La giustizia torna a essere un’arma elettorale di Massimo Franco Corriere della Sera, 18 marzo 2016 C’è molta strumentalità nel modo in cui la giustizia torna a essere brandita come un’arma di lotta politica. La condanna di Denis Verdini a due anni per concorso in corruzione ha scatenato gli avversari di Matteo Renzi, accusato con virulenza dal M5S e dalla Lega di governare con lui. E l’imbarazzo con il quale la maggioranza del Pd nega di averlo come alleato conferma quanto il tema rischi di inquinare la campagna per le Amministrative. D’altronde, il premier aveva ironizzato poche ore prima al Senato sull’arresto di un esponente locale del M5S per un reato minore: gesto poco distensivo. E ieri il responsabile Giustizia dei dem, David Ermini, ha pensato bene di replicare alle accuse ricordando che gli unici leader condannati sono Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Si tratta di una deriva che porterà acqua soltanto all’astensionismo; e che sottolinea, ancora una volta, l’incapacità di sottrarsi a una polemica tanto velenosa quanto sterile. Forse era inevitabile, in uno sfondo frammentato e agitato da brogli, inchieste giudiziarie e lotte intestine. La giustizia diventa così un altro pretesto di rissa quotidiana: come i candidati a sindaco, le primarie, e li referendum istituzionale dell’autunno prossimo. Fa parte di quella strategia della delegittimazione reciproca che in realtà non salva nessuno. Non aiuta di certo neppure la difesa d’ufficio di Verdini da parte dei suoi senatori. Sostenere, come hanno fatto ieri, che "abbiamo purtroppo assistito all’ennesimo atto di una giustizia politica", significa rilanciare una guerra tra magistratura e classe politica, foriera di altre tensioni. Ma più che l’alleato a intermittenza di Renzi, gli attacchi hanno come bersaglio il presidente del Consiglio. Evocare la condanna di Verdini è un modo per demonizzare il "partito della Nazione" renziano; per screditare le riforme fatte anche con i suoi senatori; e per additare Palazzo Chigi come un grumo di affarismo e di corruzione. Emergono tracce di ognuno di questi argomenti. Il vicepresidente M5S della Camera, Luigi Di Maio, ironizza su Verdini dicendo che "si arricchisce il curriculum di uno dei nuovi "padri costituenti". Dunque, picconata alle riforme. E ancora: "Verdini è il modo di fare politica che meno mi piace sulla faccia della Terra, la politica legata agli affari", incalza il capo leghista Matteo Salvini, che pure ha un partito impelagato in più di un’inchiesta. E versa la sua goccia di veleno il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: "Renzi a Roma si allea con Verdini condannato per corruzione. A Napoli fa primarie truccate...". È un tiro al bersaglio pretestuoso, che il Pd per ora subisce: in attesa di sviluppi che, c’è da giurarci, saranno usati cinicamente in nome della giustizia. Perché i magistrati non sono mai responsabili dei loro errori di Giuseppe Sottile Il Foglio, 18 marzo 2016 Storie italiane sul particolare senso di impunità (e onnipotenza) dei giudici. Vogliamo parlare di Nicola Cosentino, sporco e cattivo uomo della filiera berlusconiana, detenuto da ottocentocinquanta giorni senza un processo e senza una condanna? O preferiamo ricordare la storia di Paolo Cocchi, uomo di cultura e di tenace fede democratica, condannato a un calvario giudiziario di quasi sei anni e ora finalmente assolto per palese e smaccata "insussistenza dei fatti"? Vogliamo ripescare i predicati molesti che hanno accompagnato Ercole Incalza, potente superburocrate di strade e ferrovie, nelle quattordici inchieste aperte con grande spolvero a suo carico e puntualmente chiuse con altrettante e silenziosissime scuse? O è più utile richiamare le ebbrezze incorruttibili con le quali la gagliarda procura di Firenze ha relegato per alcuni giorni un innocentissimo Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit, nel girone dei reprobi, per di più macchiati dall’infamia di una collusione mafiosa? Certo, sarebbe ingeneroso sostenere che questa è l’ordinaria amministrazione della giustizia in Italia: perché nei tribunali d’Italia ci sono tante buone inchieste e tanti bravi giudici. Ma sarebbe quantomeno omertoso negare che, dietro l’avventatezza di alcuni provvedimenti, ci sia una visione approssimativa dei diritti degli altri o, peggio, un interesse privato. Ricordate Mani pulite? Mentre vorticava nelle piazze la furia delle forche e si lanciavano le monetine, nei palazzi di giustizia si costruivano nuovi equilibri politici e si consolidavano carriere destinate a condizionare per anni la vita di procure e tribunali. Oggi, comunque, il pool di Mani pulite non c’è più, anche se resistono i combattenti e reduci: da Piercamillo Davigo, in corsa per la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati, a Francesco Greco, in corsa per il vertice della procura che fu di Saverio Borrelli. Resta vivo e vegeto però quel particolarissimo senso di impunità (e di onnipotenza) che negli anni di Mani pulite finì per contagiare frange sempre più estese di magistrati. I quali - cavalcando l’onda delle emergenze: da un lato la corruzione, dall’altro lato la mafia - non solo riuscirono a cristallizzare la dilatazione dei poteri, a cominciare da quell’imbroglio giurisdizionale che è il concorso esterno, ma riuscirono pure a convogliare, sui propri uffici e sulle proprie decisioni, privilegi che alla resa dei conti li avrebbero messi al riparo da qualsiasi contestazione. Provate a chiedere oggi chi è il responsabile della tortura giudiziaria combinata in quel di Napoli a Nicola Cosentino o delle otras inquisiciones inflitte a Cocchi, a Incalza o a Palenzona. Vi risponderanno che c’è l’autonomia del magistrato e l’obbligatorietà dell’azione penale, che c’è la dialettica processuale e il libero convincimento del giudice. E se non siete ancora convinti del fatto che un procuratore o un semplice pm possa tentare ogni forzatura senza mai pagare pegno, mettetevi l’animo in pace: prima o poi vi diranno che tutto ciò che un cittadino può subire e patire dentro le mura di un Palazzo di giustizia è comunque previsto se non dal codice, certamente da un combinato disposto: che è, appunto, quel matrimonio spesso innaturale, tra due o più articoli di legge, tra due o più paragrafi di una norma, tra due o più note a margine. Se si pensa che il sistema conta in Italia 40 mila leggi e 80 mila regolamenti è facile immaginare quanti cavilli e quanti strumenti di salvaguardia possono essere costruiti su ogni comma e su ogni combinato disposto. Una giungla, indubbiamente. Che sembra fatta apposta per legittimare tutto e il contrario di tutto, per coprire abusi e soverchierie, per incoraggiare inadempienze e perdite di tempo. Può apparire disarmante ammetterlo, ma non basteranno né anni né decenni per colmare la distanza che separa la qualità della giustizia, che giudici e magistrati amministrano in nome del popolo, dalle garanzie e dai privilegi di cui godono quegli stessi giudici e quegli stessi magistrati. Per descrivere il felice mondo delle toghe bastava fino a qualche mese fa ricordare pochi dettagli: carriera assicurata sia ai meritevoli che agli asini, porte girevoli tra i palazzi di giustizia e i palazzi della politica, pensione a 72 anni e non a 70 come i comuni mortali, libertà di zampettare senza sosta tra convegni e dibattiti, facoltà di scrivere libri e andare in giro come trottole per presentarli; e se il processo non arriva mai a sentenza, chi se ne frega del processo. Ma da quando è esploso a Palermo lo scandalo delle misure di prevenzione, con le anime belle dell’antimafia che traccheggiavano con avvocati e commercialisti per spartirsi i beni confiscati alla mafia, le voci che prima erano soltanto dicerie si sono aggrumate in un dossier sul quale farebbero bene a gettare un occhio sia il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è a capo del Consiglio superiore della magistratura, sia il ministro Guardasigilli, Andrea Orlando, sempre sul punto di presentare riforme che forse avrebbero bisogno di ben altri tempi e ben altri impulsi. Perché il dossier Palermo, intestato a Silvana Saguto, che della sezione misure di prevenzione era presidente, mostra anche a chi non vuol vedere di che sale è fatto il pane dei magistrati. L’inchiesta, condotta dalla procura di Caltanissetta, è nata nel giugno dell’anno scorso per un caso fortuito, quasi per una ineluttabile coincidenza. Altrimenti nessuno si sarebbe azzardato a mettere le mani in un feudo che la presidente Saguto amministrava come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. Al banchetto partecipavano, oltre a una ristrettissima cerchia di professionisti della parcella, anche alcuni colleghi della Saguto, tra i quali l’autorevolissimo giudice Tommaso Virga che, stando sempre alle accuse formulate dai procuratori nisseni, aveva fatto in modo che il figlio Walter diventasse amministratore straordinario di un impero da 800 milioni, sequestrato alla famiglia mafiosa dei Rappa. A Silvana Saguto i pm di Caltanissetta contestano i reati di corruzione, abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità. Roba da fare tremare i polsi. Mentre a Tommaso Virga viene contestata la concussione. Ma, nonostante la pesantezza delle accuse, i due giudici rimangono tranquillamente, e per quasi due mesi, ciascuno al proprio posto: cioè nei propri uffici, con le proprie scorte, tra le stesse carte che avevano dato origine allo scandalo. Cane non mangia cane, si dirà. E in ogni caso che Dio ci guardi sempre e comunque dalla carcerazione preventiva. Ma il vero guanto di velluto, la vera solidarietà di casta, arriva qualche settimana dopo quando il Csm, chiamato a fronteggiare l’onda d’urto dello scandalo palermitano, convoca i magistrati coinvolti per le conseguenti decisioni. Bene. In attesa che l’inchiesta di Caltanissetta arrivi a sentenza definitiva, Silvana Saguto viene provvisoriamente sospesa, ma la legge e il combinato disposto consentono ai consiglieri di Palazzo dei Marescialli di graziarla sullo stipendio: glielo decurtano di un terzo e lei dovrà adattarsi a vivere, senza lavorare, con meno di quattromila euro al mese. Tommaso Virga viene invece condannato, si fa per dire, al trasferimento d’ufficio: dal tribunale di Palermo passa alla Corte di appello di Roma. Di fatto, una promozione. Il figlio Walter, del resto, lo aveva addirittura profetizzato. Quando l’inchiesta non era ancora esplosa ma già si avvertivano le prime indiscrezioni di stampa, il giovane amministratore tentava di rassicurare la moglie: "I magistrati - diceva in una telefonata puntualmente intercettata - si difendono tra loro… io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio ottomila magistrati ne difendono uno". L’imprevedibile Walter, per quanto ingenuo e fanfaronesco, aveva chiaro quello che Guardasigilli e Consiglio superiore della magistratura non avranno mai il coraggio di ammettere. E che Edgar Allan Poe, nella "Lettera rubata", fantasticamente attribuiva alla "invisibilità dell’evidenza". Anche i giudici piegati alla ragion di Stato? di Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 Avanza inesorabile il processo di omologazione che sta impoverendo l’Italia, trasformandola in un Paese in cui l’utile di pochi viene sistematicamente anteposto all’i nt eresse generale, in cui la verità è troppo spesso sacrificata sull’altare della ragion di Stato. Non è una novità, ma l’elemento nuovo e preoccupante è che questa deriva si sta diffondendo anche nella magistratura. Ultimo esempio, l’opposizione di larga parte dell’Anm all’elezione di Piercamillo Davigo alla presidenza dell’associazione. Motivo, come ha scritto ieri sul Fatto Antonella Mascali, la sua eccessiva "intransigenza". In Costituzione sta scritto che "la giustizia è amministrata in nome del popolo" e che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". Ma è ancora così, dopo una miracolosa stagione, durata poco più di un ventennio? Ovvero il virus del conformismo ha contagiato in profondo un organismo, sempre più subalterno alla politica, specie quando entra in ballo la Ragion di Stato? Sembrano lontani i tempi in cui gli uffici giudiziari sfidavano la ragion di Stato in nome della verità e della giustizia, fino al punto di bussare alle porte del Quirinale perché chiarezza fosse fatta sulla stagione delle stragi, affrontando perfino conflitti istituzionali con la più alta carica dello Stato. Come se l’esito di quel conflitto d’attribuzione, invece di stimolare una più corretta separazione dei poteri, avesse imposto la ritirata in favore del presunto "primato della politica". Oggi, nella sostanziale indifferenza di un’informazione, per lo più omologata perché più attenta ad ossequiare il potere che a denunciarne le distorsioni, anche la magistratura sembra accettare di buon grado di fare passi indietro, riconoscendosi un ruolo subalterno, lasciando che la realpolitik prevalga. Penso al caso Regeni: sembra che finalmente la Procura di Roma possa indagare con gli inquirenti egiziani, per individuare - si spera - esecutori e mandanti dell’omicidio. C’è voluto però un mese e mezzo perché si arrivasse a questa svolta, un mese e mezzo in cui l’Egitto ci ha preso in giro, ha depistato, ha provato a insabbiare, ha confezionato falsità. Un mese e mezzo perso, danni per le indagini, perché al Sisi è considerato da Renzi un alleato strategico. La ragion di Stato prima di tutto. E la magistratura non ha avuto la forza di andare oltre. Possibile che non si potesse fare prima? Altro scenario, altra brutta storia: i quattro italiani sequestrati in Libia nel luglio 2015, due dei quali, Fausto Piano e Salvatore Failla, uccisi in circostanze tutte da chiarire. Troppe le zone d’ombra, le reticenze, le contraddizioni in una vicenda in cui è evidente la mano dei servizi e da cui l’Italia esce malissimo, con due ostaggi morti e senza una versione ufficiale. Di fronte a un non Stato qual è oggi la Libia, il nostro governo si è dimostrato debole, permettendo che sui corpi di Failla e Piano venisse effettuato uno scempio, impropriamente definito autopsia, servito solo a rendere impossibile l’identificazione dell’arma usata, la distanza da cui sono stati sparati i colpi e le traiettorie dei proiettili, cioè la ricostruzione della dinamica dei fatti. Restano la rabbia e la disperazione della famiglia di Failla, la loro accusa di essere stati abbandonati, e troppe domande senza risposta che può dare solo la magistratura. A patto di andare oltre la ragion di Stato, se necessario. Senza piegarsi a compromessi. Né è accettabile che un pm nell’aula del processo Capaci-bis, come ha fatto a Caltanissetta il pm Onelio Dodero durante la sua requisitoria, ridicolizzi la tesi dei "mandanti esterni" alla mafia nella strage in cui perse la vita Giovanni Falcone, citando la Spectre e Paperinik. Forse pensava di essere spiritoso, sicuramente è stato inopportuno, fuori luogo, irrispettoso del lavoro dello stesso Falcone, che chiamò spesso in causa le "menti raffinatissime" che hanno tragicamente interagito con la mafia. In questo contesto, non basta sostenere i pochi magistrati che resistono alla deriva dell’omologazione. Per supportare quel fronte ancora ampio dell’opinione pubblica che pretende la verità a ogni costo occorre, invece, una riforma legislativa che assicuri poteri e facoltà alle vittime dei reati ed ai loro legali, oggi esclusi dalla conoscenza e dal controllo delle indagini dagli organi inquirenti, tenuti alla larga dal segreto investigativo, esattamente come gli indagati, mentre le ragioni delle vittime dovrebbero essere diversamente salvaguardate. Anche per difenderle dalle sopraffazioni della ragion di Stato. Solo così potrebbero crearsi pool investigativi autonomi dalla politica e dalle sue ragioni, e che agiscano solo in nome della Legge, della Verità e della Giustizia. Solo così si potrebbe alimentare una pressione costante dell’opinione pubblica nazionale e internazionale che solleciti la magistratura italiana a scoprire la verità e a fare giustizia. Vincendo, se necessario, anche l’insopportabile ragion di Stato. Luigi Iorio (Psi): "emergenza penitenziaria, le pene rispettino la dignità umana" avantionline.it, 18 marzo 2016 Le carceri italiane sono tra le più sovraffollate d’Europa, ben 110 carcerati ogni 100 posti disponibili, dati purtroppo risaputi tanto da non far notizia. Eppure se la questione viene messa sotto il tappeto da noi, in Europa i richiami non mancano, non solo per quanto riguarda il tema del sovraffollamento, ma anche il rispetto dei detenuti. Pochi giorni fa la Corte europea dei diritti umani ha respinto la richiesta del governo Renzi di composizione amichevole nel caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti, il processo quindi che non sarà possibile in Italia per mancanza del reato nel codice, si svolgerà in sede europea. Sull’emergenza penitenziaria è stato presentato un dossier da Luigi Iorio, responsabile diritti civili del Psi, durante la direzione del Partito. Molti i punti messi in evidenza dalle condizioni dei detenuti nel Nostro Paese, a piccoli miglioramenti dovuti all’applicazione di Riforme, per finire poi alla questione mai messa da parte di una legge sul reato di tortura. Cosa si intende esattamente per emergenza penitenziaria? "Far vivere delle persone, i detenuti in uno stato di abbandono e deterioramento fisico e morale. Far espiare loro una doppia pena: quella prevista dal codice penale e quella morale. Nell’ultimo decennio, l’aumento della popolazione penitenziaria italiana ha generato un forte sovraffollamento degli istituti di pena che ha contribuito ad un notevole deterioramento delle qualità della vita dei detenuti, già provati per le condizioni di limitata libertà. In un passato recente in una cella, dove sarebbe previsto il soggiorno di soli due detenuti, ve ne alloggiavano normalmente sei e, nel peggiore dei casi, otto". Oltre a conseguenze psicologiche cosa comporta? "Questa condizione ha favorito il proliferare di malattie, una vera e propria emergenza sanitaria anche per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere. Situazione che ha visto condannare l’Italia dalla Cedu". Dal suo report cosa emerge attualmente? Le cose sono migliorate? "Certamente sì. Ma dopo anni difficili. Al momento la popolazione carceraria è pari 52.846 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.504 posti a disposizione nei 195 carceri nazionali. I parametri della Cedu nel rapporto capienza/presenza sono rispettati in tutti gli istituti di pena del territorio nazionale. Nessun detenuto è sistemato in uno spazio inferiore ai tre metri quadri previsto dalle raccomandazioni europee, al di sotto del quale farebbe soggiornare i detenuti in uno stato di tortura (Sent. Torreggiani). Ma appunto questi criteri erano applicati in merito ad uno stato di tortura, 3 mq per detenuto resta comunque pochissimo. Tra la popolazione carceraria, la percentuale di stranieri è del 32 per cento. In Europa ci si ferma al 14 per cento. I detenuti in attesa di giudizio sono 8796 in netto miglioramento se comparato agli 11.108 al (1.12.2016). Una media quindi del 34 per cento, la media europea è il 24 per cento. I detenuti stranieri sono in ordine decrescente dei seguenti paesi: Marocco, Romania, Albania, Tunisia, Nigeria, Egitto, Algeria, Senegal, Cina ed Ecuador. Le donne rappresentano il 4,3 per cento della popolazione detenuta. Tra i nati in Italia, invece, la maggior parte proviene dalla Campania, dalla Sicilia, dalla Calabria e Puglia. Altro capitolo, quello che riguarda i minori. I detenuti presenti negli Istituti Penali per Minorenni al 28 febbraio 2015 sono 407, di cui 168 (il 41 per cento) stranieri. Tra i detenuti presenti, 175 in attesa di giudizio, vale a dire circa il 43 per cento del totale". A proposito di minori, come sono strutturate le carceri per i figli delle detenute? "È la spiacevole problematica legate alle mamme detenute. Ci sono bambini che scontano la pena insieme alle loro madri. Il numero dei detenuti sottoposti al 41 bis è pari a 725. Misura restrittiva talvolta criticata. Notizia positiva a metà, la chiusura degli (Opg), ospedali psichiatrici giudiziari istituiti in Italia a metà degli anni settanta con il fine di sostituire i vecchi manicomi criminali. Non del tutto positiva perché le Rems ancora non sono operative in Italia". Quindi si evince un netto miglioramento con il passato. A cosa è dovuto? "Il sovraffollamento carcerario degli ultimi decenni ormai sembra attenuato, a seguito di riforme che hanno drasticamente limitato l’eccessivo applicazioni di misure cautelari, e che aspettavamo da tempo. Di questo va dato merito al ministro della giustizia Andrea Orlando. Ulteriore aiuto è venuto dalla suprema Corte costituzionale che ha cassato una legge restrittiva e dannosa come la Fini-Giovanardi. Inoltre depenalizzare alcune fattispecie di reato a mero illecito amministrativo e l’esclusione di punibilità per particolare tenuità del fatto ha consentito una maggiore celerità del procedimento penale. Il giusto obiettivo, secondo le coordinate del governo, è quello di intervenire con la sanzione penale solo nei casi più gravi così da evitare inutili processi. Le importanti misure introdotte in materia penale inoltre tutelano i diritti delle persone vulnerabili. In tale prospettiva, la legislazione italiana ha già dato attuazione alla Direttiva europea sulla tutela dei diritti processuali della vittima". Quali sono seconde lei le prossime cose da fare eliminare definitivamente la questione carceri? "Intanto non abbassare la guardia sul tema, troppo spesso dimenticato e poco allettante e meri scopi elettorali. Poi ci sono una serie di cose da fare e migliorare. Anzitutto, va poi implementato il lavoro in carcere anche per poter far pagare a molti detenuti senza reddito le spese di detenzione, molto spesso a carico del contribuente, in linea con la legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario (L. 354 del 1975), che riconosce al lavoro un ruolo di primissimo piano nell’attività di recupero e risocializzazione del detenuto. Occorre abolire il reato di immigrazione clandestina e intensificare la possibilità del rimpatrio dei detenuti stranieri nel proprio Paese di origine. Serve poi sollecitare le regioni e i comuni capoluogo a nominare più celermente i garanti dei detenuti; prevedere delle attività formative all’interno delle carceri che offrano l’opportunità di acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro: si pensi semplicemente, ad esempio, all’insegnamento della lingua inglese o dell’informatica. Dal punto di vista dell’esecuzione della pena occorre porre l’attenzione sulla carenza di magistrati di sorveglianza, tale carenza limita i diritti dei detenuti e le loro istanze, materia di pertinenza del Csm, implementare la vigilanza dinamica, colloqui educativi e migliorare ancor di più le condizioni di vita dei detenuti come affermato nei motivi della sentenza "Torreggiani" della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del gennaio 2013. Suggerimenti questi, già evidenziati dal 2006 dalle Epr. Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, informata ai valori costituzionali e in linea con le risoluzioni internazionali migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di soffrire una doppia pena: quella sociale che si somma a quella penale. Infine, alla luce della stretta sulla legge Pinto, andrebbe finalmente approvata una legge in merito al reato di tortura". Mafie senza freni sui social network di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 Leggete questa frase: "Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel pascolo palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo". E ora leggete quest’altra: "Come potrà testimoniare qualsiasi investigatore i criminali si stanno tutti trasferendo sul web e, in particolare, su Whatsapp, Skype, Facebook e altri numerosi social network. Certo, ci sono in Italia le norme del codice di procedura penale che consentono le intercettazioni di flussi telematici ma il problema è noto: i gestori delle reti di comunicazione via pc (Google, Facebook, ecc) non sono italiani ma stranieri (spesso statunitensi) e, quindi, per attivare tali intercettazioni telematiche, è necessaria la rogatoria internazionale. E, nonostante l’ampia ed apprezzabile disponibilità mostrata dalle Autorità estere, specie statunitensi, è necessario comunque fare i conti con ordinamenti giuridici diversi, che hanno diversi criteri di valutazione della prova ed istituti ancora diversi, che rendono complessa e talora impediscono l’attivazione del servizio. E ciò a tacere dei tempi, che nonostante, la disponibilità delle Autorità straniere, sono ovviamente ben più lunghi di quelli dell’attivazione di una intercettazione nella quale non si deve percorrere la via rogatoriale". Il "pascolo" globalizzato - Sono passati esattamente 34 anni dalla prima denuncia - lanciata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 10 agosto 1982 in un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca di Repubblica appena 25 giorni prima di essere ucciso con la moglie da Cosa nostra - all’ultima analisi, messa nero su bianco nell’ultima relazione 2015 della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa). Cambiando una sola frase - resto d’Italia con "resto del mondo" - ecco riaffacciarsi lo spettro di una guerra alla globalizzazione dell’economia criminale mafiosa combattuta, come accadde del resto al prefetto Dalla Chiesa, con le cerbottane, per quanto evolute da tre decadi di esperienza e innovazione, anziché con l’armonizzazione giuridica e la globalizzazione telematica. Ad aggravare drammaticamente il quadro c’è il fatto che lo stesso, identico ritardo, viene scontato dalla lotta al terrorismo internazionale, a partire da quello di fede islamica fondamentalista. Non è un caso che l’Fbi, dopo la strage terroristica del 2 dicembre 2015 all’Inland regional center di San Bernardino (California) in cui persero la vita 16 persone (inclusi i due attentatori di sospette simpatie fondamentaliste islamiche) e rimasero ferite 23 persone, ribadì la necessità di avere chiavi di accesso al mondo dei social network. Il Federal Bureau Investigation, in realtà, sollevò la questione già prima, con un discorso del direttore James B. Comey il 16 ottobre 2014 presso l’associazione no profit di Washington Brookings Institution, nel quale disse per la prima volta che "la tecnologia è diventata lo strumento scelto da alcune persone molto pericolose e purtroppo la legge non ha tenuto il passo con la tecnologia". Due giudizi (e due anni) per 30 euro di multa di Luigi Ferrarella Sette-Corriere della Sera, 18 marzo 2016 Proprio sicuri che, rispetto alla lentezza della giustizia, siamo tutti "innocenti"? Storia di una contravvenzione giusta e di una notifica imprecisa. Tutti a lamentarsi della giustizia lenta, e non senza motivo. Ma sicuri che, rispetto a questo flagello, si sia tutti "innocenti", e non invece a volte anche un po’ "colpevoli" di intasare inutilmente con cause superflue le tubature giudiziarie già ingorgate dalle cause serie? A gironzolare per i tribunali, infatti, sembra che siano tutte "orfane" una montagna di cause che, anche solo raccontarle, quasi non si crederebbe possano ad esempio aver impegnato due gradi di giudizio e due anni di lavoro di vigili, toghe e cancellieri non per una multa di meno di 30 euro per divieto di sosta, ma addirittura per chi dovesse pagare le spese di questa lite su meno di 30 euro per una multa giusta, verbalizzata in modo esatto la prima volta, ma notificata con imprecisione la seconda volta. Correttamente la contravvenzione viene elevata dai vigili in una certa via del centro di Milano il pomeriggio del 29 novembre 2014, "lato numeri dispari", per "sosta nella strade ove il veicolo costituisce grave intralcio, come da segnaletica". E correttamente la polizia locale mette la multa sul parabrezza dell’auto parcheggiata in infrazione. Ma quando l’automobilista (come consentitogli dalla legge) nei 5 giorni successivi sceglie di non pagare la contravvenzione di 28 euro e 70 centesimi, il Comune nel notificargli il verbale di contestazione per una somma lievitata a 41 euro il 5 febbraio 2015 dimentica di indicare il numero civico all’altezza del quale l’auto era stata parcheggiata, numero - si badi bene - che era stato comunque riportato con esattezza nella multa lasciata sul parabrezza. L’automobilista, che è un avvocato e ha dunque il colpo d’occhio per le formalità indispensabili in questi moduli, coglie la palla al balzo e propone ricorso con l’unico motivo di questa mancata indicazione del numero civico, argomentando che, "poiché la via risulta lunga alcuni chilometri (…) non è dato conoscere il luogo esatto ove sarebbe stata commessa la violazione, così determinandosi grave pregiudizio del diritto di difesa dell’obbligato". Si va così davanti alla competente autorità giudiziaria, che in primo grado sulle multe è il giudice di pace. Il quale nella primavera 2015 annulla la contravvenzione ritenendo che le mancate indicazioni del numero civico, del lato del marciapiede (benché presente nell’iniziale verbale) e della direzione di marcia (peraltro dato non necessario nel caso di divieto di sosta) abbiano compromesso le garanzie di difesa. Vince l’automobilista. Ma non gli basta. Vuole di più e impugna davanti al Tribunale civile la sentenza di primo grado che pure gli ha dato ragione. Perché? Perché il giudice di pace nella sentenza aveva compensato le spese di lite tra automobilista vincente e Comune perdente. Eh no: l’automobilista brandisce l’articolo di un decreto legge entrato in vigore proprio appena prima del deposito il 4 marzo 2015 del ricorso dell’automobilista. E che diceva questa norma? Che "se vi è soccombenza reciproca, o nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero". Altrimenti no. Ma nel caso in questione c’era appunto stata una delle due parti che aveva perso totalmente, il Comune. E quindi, in assenza di uno degli altri presupposti per compensare le spese del giudizio di primo grado, l’automobilista va in secondo grado davanti al Tribunale civile osservando che il giudice di pace avrebbe dovuto porre interamente a carico del Comune le spese di lite affrontate: 197 euro (tra spese per la fase di studio, fase introduttiva, fase decisionale) per una multa da 28 euro. Sconsolata postilla. Il Tribunale civile prende atto che la ricostruzione normativa è esatta e si rassegna a dare ragione all’automobilista, non rinunciando però la giudice Anna Cattaneo a una sconsolata postilla d’ordine generale: l’appello va accolto "malgrado si condividano le considerazioni svolte dal Comune e malgrado appaia irragionevole che una multa di 28,70 euro, comminata regolarmente, ma notificata con una irregolarità formale del verbale di accertamento, possa dar luogo a ben due giudizi innanzi alla autorità giudiziaria con importante dispendio di tempi e di risorse pubbliche". Corte Ue: lo Stato può mandare un richiedente asilo in Paesi sicuri di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 In base al regolamento di Dublino sul diritto di asilo, uno stato membro dell’Ue può inviare un richiedente protezione internazionale in un paese terzo sicuro, indipendentemente dal fatto che si tratti dello Stato membro competente per l’esame della domanda o di un altro Stato membro. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea, esprimendosi sul caso riguardante un cittadino pakistano, Shiraz Baig Mirza, entrato illegalmente in Ungheria dalla Serbia nel 2015. Nello stesso anno Mirza ha chiesto protezione internazionale in Ungheria, per poi essere fermato in Repubblica ceca mentre tentava di raggiungere l’Austria. Le autorità ceche lo hanno riconsegnato a quelle ungheresi, alle quali Mirza ha avanzata una seconda domanda di protezione internazionale, rifiutata. Mirza è stato rimandato in Serbia in quanto "paese terzo sicuro". La Corte di giustizia ha chiarito che "il diritto di inviare un richiedente protezione internazionale in un paese terzo sicuro può essere esercitato da uno Stato membro dopo che quest’ultimo abbia dichiarato di essere competente, in applicazione del regolamento Dublino, per l’esame di domanda di protezione internazionale presentata da un richiedente". Truffa aggravata per le quote latte di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 Corte di Cassazione - Sezione sesta penale - Sentenza 17 marzo 2016 n. 11441. La condanna per truffa aggravata del legale rappresentante e dell’amministratore della cooperativa coinvolta nella vicenda delle quote latte non fa scattare il ne bis in idem nei confronti degli imputati già "puniti" con la sanzione amministrativa". Perché sia violato l’articolo 4 del protocollo n.7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è infatti, necessario che alla base della contestazione ci siano i medesimi fatti, circostanza che, nel caso esaminato, non ricorre. Inutilmente i ricorrenti si sono appellati a quanto stabilito nella sentenza Grande Stevens rispetto al divieto di giudicare e punire due volte, quando la sanzione è solo apparentemente ammnistrativa ma sostanzialmente penale. Con la sentenza 11441 del 17 marzo, la Suprema corte, nel confermare la condanna per truffa aggravata, precisa che, alla base di questa, ci sono gli elementi dell’artificio e del raggiro riscontrati nelle condotte dei due ricorrenti che avrebbero costituito le società fittizie per farle figurare quali "primi acquirenti" e superare così la normativa comunitaria e nazionale dettata in materia di produzione del latte eccedente le quote riservate ai singoli produttori. Diversa la fattispecie che ha sorretto la sanzione amministrativa - sia pecuniaria,sia interdittiva della revoca della qualifica di "primo acquirente" - giustificata dal trattenimento, a titolo di prelievo supplementare delle somme che non sono state versate all’Agenzia per le erogazioni all’agricoltura e all’Erario, per le quote di latte in esubero. Il criterio della "non identità" precisa la Cassazione è sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità riguardo alla finalità dell’intervento sanzionatorio "previa individuazione degli interessi sottesi alle previsioni a confronto: integrità del patrimonio e libera formazione del consenso negoziale dell’offeso, da un canto; funzionamento, anche per la complessa fase dei controlli, della produzione lattiero-casearia, con sanzionabilità delle violazioni, anche solo formali, dall’altro". La Cassazione conferma la condanna affermando che non è configurabile, come sostenevano i ricorrenti, il rapporto di specialità tra il delitto di truffa aggravata e la violazione amministrativa per il mancato obbligo di trattenuta e di versamento mensile delle somme dovute relative ai produttori che avessero superato il tetto delle quote. Il trust non evita la sanzione interdittiva in via cautelare per corruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 17 marzo 2016 n. 11209. La costituzione di un trust e di un fondo di accantonamento non conducono alla disapplicazione della sanzione interdittiva applicata in via cautelare a una società indagata per corruzione turbativa d’asta. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 11209 della Seconda sezione penale depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato dal pubblico ministero contro la decisione del tribunale con la quale era stata disapplicata la misura dell’interdizione alla contrattazione con la pubblica amministrazione. Il tribunale aveva ritenuto che la scelta della società (istituzione di un trust al quale va aggiunta la previsione in bilancio di un fondo di accantonamento nella forma di riserva legale certificata dal collegio sindacale) è idonea a soddisfare le condizioni previste dal decreto 231: dimostra un’azione efficace diretta a risarcire il danno e a eliminare le conseguenze dannose del reato. Per la Cassazione però in questo modo si approva un meccanismo che permette di rinviare il risarcimento del danno alla fine del giudizio penale. Inoltre a venire contraddetta è la stessa finalità preventiva della disciplina sulla responsabilità degli enti. Una disciplina che, osserva la Corte, punta "a configurare sanzioni e misure cautelari per prevenire la commissione di reati attraverso la strutturazione regolativa dell’organizzazione capace di controllare, da sè, sè stessa". Da una parte prevenzione dunque; dall’altra, eliminazione delle conseguenze dell’illecito. Di qui la valutazione di inadempimento dell’obbligo di risarcimento per la semplice costituzione di un trust, uno strumento condizionato al passaggio in giudicato della sentenza di condanna nel giudizio penale. Il decreto, invece, che l’ente anticipi il risarcimento del danno che la società potrebbe essere costretta a pagare e a nulla vale sostenere, come pure aveva fatto il tribunale che non è ancora stata provata l’esistenza del danno ed è incerto lo stesso numero preciso dei danneggiati. Elementi di incertezza che però sono in una certa misura possibile se la ragione della norma è quella di attestare la piena "conversione" dell’ente, tanto da condurre non solo alla revoca della misura interdittiva disposta in via cautelare, ma anche alla disposizione della solo sanzione pecuniaria in caso di successiva condanna. Importante è comunque la comunicazione con i danneggiato o, almeno, con una parte di questi. Cosa che nel caso esaminato non era invece avvenuta. Si era invece sviluppata un’iniziativa unilaterale senza nessuna forma di collaborazione con i danneggiati: non può infatti, sottolinea la sentenza, essere considerata sufficiente la spedizione di una lettera in cui si dà atto della costituzione di un trust, senza nessun serio confronto con i danneggiati. La fusione non evita la sanzione per tangenti alla società incorporata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 17 marzo 2016 n. 11442. La fusione non salva la società incorporante dalla sanzione per corruzione internazionale. È stata così confermata la misura amministrativa pecuniaria di 600mila euro e la confisca di 24 milioni a carico di Saipem. La soma rappresenta la quota nei 182 milioni di tangenti pagate dal consorzio internazionale Tskj del quale Snamprogetti Netherlands Bv (incorporata in Saipem nel 2008) faceva parte. Sin dal momento della costituzione della joint venture, nel 1994, e sino al 20004, secondo i giudici, era cominciata l’attività corruttiva indirizzata ad ammorbidire pubblici ufficiali nigeriani, dai vertici (i presiedenti della Repubblica di Nigeria succedutisi nel tempo) ad altri di rango minore. Obiettivo? Ottenere contratti per un valore complessivo di 6 miliardi di dollari per la realizzazione di un impianto di liquefazione del gas naturale nell’area di Bonny Island. Tra gli argomenti sui quali si è concentrata particolarmente la difesa c’è stata l’interpretazione data dai giudici di merito all’articolo 29 del decreto legislativo 231 del 2001, in base alla quale si sarebbe operata un’illegittima estensione della responsabilità amministrativa al soggetto giuridico diverso che incorpora la società, infrangendo in questo modo il principio di personalità della responsabilità penale. Nell’affrontare la questione, la Cassazione ha sottolineato come in sede europea sia stata più volte evidenziata l’effettività della risposta sanzionatoria che deve essere in grado di superare condotte elusive, tanto più pericolose sul fronte delle persone giuridiche "là dove siano ritenuti sufficienti una mera riorganizzazione o la modifica della denominazione sociale per ostacolare la repressione di un illecito". La Corte di giustizia Ue ha così richiamato gli Stati, proprio nel caso di fusione societaria, ad assicurare l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’ente che ha incorporato quello che ha commesso l’infrazione. In caso contrario le imprese potrebbero sfuggire alle sanzioni per il solo fatto che la loro identità è stata modificata per effetto di un’operazione societaria straordinaria. Va evitata quindi un’applicazione eccessivamente "formalistica" del principio della responsabilità personale. nei confronti delle persone giuridiche. Quanto alla disciplina italiana, la sentenza della Cassazione mette in evidenza come il decreto 231 (approvato aderendo a convenzioni internazionali) è indirizzato a introdurre sanzioni effettive per una serie di reati che nel tempo è andata via via allargandosi. Prevedere un effetto estintivo in caso di trasformazione dell’ente dovuta alla libera iniziativa degli interessati avrebbe determinato, osserva la Cassazione, una evidente inadeguatezza delle sanzioni inflitte a rendere effettiva l’osservanza degli obblighi assunti in sede internazionale. È vero peraltro che il diritto societario non si è preoccupato di dare una definizione della fusione, autorizzando in questo modo una pluralità di interpretazioni. Tuttavia, con la riforma Vietti del 2003, ha espressamente introdotto la previsione della prosecuzione di tutti i precedenti rapporti da parte dell’incorporante o della società nata dalla fusione. La società incorporante, Saipem, non può così scindere la sua responsabilità da quella di Snam Progetti. In caso di fusione comunque, ricorda la Cassazione, la due diligence che deve accompagnare l’operazione offre alla società incorporante le garanzie per essere pienamente consapevole dei rischi nell’acquisizione di una società sotto processo per illeciti amministrativi. La Cassazione richiama poi la valutazione di merito sui modelli organizzativi adottati: puro formalismo cartolare, del tutto inadatto a scongiurare l’attività corruttiva, condotta da intermediari della società, sospesi solo dopo le indagini penali. Lombardia: il ritorno di Pagano, lo storico direttore di San Vittore diventa Provveditore di Oriana Liso La Repubblica, 18 marzo 2016 Luigi Pagano torna in servizio a Milano. È stato, per tanti anni, il direttore di San Vittore e, poi, il provveditore regionale alle carceri, prima di essere promosso (nel 2012) vice capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Roma. Ma, dopo quattro anni, Pagano torna nel suo ufficio vicino piazza Filangieri: per adesso come reggente, ma a giugno la sua nomina, e quindi il suo ritorno in città, potrebbe diventare stabile. Va in pensione, infatti, l’attuale provveditore Aldo Fabozzi - arrivato a Milano per sostituire Pagano proprio nel 2012 - e lo storico capo di San Vittore (la prima nomina in città è del 1989) che con Milano ha sempre avuto un rapporto molto stretto, prenderà il suo posto, in via provvisoria, fino a quando da Roma non arriverà una decisione definitiva. Napoletano di origine, 62 anni ad aprile, Pagano ha vissuto molti dei momenti più delicati di Milano, tra sovraffollamenti record e gli anni delle carcerazioni eccellenti, da Mani pulite ai boss mafiosi. Per lui, dal ministero della Giustizia, è arrivata una doppia nomina: dal primo luglio sarà anche provveditore delle carceri di Piemonte e Liguria, incarico che è stato da poco unificato. "Emozionato e felice", si definisce Pagano, che a Milano ha anche casa, proprio perché è qui che ha svolto la maggior parte della sua carriera e, si capisce, vorrebbe concluderla, fra qualche anno. E dove torna avendo visto, dall’osservatorio di un incarico nazionale, in questi anni, molti cambiamenti: "Anche da Roma ho notato i progressi di tutti gli istituti, grazie all’impegno del provveditore Fabozzi e di tutto il personale. Non soltanto Bollate e Opera, ma anche San Vittore ha fatto grandi passi avanti. Tanto dipende anche dalla rete del volontariato milanese, che è sempre più attiva", spiega. Adesso bisognerà aspettare le decisioni ufficiali del ministero: Fabozzi ha iniziato il periodo di congedo che lo porterà alla pensione, ma ci vorranno un paio di mesi prima che tutte le caselle vadano a posto, visto che le nomine da fare, in tutta Italia, sono diverse. E se Pagano torna a Milano nel suo vecchio ufficio, a Roma si trasferirà, molto probabilmente, Lucia Castellano: l’ex direttrice di Bollate, in questi anni consigliere regionale del Patto civico, è stata appena nominata dirigente dell’amministrazione penitenziaria. Per questo ha lasciato la sua carica in Regione pochi giorni fa. Roma: i detenuti di Rebibbia operatori call center dell’Ospedale "Bambino Gesù" insalutenews.it, 18 marzo 2016 Confermata per il quinto anno la convenzione per l’inserimento lavorativo dei detenuti e la gestione delle prenotazioni sanitarie. La presidente Enoc incontra gli operatori del Cup. "Con questo lavoro ho scoperto il mio lato umano, quello che non pensavo di possedere". A parlare è un detenuto del carcere di Rebibbia, uno degli operatori del call center che l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha attivato presso la Casa Circondariale romana nel settembre 2011 per la gestione delle prenotazioni sanitarie. La convenzione tra Ospedale, Istituto penitenziario e Cooperativa sociale "e-Team" è stata recentemente confermata per il quinto anno consecutivo. Per l’occasione, la presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, ha incontrato i detenuti impegnati in questa attività. Ogni giorno al Centro Unico Prenotazioni dell’Ospedale (Cup) arrivano centinaia di telefonate, una media di 20 mila richieste al mese, per un totale di prestazioni ambulatoriali che ogni anno supera il milione. Oltre il 30% di questa mole di prenotazioni viene gestito proprio nell’istituto penitenziario di Rebibbia. Il servizio è svolto da un gruppo di detenuti selezionati con una serie di colloqui di idoneità e preparati al lavoro dal personale del Bambino Gesù: da quasi 5 anni accolgono le telefonate dei genitori che vogliono prenotare una visita per i propri figli, verificano l’impegnativa, fissano l’appuntamento. L’obiettivo della convenzione è offrire un’opportunità professionale retribuita a detenuti che altrimenti rischierebbero di restare esclusi dal tessuto produttivo e ottimizzare le prestazioni del CUP dell’Ospedale Pediatrico della Santa Sede. Dal 2011 ad oggi sono stati formati e impiegati circa 30 reclusi. Attualmente il servizio è affidato a 10 detenuti (9 operatori e un coordinatore) che operano all’interno del carcere attraverso collegamenti telematici forniti dall’Ospedale insieme al supporto tecnico per il funzionamento dei programmi utilizzati. "L’impegno dell’Ospedale è declinato su diversi fronti sociali oltre a quello profuso nella ricerca e nella cura dei bambini - ha affermato la presidente Mariella Enoc - La collaborazione tra Bambino Gesù e carcere di Rebibbia è un esempio concreto: da un lato offre a detenuti molto motivati e competenti una valida possibilità di reinserimento lavorativo, dall’altro permette all’Ospedale di accrescere la qualità dei servizi offerti ai piccoli pazienti e alle loro famiglie". Firenze: Frescobaldi "sociale", dopo il vino del carcere di Gorgona l’olio di Sollicciano di Silvia Pieraccini Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 Dopo il vino fatto dai carcerati dell’isola di Gorgona, Frescobaldi dà il via a un secondo progetto agricolo di stampo sociale: un olio extravergine di oliva, realizzato dai detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano che in questo modo imparano un mestiere. L’azienda toscana ha messo a disposizione i propri agronomi e il frantoio della tenuta Castello di Nipozzano, a pochi chilometri da Firenze, dove sono frante le olive prodotte negli oliveti interni al comprensorio del carcere. Il risultato è l’Olio degli Incontri, 300 bottiglie (da 250 ml ciascuna) prodotte in questo primo anno, arricchite da etichetta ideata dallo studio Doni, in parte rimaste a disposizione del carcere, in parte donate a personalità tra cui papa Francesco, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premier Matteo Renzi; le restanti si possono acquistare al prezzo di 19 euro contattando clienti.italia@frescobaldi.it. L’olio dopo il vino di Gorgona - Il nome dell’olio deriva dall’omonimo giardino, costruito da Giovanni Michelucci per i momenti di incontro dei detenuti con le loro famiglie, e in particolare con i bambini. "L’intento di questo progetto - spiega il presidente Lamberto Frescobaldi - è dare ai detenuti una possibilità di reinserimento lavorativo una volta usciti dal carcere. La nostra speranza è che non rimanga un caso isolato, ma possa diventare una best practice italiana da esportare nel mondo, iniziata in Toscana". Il primo passo è stato appunto il progetto Gorgona, nato nel 2012 dalla collaborazione tra Frescobaldi e la direzione dell’unica isola-carcere rimasta in Italia: qui l’azienda toscana ha impiantato due ettari di vigneto e dato la possibilità ai detenuti di apprendere le tecniche di viticoltura e vinificazione, realizzando il bianco Gorgona a base di vermentino e ansonica. Il logo perde il titolo - Il progetto di Frescobaldi nel sociale si affianca a quello nell’arte (con Artisti per Frescobaldi, sfida fra tre artisti contemporanei ispirati dalla bellezza delle tenute della casa vinicola) e, naturalmente, allo storico business del vino e dell’olio, espressione dei diversi territori: sei tenute in Toscana ora riunite sotto il nuovo logo Frescobaldi (dal quale scompare il titolo "Marchesi"), non più accompagnato da "700 anni di storia" ma dal pay off "Cultivating Toscana diversity" per essere più vicino al consumatore e ancora più legato alla regione d’origine della famiglia. Bari: dalla periferia un esempio di solidarietà e accoglienza, a Loseto nasce Casa Freedom di Grazia Rizzi baritoday.it, 18 marzo 2016 La struttura, destinata ad ospitare detenuti in permesso premio, nasce nella canonica della chiesa di San Giorgio ed è il frutto di un lavoro di rete che ha coinvolto più realtà del territorio. Un progetto fortemente sostenuto dalla comunità parrocchiale, che ha contribuito in maniera concreta alla sua realizzazione. Già in passato la vecchia canonica della parrocchia San Giorgio Martire, nel borgo antico di Loseto, aveva aperto le sue porte per ospitare famiglie e persone in difficoltà. Ma quella casa, rimessa a nuovo e arredata con cura grazie al contributo e all’impegno di volontari e parrocchiani, in questi mesi si è trasformata in qualcosa di più. Un luogo di accoglienza, ma anche un simbolo di speranza, "un’opportunità di riscatto". È qui infatti, nella grande canonica di questo quartiere di periferia, che nasce Casa Freedom, un alloggio per i detenuti in permesso premio, che nell’impossibilità di disporre di un’abitazione - perché stranieri o lontani da casa - potranno qui incontrare le proprie famiglie e trascorrervi del tempo. Una realtà del tutto nuova, frutto da un lavoro di rete che ha coinvolto il Servizio di Pastorale Carceraria dei Frati Minori di Puglia e Molise, la Caritas Diocesana, la Cooperativa Maieutica, l’associazione Famiglia per tutti e la comunità parrocchiale del ‘Salvatorè e di San Giorgio Martire di Loseto, con il patrocinio del Garante dei detenuti e dei minori, dell’assessorato al Welfare del Comune di Bari e della Città metropolitana. Un’opera, quella di Casa Freedom, simbolo di "una periferia che si fa grembo" e che "non è solo degrado", di un quartiere che "desidera generare riscatto sociale", ha affermato Don Lino Modesto, parroco di Loseto, nel corso di un incontro per le presentazione della struttura, che sarà inaugurata ufficialmente sabato prossimo, 19 marzo, alla presenza dell’Arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Cacucci. "Un’opera segno", l’ha definita Don Vito Piccinonna, direttore della Caritas Diocesana di Bari-Bitonto, richiamando l’impegno di tutte le comunità parrocchiali presenti sul territorio, mentre don Carlo Cinquepalmi, direttore Diocesano Ufficio Comunicazioni Sociali, citando le parole di Papa Francesco ha ricordato come lo stesso pontefice abbia più volte esortato le comunità a compiere opere concrete di misericordia. Padre Mimmo Scardigno, del Servizio di Pastorale Carceraria Frati Minori di Puglia e Molise ha ricordato anche la figura di don Tonino Bello, che ha ispirato l’intero percorso e al quale è intitolato il Centro di sostegno alla genitorialità che rappresenta l’altra colonna del progetto, denominato Convivialità delle differenze, mutuando un’espressione utilizzata proprio dal vescovo di Molfetta. "Casa Freedom - ha commentato l’assessore comunale al Welfare Francesca Bottalico - è un servizio innovativo, nato con l’obiettivo di mettere al centro la persona, la famiglia e i legami e con la consapevolezza della responsabilità che ciascuno di noi che lavora nel mondo del welfare ha nei confronti di vive ai margini o cerca un possibile riscatto". E alla centralità dei "bisogni delle persone detenute" ha fatto riferimento anche Rosy Paparella, Garante dei diritti dei minori, parlando del carcere come esperienza che crea "una frattura delle relazioni, altera gli equilibri di una famiglia", e di Casa Freedom come uno strumento per dare a chi vive questa difficile esperienza "la possibilità di ricostruire un modo di stare insieme nella quotidianità". Pietro Rossi, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, ha invece ribadito l’importanza di coinvolgere le istituzioni nel supportare le necessità della struttura, che non possono essere affidate solo all’impegno della comunità parrocchiale e dei volontari. All’incontro ha partecipato anche la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bari, Maria Giuseppina D’Addetta, che ha rivolto il suo ringraziamento alla comunità di Loseto, per aver reso possibile, con il suo impegno, la realizzazione di una struttura "che la magistratura di sorveglianza richiedeva da circa vent’anni" e che "è sempre mancata". D’Addetta ha ricordato l’importanza di un’opera simile, per permettere ai detenuti di vivere momenti di intimità familiare, insieme al coniuge e ai figli, evitando così ai bambini più piccoli l’esperienza talvolta traumatica della visita in carcere. Allo stesso tempo, ha sottolineato la presidente del Tribunale di sorveglianza, la concessione di un permesso premio "è una prova, un atto di fiducia per il detenuto" che dovrà impegnarsi a rispettare la struttura e la comunità che lo ospiteranno. Reggio Calabria: progetto "La bellezza salverà il mondo", mosaici in carcere Strill.it, 18 marzo 2016 Un progetto di grande rilevanza sociale che riguarda la riabilitazione civica e lavorativa dei detenuti della Casa Circondariale di Reggio Calabria. L’iniziativa, promossa dalla Consigliera di Parità della Provincia di Reggio Calabria Daniela De Blasio e resa possibile grazie alla stretta collaborazione con la Direttrice della Casa Circondariale di Reggio Calabria Maria Carmela Longo, ha visto il coinvolgimento dei detenuti nella realizzazione di mosaici con materiale di risulta raffiguranti gli originali manufatti che si trovano a Kaulon e nella Villa Romana di Casignana. Le fedeli riproduzioni artistiche saranno presentate al pubblico il 21 marzo 2016 alle ore 10:30 presso la Sala Monsignor Ferro del Palazzo della Provincia di Reggio Calabria. La mostra delle opere rappresenterà anche l’occasione per discutere sul sistema riabilitativo dei detenuti, spesso, non considerato importante o essenziale poiché il carcere in Italia è visto soltanto come un ambiente destinato all’espiazione della pena mediante la sola reclusione e non come un istituto in cui ricrearsi una diversa identità sociale attraverso il lavoro che può far diventare il detenuto una vera e propria risorsa per il territorio e, soprattutto, può rappresentare l’occasione per iniziare una nuova vita. All’evento parteciperanno il Presidente della Provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa, il Sindaco della Città di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, l’Assessore Provinciale alla Cultura ed alla Legalità, Eduardo Lamberti Castronuovo, il Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, Luciano Gerardis. Dopo l’apertura dei lavori affidata alla Consigliera di Parità Daniela De Blasio e alla Direttrice della Casa Circondariale di Reggio Calabria Maria Carmela Longo, relazioneranno il professore Daniele Castrizio dell’Università di Messina, il Direttore del Museo Nazionale della Magna Grecia Carmelo Malacrino, la Direttrice del Museo Archeologico di Locri e Kaulon Rossella Agostino, il funzionario della Soprintendenza Archeologica della Calabria Alfredo Ruga, la rappresentante dell’Associazione Studio Arte Simona Lanzoni e il Direttore dell’Area Pedagogica Educativa della Casa Circondariale di Reggio Calabria Emilio Campolo. L’incontro sarà moderato da Paola Carbone, coordinatrice del progetto. L’incontro è patrocinato dalla Provincia di Reggio Calabria, dal Comune di Reggio Calabria, dal Ministero della Giustizia Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. di Daniela De Blasio Consigliera di Parità della Provincia di Reggio Calabria Spoleto (Pg): aperta la Porta santa nel carcere, il vescovo incontra i detenuti del 41bis umbria24.it, 18 marzo 2016 Il Giubileo entra nel carcere di Maiano dopo serie di incontri tra Boccardo e reclusi, aperta la Porta santa. Ergastolano: "Siamo prigionieri ma non soli, affamati della parola di Dio". "Siamo prigionieri, ma non siamo soli. Il cuore di Gesù batte con noi dietro le sbarre". Così un ergastolano del carcere di Maiano ha accolto, a nome di tutti i detenuti in regime di 41 bis, l’arcivescovo di Spoleto-Norcia Renato Boccardo che nella casa di reclusione di Spoleto ha aperto la Porta santa della misericordia, individuata in quella che dal corridoio porta alla cappella del penitenziario. Il Giubileo entra nel carcere di Maiano La celebrazione giubilare è solo l’ultima della serie di visite che negli ultimi quindici giorni il presule ha compiuto nell’istituto di pena, dove in quattro occasioni ha incontrato i reclusi sottoposti al regime di carcere duro. Da loro è infatti iniziato il percorso per la misericordia che prima della fine dell’Anno santo verrà compiuto anche dagli altri detenuti. A officiare la santa messa il presule affiancato dal cappellano, monsignor Eugenio Bartoli che ha preparato la liturgia proprio coi condannati che stanno scontando la pena a Maiano. Vescovo coi detenuti del 41 bis La prima lettura della liturgia, tratta dal libro del profeta Daniele, presentava Sadrac, Mesac e Abdènego messi in una fornace ardente dal re Nabucodònosor in quanto colpevoli di non servire i suoi dei. Sui tre ragazzi scese l’angelo del Signore che soffiò dentro la fornace e il fuoco non fece loro del male. "Sadrac, Mesac e Abdènego - ha detto l’arcivescovo Boccardo - sono stati fedeli al loro Dio e lui li ha protetti. Ciò significa che Dio si prende sempre cura dei suoi figli, anche se a volte il male e il peccato deturpano in noi la sua immagine". "Pregate per chi avete ferito con le vostre azioni". Data lettura anche del Vangelo di Giovanni che, invece, invitava a rimanere nella parola di Gesù e conoscere così la verità, che farà liberi: "È importante - ha affermato monsignor Boccardo - fare verità su noi stessi, riscoprendo quella componente di bene e di desiderio di una vita piena che si può talvolta assopire ma mai cancellare definitivamente. Facendo leva su questa parte buona di noi - ha proseguito - possiamo gustare una libertà interiore che nessuna sbarra può limitare". Nelle preghiere dei fedeli l’arcivescovo ha invitato i detenuti a presentare a Dio misericordioso i familiari "che soffrono con voi la separazione" e quelle persone "che sono state ferite e soffrono a causa del vostro agire". "Noi segnati dal fine pena mai affamati della parola di Dio" Al termine della celebrazione il presule ha consegnato a tutti un’immaginetta del volto misericordioso di Cristo (quello benedicente del Solsterno posto sulla facciata della Cattedrale di Spoleto), scelto come immagine simbolo del Giubileo nella Chiesa spoletana-nursina. "Oggi con la presenza del vescovo tra noi - ha detto l’ergastolano che ha fatto il saluto iniziale - Gesù è venuto e ha alleviato il nostro fardello. Nonostante la nostra vita sia segnata da una fine pena mai, siamo comunque affamati della parola di Dio, desiderosi di spezzare le catene della schiavitù del male, convinti che non bisogna smettere di sognare e di sperare". Chieti: il cantautore e chitarrista Alessandro Nosenzo si esibisce in carcere Il Centro, 18 marzo 2016 Lunedì 21 marzo alle ore 14.00 Alessandro Nosenzo, l’eclettico cantautore e chitarrista pescarese, si esibisce in concerto live al Carcere di Chieti. Canterà ai detenuti con i suoni avvolgenti della sua musica originale i brani del suo nuovo E.P. "Io vengo dal sud". Il giovane artista di "da Rancitelli alla musica" ha deciso di offrire il concerto ai detenuti del carcere di Chieti, raccogliendo l’invito del direttore della Casa Circondariale dott.ssa Giuseppina Ruggero, del Comandante dott.ssa Alessandra Costantini e del Capo Area Educativa dott.ssa Stefania Basilisco. La Direzione della Casa Circondariale crede che il concerto e la presenza dell’artista in carcere possa costituire un’ulteriore occasione di presentare un esempio positivo, di chi canta dei valori in cui crede e "riscatta" sé stesso, emergendo dalla normale fragilità, grazie alla voglia di seguire i propri sogni ed i propri talenti. L’artista dotato di una sensibilità musicale vasta e variegata, capace di spingere il pubblico verso emozioni sensoriali eccezionali, canterà e suonerà da solo con la sua chitarra sul palco del Teatro della Casa Circondariale di Chieti e, al termine del concerto, si unirà allo staff della Casa Circondariale per un contest di incontro con i detenuti che assisteranno, come avviene ormai nella maggior parte delle attività trattamentali proposte ai detenuti, in forma integrata (maschi e femmine). Il musicista Alessandro Nosenzo nell’accogliere l’invito ha detto di essere felice di avere l’occasione di offrire la sua musica che canta di libertà, di vita, amore e poesia, a chi vive in una condizione di sofferenza e si sente ai margini di tutto. Migranti. Ue-Turchia, accordo in bilico di Carlo Lania Il Manifesto, 18 marzo 2016 Molti leader contrari a concessioni troppo generose nei confronti di Ankara. "Non accettiamo ricatti". Dell’ottimismo mostrato dieci giorni fa al termine del vertice con il premier turco Ahmet Davutoglu, è rimasto ben poco. Già incrinato alla vigilia del terzo summit dall’inizio dell’anno dedicato alla ricerca di una soluzione alla crisi dei migranti, è sparito definitivamente ieri, quando i leader dei 28 hanno preso atto che la bozza di accordo messa a punto con Ankara per convincerla a fermare i migranti non stava in piedi. O meglio, in piedi ci starebbe pure ma violando il diritto internazionale, le norme comunitarie visto che prevedeva espulsioni in massa verso la Turchia dei migranti presenti in Grecia. Turchia che improvvisamente i 28 si sono accorti non essere proprio un paese attento e rispettoso dei diritti umani di nessuno, figuriamoci dei profughi. Quindi: contrordine compagni, si ridiscute tutto. E soprattutto cambiano i toni, virati improvvisamente alla prudenza. Prendete ad esempio il padrone di casa di ieri e oggi, il presidente del consiglio europeo Donald Tusk. Per settimane si è speso alla ricerca di un compromesso che mettesse d’accordo tutti. Fino a ieri, quando anche lui ha dovuto arrendersi all’evidenza delle difficoltà sorte negli ultimi giorni. "Sono cautamente ottimista, ma più cauto che ottimista" ha ammesso prima dell’inizio del vertice. La verità è che i problemi sul tappeto sono troppi: oltre alla necessità di rispettare il diritto internazionale c’è la questione economica. Ankara ha chiesto altri 3 miliardi di euro in aggiunta ai 3 già stanziati e la richiesta a Bruxelles ha fatto storcere più di un naso. Prima di decidere nuovi stanziamenti, i 28 vogliono quindi sapere da Davutoglu come sono stati spesi i primi soldi già ricevuti e solo dopo si potrà eventualmente decidere per nuovi fondi. C’è poi il pacchetto di richieste politiche avanzate da Ankara come la liberalizzazione dei visti e l’accelerazione del processo di adesione all’Ue. E qui a frenare sono in molti: Francia, Spagna, Austria, Belgio, Gran Bretagna e Cipro primi fra tutti. "La Turchia sta chiedendo molto, non accetterò qualcosa che sembri un ricatto", ha spiegato il premier belga Charles Michel, mentre il presidente di Cipro Nicos Anastasiades ha ribadito l’intenzione di porre il veto all’adesione della Turchia all’Ue "se non rispetterà i suoi obblighi". Anastasiades parla soprattutto della questione relativa a Cipro, ma il discorso potrebbe valere anche per altre questioni come ha ricordato il presidente del parlamento europeo Martin Schulz: "La Turchia non avrà nessuno sconto sulla libertà dei media e la protezione delle minoranze, sulla separazione dei poteri e lo stato di diritto. Questi non sono negoziabili". Tutto questo ovviamente non vuol dire che la strategia europea sui migranti è cambiata. Anzi. Bruxelles è sempre più decisa a rispedire indietro i migranti e per questo Ankara vuole mettere a punto un sistema di respingimenti con base sulle isole greche dove le domande di asilo dovrebbero essere valutate nell’arco di pochi giorni procedendo poi al ricollocamento o al rimpatrio del migrante. Un lavoro svolto con l’aiuto di personale Frontex ed Easo e finanziato con una grossa fetta dei 700 milioni di euro già stanziati da Bruxelles per i prossimi due anni. Resta da vedere in cambio di cosa. Difficile infatti che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico e dopo aver alzato ogni volta il prezzo della sua collaborazione, la Turchia accetti improvvisamente di farsi impartire lezioni dall’Unione europea. Davutoglu è arrivato a Bruxelles in serata, con i 28 che dopo aver discusso di migranti per tutto il pomeriggio hanno proseguito il confronto a cena. Confronto aspro, visto che l’Unione è fortemente divisa e che i paesi dell’est sono contrari ai ricollocamenti, ma dal cui esito dipende in parte anche il successivo incontro con il premier turco. Migranti: dai Ventotto mandato a Tusk per negoziare con la Turchia di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2016 Il vertice di due giorni che si sta tenendo qui a Bruxelles tra ieri e oggi deve permettere ai Ventotto di trovare un accordo con la Turchia per meglio gestire l’arrivo di migranti dal Vicino Oriente. Questa notte, i paesi membri dell’Unione hanno dato al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk un mandato con il quale negoziare stamani con il governo turco. Successivamente, nel corso della giornata, se tutto andrà per il meglio, i Ventotto e la Turchia sperano di siglare l’annosa intesa. "Al presidente Tusk è stato dato un mandato generale - ha spiegato ben oltre la mezzanotte un membro del suo entourage. Non c’è stato accordo dei Ventotto su un testo specifico di intesa con la Turchia, ma solo un consenso su un quadro che ancora contiene elementi controversi per alcuni paesi". La partita diplomatica è quindi tutt’altro che chiusa. I Ventotto hanno fatto passi avanti, ma non si sono accordati su un testo definitivo da presentare alla Turchia. I motivi di questa scelta sono tre: le difficoltà di mettere d’accordo tutti i Ventotto; la sensazione che una dichiarazione troppo precisa sarebbe stata comunque oggetto di nuovi cambiamenti oggi; il desiderio di concedere allo stesso Tusk un margine per negoziare con il premier Ahmet Davutoglu. L’ex premier polacco incontrerà il capo del governo turco stamani insieme al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e al premier Mark Rutte, rappresentante della presidenza olandese dell’Unione. L’intesa preliminare raggiunta all’inizio di marzo e alla base dei negoziati in corso prevede il rinvio dalla Grecia alla Turchia di tutti i nuovi migranti irregolari arrivati in Europa. Nel contempo, per ogni siriano giunto in Turchia dalla Grecia, dovrebbe esserci un siriano attualmente in Turchia che venga reinsediato in Europa. L’obiettivo è "smantellare il modello economico" dei trafficanti, e "spezzare il legame tra la traversata per mare e l’installazione in Europa". A questo proposito, la Commissione europea ammette che saranno necessarie delicate modifiche legislative sia in Grecia che in Turchia. In cambio della sua collaborazione, Ankara chiede nuovi benefici (controversi per molti paesi europei). Tra le richieste nuovo denaro, oltre ai tre miliardi di euro già promessi; il viaggio senza visto in Europa già in giugno; e soprattutto la possibilità di aprire nuovi capitoli negoziali per un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione. Nelle loro discussioni la notte scorsa, i capi di stato e di governo si sono precisati l’un l’altro i limiti rispettivi di un eventuale accordo con la Turchia. Alcuni paesi, come la Francia, non vogliono concedere la piena liberalizzazione dei visti. Altri, come Cipro, vogliono essere riconosciuti da Ankara, che occupa la parte settentrionale dell’isola. Altri sono restii a promettere nuovo denaro al governo turco. Altri ancora vogliono che i Ventotto ricordino nell’accordo la mancata libertà della stampa in Turchia. Impronte ai migranti, no all’uso della forza: agenti e Ong bocciano il piano di Nello Scavo Avvenire, 18 marzo 2016 Perplessità da sindacati di polizia e operatori del sociale. Vergognosa", "assurda", "inutile e controproducente". Difficile trovare tra esperti di immigrazione, operatori dell’accoglienza e sindacati di polizia, una voce di consenso alla proposta del ministro Alfano che da Bruxelles ha fatto sapere di lavorare "su una norma che specifichi bene in che termini la forza può essere usata per i foto-segnalamenti". "I nostri giudici - ha sostenuto il ministro dell’Interno - hanno detto che, a determinate condizioni, un uso proporzionato della forza ci può essere per assumere le impronte digitali", aggiungendo poi che "dobbiamo proteggere i nostri concittadini, che devono esattamente sapere chi entra nel territorio nazionale ed europeo, e al tempo stesso i nostri poliziotti, che non possono essere lasciati senza una cornice normativa chiara. Perché poi magari si sveglia qualcuno e li denuncia per aver usato la forza". Gli agenti, però, non l’hanno presa bene. "L idea di dover utilizzare la forza per prelevare le impronte digitali è una boutade che, oltre a non aiutare le forze di polizia, espone i suoi appartenenti oltre al carico di lavoro anche a responsabilità penali ed esistenziali". Lo afferma Felice Romano, segretario generale del sindacato di polizia Siulp. "L’utilizzo delle forza su chi scappa dalla violenza della guerra - rileva il leader del Siulp - è la peggiore risposta che si può dare ad un profugo, ma è anche la "trappola" più diabolica alla quale si vuole esporre il personale delle forze di polizia in quanto la responsabilità penale, nel nostro Paese, è e resta ancora personale e non di chi fa le leggi che poi non possono essere attuate". Daniele Tissone, segretario del sindacato di polizia Silp Cgil, pone condizioni precise: "Al momento auspichiamo, qualora si dovesse intervenire su tale delicato versante, il massimo rispetto dei diritti umani, come sancito dalla nostra Costituzione, nonché norme chiare a tutela degli operatori". Non meno severi i toni degli operatori umanitari. "L’utilizzo della forza su persone che scappano da guerra e persecuzioni è semplicemente inaccettabile", commenta padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli, la sezione italiana del servizio internazionale per i rifugiati dei gesuiti. "Queste scelte non determinano un processo di accoglienza né di integrazione. E non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di persone che già fuggono da contesti di violenza estrema nella quale la forza viene adoperata incondizionatamente su di loro". Don Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, non va per il sottile. "È una proposta vergognosa - dice - che si aggiunge ad altre, come se si andasse nella logica di nuovo pacchetto sicurezza". Secondo Perego il progetto, se attuato, otterrà l’effetto contrario: "Non vi sarà maggiore sicurezza, e al contrario si creerà conflittualità sociale, per non dire del rischio di disordini nei centri per migranti, e questo solo perché ci si dimentica di chi sono le persone che stanno arrivano e del perché stanno fuggendo". Alla politica è richiesto un cambio di prospettiva. E anche coerenza con i propri valori. "Democrazia - insiste il direttore della Migrantes - vuol dire tutelare i diritti fondamentali, proteggere e promuovere la dignità delle persone, la loro vita, facilitare i percorsi di ricongiungimento familiare. E la situazione ai confini dell’Europa richiede canali e iniziative umanitarie". Proprio da Bruxelles arriva la voce di Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas Italiana, reduce da un incontro all’Europarlamento, dove è stato presentato il Rapporto annuale sui migranti redatto da Caritas Europa. "Dai rappresentanti dei vari Paesi è arrivato il sostegno al rispetto dei diritti umani un tutte le procedure di registrazione degli immigrati. Perciò le affermazioni di Alfano sorprendono, perché si stratta di esseri umani in fuga, persone che scappano da realtà nelle quali i diritti umani sono compromessi e non può essere il ricorso alla forza per le impronte digitali né tanto meno la realizzazione di campi in Turchia o Grecia la soluzione a un problema politico". E dalla politica "ci si attendono - conclude - ben altre risposte". Amnesty International: diritti umani calpestati nel mondo, si può fare di più Venerdì di Repubblica, 18 marzo 2016 Anno nero il 2015 per i diritti umani: parola di Amnesty International che, dopo avere monitorato 160 Paesi, ora lancia l’allarme. Le violazioni sono aumentate in tutto il mondo, anche lì dove i diritti sembravano ormai affermati: si pensi alle limitazioni delle libertà fondamentali oggi motivate dall’allarme terrorismo; o a tanta politica infarcita di razzismo. O anche solo al caso Italia, dove tuttora non si riconosce il reato di tortura, non si punisce l’omofobia, si vendono armi a Paesi come l’Arabia Saudita, che poi le usa contro scuole e ospedali in Yemen. Il nuovo Rapporto di Amnesty (Infinito, pp. 600, euro 19,90) disegna un quadro plumbeo del 2015. In almeno 19 Paesi sono stati commessi crimini di guerra, in almeno 36 atrocità di gruppi armati. Mentre 30 Stati hanno rimandato illegalmente i rifugiati verso Paesi ad alto rischio; 122 hanno praticato maltrattamenti e torture; 88 hanno svolto processi iniqui; 113 hanno imposto restrizioni arbitrarie alla libertà d’espressione e di stampa. E poi dissidenti arrestati, torturati, uccisi; donne violate, vendute, mutilate. Mentre l’opinione pubblica era distratta, i Parlamenti sonnecchiavano, le istituzioni di tutela dei diritti umani venivano indebolite. La denuncia è forte, l’invito ad attivarsi implicito. Diventando soci di Amnesty, ad esempio (35 euro l’anno per gli adulti, 15 euro dai 14 ai 18 anni: la Ong si autofinanzia, il contributo è prezioso), per poi dare una mano alla sede della propria città. Nei banchetti che in strada raccolgono fondi e firme in favore delle cause da combattere. Nell’organizzare campagne o eventi, dai concerti ai cineforum, agli incontri con testimonial d’eccezione. Nell’aiutare colleghi in difficoltà in altri Paesi: avvocati o cineasti che sostengono avvocati o cineasti perseguitati. In questo periodo si aprono anche le iscrizioni per i campi estivi, fatti di laboratori, incontri, flashmob, approfondimenti. Ogni settimana il sito di Amnesty pubblica i successi ottenuti nel mondo anche grazie alle proprie attività: dal rilascio di persone ingiustamente arrestate all’approvazione di leggi storiche, come quella che in Irlanda introduce l’eguaglianza dei matrimoni etero e gay. Siria: la lettura ardua della crisi. Assad ha vinto la sua scommessa? di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 18 marzo 2016 Fra analisi e letture "suggerite" dalla propaganda delle diverse parti impegnate nella terribile guerra (300mila morti), difficile capire. Ma dai blog degli analisti Usa emerge una diversa verità: Bashar ha scelto di condizionare il potere del suo clan per poter avere aiuto da Mosca. Una mossa che, forse, salverà per qualche tempo il suo regime. Meno male che esistono i blog e i social, omaggio all’innovazione, e che si possono leggere e consultare gli analisti americani - omaggio alla competenza e alla profondità -, altrimenti della crisi e della sanguinosa guerra di Siria avremmo compreso soltanto le coordinate generali, al netto di qualche apprezzabile servizio di cronaca. Della Siria si parla troppo sapendo troppo poco. Di sicuro si conosce il tono della propaganda di parte, ma dipende da quale parte ci serviamo del binocolo: tra ingrandire e rimpicciolire c’è grande differenza. Oggi, con il ritiro dei russi (per adesso più annunciato che reale), i binari di pacificazione tracciati dall’Onu, il prudente atteggiamento degli Stati Uniti, stiamo entrando con un filo di speranza in una nuova fase (nella foto Reuters sotto, un soldato fedele ad Assad accanto a un carro armato ad Aleppo). La prospettiva di un’ambigua stabilità - Si può persino immaginare che la guerra più cruenta degli ultimi anni, costata quasi 300 mila morti e milioni di emigrati e sfollati, possa finire, con l’affermarsi di un’ambigua stabilità. Mosca è molto più forte di prima nella regione e anche altrove: il presidente Vladimir Putin si è dimostrato un vero statista, scaltro sia sul piano militare che su quello politico; il presidente siriano Bashar Al Assad è stato più avveduto di quanto i suoi avversari immaginassero; anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama si è rivelato più abile di quanto una pulciosa propaganda lo consideri. Ogni dato va insomma studiato con estrema attenzione, altrimenti correremmo il rischio di ripetere gli errori clamorosi compiuti nel 2003 per la guerra all’Iraq. Chi, allora, ne metteva in discussione la validità e l’efficacia è stato deriso. Oggi quella derisione si è trasformata in un ceffone sul volto di troppi osservatori superficiali, e soprattutto di parte. Pochi dati, troppi comunicati - L’impressione che ricavo, negli ultimi giorni, sullo scenario mediorientale, è quella di una grande confusione. Anzi, la solita confusione, alimentata da comunicati e posizioni ufficiali, ma poverissima di fatti e di analisi credibili. Conoscendo un poco la realtà della Siria e il suo retroterra, e avendo frequentato costantemente quel Paese per oltre trent’anni, posso dire che è essenziale conoscere almeno alcuni dei gangli della Repubblica, dove non è nata una "primavera araba" come in Egitto o in Tunisia, ma è nata ed esplosa una catena di vendette, avviata da una maggioranza soggiogata per anni da una minoranza. Specularmente, quel che è accaduto in Iraq, è successo a ruoli contrapposti in Siria. Assad padre riuniva i sunniti alla sua corte - Inglesi e francesi, per chiudere le rispettive "imprese coloniali" hanno commesso errori decisamente simili: dai tempi dell’accordo Sykes-Picot. Umilmente, devo ammettere che la Siria per me è sempre stata un quasi mistero. Il potere di Hafez al Assad, padre di Bashar, era fortissimo perché il leader era stato capace di portare alla sua corte alauita (setta sciita) il fior fiore della maggioranza sunnita. I suoi più stretti collaboratori erano appunto tre sunniti: l’ex vicepresidente e ministro degli esteri Farouk Al Shara, uomo di notevole spessore e di grande cultura, che ho frequentato a lungo; l’ex vicepresidente Abdel Halim Khaddam, legatissimo al capo, poi fuggito in Francia per dissapori con le nuove leve del clan alauita, dopo la strage di San Valentino 2005, a Beirut, dove fu assassinato l’ex premier libanese Rafic Hariri; l’ex ministro della Difesa Mustafà Tlass. Tre uomini a garanzia del regime - Ciascuno, a suo modo, era per Hafez Al Assad solida garanzia della tenuta del regime. Il problema è che Hafez era uomo del passato, anche se sognava l’ereditarietà della sua Repubblica, immaginando di passare il testimone al figlio: non il borghese e tranquillo Bashar, che a Londra aveva sposato una bella sunnita, Asma, figlia di un celebre oftalmologo; ma il più taciturno, ruvido e grintoso Basel. Ho avuto modo di conoscere entrambi: Basel, che poi sarebbe morto in un incidente stradale, era un uomo d’armi. Cavallerizzo di gran talento, vinse la medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo di Latakia. Con Bashar, richiamato dal padre per diventarne l’erede, e nominato presidente, ci siamo visti più volte: due interviste a Damasco, la prima nel 2003 (in presenza dell’allora direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: la trovate sfiorando l’icona blu), e la seconda nell’anno successivo; poi un incontro ad Atene, durante una visita di Stato, e in un vertice arabo (nella foto Epa, bombardamenti russi in Siria). Il riformista debole Bashar e le maglie del clan - Ho avuto, lo confesso, grande simpatia per la volontà riformista del giovane capo di Stato. Anche se temevo che il clan, e soprattutto le sue nuove leve, lo avrebbero imprigionato nelle logiche più spietate. Bashar non ha mai avuto, e forse non avrà mai il carisma del padre, che sapeva tenere a bada gli alauiti più duri, di cui si serviva soltanto quando lo riteneva necessario. Per esempio quando Hafez decise di soffocare nel sangue, ad Hama, la rivolta dei sunniti più estremisti e ribelli. Suo fratello Rifaat fece spianare interi quartieri della città: tra i 15 e i 20 mila morti. La fragilità di Bashar mi è parsa chiara dopo la strage del 2005, quando fu ucciso l’ex premier libanese Rafic Hariri, del quale ero diventato amico. I sospetti che si affollavano sulla Siria, o sui suoi apparati di sicurezza come mandanti del massacro, erano seri. Il suicidio (o più credibilmente l’omicidio) dell’uomo dei servizi siriani a Beirut, il generale Ghazi Kanaan, ha rivelato quanto fossero mefitici i rapporti all’interno del clan alauita di Damasco. Il presidente ostaggio della "mafia" alauita - Ormai il presidente siriano era diventato un ostaggio: gli permettevano gli onori del ruolo, ma altri agivano anche autonomamente. L’inizio della "primavera siriana" cominciata cinque anni fa, è diventato subito il pretesto dello scontro mortale tra la maggioranza sunnita e la minoranza alauita. Bashar, con la piena e pesante responsabilità d’essere il capo dello Stato, ha avallato, credo per debolezza o per inadeguatezza, le decisioni dei suoi collaboratori. Non avrebbe potuto agire diversamente, pena la vita. Il clan dei duri alauiti può essere davvero paragonato a una spietata consorteria di stampo mafioso. Il mondo reagiva con sdegno agli attacchi del regime contro i ribelli, ma il dubbio che il sanguinoso gioco fosse diventato una partita truccata mi è venuto studiando un video e alcune foto, che avevano colpito numerosi colleghi. Almeno coloro che non sono abituati ad accontentarsi della versione ufficiale (nella foto Epa, profughi siriani in fuga verso la frontiera giordana). La strana ricostruzione della strage con armi chimiche - Dopo l’attacco con armi chimiche di cui fu accusato il regime di Bashar, ci colpirono infatti le immagini dove si vedevano corpi e corpicini accostati con cura maniacale, come se si trattasse di una ricostruzione scenica. Quando qualcuno sostenne che un deposito di armi chimiche era stato conquistato dai ribelli, quell’impressione visiva si trasformò in un fondato sospetto. Obama aveva detto che l’utilizzo di armi chimiche era la "linea rossa", lasciando intendere che se fosse stata superata sarebbe stata guerra. Ma il presidente americano non è certo uno sprovveduto. Sa bene che tutte le guerre (dopo il secondo conflitto mondiale) con il coinvolgimento americano non sono state altrettanti successi. A parte la campagna per liberare il Kuwait, tutte le altre sono state fallimenti o quasi fallimenti. Non solo. (nella foto sotto la prima pagine di Le Monde con le accuse di attacco chimico il 23 agosto 2013) Il ruolo del Papa nel contenimento del conflitto - L’aiuto di Papa Francesco, che dispone di informazioni dettagliate dalla rete di nunziature mediorientali, è stato decisivo. Il pontefice ha detto parole gravi, accentuando il tono sui rischi mortali di un terribile conflitto. In quel momento preciso, come hanno intuito alcuni allertati analisti, si materializzò l’idea che a tirare le fila sarebbero state le grandi potenze. La Russia, che non poteva permettersi di perdere l’unica sua base in Medio Oriente, e che aveva la possibilità di riempire il vuoto lasciato dagli americani. Gli Stati Uniti, ai quali non dispiaceva lasciare il lavoro rischioso ("sporco", si sarebbe detto un tempo) a Mosca. Pronti, quindi, a non opporre troppa veemenza nei confronti di Assad. Il peso dell’offensiva mortale dell’Isis - L’Isis, creato dagli estremisti sunniti, e in particolare finanziato da Arabia Saudita e Qatar, aveva lanciato la sua offensiva mortale, proprio mentre l’Amministrazione Obama, d’accordo con Putin, stringeva per chiudere il dossier iraniano. Molti si chiedono quale sia stato l’atteggiamento di Israele, che formalmente ritiene l’Iran e i suoi alleati (Hezbollah, e anche Assad) i nemici più pericolosi. Sostanzialmente, l’atteggiamento è assai diverso. L’idea del crollo rovinoso di Bashar e del regime alauita per lasciar spazio a una potenza sunnita sopra la sua testa (guardare la carta geografica), ha fatto tremare persino Benjamin Netaniahu. Ecco perché la guerra, combattuta soprattutto per conto terzi, alla fine - se vi sarà una consolidata pacificazione - vedrà prevalere l’accordo tra Usa e Russia, e quasi sicuramente - almeno a breve - salverà Assad. Il quale, a ben vedere, non aveva tutti i torti. Avendo compreso i limiti e le opportunità della grande partita mediorientale, ha scelto di chiedere aiuto a Mosca, pur sapendo di condizionare i poteri del suo onnivoro clan alauita. Brasile: scontro governo-giudici su Lula. In piazza da San Paolo a Rio di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 18 marzo 2016 Ricorso dopo la decisione della magistratura che ha sospeso la nomina a ministro dell’ex presidente. In piazza due fazioni contrapposte: il paese è spaccato. Luiz Inácio Lula da Silva da ex presidente a ministro di Dilma Rousseff, ma la nomina scatena una guerra giuridica e spacca il Brasile in due. Pochi minuti dopo la cerimonia di insediamento, ieri mattina, un giudice annulla il decreto. Il governo fa a sua volta ricorso e ora si aspetta la decisione finale della Corte suprema. Il tutto in un clima di forti tensioni. Durante la cerimonia, lasciando impietriti Lula e Dilma, un deputato d’opposizione urla "Vergogna, vergogna!" dalla tribuna e viene portato via dai commessi. Fuori, nel grande piazzale davanti al palazzo presidenziale di Brasilia, migliaia di manifestanti di parti opposte urlano slogan contro e a favore del governo. Lo stesso a San Paolo e Rio, dove la gente era scesa in piazza nella notte di mercoledì, quando le tv hanno mandato in onda alcune intercettazioni compromettenti, e ha ricominciato ieri mattina. Il rischio è lo stallo - Per il Brasile sono ore senza precedenti. Nemmeno l’uscita dalla dittatura o l’impeachment di Fernando Collor, tra gli anni 80 e 90, avevano scaldato così tanto gli animi e portato tanta gente nelle strade. Con la differenza che qui si rischia un lungo stallo, in un Paese già colpito da una dura recessione.. L’ira della presidente - Il nodo è sempre Lula. Il leader storico della sinistra brasiliana è stato nominato ministro soprattutto per sfuggire alle Procure che indagano su episodi di corruzione e per evitargli l’onta di un arresto? L’opposizione e gran parte dell’opinione pubblica pensano che sia così. Il giudice Sergio Moro, coordinatore della Mani Pulite brasiliana, con una mossa spericolata e polemica mette in circolazione una serie di intercettazioni telefoniche che lo proverebbero. Scatenando l’ira della presidente: "È stata violata la Costituzione per fini oscuri ma questi metodi golpisti non mi faranno fare un passo indietro - tuona la Rousseff durante la cerimonia di insediamento di Lula. Apriremo un’inchiesta per stabilire chi ha autorizzato l’intercettazione, chi l’ha resa pubblica ed i motivi per cui è stata resa pubblica". La telefonata - In una telefonata Dilma e Lula parlano proprio del decreto di nomina e dell’urgenza di far avere al neoministro un pezzo di carta "in caso di necessità". Intanto la militanza vicina al governo scandaglia Facebook per scoprire che il giudice Itagiba Preta Neto, quello che ha sospeso la nomina di Lula, non è esattamente un modello di imparzialità. Ha partecipato alle marce per l’allontanamento di Dilma, e ha pure scattato "selfies" con parenti e amici. Golpe è ancora il termine usato dal governo sul processo di impeachment contro la Rousseff, già aperto al Congresso. Pressioni per ostacolare le indagini - Secondo la magistratura, compatta nel respingere gli attacchi di Lula e Dilma, le intercettazioni mostrerebbero in modo chiaro che esiste un tentativo di ostruire le indagini, sia attraverso pressioni su giudici e istituzioni amiche ("bella riconoscenza", dice Lula sul procuratore generale da lui nominato), sia e soprattutto con la decisione di creare un dicastero che ha il volto di un salvacondotto.