaforma in cemento un tempo destinata al carico del bestiame sui vagoni ferroviari. I bambini giocano a rincorrersi tra i tornelli di ferro con cui i bovini erano condotti al treno. "Siamo fortunati, c’è una grande tettoia a proteggerci dall’acqua, prima eravamo accampati nella melma", spiega Tahir, 36enne ex insegnante di arabo a Homs, fuggito con la moglie e due figlie da quasi due mesi. Ha gli occhi verdi e i capelli biondi al pari della bambina più grande con cui gioca seduto su una coperta di lana. Tahir racconta la guerra in Siria con un distacco inverosimile, concesso solo a chi è stato costretto a conviverci. "Auguro a tutti gli insegnanti e agli studenti in Europa di non dover mai conoscere la guerra. Mio padre è stato ucciso davanti ai miei occhi e non ho potuto fare nulla. Allo stesso modo mio zio, l’ho visto bruciare nel fuoco". La sua preoccupazione ora è rivolta alla famiglia, ai soldi quasi finiti e a quel cancello metallico che continua a ostruire il passaggio in Macedonia. Dopo una breve carezza alla figlia confida il suo grande sogno, lo stesso di tutti i padri accampati a Idomeni: "Voglio solo lavorare sodo, tornare a casa la sera, procurare quanto serve per mangiare, mandare le bimbe a scuola, vedere mia moglie nelle faccende di casa. Ecco cosa sogno". Passano le ore e le dita di ogni rifugiato iniziano a scorrere sugli schermi lucidi dei telefonini. Cercano aggiornamenti da Bruxelles, seriamente convinti che giunga la decisione tanto attesa, che domani magari venga aperta la via per la Macedonia. "Non può esserci alternativa, come possono lasciarci ancora vivere come animali", protesta un giovane palestinese di Jenin, la cui irritazione si placa solo al nome di Vittorio Arrigoni. Un rispetto concesso malgrado tutto, malgrado le coperte sporche distese nel vecchio vagone in cui dorme con altri venti palestinesi. Intanto giungono le prime informazioni da Bruxelles - Nessun nuovo immigrato irregolare potrà più solcare l’Egeo verso le isole greche, in quanto sarebbe respinto in Turchia. Una soluzione volta a porre un freno ai viaggi della speranza, alle vittime del mare e al business multi-miliardario dei trafficanti di esseri umani, ma poco influente per gli ospiti della tendopoli. Ora in Grecia si teme l’intensificazione delle partenze verso le isole per garantire il passaggio dei rifugiati che in Turchia non vogliono assolutamente restare, prima che l’accordo venga attuato. Turchia posto sicuro? Ha una guerra a sud-est e 100mila sfollati kurdi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 marzo 2016 Nel giorno dell’accordo Erdogan accusa Bruxelles di sostenere il "terrorismo" kurdo. L’Hdp sfida il governo e celebra il Newroz, Rojava pubblica la sua "costituzione". L’Occidente di patti col diavolo ne ha stretti tanti, alleanze basate su convenienze a breve termine e poi ritornate indietro come boomerang. Quella con la Turchia di Erdogan è una di queste, un paese che nasconde una guerra civile in corso a sud-est che ai 2,7 milioni di rifugiati siriani ha aggiunto 100mila sfollati kurdi. La particolarità di questa alleanza è che il presidente-sultano Erdogan si sente così intoccabile che nello stesso giorno in cui scuce miliardi di euro a Bruxelles lo accusa pure di sostegno al terrorismo. L’Europa - ha detto - "danza in un campo minato, sostenendo direttamente o indirettamente le organizzazioni terroristiche. La vipera che avete allevato in petto vi può mordere in qualsiasi momento". Da qui alla previsione di attentati in territorio europeo da parte di gruppi kurdi il passo è breve: "Non c’è ragione che la bomba che è esplosa ad Ankara non esploda a Bruxelles". Un fiume di parole e minacce dettato dalla propaganda di Stato e che calpesta le radici della lotta armata kurda e dello storico movimento indipendentista. C’è da chiedersi per quale ragione un gruppo come Tak (movimento separatista kurdo che ha rivendicato gli ultimi due attacchi a Istanbul e Ankara) dovrebbe compiere azioni in territorio europeo. Ma la strategia dell’auto-vittimizzazione e del male comune serve ad Erdogan per dire all’Europa che la Turchia ne è sua parte integrante, ne è bastione di difesa contro l’avanzata del terrorismo. Ankara è Bruxelles, questo è il messaggio di Erdogan, che gli garantisce la necessaria impunità sia contro la comunità kurda che contro opposizioni e stampa indipendente. Non può evitare le critiche verbali (giovedì dopo il commissariamento del giornale di opposizione Zaman la Casa Bianca si è detta "preoccupata per l’interferenza nel settore dei media"), ma le sa facilmente schivare. Giovedì l’ultimo attacco indiretto alla stampa: il governo ha chiesto 23 anni di prigione per il fondatore del gruppo editoriale Dogan News (di cui hanno parte Cnn Turk, Hurriyet e Kanal D), con l’accusa di contrabbando di carburante e propaganda terroristica. Mentre l’Europa si prepara a versare il dovuto per evitare di affrontare con senso di responsabilità l’emergenza rifugiati, nel sud-est della Turchia si mettono in piedi le celebrazioni per il Newroz, il Nuovo Anno kurdo. In bilico fino all’ultimo a causa della campagna militare in corso, dei lutti, il dolore e la devastazione che ha portato con sé, il Comitato Organizzatore sfida il divieto imposto dalle autorità turche e festeggia comunque. Una festa dimessa per la sofferenza che come un fardello ha colpito quasi ogni famiglia kurda, ma vissuta come estrema forma di resistenza al tentativo di annientamento della propria identità. "La cosa giusta da fare è organizzare le celebrazioni per il Newroz, come è stato fatto per migliaia di anni. Molti despoti hanno provato a bandire il Newroz nel corso della storia, ma non ci sono mai riusciti. La gente lo ha difeso anche contro le più oppressive e crudeli amministrazioni", la reazione della sezione di Istanbul del partito pro-kurdo Hdp. Si scenderà in piazza anche nella capitale culturale turca, dove la festa e il fuoco "per l’uguaglianza e la libertà" si terrà in piazza Bakirkoy Pazar, nonostante il divieto del governatore. A sud est le celebrazioni sono già cominciate, tra carri armati, coprifuoco e violenze: Sirnak ieri era di nuovo oggetto di lancio di missili da parte turca, scene simili a Nusaybin. La morsa governativa non si allenta e rischia di stringersi ancora di più dopo l’autonomia che giovedì il Pyd ha dichiarato nel Kurdistan del sud, nella Rojava siriana. "Questa soluzione può servire come modello per il resto della Siria - si legge nel documento finale - Una futura Siria è per tutti i siriani". La dichiarazione contiene indicazioni sulla forma di governo di comunità, dall’amministrazione ad interim in attesa delle elezioni nazionali alla partecipazione paritaria delle donne nel processo decisionale, per chiudersi con il richiamo allo Stato: "La realizzazione di un sistema federale e democratico avrà luogo all’interno di una Siria sovrana". Sfidando la macchina da guerra turca ma anche l’Onu che, piegata al volere di Ankara, ha escluso da Ginevra la rappresentanza kurda, il Pyd propone modelli alternativi a quelli internazionali. Di certo se ne sarà discusso molto dietro le quinte del negoziato svizzero. Nelle ultime ore l’inviato Onu de Mistura ha lamentato la persistenza di posizioni inconciliabili tra governo e opposizioni. Ieri ha incontrato di nuovo le delegazioni, dopo aver ringraziato la federazione delle opposizioni Hnc per aver presentato un piano di transizione. Dentro, però, c’è la solita precondizione: la cacciata del presidente Assad, inaccettabile per il governo. Cannabis legale, i Radicali depositano proposta di legge di Valeria Pini La Repubblica, 19 marzo 2016 Iniziativa popolare in Cassazione. Al via la raccolta di firme. Raccogliere firme nelle piazze italiane per legalizzare la cannabis. Una consultazione che partirà nei prossimi giorni dalla proposta di legge di iniziativa popolare presentata questa mattina in Cassazione da Radicali italiani e Associazione Luca Coscioni. Un’iniziativa della "primavera anti-probizionista" inaugurata, alcuni giorni fa, con una petizione europea sul sito della campagna Legalizziamo, che chiede all’Unione europea di "promuovere e adottare una politica per la legalizzazione della marijuana e per la decriminalizzazzione del consumo di tutte le droghe". Consumo e coltivazione. L’obiettivo è quello di legalizzare l’uso dello spinello. La proposta di legge dei Radicali e dell’Associazione Coscioni, sostenuta da associazioni come Cild-Coalizione italiana libertà e diritti civili, Forum Droghe, Lapiantiamo e da molte associazioni canapai italiani, punta a regolamentare la produzione, il consumo e il commercio di cannabis e dei suoi derivati, eliminando le sanzioni penali e a ridurre quelle amministrative previste dalla legge del ‘90 (9 ottobre 1990, n.309). All’articolo 2 della proposta si stabiliscono le modalità di coltivazione, mentre l’articolo 3 prevede che "qualsiasi persona maggiorenne può coltivare liberamente, in forma individuale, senza bisogno di autorizzazione" fino a 5 piante di cannabis. Cannabis terapeutica. Per quanto riguarda la cannabis terapeutica, la proposta cerca di dare maggiore forza all’autorità statale centrale, per evitare le differenze dei servizi sanitari regionali. Sono previsti fra l’altro piani di informazione per il personale sanitario. "Con questa proposta di legge di iniziativa popolare continuiamo una battaglia storica per l’Associazione Luca Coscioni. Insieme alla legalizzazione della cannabis, infatti, prevediamo anche che il libero accesso ai farmaci cannabinoidi sia reso effettivo. Ciò è possibile sia attraverso un accesso immediato e gratuito ai farmaci, sia attraverso la regolamentazione dell’auto-coltivazione per le persone malate", spiega Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni. "Lotta antiproibizionista". Per Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani "il fallimento della guerra alla droga è sotto gli occhi di tutti". "Dobbiamo quindi rilanciare la lotta antiproibizionista, allargando il fronte all’Europa e a tutte le droghe - ha detto Magi -. Ecco perché, insieme a questa legge popolare, abbiamo lanciato una petizione rivolta al Parlamento europeo per chiedere politiche comuni sulle droghe, non solo per la legalizzazione della cannabis ma anche per la decriminalizzazione dell’uso e del possesso per consumo personale di tutte le altre droghe. Se infatti il mercato europeo delle droghe europeo è già unico e ben organizzato, è tempo che le istituzioni europee facciano fronte comune". L’altra proposta di legge. Risale invece a marzo del 2015 una proposta di legge con la firma di 290 parlamentari presentata in Parlamento per legalizzare la cannabis. A gennaio è stato annunciato l’inserimento nel calendario trimestrale della Camera ed è stata affidata alle commissioni congiunte affari sociali e giustizia. Pakistan: sul giovane italiano ucciso da un drone Usa solo tante promesse di Emanuele Giordana Il Manifesto, 19 marzo 2016 Verità su Lo Porto. Dopo gli annunci di Obama, 11 mesi fa, è calato il silenzio. Il senatore Manconi lunedì depositerà un’interrogazione al ministro deli Esteri. Presi dalla vicenda di Giulio Regeni, tra depistaggi e bugie, abbiamo forse dimenticato la morte di un altro italiano: Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 in Pakistan e ucciso da un drone Usa nel gennaio del 2015. A non dimenticare è la famiglia che, quattro giorni fa, ha tenuto una conferenza stampa a Montecitorio (andata deserta!) con gli avvocati, i radicali e il senatore Luigi Manconi. Quest’ultimo lunedì prossimo depositerà un’interrogazione al governo e al ministero degli Esteri per sapere sia il risultato delle promesse che il presidente Obama fece nella dichiarazione pubblica con la quale, nell’aprile 2015, rese nota la morte di Giovanni e si scusò con la famiglia, sia se gli Usa intendano procedere a un risarcimento. E sì, perché Obama fece delle promesse poi ribadite in un comunicato ufficiale della casa Bianca. Undici mesi fa. L’America non è l’Egitto e ovviamente Obama non è Al Sisi. Anzi, quella dichiarazione rese testimonianza di un desiderio di trasparenza che sta a cuore all’uomo che ha sempre voluto chiudere Guantánamo anche se resta il principale assertore della politica dei droni. Ma la storia della morte di Giovanni era e resta lacunosa. E le promesse di quell’aprile lettera morta. I legali della famiglia, gli avvocati Andrea Saccucci e Giorgio Perroni, ricordano che Obama si assunse la piena responsabilità dell’accaduto e promise la declassificazione dell’operativo che "erroneamente" portò alla morte di Giovanni e di Warren Weinstein quando l’obiettivo erano due qaedisti americani, Ahmed Farouq e Adam Gadahn. Gli avvocati della famiglia hanno inoltrato una richiesta formale al governo americano sul risarcimento e al contempo hanno depositato, nel procedimento aperto dalla magistratura italiana nel 2012, una denuncia querela nella quale domandano ai giudici italiani di richiedere, per rogatoria, le regole delle operazioni coi droni e la documentazione su quella che riguardò Giovanni. Infine le risultanze delle indagini condotte dall’intelligence Usa prima e dopo il raid, ossia gli esiti degli accertamenti tecnici. Va ricordato che Obama fece il suo annuncio tre mesi dopo l’operativo e che Renzi (v. la polemica sul fatto che non fosse stato informato) spiegò che gli accertamenti avevano richiesto appunto tre mesi per capire. La famiglia infine, solleciterà anche l’Onu perché appoggi le loro richieste (esiste un Rapporto che indaga queste pratiche ritenute violazioni del diritto internazionale quando i droni operano fuori da un contesto bellico dichiarato). Manconi, nella sua interrogazione, chiede luce su un particolare: "Il comunicato ufficiale della Casa Bianca - dice - fa esplicito riferimento al lavoro di una commissione indipendente di indagine. Di questo lavoro, a 11 mesi dall’impegno, vorremmo sapere, poiché ciò fornirebbe la conoscenza non solo del prima e del dopo ma anche cosa o chi determinò l’errore". Recentemente il Pentagono ha fatto sapere che annualmente saranno rese note tutte le operazioni segrete compiute dai droni e relativi effetti. Ma quanto sarà trasparente il rapporto resta da vedere visto che gli esiti dell’indagine sul caso Lo Porto (o quella sul raid di Kunduz nell’ospedale di Msf) ancora non si vedono. Una recente inchiesta di Al Jazeera in Afghanistan ha rivelato che proprio la classificazione delle operazioni con velivoli senza pilota impedisce una ricostruzione chiara delle responsabilità che finisce così a inficiare persino il rapporto sulle vittime civili afghane che ogni anno Unama, la missione Onu a Kabul, rende pubblico. Agenti francesi più violenti. E impuniti di Francesco Ditaranto Il Manifesto, 19 marzo 2016 Abusi d’Oltralpe. Dossier di Acat France denuncia l’uso crescente della forza da parte delle forze dell’ordine. Sotto accusa la totale mancanza di trasparenza: così ottenere giustizia diventa un’impresa. "Sappiamo quante morti causano ogni anno le punture di vespa, ma non sappiamo quante sono le vittime della violenza delle forze dell’ordine". Con questo slogan Acat Francia (Associazione Cristiana per l’Abolizione della Tortura), ha presentato il dossier sulle violenze operate da polizia e gendarmeria dal titolo "L’ordine e la forza". In 18 mesi di lavoro, l’Ong ha recensito 89 episodi nel periodo che va dal 2005 al 2015. Tra questi, sono ben 26 i casi di decesso, mentre i soggetti coinvolti hanno riportato handicap permanenti o ferite gravi rispettivamente in 29 e 22 circostanze. Il rapporto, lungo più di cento pagine, analizza le fattispecie di rischio nell’utilizzo della forza da parte degli agenti francesi. Si passa dalle tecniche d’immobilizzazione ai proiettili di gomma. Secondo l’associazione, ad esempio, esiste una certa disinvoltura nell’uso del taser per facilitare l’ammanettamento. Gli agenti, riferisce l’indagine, farebbero ricorso allo strumento a scariche elettriche, ponendolo a contatto con la pelle. Procedura, quest’ultima, particolarmente rischiosa per l’integrità fisica del fermato. Stesso discorso per le cosiddette flashball, il cui utilizzo nel mantenimento dell’ordine pubblico si sarebbe quasi banalizzato. Acat denuncia, inoltre, il pericolo di soffocamento dovuto alle pratiche di immobilizzazione ventrale, largamente applicate in fase di arresto. Il riferimento, esplicito nell’inchiesta, è al tristemente noto I Can’t Breathe urlato da un uomo soffocato a morte da alcuni poliziotti negli Stati Uniti. L’indagine, però, non si ferma all’analisi specifica degli 89 casi in esame, ma cerca di andare a fondo e ricostruire quale sia, più in generale, il contesto nel quale questi episodi si riproducono. Il profilo tipo della vittima dell’uso della violenza da parte di poliziotti o gendarmi è quello di un uomo, giovane, membro di una minoranza etnica o attivista politico. È il caso del 21enne ecologista Remi Fraisse, morto nel 2014, dopo essere stato colpito da una granata, durante una manifestazione contro il progetto di costruzione della diga di Sivens. In seguito all’emozione suscitata da quella tragedia, fu lo stesso ministro dell’interno, Bernard Cazeneuve, a vietare l’utilizzo di quest’arma di offesa. In altri frangenti, le vittime non sono inquadrabili nel profilo appena citato. Nel 2011, racconta il rapporto, un bambino di 9 anni, perse un occhio a causa di un proiettile di gomma sparato da un gendarme. Di fatto, per l’associazione, nella gestione della "piazza" si sta perdendo l’approccio che mira al mantenimento della distanza tra forze dell’ordine e manifestanti, proprio a causa dell’utilizzo delle "armi non letali". Acat rileva come la vera difficoltà sia nel perseguire gli autori degli abusi. Il concetto d’impunità pervade tutto il dossier, nel quale si evidenzia come per le vittime, ottenere giustizia rappresenti un vero e proprio "percorso a ostacoli", tra difficoltà nel fare denuncia, inchieste condotte in modo deficitario e "dichiarazioni menzognere". In più del 90% dei casi osservati, gli agenti non sono stati condannati. Il tutto mentre il fenomeno è condizionato da una strutturale mancanza di trasparenza. "Le autorità non danno alcuna informazione sull’utilizzo della forza da parte degli agenti", ha riferito Aline Daillère, autrice del rapporto, a Le Monde. Ma è lo scenario attuale, quello di una Francia in una sorta di stato d’eccezione perenne, a preoccupare Acat. "Temiamo che il progetto di riforma - prosegue Daillère - sull’allargamento della possibilità di uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, attualmente in discussione al Senato, possa condurre a delle derive". Siria: lo Stato Islamico si impadronisce di un enorme arsenale governativo di Gianluca Di Feo La Repubblica, 19 marzo 2016 Milioni di munizioni, migliaia di armi, tre carrarmati: la fuga dell’esercito lealista dall’area di Deri er-Zor lascia incustodito questa base. E l’Is se ne impadronisce e lo mostra al mondo. I bollettini di guerra russi o americani hanno una sola cosa in comune: annunciano che il Califfato è in piena ritirata, piegato dai bombardamenti aerei e dagli attacchi terrestri. Ma ci sono notizie che spingono a diffidare di questi proclami di vittoria. E far capire quanto sia complessa la situazione sul campo. L’ultima di queste rivelazioni arriva dal sito specializzato Oryx, che ha descritto un colpo clamoroso dell’armata jihadista: ha catturato uno dei più grandi arsenali dell’esercito siriano. I video diffusi dalla propaganda dell’Is permettono di comprendere l’importanza di questo bottino: è una sorta di caverna di Ali Babà del terrorismo, con milioni di munizioni e migliaia di armi d’ogni tipo. Una preda sufficiente per alimentare mesi di combattimenti. Infatti nella base di Ayyash a fine gennaio i miliziani islamici hanno trovato di tutto. Circa mille casse di proiettili per kalashnikov, mitragliatrici pesanti, mortai e cannoni. Più di cento missili controcarro sofisticati. E sette micidiali missili terra-aria a medio raggio con il semovente per lanciarli: gli stessi ordigni di fabbricazione russa che si ritiene abbiano abbattuto il Boeing malese in volo sull’Ucraina. Tutto qui? No, perché sono riusciti a mettere le mani anche su tre carri armati, una decina di blindati e una ventina di altri veicoli militari. E questi sono solo i materiali documentati dal video, mentre la lista finale del bottino potrebbe essere ancora più grande. Il deposito infatti era una delle riserve strategiche costruite alla fine degli anni Novanta in vista di un possibile conflitto con l’Iraq di Saddam Hussein, con cui i siriani si erano già scontrati durante la prima guerra del Golfo: conteneva scorte di munizioni e mezzi per equipaggiare un’intera brigata. La base occupata dal Califfato dista una decina di chilometri dalla città di Deri er-Zor, un caposaldo del regime di Damasco assediato da quasi un anno: è una posizione incuneata nei territori dell’Is, a circa cento chilometri da Raqqa. Nonostante il sostegno dei bombardieri russi, a gennaio le truppe di Bashar al-Assad hanno abbandonato il campo trincerato di Ayyash per rifugiarsi nella città. Lasciando intatto l’arsenale: il segno di una fuga frettolosa da parte di soldati demotivati. Non è l’unica. Il sostegno di Mosca, con nuovi equipaggiamenti e addestratori esperti, ha dato vigore alle unità scelte del regime, composte da uomini reclutati tra le comunità alawite. Gli altri soldati invece sembrano sempre meno disposti a morire per Damasco. I miliziani del Califfato sostengono di avere trasferito gran parte delle prede in depositi più sicuri. Mentre alcuni giorni dopo la caduta di Ayyash caccia russi avrebbero bombardato la zona, distruggendo i terribili semoventi contraerei prima che potessero venire utilizzati contro gli stormi di Mosca. Ma sono informazioni difficili da verificare. Resta invece una certezza: la strada per cancellare lo Stato islamico sarà ancora lunga. Cina: oltre 30 minatori detenuti dopo scioperi nel nord-est Agi Sono più di trenta i minatori detenuti per gli scioperi dei giorni scorsi nel nord-est del Paese in cui i dipendenti del settore minerario chiedevano il pagamento dei salari non retribuiti. Lo rivelano alcuni abitanti dell’area dove si sono svolti gli scioperi che hanno parlato ai microfoni dell’agenzia France Press. Gli scioperi erano scoppiati nella città di Shuangyashan nella provincia dello Heilongjiang, al confine con la Siberia, e hanno riguardato migliaia di dipendenti delle società minerarie locali, proprio mentre a Pechino si teneva la sessione annuale di lavoro dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, che mercoledì scorso ha approvato il nuovo piano quinquennale di sviluppo per gli anni 2016-2020. I settori del carbone e dell’acciaio sono tra i più colpiti dalle riforme strutturali cinesi, e quelli che soffrono maggiormente dei problemi legati alla sovrapproduzione. Secondo le stime più pessimiste, potrebbero perdere il posto fino a sei milioni di lavoratori dei settori più a rischio (1,8 milioni dei quali proprio nei comparti del carbone e dell’acciaio). Per loro, il governo ha annunciato, il mese scorso, la creazione di un fondo da 15 miliardi di dollari per aiutarli nel reinserimento. Il rallentamento dell’economia in Cina - in crescita del 6,9% nel 2015, ai minimi degli ultimi 25 anni - sta mettendo in difficoltà diversi settori industriali, compresi l’edilizia e più in generale il manifatturiero, che manda da tempo segnali di indebolimento. Lo scorso anno, il consumo di carbone in Cina ha registrato un calo per il secondo anno consecutivo, ed entro fine 2016, il governo prevede la chiusura di oltre mille miniere per un totale di sessanta milioni di tonnellate prodotte in meno rispetto alla quota attuale. Entro il 2020, Pechino punta a ridurre la produzione di carbone di circa 500 milioni di tonnellate rispetto ai volumi attuali. Gli scioperi del nord-est non rappresentano un caso isolato. Mercoledì scorso, secondo quanto scriveva il quotidiano Beijing News, un gruppo di lavoratori migranti nella provincia sud-occidentale del Sichuan sono stati condannati a pene tra i sei e gli otto mesi di detenzione per avere dato vita a manifestazioni, lo scorso anno, in cui chiedevano la riscossione di salari non pagati da parte delle aziende per cui lavoravano.