Lavori di pubblica utilità, un boom finito nel caos di Francesco Dente Vita, 17 marzo 2016 L’anno scorso sono state oltre 21mila le persone condannate a svolgere un lavoro di pubblica utilità. Tre anni prima erano meno di 6mila. Una crescita che insieme a regole poco chiare sta mettendo in ginocchio i soggetti attuatoli: non profit ed enti pubblici. In principio, correva l’anno 1981, fu pensato come sanzione sostitutiva per i condannati impossibilitati a pagare le pene pecuniarie. È stata la volta poi dei reati a sfondo razziale, di quelli di competenza del giudice di pace, della sospensione condizionale della pena e dei casi di violazione della normativa sugli stupefacenti. Il boom vero e proprio si è avuto però dopo il 2010, anno in cui è stato previsto come pena sostituiva per chi è "beccato" alla guida in stato di ebbrezza o di alterazione per l’uso di droghe. Parliamo del lavoro di pubblica utilità, la sanzione che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività presso gli enti pubblici o non profit convenzionati con i Tribunali. Dal 2012 al 2015 le condanne complessive sono triplicate passando da 5.772 a 15.033. Un balzo che si spiega con il largo ricorso da parte degli automobilisti (da 4.400 a 13.160 nel triennio 2012-14) che si mettono al volante dopo aver alzato il gomito o assunto sostanze stupefacenti. Chi accetta di scontare la condanna impegnandosi ad esempio nell’assistenza ai minori o nella pulizia delle strade ottiene un abbuono niente male: estinzione del reato, dimezzamento della sospensione della patente e revoca della confisca del veicolo. Dal 2014, infine, il ventaglio dei casi è stato ampliato ulteriormente con l’introduzione della sospensione del processo con messa alla prova degli adulti, una procedura di giustizia riparativa prima consentita solo ai minori. La legge 67/2014 ha stabilito infatti che la concessione della misura sia subordinata alla prestazione del lavoro di pubblica utilità. L’imputato (o l’indagato) che porta a termine gli impegni pattuiti con il giudice beneficia anche in questo caso dell’estinzione del reato. Ebbene, nel 2015 i tribunali italiani hanno disposto 6.557 provvedimenti di messa alla prova. Cifre, nel complesso, che rischiano di mandare in tilt la rete degli enti pubblici e del Terzo settore che accoglie i condannati. L’allarme l’ha lanciato all’inizio dell’estate scorsa il ministero della Giustizia nella relazione al Parlamento sull’attuazione della messa alla prova. Il numero delle convenzioni che finora servivano per le trasgressioni al codice della strada e alle norme sugli stupefacenti "non pare più sufficiente a far fronte anche alla crescente domanda collegata alla messa alla prova". "Costretti a chiudere le porte" - Sono segnalate molte criticità per esempio in Lombardia, la regione con più posti. Liste di attesa, in particolare. "Talvolta siamo costretti a rifiutare le nuove richieste di lavoro di pubblica utilità. In particolare quando il calendario degli inserimenti nei nostri centri è già saturo per i successivi quattro mesi", spiega Gilberto Sbaraini, presidente dell’associazione "La Strada" di Milano. Stessa musica in Emilia Romagna. "Arrivano molte domande. Il punto è che abbiamo dato la disponibilità per un tot di persone però non sappiamo se ce le troveremo tutte insieme o scaglionate. E di fronte a nuove richieste, in alcuni casi, non diamo la disponibilità perché non siamo in grado di pianificare l’attività a lungo andare. Viviamo in una costante incertezza", osserva Igor Ghisio, responsabile area ricerca e sviluppo della cooperativa sociale "Zora" di Scandiano in provincia di Reggio Emilia. Non va dimenticato, peraltro, che il rodaggio della messa alla prova è stato rallentato dal meccanismo disegnato dalla riforma. L’imputato infatti presenta la richiesta di accesso alla misura prima agli Uffici di esecuzione penale (Uepe), i quali redigono il programma di trattamento che prevede il lavoro gratuito, e poi al giudice che la dichiara ammissibile o meno. Un sistema che da un lato fa lavorare a vuoto gli Uepe, peraltro già a corto di personale, dall’altro determina l’accumulo di arretrato. Perché non invertire il meccanismo? L’insufficienza delle convenzioni rischia per un verso di frenare la riforma del sistema delle pene, per l’altro di determinare disparità tra i cittadini a seconda che risiedano in un territorio con più o meno posti messi a disposizione dalle compagini sociali o dai comuni. Partiamo dai numeri. A inizio ottobre risultavano sottoscritte 3.445 convenzioni, la maggior parte al Nord, per un totale di 12.801 posti disponibili. La regione che ha siglato più accordi con i tribunali è la Lombardia (706), seguita da Piemonte (570) e Trentino Alto-Adige (254). Ultimo il Molise (16) che ha meno di un terzo delle convenzioni della più piccola Valle D’Aosta (53). Lo scenario cambia, ma solo in parte, se si prendono in considerazione i posti disponibili. L’Emilia Romagna, terza dopo Lombardia e Piemonte, conta il doppio dei posti del Trentino Alto-Adige (1.382 contro 641) nonostante registri solo 16 convenzioni in meno. Interessante la distinzione fra i soggetti convenzionati: gli enti locali hanno firmato 2.102 accordi (61%) contro i 1.343 del Terzo settore (39%). Il privato sociale la fa da padrone in Toscana con l’87,8% delle intese, le amministrazioni pubbliche in Calabria (94,7%): qui solo un’organizzazione non profit ha stipulato la convenzione. Un quadro a macchia di leopardo, pertanto. Va ricordato, tuttavia, che gli enti possono ospitare più persone nel corso dell’anno. Dunque di fatto i posti sono più delle I3mila posizioni disponibili. Pesa però la disomogeneità della distribuzione sui territori degli enti che accolgono. Se il comune o l’associazione convenzionata più vicini sono a cento chilometri da casa è come se non ci fossero. La consulenza dei Csv - Un impulso alla sottoscrizione delle convenzioni potrebbe venire dal regolamento (approvato con dieci mesi di ritardo) che disciplina i lavori di pubblica utilità per la messa alla prova (Decreto 88/2015). Assegna agli Uepe il compito di favorire la stipula delle intese. Prevede, soprattutto, che le convenzioni con le organizzazioni nazionali abbiano effetto anche per le articolazioni periferiche. Peccato che sulla carta la disposizione valga solo per la messa alla prova e non anche per le altre ipotesi di lavoro di pubblica utilità. Sottigliezze burocratiche, si dirà. Non troppo però se si pensa che per stabilire se un condannato potesse svolgere il lavoro gratuito in una provincia diversa da quella di residenza si è dovuta esprimere addirittura la Corte costituzionale (sentenza 173/2013). Un capitolo aperto riguarda l’obbligatorietà delle intese. Il condannato può svolgere cioè servizio presso un ente non convenzionato col tribunale? La normativa sulla messa alla prova non sembra prevedere espressamente le convenzioni; sì invece quella sugli altri casi di lavori di pubblica utilità. Alcuni protocolli locali tuttavia aprono anche agli enti non convenzionati. Insomma una gran confusione. Sono pochissimi, del resto, i tribunali che hanno costituito degli uffici ad hoc o che offrano le informazioni necessarie sui siti. I primi sono stati Firenze e Bari. Pochi uffici e non sempre attrezzati. "Il percorso per la convenzione è stato lungo e articolato perché non trovavamo gli interlocutori giusti. Di fatto la convenzione l’abbiamo dovuto scrivere noi", fa notare Ghisio. Brancolano nel buio anche gli avvocati. "Capita che ci contattino e ci dicano che dobbiamo ospitare il loro assistito. Ma le cose non stanno proprio così. L’ente valuta se c’è un minimo di motivazione da parte del condannato e se è adatto a ricoprire un ruolo presso l’organismo che lo ospita", sottolinea Sbaraini. Ci sono poi le sentenze che indicano il numero di giorni anziché di ore di volontariato. La norma, a tal proposito, prevede che un giorno di condanna equivalga a due ore di lavoro di pubblica utilità. Chi si è attrezzato per sciogliere questi nodi è il Centro servizi al Volontariato di Como, uno dei pochissimi in Italia ad aver firmato un protocollo con Procura, Tribunale, Ordine degli Avvocati, Camera Penale e Uepe. Il Centro fa da filtro fra questi attori, il condannato e le associazioni. Costo del servizio 150 euro più Iva. Comuni e privato sociale, fra l’altro, sono tenuti a registrare le presenze dei "volontari coatti", a segnalare le inosservanze agli organi di controllo e a stilare una relazione finale. In più devono assicurare a loro spese i volontari. contro gli infortuni e le malattie professionali e per la responsabilità civile verso terzi. Il costo mediamente si aggira intorno a 30 euro. Non sempre però le associazioni si accollano la spesa: alcune chiedono l’acquisto della tessera, che copre anche l’assicurazione presso compagnie private. Non mancano, anche in questo caso, i dubbi interpretativi. Secondo l’Inail, infatti, è necessaria comunque l’assicurazione ordinaria presso il suo istituto. Circostanza che potrebbe fare lievitare il costo del premio e disincentivare le organizzazioni non profit. Le difficoltà e gli impacci burocratici non scoraggiano però gli enti. "Le persone che ospitiamo avrebbero bisogno di essere più seguite e accompagnate e questo non è previsto dalla convenzione", commenta Claudia Polli, responsabile dell’area dipendenze del Centro ambrosiano di solidarietà (Ceas) di Milano. Il ministero: "Organici non sufficienti" Vincenzo Petralla è il coordinatore della Direzione generale Esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. La relazione al parlamento sulla sperimentazione della messa alla prova segnala l’insufficienza del numero di convenzioni fra i tribunali e gli enti pubblici e non profit. C’è il rischio che il neonato sistema delle cosiddette "sanzioni di comunità" segni una battuta d’arresto? "Il numero delle convenzioni può rivelarsi insufficiente se si guarda alle potenzialità di sviluppo della messa alla prova. Gli Uffici di esecuzione penale sono impegnati tuttavia in prima linea su questo terreno, in stretta collaborazione con i Tribunali. Penso che il territorio risponderà positivamente". Nell’ultimo quinquennio il legislatore ha ampliato le possibilità di accesso alla misura del lavoro di pubblica utilità. Come evitare la stratificazione di norme e competenze? "Da quando, nel 2000, è stato introdotto nell’ordinamento, siamo arrivati a quattro diverse modalità di esecuzione, con competenze frammentate che rischiano di creare confusione. Segnaliamo la necessità che la materia sia armonizzata e che gli Uffici di esecuzione penale esterna siano individuati come l’organo pubblico incaricato di gestire la sanzione e raccordare la collaborazione degli altri soggetti che concorrono all’esecuzione. Il lavoro di pubblica utilità è, infatti, una sanzione diversa dalla detenzione ed occorre una struttura unica di accompagnamento, di supervisione e di controllo della condotta, che le regole europee sulle misure e sanzioni non detentive individuano negli uffici di probation. Aggiungo, però, che con l’armonizzazione delle norme è necessario il potenziamento degli organici". Teme che il costo dell’assicurazione Inail contro gli infortuni possa frenare l’apporto del Terzo settore? "Se è vero che il lavoro di pubblica utilità è una prestazione d’opera che produce una utilità per l’ente o l’associazione che fruiscono della prestazione lavorativa, pur tuttavia è un lavoro gratuito. Inoltre, circa i due terzi delle convenzioni sono stipulate con enti locali, che avvertono di meno il problema, ma forse sarebbe opportuno consentire alle associazioni di volontariato di assicurare l’imputato o il condannato attraverso le società assicuratrici con le quali hanno già sottoscritto polizze per i loro associati. C’è chi propone di far pagare l’assicurazione al condannato o all’imputato. Mi sembra una sanzione aggiuntiva. L’associazione che lo accoglie riceve un’utilità che credo compensi la spesa per l’assicurazione. Garantire l’assicurazione a una persona che lavora gratuitamente è il minimo. Pensiamo poi al caso del giovane disoccupato. Si potrebbe valutare semmai il concorso alla spesa assicurativa da parte del condannato, ma al momento l’assicurazione è a carico dell’ente od organismo che fruisce della prestazione gratuita". Sarebbe opportuno accreditare le organizzazioni non profit convenzionate per il lavoro di pubblica utilità? "Fino ad ora non c’è stato bisogno di accertare l’idoneità perché si tratta di associazioni con le quali gli Uffici di esecuzione penale hanno già rapporti diretti. Spesso, inoltre, sono realtà iscritte e accreditate in elenchi regionali". Orlando: "la prescrizione non più un’emergenza, avanti con ddl per riforma processo penale" di Francesco Grignetti La Stampa, 17 marzo 2016 "Fondiamo il ddl con la riforma del processo penale". Il ministro risponde alle osservazioni della Stampa sulla giustizia. A Parigi, ieri, al Meeting anticorruzione dell’Ocse, c’era un italiano, Andrea Orlando, a presiedere i lavori. Una prima volta che inorgoglisce il governo. "È il segno - ha detto dal palco il ministro della Giustizia - della sensibilità del mio Paese verso le politiche legislative contro la corruzione, ma anche un riconoscimento del lavoro condotto negli ultimi anni". Intanto, dall’ultima relazione di Cantone, si capisce che a Roma c’è un substrato a favore della corruzione, altro che contrasto. "Nessuno stupore. Siamo consapevoli che si può fare la migliore legge del mondo, ma se non si ha una capacità di contrasto dell’humus in cui prospera la corruzione, non serve a nulla. Contrasto significa prevenzione, ma anche selezione della classe dirigente, sia politica, sia burocratica. E qui occorre una riflessione sui corpi intermedi. Io continuo a credere che soltanto una forte partecipazione popolare alle scelte delle politiche e delle persone sia il vero freno all’illegalità". Lei a Parigi ha rivendicato non soltanto le buone leggi, ma anche il numero dei procedimenti penali aperti, "molto significativo". Ha ammesso anche, però, i danni derivanti dalla prescrizione dei reati. "Ho chiarito allo stesso tempo come la recente riforma delle pene in materia di reati contro la Pubblica amministrazione, elevando i massimi edittali, abbia allungato in maniera significativa i tempi della prescrizione, che non è più un’emergenza, naturalmente parlando solo dei reati contro la Pubblica amministrazione". La riforma complessiva della prescrizione in effetti è ferma al Senato per divergenze anche nella maggioranza. "Penso che si potrebbe ripartire unificando il percorso con la riforma del processo penale, di cui la prescrizione era una parte". È così per diverse altre riforme, pur approvate dalla Camera. Luciano Violante, scrivendo su questo giornale, ha lamentato le troppe impasse del legislatore. Per fortuna c’è una magistratura virtuosa che sta procedendo a diverse autoriforme. "Il rilievo è giusto. Ma tengo a sottolineare che diverse di queste autoriforme, da quella della Cassazione in giù, sono anticipazioni di quanto stiamo facendo in Parlamento. E comunque rivendico a questo governo la nuova stagione di non contrapposizione tra politica e giustizia che permette alla magistratura stessa di procedere. In altre stagioni ciò non sarebbe stato possibile, dato il grado di diffidenza reciproca". Sempre su La Stampa, Carlo Rimini plaude alla riforma del civile, ravvisando finalmente una decisione chiara e una velocizzazione dei riti. Di contro, Carlo Federico Grosso lamenta la frammentazione degli interventi. Lei ha rivendicato che questo governo ha prodotto oltre 30 provvedimenti. Non sarebbe stato preferibile un unico intervento di riforma del penale come sta avvenendo per il civile? "La riforma del processo civile ha in effetti l’ambizione di un intervento organico, anche se è stata preceduta da interventi parziali di deflazione che sono funzionali alla riforma che verrà. In materia di penale, il respiro non è meno ampio anche se non c’è una completa reimpostazione del processo. Ci sono stati più ddl, è vero, ma sono sostanzialmente frutto del lavoro della commissione presieduta dal presidente Canzio, e tutti seguono lo stesso filo conduttore. Non trovo giusto il rilievo sulla "frammentazione" e difendo quest’impostazione, che era l’unica praticabile nelle condizioni politiche date. Non dimentichiamo che il nostro è un governo di coalizione, con sensibilità diverse, e che alcuni tra i temi trattati sono fortemente divisivi. Il rischio che si bloccasse tutto era forte; lo abbiamo scongiurato". Anche Vladimiro Zagrebelsky chiede scelte radicali. Propone di rivedere il sistema delle sospensive nel diritto amministrativo, delle misure cautelari nel penale, di quelle provvisorie nel civile che causano precarietà e incertezza. E la lunghezza dei processi, scrive su La Stampa, a questo punto non è più un difetto organizzativo, ma una debolezza strutturale. "Guardi, le misure cautelari nel penale sono state riviste in Parlamento; sui tempi del processo civile c’è la possibilità di intervenire con la legge delega in votazione al Senato; il processo amministrativo esula dalle mie competenze ma è vero che sconta il fatto di vivere in un mondo a sé. Mi permetto però di dissentire: i difetti organizzativi pesano eccome, se si pensa che a parità di norme i tempi dei processi sono profondamente diversi da tribunale a tribunale". Detenuti sfruttati nelle carceri, bomba da 50mila cause di lavoro di Claudia Osmetti Libero, 17 marzo 2016 Lo chiamano lavoro riabilitativo, ma di riacquisto di una certa dignità ha solo il nome: guadagno neanche a parlarne, se non si conta il risarcimento giudiziale. Che, manco a dirlo, è accollato alle patrie casse. Della serie: un detenuto che lavora per l’amministrazione penitenziaria prende (di media) appena 2,5 euro all’ora che moltiplicati per una normale giornata lavorativa (ossia 6 ore) fanno 15 euro tondi al dì. Troppo pochi, lo dice la legge. Così finisce che le scrivanie dei giudici del lavoro di mezzo Paese siano sempre più sommerse da ricorsi e richieste di ex carcerati che si sono visti arrivare una busta paga ridotta all’osso: e che, tra l’altro, in giudizio puntualmente vincono. Se a questo aggiungete che gli indennizzi toccano anche quota 20mila euro (non ce ne sono sotto i 2mila) avrete il polso della situazione: il sistema giustizia, in Italia, fa acqua da tutte le parti. E dire che a suonare il campanello d’allarme questa volta è addirittura il ministero di via Arenula. Già: a fine gennaio il ministro Andrea Orlando ha presentato al Parlamento la relazione sul lavoro penitenziario dell’anno scorso. È tutto lì, punto per punto, in una manciata di paginette firmate anche dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "L’esponenziale aumento dei contenziosi rende sempre più problematico un intervento teso a sanare la situazione". Come a dire: il problema c’è, ed è anche grave, ma proprio non sappiamo come arginarlo. Sospirano gli oltre 10mila detenuti che lavorano oggi nelle carceri italiane: a norma di legge il loro salario (che in termini da azzeccagarbugli si chiama "mercede") dovrebbe essere pari ai due terzi di quello stabilito per la relativa categoria dai contratti collettivi nazionali. Ma gli adeguamenti ministeriali non vedono un aggiornamento dal 1994. Mancano i fondi, ovvio. Nello specifico servirebbero 50 milioni in più visto che ora ne sono stanziati appena 60: e sono troppo pochi per far fronte alle richieste. Risultato: dove la giustizia fallisce ci mette una pezza lo Stato. Con i soldi nostri, però. Se mai ce ne fosse bisogno, a confermare il trend giuridico e la pioggia di ricorsi che rischia di affossare un sistema già di per sé poco florido, è l’avvocato Simona Filippi dell’Osservatorio Antigone che pochi giorni fa confessava al Il Fatto Quotidiano: "In circa quaranta cause intentate in questo senso non ho mai ricevuto un rigetto". E a denunciare lo "sfruttamento" sono proprio i diretti interessati che nel bimestrale Carte Bollate, magazine del penitenziario milanese di Bollate, sciolinano mansioni e relative (vergognose) paghette: chi si occupa della spesa prende 2,12 euro all’ora; chi, armato di ramazza, fa le pulizie guadagna 2,23 euro all’ora; chi passa le sue giornate in ufficio a compilare tabelle "addirittura" (il sarcasmo è d’obbligo) 2,74 euro all’ora. Il tutto "per 25 giorni lavorativi e 75 ore complessive". Non che a scorrere l’elenco ufficiale targato Dap vada meglio: secondo l’amministrazione penitenziaria, mediamente, in Italia un carcerato che lavora guadagna dai 3,38 euro ai 3,71. E per non metterci una mano sulla coscienza prima, la mettiamo nel portafoglio dopo. Prescrizione più favorevole della tenuità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 11040/2016. La non punibilità per la particolare tenuità del fatto non può essere rilevata se il reato è già estinto per prescrizione. La Cassazione, con la sentenza 11040 depositata ieri, sottolinea che la definizione di un procedimento con la pronuncia di estinzione per prescrizione rappresenta un esito più favorevole per l’imputato. I giudici della sesta sezione penale annullano dunque senza rinvio la sentenza, emessa con rito abbreviato, con la quale il Tribunale aveva confermato la responsabilità dell’imputato, collaboratore di giustizia, per essersi allontanato senza autorizzazione dal domicilio protetto. Un reato, secondo il ricorrente, che doveva essere "scriminato" dallo stato di necessità, visto che affermava di aver lasciato l’abitazione per andare in banca e sostituire il bancomat danneggiato in modo da poter assicurare il minimo fabbisogno a se stesso e alla figlia. In subordine l’imputato chiedeva l’applicazione dell’articolo 131-bis del codice penale per la particolare tenuità del fatto. La Cassazione rileva però che sono passati dal reato i sette anni utili per la prescrizione. Un formula che taglia la strada alla tenuità perché più "conveniente" per l’imputato. Mentre la dichiarazione di prescrizione estingue il reato, la declaratoria di non punibilità lo lascia del tutto intatto nella sua esistenza sia storica che giuridica e, inoltre, le due distinte tipologie di proscioglimento danno luogo a diverse conseguenze. Assoluzione ampia per i reati sotto-soglia di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 10964/2016. Per le omissioni Iva sotto la nuova soglia di rilevanza, prevista dal dlgs "sanzioni" dell’ottobre scorso, il giudice penale deve dichiarare il non doversi procedere "perché il fatto non sussiste" e non invece "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Inoltre, la declaratoria di prescrizione del reato di omissione contributiva e previdenziale dispensa il giudice dalla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa per le sanzioni previste dal decreto "depenalizzazione". La Terza penale torna sul tema delle omissioni, con la sentenza 10964 di ieri, per rimettere a punto la questione della successione della legge penale sotto il versante della formula assolutoria, e anche per ristabilire il corretto rapporto tra omissioni prescritte e provvedimenti amministrativi. Il processo all’origine del ricorso riguardava le contestazioni mosse a un imprenditore ligure per i mancati versamenti previdenziali sulle retribuzioni dei dipendenti (anni 2006 e 2007) e per una "dimenticanza" di 62 mila euro riguardo all’Iva. L’annullamento senza rinvio della decisione dell’Appello di Genova inizia proprio dalla violazione dell’articolo 10-ter del dlgs 74/2000 (Iva), alla luce della nuova soglia prevista dal dlgs 158/2015 (250mila euro per anno di imposta). La novità della motivazione non è certo nella successione della legge penale più favorevole, ma piuttosto nella formula del proscioglimento che deve essere incentrata sulla "insussistenza del fatto". Ciò ha ovviamente conseguenze più benevole nei confronti del contribuente, che vedrà preclusa "ogni possibile rilevanza in sede diversa da quella penale" del suo inadempimento. La formula alternativa del "fatto non più previsto dalla legge come reato" lascerebbe invece, in alcuni casi, aperta la porta del recupero civilistico, e comunque presupporrebbe che il fatto non corrisponda più a una fattispecie incriminatrice (qui invece si tratta solo della variazione di una soglia di punibilità). La Terza puntualizza poi il rapporto tra la declaratoria di prescrizione e i provvedimenti posti a carico del giudice dal nuovo decreto "depenalizzazione" (dlgs 8/2016). Dopo aver accertato l’intervenuto decorso del termine per l’esercizio dell’azione penale- gli omessi versamenti previdenziali risalivano a nove e dieci anni fa - la Corte stabilisce l’annullamento senza rinvio della decisione dell’Appello, "senza che, pertanto, debba disporsi la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per la sanzione, ai sensi dell’articolo 3 del dlgs 8 del 2016 in vigore dal 5 febbraio scorso. Anche il minore affidato con la kafala ha diritto a conversione del permesso di soggiorno Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Tar Piemonte - Sentenza 3 marzo 2016 n. 281. Il minore straniero giunto solo in Italia e affidato dai genitori a uno zio, anche se i servizi sociali non hanno completato la pratica di affidamento, ha diritto, una volta diventato maggiorenne, al permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Il tar Piemonte infatti con la sentenza 3 marzo 2016 n. 281ha annullato il provvedimento del questore di Torino che rigettava la domanda di conversione del permesso di soggiorno. Il ragazzo era sul territorio nazionale dopo essere stato affidato dai genitori allo zio con uno specifico istituto del diritto islamico, la Kafala (riconosciuto nel suo valore dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo) e come precisano i magistrati amministrativi : "solo per motivi non dipendenti dalla sua volontà o dalla non tempestiva richiesta di regolarizzazione da parte del suo affidatario non è stato destinatario di un formale provvedimento di affidamento anche in Italia o del parere della Direzione Generale dell’Immigrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Da qui l’assimilabilità della sua situazione a quella di "minore comunque affidato" ai sensi della vigente normativa e la sussistenza, nel diniego di conversione impugnato, dei dedotti vizi di violazione dell’articolo 32 del d.lgs. n. 286/1998 e di eccesso di potere per travisamento dei fatti". Lo stalking è violenza alla persona di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Corte di cassazione - Sentenza 10959/2016. Lo stalking rientra tra i delitti commessi con violenza sulla persona e la vittima deve essere informata sulla richiesta di archiviazione. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 10959 depositata ieri, dirimono il contrasto in merito all’interpretazione dell’espressione "delitti commessi con violenza alla persona". Secondo un primo orientamento la disciplina di favore sarebbe limitata ai soli casi di violenza fisica, mentre per la tesi opposta va estesa anche alle ipotesi di violenza morale. Le Sezioni unite scelgono questa seconda via. Un’interpretazione estensiva imposta da un’attenta lettura sia della normativa interna sia delle fonti sovranazionali. I giudici ricordano che da tempo è in atto un fenomeno di emersione e di nuova considerazione della posizione della persona offesa, negli strumenti internazionali generalmente indicata come "vittima" all’interno del processo penale. Attenzione sollecitata dai sempre più frequenti casi di violenza di genere e nei confronti dei soggetti deboli. Tra gli strumenti più significativi i giudici indicano la direttiva 2012/29 Ue in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato, attuata nell’ordinamento interno con il Dlgs 212/2015. Una direttiva, corredata da provvedimenti satellite, che va certamente nella direzione di un rafforzamento nella tutela delle vittime di reati attraverso una chiara posizione dell’offeso. In questo contesto si è inserito anche il legislatore nazionale con una serie di interventi settoriali, attuati spesso con lo strumento del decreto legge, fino a creare una vero e proprio "arcipelago normativo nel quale non è sempre facile orientarsi". L’avviso obbligatorio alla persona offesa è stato introdotto con il Dl 93/2013 (convertito dalla legge 199/2013. Il provvedimento d’urgenza, adottato sull’onda di fatti di gravissima efferatezza nei confronti delle donne, prevede la notifica della richiesta di archiviazione alla persone offesa a prescindere dalla sua richiesta. La cosiddetta legge sul femminicidio è stata modificata in sede di conversione dove gli obblighi di comunicazione - inizialmente limitati ai soli maltrattamenti in famiglia e, per quanto riguarda lo stalking, alle informazioni relative alle misure cautelari - sono stati previsti per tutti i procedimenti che hanno ad oggetto i delitti commessi con violenza sulla persona. Per le Sezioni unite, basandosi sulle fonti sovranazionali è doverosa un’interpretazione estensiva del concetto che comprenda non solo le aggressioni fisiche ma anche morali e psicologiche. E non c’è dubbio che lo stalking rientri "tra le ipotesi "significative" di violenza di genere che richiedono particolari forme di protezione a favore delle vittime". Se l’obbligo di informazione (articolo 408, comma-3 bis del codice penale) è stato introdotto dunque per ampliare i diritti di partecipazione delle vittime al procedimento penale, non può non interessare chi subisce lo stalking. Il testo normativo in cui è contenuto si prefigge, infatti, lo scopo di dare una specifica protezione alle vittime di violenza di genere, specie quando é contro le donne. Il reato di atti persecutori è un fenomeno da reprimere, al pari di quello di maltrattamenti in famiglia, al di là della violenza fisica, che spesso ne è comunque il tragico epilogo. Per questo va esteso l’obbligo di comunicazione della richiesta di archiviazione anche quando non c’è una specifica domanda a pena di nullità per violazione del contraddittorio. Violenza sessuale in danno di persone in stato di inferiorità psichica. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Reati contro la persona - Violenza sessuale in danno di persone in stato di inferiorità psichica - Configurabilità - Consapevolezza da parte dell’agente delle condizioni di inferiorità della vittima - Necessità. Il delitto di violenza sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica è integrato da una condotta posta in essere con la piena consapevolezza, da un lato, della condizione di inferiorità della vittima e, dall’altro, del fatto che l’azione sia conseguente ad induzione ed abuso. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 24 settembre 2015 n. 38787. Reati contro la persona - Violenza sessuale in danno di persone in stato di inferiorità psichica o fisica - Abuso - Nozione. L’abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica sanzionato dall’articolo 609 bis, comma secondo, n. 1, cod. pen. consiste nel doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica quando le richiamate condizioni sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in uno stato di difficoltà, viene ridotta ad un mezzo per l’altrui soddisfacimento sessuale. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 3 giugno 2010 n. 20766. Reati contro la persona - Violenza sessuale in danno di persone in stato di inferiorità psichica o fisica - Rapporto consensuale - Ammissibilità - Condizioni - Induzione od abuso delle condizioni di menomazione. In tema di violenza sessuale in danno di persona in stato di inferiorità psichica o fisica, un rapporto consensuale è ammissibile solo se non connotato da induzione od abuso delle condizioni di menomazione, anche dovute a fattori ambientali, di consistenza tale da incidere negativamente sulla volontà e sulla libertà sessuale della vittima, sì da determinare in quest’ultima un’assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 16 aprile 2009 n. 15910. Reati contro la persona - Violenza sessuale in danno di persone in stato di inferiorità psichica o fisica - Induzione ad atti sessuali di persona in stato di inferiorità psichica - Nozione. In tema di violenza sessuale in danno di persona in stato di inferiorità psichica o fisica, sono punibili soltanto le condotte consistenti nell’induzione all’atto sessuale mediante abuso del suddetto stato di inferiorità, sì che, pur sussistendo un consenso della vittima a detto atto, esso è tuttavia viziato dalla condizione di inferiorità e dalla strumentalizzazione di detta condizione. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 3 settembre 2007 n. 33761. Reati contro la Pa, il millantato credito. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Reati contro la pubblica amministrazione - Millantato credito - Soggetto attivo - Pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che agisce in veste di privato. Soggetto attivo - "venditore di fumo" - del reato di millantato credito, incluso tra i reati dei privati contro la pubblica amministrazione, può essere "chiunque" e, quindi, anche un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio purché, in tal caso, agisca in veste di privato, cioè come soggetto estraneo alla sfera di attività pubblica sulla quale ostenta di poter esercitare indebita influenza. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 dicembre 2015 n. 51049. Reati contro la pubblica amministrazione - Millantato credito - Reato a duplice schema - Momento consumativo - Tentativo - Configurabilità. In tema di millantato credito, poiché il delitto si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione e ricezione dell’utilità, il tentativo è configurabile solo qualora la millanteria del soggetto agente non raggiunga alcuno dei predetti risultati. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 marzo 2015 n. 8989. Reati contro la pubblica amministrazione - Millantato credito - Elementi costitutivi - Criteri differenziali rispetto al delitto di concussione. Integra il delitto di millantato credito aggravato ai sensi dell’articolo 61 n. 9, cod. pen. e non quello di concussione, la condotta di induzione della vittima a versare una somma di denaro, realizzata dal pubblico ufficiale mediante il raggiro della falsa rappresentazione di una situazione di grave pregiudizio e della proposta di comprare i favori di altri ignari ed inesistenti pubblici ufficiali per ottenere un risultato a lei favorevole. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 marzo 2015 n. 8989. Reati contro la pubblica amministrazione - Millantato credito - Effettivo condizionamento dell’attività del pubblico ufficiale - Rilevanza - Esclusione. Per la configurabilità del delitto di cui all’articolo 346, comma secondo cod. pen. è irrilevante che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento per il quale l’agente ha promesso il suo interessamento, in quanto il millantato credito si consuma già nel momento in cui l’agente si fa promettere l’utilità con il pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, apprestando una tutela penale anticipata rispetto alle diverse ipotesi corruttive previste dagli articoli 318e 319 cod. pen., configurabili quando la remunerazione sia effettivamente destinata al pubblico ufficiale, al fine di condizionarne l’attività. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 marzo 2015 n. 8989. Reati contro la pubblica amministrazione - Millantato credito - Reato a duplice schema - Momento consumativo - Ipotesi di promessa seguita da dazione - Momento consumativo - Dazione - Competenza territoriale. Il delitto di millantato credito si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione e ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la consegna del bene, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione, con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il giudice territorialmente competente va individuato in relazione al luogo in cui è avvenuta la dazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 1 dicembre 2014 n. 50078. Chi accusa ingiustamente paghi, anche se lo fa "nel nome del popolo italiano" di Maurizio Tortorella Tempi, 17 marzo 2016 La firma di 176 senatori sotto allo stesso Disegno di legge non è un risultato da poco. Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano e senatore di Area popolare, c’è riuscito in un solo giorno, il 3 marzo, creando un’alleanza trasversale che va da Fratelli d’Italia a Sel. Il ddl presentato da Albertini trae origine da un’inchiesta di copertina pubblicata dal settimanale Panorama ai primi di febbraio, e intitolata "Sei innocente? Lo Stato deve pagarti l’avvocato". Tecnicamente parlando, il tema è l’"ingiusta imputazione", figura giuridica che in altri 32 Paesi europei prevede il risarcimento delle spese legali al cittadino che venga riconosciuto pienamente innocente al termine di un processo penale. Quel diritto in Italia non è previsto e dà la stura a una vera e propria ingiustizia: perché centinaia di migliaia di cittadini, assolti dopo lunghi processi, sono comunque costretti a pagare di tasca propria spese legali spesso elevate, a volte insostenibili. Per questo, nel suo ddl, Albertini prevede la modifica dell’articolo 530 del Codice di procedura penale. Con questa formula: "Se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate". Tra i 175 senatori che hanno messo la loro firma sotto al progetto di Albertini (la netta maggioranza dei 315 eletti), 56 sono del Pd, 31 di Forza Italia, 22 di Ap, otto della Lega. Tra i nomi noti ci sono l’ex ministro berlusconiano della Giustizia Francesco Nitto Palma, il senatore a vita Carlo Rubbia, il presidente democratico della commissione Difesa Nicola Latorre, il deputato di Sel Corradino Mineo. Il forte consenso trasversale invita a sperare che l’iniziativa non cada nel nulla. Il promotore annuncia: "Chiederò che il mio progetto di legge venga trattato a sé, che non finisca nel calderone della riforma del Codice di procedura penale, che stiamo discutendo al Senato". Si vedrà ora cosa accadrà, e quale posizione prenderà il presidente dell’assemblea, Pietro Grasso. Intanto Albertini, un osso duro, insiste nella raccolta delle firme. Dopo il 3 marzo ha ottenuto un sì anche dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremoliti e dal presidente emerito Giorgio Napolitano. I magistrati titubanti Il senatore di Ap dice di avere trovato ovunque adesioni entusiastiche, e di avere incontrato qualche problema esclusivamente quando ha presentato la proposta a magistrati eletti con il Partito democratico: "Obiettano che l’iniziativa contrasta con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale", dice Albertini. Forse i magistrati-senatori sono impensieriti anche dall’ultima parte del progetto di legge, là dove si prevede che "nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale". Al contrario, Giorgio Spangher, ex membro laico del Consiglio superiore della magistratura e tra i maggiori giuristi italiani, è pienamente d’accordo con l’iniziativa. "Il tema è costituzionalmente corretto", dice. E per evitare che l’innovazione legislativa apra voragini nelle finanze pubbliche, suggerisce che si adotti un sistema simile a quello in vigore per l’ingiusta detenzione: cifre riparatone calmierate, ma comunque in grado di "risarcire" almeno in parte l’ingiustizia della ingiusta imputazione. Davanti alla Corte dei Conti il Csm si gioca l’identità di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2016 Nel conflitto che oppone Corte dei Conti e Csm (voglio controllare la tua contabilità - non puoi, sono un organo costituzionale) è in gioco molto di più di quello che appare. In un solo colpo il Csm si gioca la sua identità costituzionale: Potere dello Stato o Organo di Alta Amministrazione. Il che, in questo momento storico, è obiettivamente rischioso: finisse male per il Csm, le deliranti teorie che attribuiscono al consenso popolare la virtù di rendere lecito l’illecito sarebbero a un passo da un imprimatur costituzionale. La storia non è nuova. Nel 1980 la Corte dei Conti sollevò conflitto di attribuzione avanti alla Corte Costituzionale contro Parlamento e Presidenza della Repubblica che avevano rifiutato il controllo contabile. Diceva la Corte dei Conti che "è principio generale che il pubblico danaro, destinato al soddisfacimento dei pubblici bisogni, debba essere assoggettato alla garanzia costituzionale della correttezza della sua gestione, garanzia che si attua con lo strumento del rendiconto giudiziale cui non è consentito sottrarsi a nessun ente gestore di mezzi di provenienza pubblica". Le obiezioni di Parlamento e Presidenza erano inconsistenti. Eppure la Corte Costituzionale sentenziò in loro favore (sentenza 129/81): "La disciplina dettata dalle norme costituzionali scritte, quanto al regime organizzativo e funzionale degli apparati serventi gli organi costituzionali, non è affatto compiuta e dettagliata. Si sono dunque affermati principi non scritti, consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi". Insomma, è questione di prassi: si è sempre fatto cosi e cosi va bene. Da allora Parlamento e Presidenza consumano soldi come una fonderia e nessuno può dire niente. E si che la Corte dei Conti aveva esplicitato il vero motivo che imponeva il controllo contabile: si deve affermare "l’obbligo della resa del conto della gestione a un giudice indipendente e imparziale, quale la Corte dei Conti; senza di che ne discenderebbe un privilegio anacronistico, tanto meno giustificabile in quanto afferente la posizione giuridica di soggetti svolgenti attività meramente strumentali. Il sindacato sul comportamento di tali soggetti (gli apparati contabili) non implicherebbe alcuna menomazione delle prerogative spettanti al Parlamento e al Capo dello Stato". Insomma, spiegava (a chi volesse capirlo) la Corte dei Conti che le prerogative costituzionali non vanno confuse con l’incontrollata gestione dei soldi dei cittadini. Oggi la stessa questione è riproposta dal Csm. Che dovrebbe poter contare sul precedente del 1981. Ma prima la Corte Costituzionale dovrebbe affermare che si, il Csm è organo costituzionale. E se invece nonio afferma? La Costituzione, come è noto (art. 104), qualifica la magistratura "un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". E su questa definizione, da Berlusconi in avanti, la politica ha basato la propria supremazia sulla legalità. È stato saggio giocarsi tutto su un colpo di dadi? Soprattutto considerando la motivazione della sentenza del 1981: principi, prassi. Una sorta di oracolo: "Ibis redibis non morieris in bello" (andrai, ritornerai, non morirai in battaglia oppure andrai, non ritornerai, morirai in battaglia), che si presta a ogni decisione. Infine: spiegare alla Corte dei Conti: "Il Csm è organo costituzionale sottratto alle vostre verifiche. Ma non abbiamo niente da nascondere, controllate pure" non sarebbe stato un colpo da maestro? Tutte le ragioni postume di Pannella vivo di Filippo Facci Libero, 17 marzo 2016 Hanno ammazzato Marco, e Marco è vivo. Forse la canzone da citare a proposito di Pannella non è "II signor Hood", ma è "Pablo" sempre di De Gregori: e forse si potrebbe cantarla per ricordare non solo che Pannella è vivo, ma che lo sono tante battaglie che nessuno si è ancora incaricato di vincere al posto suo. Ha fatto bene Pierluigi Battista a scrivere (Corriere di martedì) che quella di Pannella è "la casa del rimorso di chi non l’ha ascoltato in tutti questi anni", ma è anche vero che non stiamo parlando di epoche preistoriche, dell’aborto e del divorzio: stiamo parlando, ora come allora, del ritardo culturale con cui tanti pellegrini di casa Pannella maneggiano la sostanza politica quotidiana. Da più di cinquant’anni - dal Parlamento-squillo all’uninominale secca - Pannella anticipa ciò che sono sempre altri a vendemmiare: non è solo l’uomo che ha rischiato cento volte la pelle per ottenere attenzione per le battaglie più impopolari, non è solo il politico sempre pulito e senza una lira, uno che passava tutte le feste dell’anno a brindare con gli sfortunati e i carcerati: c’è un elenco ben più sterminato di intuizioni politiche rimaste inascoltate. Non c’è solo Gandhi e lo sciopero della fame, Cicciolina e Toni Negri, Enzo Tortora e Luca Coscioni, le canne e le sigarette, l’evanescenza del Partito transnazionale e tutto il resto: in tempi non sospetti Pannella combatté, solo, la partitocrazia; combatté, solo, lo strapotere dei giudici; combatté, solo, per una riforma del sistema elettorale. Quando la Rivoluzione si abbatté sulla Prima Repubblica, praticamente solo-in pieno 1992 - criticò quel certo strabordare dei pubblici ministeri. Prese an- che solenni cantonate: dall’elezione di Toni Negri alla Camera a quella di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Repubblica, ma sono eccezioni che confermano la regola. Quindi facciamoci del male, da subito, e ricordiamo per esempio il settembre 2013, quando un neo abbraccio Berlusconi-Pannella rappresentò anche il fallimento di vent’anni di politica berlusconiana sulla giustizia, e - di passaggio - anche lustri di abbagli sui Radicali, per lustri regalati alla sinistra che nel frattempo aveva sempre provveduto a narcotizzarli e disinnescarli a dovere. È un paio d’anni fa, mica decenni: con Berlusconi che firmava referendum per strada e aveva lo stesso potere di un qualsiasi altro cittadino, consapevole degli spaventosi errori che il centrodestra (cioè lui stesso) aveva commesso m vent’anni di politica sulla giustizia: una politica a tratti reazionaria, biforcuta, anche forcaiola, più spesso inefficace prima ancora che ad personam, inquinata dai troppi che avevano consigliato il Cavaliere e avevano incarnato quella stessa "destra" troppo "destra" che di liberale non aveva mai avuto nulla. Sta di fatto che ciò che quei referendum predicavano (separazione delle carriere tra giudici e pm, sdoppiamento del Csm, modifiche sulla obbligatorietà dell’azione penale, polizia giudiziaria autonoma, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, responsabilità civile dei giudici e limiti alle intercettazioni) era roba che Pannella predicava da una vita. E Marco è vivo. Da molti anni Pannella amava sentirsi "riserva della Repubblica" e stagliarsi nell’agone politico quando tutto sembrava scompaginato e irrecuperabile, era il suo modo di vivere l’eccezionalità: qualcuno ricorderà anche il "Parlamento degli inquisiti" di cui si mise a capo nel 1993, costringendo gli onorevoli ad alzarsi alle sette del mattino; o quando cercò di sostenere il governo Ciampi, o quando fece altrettanto col primo governo Berlusconi e nondimeno con il ministero Prodi, cui riuscì a perdonare l’ignavia dimostrata in tema di diritti civili: naturalmente aveva ragione lui, anche perché Romano Prodi era quello che voleva sospendere l’embargo delle armi alla Cina, era l’uomo che non aveva neppure voluto incontrare il Dalai Lama, che non si oppose alla candidatura di Hugo Chavez al Consiglio di Sicurezza. L’abilità di Pannella e dei Radicali è sempre stata questa: mischiare passione civile e un pizzico di realpolitik, visioni lunghissime a pragmatismi quotidiani: ma il più delle volte Pannella restava inascoltato lo stesso, a destra - lo abbiamo detto e a sinistra, laddove da un certo punto in poi gli preferirono le inutili assise dirette da Carlo De Benedetti, figurarsi. Walter Veltroni, nel 2008, a Pannella preferì persino un accordo elettorale con Di Pietro, mentre nel centrodestra non sono mai mancati i chierici che antipatizzavano avendo fatto più lui per la laicità, in Italia, che i Patti Lateranensi. Il rimorso, scrivono. Ma la classe politica non conosce rimorso: pensa che non faccia parte della politica. Pannella aveva ragione, ma la ragione si da ai Pannella, e cioè non si è disposti a dargliela: salvo riconoscergliela postuma. Il dettaglio è che Pannella è vivo, e i pellegrini stanno omaggiando soltanto le proprie storiche sconfitte. Foggia: detenuti al lavoro per abbellire la città, progetto di recupero sociale immediato.net, 17 marzo 2016 È stata sottoscritta ieri la convenzione tra il Comune di Foggia ed il Tribunale di Foggia finalizzata all’impiego di soggetti ammessi alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, in attuazione della delibera di Giunta adottata dall’esecutivo di Palazzo di città su proposta dell’assessore comunale Sergio Cangelli. La convenzione, che avrà la validità di un anno, prevede l’impiego di 6 soggetti in interventi manutentivi nei settori del verde pubblico e della manutenzione stradale, del servizio idrico integrato, del cimitero, della viabilità e del patrimonio comunale, con il Comune che sosterrà i soli costi della copertura assicurativa. L’orario di lavoro dei soggetti che verranno impiegati in questa attività è stato individuato in relazione alle esigenze delle mansioni da svolgere ed in modo da non pregiudicare le esigenze di vita dei condannati e si svilupperà dunque dalle 9.00 alle 13.00 per un totale di 5 giorni alla settimana. Nella sua fase di avvio, il servizio riguarderà, in particolare, la pulizia del patrimonio comunale coperto da scritte e graffiti. "La materiale sottoscrizione di questa convenzione definisce la partenza di una collaborazione virtuosa, positiva ed orientata all’attuazione concreta del principio di recupero sociale - commenta il sindaco di Foggia, Franco Landella. Desidero esprimere un sincero ringraziamento al presidente del Tribunale di Foggia, Domenico De Facendis, ed un grazie particolare all’ufficio locale di esecuzione penale di Foggia per l’impulso fondamentale e decisivo impresso in questo percorso e per aver promosso questa intesa di cui siamo profondamente orgogliosi. Attraverso questo importante strumento - conclude il primo cittadino - sarà dunque possibile coniugare l’obiettivo di un recupero sociale dei condannati con un’azione di sostegno operativo all’impegno che l’amministrazione comunale sta mettendo in campo per la tutela del patrimonio comunale". Varese: detenuti al lavoro per tinteggiare la scuola di Gorla Maggiore di Orlando Mastrillo varesenews.it, 17 marzo 2016 Il progetto verrà presentato giovedì. Le pareti della scuola primaria De Amicis verranno tinteggiate da alcuni detenuti. Il Comune di Gorla Maggiore presenterà domani, giovedì 17 marzo, il Progetto Lavori di Pubblica Utilità ad opera di carcerati. Il progetto è stato pensato dal tavolo di coordinamento con i funzionari del Servizio Sociale e attuato con il tramite della Cooperativa Intrecci e Commissariato e vedrà coinvolti 5 detenuti che avranno il permesso di uscire dal carcere grazie all’articolo 21 (ordinamento penitenziario per l’uscita dal carcere) e faranno lavori di pubblica utilità, in questo caso la reimbiancatura di una scuola. L’intento, di "giustizia riparativa", condiviso dal Comune di Gorla Maggiore, dal carcere e dai detenuti, (selezionati da apposita commissione) è quello di sperimentare la volontà di avvicinamento e di reintegrazione nella comunità, con l’intento personale e sociale di dare in questo modo una riparazione al danno arrecato dai reati commessi. L’obiettivo comune è di ridurre il disagio e il reinserimento di detenuti a fine pena, promuovendo la legalità. Lavorare è il farmaco per non aver in futuro recidive, e per dare spessore e dignità anche a chi è caduto nell’errore, operando per la persona, ma soprattutto con la persona. Il lavoro, che si svolgerà 4 ore la mattina e 4 il pomeriggio presso la Scuola Primaria E. De Amicis in Via Mayer, consiste nell’imbiancatura di alcune parti della Scuole stessa, il materiale verrà messo a disposizione dal Comune. Presenteranno il progetto il direttore dell’istituto penitenziario Orazio Sorrentino, Sabrina Gaiera agente di Rete presso CC Busto Arsizio (Coop. Intrecci), il responsabile dell’area trattamentale Rita Gaeta, il rappresentante dell’Ufficio Esecuzione Penitenziale Esterna (Uepe), il sindaco del Comune di Gorla Maggiore Pietro Zappamiglio e l’assessore ai servizi sociali del Comune di Gorla Maggiore Maria Vigorelli. Pisa: l’Osapp "continui interventi di manutenzione, il carcere non è sicuro" pisatoday.it, 17 marzo 2016 Problemi strutturali, canali televisivi che non funzionano da mesi, strumenti tecnici per garantire sicurezza e radio malfunzionanti e in disuso. I problemi del carcere Don Bosco di Pisa tornano nell’attualità attraverso la denuncia del sindacato Osapp, formalizzata attraverso una lettera inviata al provveditore regionale della Toscana e al direttore della stessa casa circondariale. "Ci risulta che da circa tre mesi l’amministrazione sapesse del mancato funzionamento di alcuni canali televisivi in alcune sezioni detentive. Nonostante ciò i provvedimenti per la risoluzione del problema hanno dovuto attendere che la collera della popolazione detenuta, interessata alle partite di calcio, si manifestasse - afferma il vice segretario regionale Osapp Claudio Caruso - come sindacato ci preme sottolineare che il personale di Polizia Penitenziaria non è chiamato a sopperire alle deficienze economiche dell’amministrazione. In buona sostanza però il problema di non vedere un canale televisivo, che per la popolazione detenuta diventa gigantesco, è stato affrontato con la sola diplomazia messa in atto dagli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Una cosa inaccettabile e controproducente rispetto a quelle che sono le finalità istituzionali proprie del Corpo, come enumerate nella l. 395/1990. A ciò si aggiunga che proprio il personale di Pisa, tanto bistrattato e vituperato, è il solo elemento dell’organizzazione che di fatto porta avanti l’Istituto nelle ormai indicibili difficoltà strutturali che hanno effetti negativi sulla vita delle persone ivi detenute e, di riflesso, sulla organizzazione del lavoro e sulla gestione delle risorse umane". Oltre a mancanze nell’efficienza di varie apparecchiature tecniche, Caruso lamenta anche "un rapporto dell’amministrazione con la parte sindacale approssimativo a livello locale e non pervenuto ancora a livello regionale, nonostante le numerose missive inviate dalla sigla scrivente. Confidando nell’avvento del nuovo Provveditore Regionale, urge un confronto in materia. Per quanto ci riguarda il carcere di Pisa andrebbe abbattuto e ricostruito, magari in altra località più consona a quelle che sono le esigenze di sicurezza proprie di un centro urbano". "Nei mesi scorsi - prosegue il rappresentante di Osapp - abbiamo interessato del pericolo strutturale altre figure istituzionali di rilievo (Prefetto, VV.FF.). Negli anni precedenti avevamo avuto un confronto con l’amministrazione comunale e con alcuni rappresentanti del Parlamento. Ma nonostante le risposte ricevute per iscritto e l’impegno profuso, riscontriamo un evidente imbarazzo istituzionale, nei confronti di una struttura che attualmente non dispone degli standard minimi di sicurezza sui luoghi di lavoro". Poi nella lettera l’elenco dei deficit strutturali: "La struttura è in diverse parti puntellata e, all’interno, il nuovo reparto che era stato iniziato prima del 2009, non è mai stato ultimato né posto in funzione. L’apertura delle celle che consentisse alla popolazione detenuta di essere in regola con i parametri forniti dalla famosa Sentenza Torreggiani, non ha senso perché non corredata dalle necessarie attività che tengano impegnati i detenuti, contribuendo alla risocializzazione degli stessi. Tutto ciò anche per la oggettiva mancanza di spazi che consentano lo svolgimento delle cc.dd. attività trattamentali. In tutto ciò il personale di Polizia Penitenziaria, lavora con la stessa manualità di decine di anni fa e l’amministrazione di fatto non ha mai individuato il carico di lavoro umanamente sopportabile per singolo posto di servizio. E sempre il personale di Polizia Penitenziaria a subire aggressioni gratuite ed ingiustificate, con lamette e bombolette di gas, che dovrebbero essere vietate negli istituti, proprio perché oggetti atti ad offendere". "Un carcere dove la realizzazione concreta delle indicazioni legislative viene compromessa dalle continue complicazioni strutturali e gestionali, non è di fatto un carcere - conclude Caruso - perché costringe il personale ad organizzare le attività in base al momento, alla contingenza quotidiana. Una struttura dove si moltiplicano gli interventi di manutenzione straordinaria e dove le ditte esterne sono costrette ad intervenire quotidianamente, non è una struttura sicura". Dal sindacato minacciano forme di protesta se la situazione dovesse restare quella attuale. Bari: la canonica di Loseto si apre per dare un futuro ai detenuti barilive.it, 17 marzo 2016 Due parrocchie unite in un progetto ispirato a don Tonino Bello. Avviene in una "frazione dormitorio" come Loseto, alla periferia della città metropolitana di Bari. Due le chiese parrocchiali: l’una settecentesca, dedicata a san Giorgio martire; l’altra moderna e quasi avveniristica, intitolata al Salvatore. Luoghi dello spirito. Separati dalla strada a scorrimento veloce che corre pericolosa e taglia in due il borgo antico dall’agglomerato urbano postmoderno. Una strada come fosse un muro. Coesa, invece, la comunità dei credenti. Ruota intorno al parroco don Lino Modesto, sacerdote giovane, dinamico, colto, fervente, ispirato. Da anni s’interroga con i parrocchiani sulla destinazione da dare alla canonica posta nel centro storico. Comunità e parroco vorrebbero trasformarla in un luogo di carità operosa nel nome di don Tonino Bello. Con l’aiuto della Caritas diocesana, diretta da don Vito Piccinonna, e del Servizio di pastorale carceraria della Provincia dei Frati Minori di Puglia e Molise, animato da fra Mimmo Scardigno, viene varato il progetto "Convivialità delle differenze". Due le evidenze nate dall’unico utero, legate da un robusto cordone ombelicale: Casa Freedom, luogo di accoglienza per detenuti in permesso premio, e il Centro di sostegno alla genitorialità, che intende favorire processi di ricongiungimento e ricostruzione delle relazioni familiari e affettive durante la pena detentiva. Cremona: il Sappe; detenuto tenta di uccidersi in cella, una guardia lo salva in extremis La Provincia, 17 marzo 2016 L’ennesimo evento critico accaduto nel carcere di Cremona è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria. Proprio in questi giorni il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe aveva diffuso i numeri delle criticità penitenziari della Lombardia. Ieri, martedì 15 marzo, un detenuto romeno, in isolamento nel carcere di Cremona e con fine pena 2017, ha tentato di uccidersi impiccandosi nella sua cella ma è stato salvato dal tempestivo intervento dell’Agente di Polizia Penitenziaria in servizio. "Il gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari. Soltanto grazie all’intervento provvidenziale dell’Agente di sezione si è evitato che l’estremo gesto avesse conseguenze. L’ennesimo evento critico accaduto nel carcere di Cremona è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Capece sarà nel carcere di Cremona giovedì 17 marzo per una visita nella struttura detentiva, dove incontrerà anche i giornalisti di stampa e tv. Di seguito, presiederà il XX Consiglio Regionale del Sappe Lombardia, presso la Sala Eventi del Comune. "Mi preoccupa questo nuovo grave episodio nel carcere di Cremona, che è quello della Lombardia con il più alto numero di tentati suicidi tra i detenuti della Regione. Abbiamo in più occasioni segnalato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma le significative disfunzioni e inconvenienti che riflettono sulla sicurezza e sulla operatività della Casa Circondariale di Cremona e del personale di Polizia Penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una grave carenza di organico ma una organizzazione del lavoro assolutamente precaria e fatiscente, legata anche al fatto che non vi è un direttore titolare ma uno in missione da altro istituto, per altro con significate spese di bilancio. Direttore e Comandante di Reparto non sono evidentemente adeguatamente stimoli professionalmente. Tutto questo, a parere del Sappe, conferma con chiarezza come la gestione e l’organizzazione della Casa Circondariale di Cremona sono decisamente deficitarie per cui occorre che le Autorità ministeriali intervengano con la massima sollecitudine, con una ispezione interna e con l’assegnazione di un Direttore in pianta stabile", prosegue Capece. "Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Cremona - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici", conclude il segretario regionale lombardo del Sappe, Alfonso Greco. "Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri lombarde e del Paese (oggi affollate comunque da quasi 53mila detenuti) sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia, sotto organico di 7mila unità e penalizzati dalla Legge di stabilità 2016 che ha bocciato l’assunzione straordinari di 800 nuovi Agenti". Genova: il 23 marzo torna "Vivicittà Porte Aperte" nel carcere di Marassi primocanale.it, 17 marzo 2016 Vivicittà, la manifestazione podistica internazionale organizzata dall’Uisp in 40 città italiane e 20 nel mondo unisce, ogni anno, lo sport ad importanti temi di solidarietà e promozione di diritti. Genova, per il quinto anno consecutivo, sarà protagonista di un importante prologo nazionale: la speciale manifestazione "Vivicittà - Porte Aperte", grazie alla collaborazione ormai consolidata tra il Comitato Uisp di Genova e la direzione della Casa Circondariale di Marassi. "Vivicittà - Porte Aperte" nel 2016 si svolgerà mercoledì 23 marzo, alle ore 15.00, con i detenuti partecipanti che correranno insieme ad una rappresentativa di atleti tesserati per associazioni della Lega atletica leggera Uisp. Il percorso di circa 3 chilometri, definito di comune accordo dalla Casa Circondariale e dal Comitato Uisp, prevede, come di consueto, anche una parte esterna attorno alle mura dell’Istituto. Contemporaneamente, sul campo interno, si disputerà una partita di calcio a cinque fra i detenuti partecipanti alle attività dei progetti di sportpertutti, una rappresentativa esterna e una squadra della Polizia Penitenziaria. Un’importante novità dell’edizione 2016 l’inserimento nel programma ufficiale della manifestazione anche di una partita di pallavolo, che vedrà protagonisti, sempre sul campo interno, i detenuti e una formazione esterna composta da tutti tesserati Uisp. La manifestazione è organizzata dal Comitato Uisp di Genova e dalla Direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi, con la collaborazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, e simbolicamente vuole creare "un ponte" tra l’interno e l’esterno delle mura, con il Carcere che è e deve essere considerato parte integrante della città e Uisp impegnata ormai da alcuni anni a far emergere questo aspetto, attraverso le azioni del progetto "Ponte", inserito all’interno dell’Ats Regionale La Rete che Unisce, con il contributo della Regione Liguria. Migranti, l’Italia è un paese di transito: nel 2015 flessione di nuovi arrivi (-7,4%) di Irene Giuntella Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2016 Migranti rappresentati come invasori, criminali, che rubano il lavoro. È frequente la manipolazione politica e una narrazione che crea allarmismi tra la popolazione generalizzando singoli episodi, specialmente prima delle elezioni. Questi alcuni dei dati che emergono dal rapporto presentato dal Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) a Bruxelles basato sulle missioni compiute in undici paesi Ue, e che riporta il punto di vista delle organizzazioni della società civile sulla situazione dei rifugiati. L’Italia è un paese di transito per i migranti che vogliono raggiungere in realtà altri paesi. I migranti non vogliono farsi identificare sul territorio italiano per non essere costretti a chiedere l’asilo nel nostro paese e non poter raggiungere ad esempio il Nord Europa. Rispetto al 2014, nel 2015 si è registrata una piccola riduzione dei migranti in arrivo in Italia, -7,4%, ma guardando al mese di gennaio 2016 il trend sembra essere di nuovo in crescita. Preoccupante è l’alto numero di minori non accompagnati che arrivano nel nostro paese e che non vengono accolti in strutture adeguate. C’è ancora molto da fare, secondo il Cese, per l’integrazione, l’accesso ai servizi di assistenza sanitaria, gli alloggi adeguati, il riconoscimento delle competenze professionali. All’età di diciotto anni rischiano di perdere la protezione e il permesso di residenza, non sempre riescono a frequentare scuole e apprendere le competenze necessarie per integrarsi nel mondo del lavoro. In Italia il tasso di disoccupazione tra i migranti è aumentato precipitosamente a causa della crisi e, dal momento che nel nostro paese per avere il permesso di soggiorno si deve avere un lavoro, il lavoro in nero e lo sfruttamento sono aumentati, soprattutto nel settore agricolo dove dilaga il caporalato con lavoratori stagionali. La disoccupazione, hanno insistito le Ong ascoltate dal Cese (come Cir, Migrantes, Anolf Nazionale, Acli e Centro Astalli) e i principali sindacati, non è determinata dai flussi di migranti ma dalla crisi economica. I migranti infatti cercano di spostarsi o finiscono preda del lavoro nero, svolgono lavori nei settori delle pulizie, del catering, del turismo e del lavoro domestico. Spesso senza assistenza di base e finendo vittime del crimine organizzato. In particolare, il Centro Casa Suraya ha evidenziato come le donne migranti, soprattutto provenienti dalla Nigeria, e richiedenti asilo vengano ingaggiate dalla criminalità e finiscano costrette alla prostituzione al traffico umano, dopo essere state ingannate con la promessa di un buon lavoro e convinte a lasciare i centri di accoglienza in questo modo. Drammatica è anche la mancanza di un sistema europeo che monitori le persone disperse o quanti hanno perso la vita. Nessuno è responsabile per il recupero dei corpi. Nessuno si assume la responsabilità di riunire le persone che sono state separate dalla propria famiglia durante i naufragi. L’inserimento, poi, come spesso avviene, di un gran numero di migranti in piccole città o quartieri crea non pochi problemi di convivenza e coesione sociale, le autorità locali hanno bisogno di tempo per promuovere l’integrazione. I migranti appartengono ad almeno trenta differenti nazionalità: la maggior parte proviene dalla Siria, dal Senegal, dal Gambia, dal Pakistan, dall’Eritrea, dalla Nigeria, dall’Afghanistan e dal Mali. Il 65% proviene dalla Libia. Secondo L’Unhcr le procedure per le richieste d’asilo negli hotspots, centri di registrazione, vengono filtrate in base all’etnia di appartenenza dei migranti, violando chiaramente la Convenzione di Ginevra. Tra le azioni raccomandate dal Cese: ridurre gli arrivi irregolari con maggiori controlli esterni alle frontiere, garantendo però protezione a chi ne ha bisogno per ragioni umanitarie creando passaggi sicuri. Prevenire sfruttamento, traffico di essere umani, violenze e morti. Necessario anche il rafforzamento del ruolo di Frontex. Le Ong e il Cese raccomandano inoltre un sistema di politica comune di asilo e immigrazione basato sul rispetto dei diritti umani, i valori europei di solidarietà e responsabilità condivisa. Finora il regolamento di Dublino si è dimostrato inadeguato. Non deve mancare il supporto alle organizzazioni della società civile che hanno giocato un ruolo importante spesso colmando i gap delle autorità nazionali e regionali. Soprattutto si deve cambiare narrazione: è necessario mostrare pubblicamente il supporto all’accoglienza dei rifugiati, anche i media hanno un ruolo importante e il tema dei rifugiati deve essere de-politicizzato. Si deve lavorare su un’integrazione di lungo termine attraverso l’inclusione nei sistemi scolastici e di formazione, il riconoscimento delle competenze, corsi di lingua e di educazione civica. Tutto questo dovrebbe partire fin da quando si avviano le procedure per le richieste d’asilo. Migranti: a Idomeni la tendopoli nel fango cresce… come la rabbia di Emanuele Confortin Il Manifesto, 17 marzo 2016 Il confine tra Grecia e Macedonia resta sigillato e la polizia di Skopje non esita a usare la violenza. Un altro giorno di ordinaria follia a Idomeni. Ieri mattina il campo rifugiati al confine tra Grecia e Macedonia si è svegliato inzuppato dalla pioggia caduta la notte. "La più fredda degli ultimi giorni" assicurano due ventenni di Aleppo, inginocchiati stracci in mano per asciugare l’interno della tenda in cui vivono da 15 giorni. Piove da una settimana e l’intera tendopoli è una distesa fangosa, mescolata di giorno in giorno dal passaggio dei 14 mila che restano a ridosso del confine macedone, aggrappati al filo spinato assieme alla speranza di proseguire oltre. Vogliono passare dall’altra parte. Lo ritengono un diritto sacrosanto dopo quanto vissuto nei paesi di origine. Molti indossano ciabatte, avanzano con il fango alle caviglie. La legna è fradicia e la plastica recuperata tra i rifiuti non scalda abbastanza, quindi le scarpe non si asciugano, i vestiti non bastano più, le coperte nemmeno, tutto è invaso dall’acqua. Le condizioni igieniche sono al collasso, il rischio di epidemie è concreto, e i colpi di tosse sono la vera voce del campo, assieme agli schiamazzi dei bambini. "La situazione qui è tragica", ha dichiarato martedì il commissario europeo all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos in visita al campo. "L’obbiettivo è riuscire a trasferire 6 mila rifugiati al mese" ha aggiunto, riuscendo soltanto ad alimentare la frustrazione dei migranti, esasperati dall’attesa e pronti a tutto pur di varcare il confine. Ormai è chiaro, tutti vogliono passare e non sarà facile bloccarli ancora per molto. La prova è giunta lunedì, dopo che un volantino in arabo diffuso all’interno del campo ha svelato una nuova via verso nord, una falla nello sbarramento realizzato da Skopje. Circa un migliaio di persone si sono avviate oltre il borgo di Hamilo e qui hanno guadato un torrente ingrossato dalla pioggia, nello stesso punto in cui la notte prima erano annegate tre persone. Il passaggio sull’acqua è stato facilitato da decine di volontari. "Passerebbero ugualmente quindi meglio aiutarli, per evitare altre tragedie" ha chiarito un tedesco aggrappato a un capo della corda, troppo corta, tesa da una parte all’altra e usata come supporto. Alla fine lo sconfinamento in Macedonia non è durato neanche il tempo di una notte. "Siamo stati catturati dalla polizia macedone, caricati su un camion e riportati in Grecia" spiega Holam Haider, 35enne afgano della provincia di Parwan mentre torna alla sua routine nel fango di Idomeni. Ha la parte sinistra del volto segnata da una vistosa ecchimosi, e la spalla destra macchiata da una chiazza di sangue secco fuoriuscita da una ferita al cranio nascosta nel fitto dei capelli. "La polizia macedone mi ha colpito in faccia con un bastone arroventato al fuoco - protesta indicando le ferite -e alla testa con il calcio di un fucile". Dice di essere esasperato. Vive al campo ormai da due settimane e la pazienza è finita. Stessa storia per un anziano disabile siriano, anche lui respinto dopo la sortita in Macedonia. Leva il dito al cielo mentre il corpo freme sul sedile in cuoio della vecchia sedia a rotelle: "Assurdo restare ancora qui: abbiamo pagato migliaia di euro per fuggire e ora ci troviamo in queste condizioni, a dover aspettare il cibo distribuito al campo. Abbiamo tentato di passare già quattro volte, ma proveremo ancora". Dietro di lui scorrono le rotaie della linea ferroviaria che collega Grecia e Macedonia, interrotta 200 metri più a nord da un pesante cancello zincato avvolto nel filo spinato. Dall’altra parte un gruppo di poliziotti di Skopje sosta tra i sassi. Si avvicina Zanko, l’unico macedone disposto a parlare. "Non siamo i soli a picchiare, anche i migranti quando provano a passare usano la forza" dice, cercando di giustificare quanto accaduto dopo lo sconfinamento, senza considerare che al posto di manganelli e fucili i rifugiati in mano stringono coperte e sacchi a pelo. Parla un italiano stentato: "Mio fratello lavora in una vigna ad Alba, in Piemonte", ma non trova le parole per esprimere la sua opinione personale sul dramma che si consuma nel fango oltre la recinzione. "Non posso permettermi di pensare, devo solo ubbidire… ma gli ordini giungono dalla Germania". Un passaggio sulla destra del cancello riporta nel cuore della tendopoli. Il tempo tra i rifugiati si consuma in chiacchiere, nel tentativo di accendere un fuoco, oppure fumando l’ennesima sigaretta. Talvolta la tipica cortesia siriana viene storpiata dalla frustrazione, pertanto prima dei saluti parte la domanda di rito: "Quand’è che aprono il confine?". Una formula nota a tutti, ripetuta allo sfinimento anche da chi l’inglese non lo ha mai ascoltato neanche in televisione. Costretti a fuggire - Chi non zoppica con l’inglese è Abdoul, 65enne che a Homs ha lasciato un laboratorio in cui produceva scarpe in pelle di alta qualità. "Ho perso tutto con la guerra". Anche lui ha tentato di forzare il passaggio oltre il torrente di Hamilo, ma ha desistito dopo una notte all’addiaccio, con donne e bambini fradici, nel fitto del bosco. "Sono lento, quindi mi sono perso nel buio, ero con gli ultimi", racconta. Nel 2012 è stato ferito a una gamba in una delle tante battaglie che in cinque anni hanno raso al suolo la città che ama, dove teme di non riuscire più a tornare. "Vent’anni fa in un libro ho letto che gli arabi sarebbero diventati rifugiati nella loro terra, come i pellerossa. Sta accadendo davvero, solo che noi siamo costretti a fuggire". La buona notizia è che nella notte saranno montate nuove tende donate da Unhcr. L’informazione viene diffusa con cautela, troppo alto il rischio di assembramenti per accaparrarsi un posto asciutto. Ancora case di tela, la distesa fangosa di Idomeni cresce ancora, insieme alla rabbia dei migranti. Migranti: stretta sui controlli negli hotspot "sì alle impronte prese con la forza" di Francesca Schianchi La Stampa, 17 marzo 2016 Sul tavolo del governo un provvedimento per consentire l’identificazione dei migranti Alfano: "Lavoriamo a un’ipotesi articolata". Le nuove norme già illustrate ai sindacati. Il governo sta lavorando a una norma per consentire, se necessario, l’uso della forza per prendere le impronte ai migranti. A confermarlo, in serata, è il ministro dell’Interno in persona, Angelino Alfano, dopo che nel pomeriggio i sindacati di polizia avevano ricevuto dal Dipartimento di pubblica sicurezza, "per opportuna conoscenza", comunicazione della norma in via di elaborazione. "Ci sto lavorando", spiega Alfano, "io ho messo allo studio una norma sulla gestione degli hotspot", cioè i centri di identificazione dei nuovi arrivati voluti dalla Ue, "per risolvere alcune possibili difficoltà", un’ipotesi "articolata" che "riguarda diversi aspetti, compreso - chiarisce il ministro - quello dell’uso della forza nei confronti di coloro che si rifiutano di sottoporsi al fotosegnalamento che è obbligatorio per il nostro ordinamento e quello europeo. Stiamo valutando dove inserirla". Alla vigilia del Consiglio europeo che cercherà di avviare a soluzione la questione dei flussi migratori tramite l’accordo con la Turchia, e proprio nel giorno in cui, non per la prima volta, Bruxelles chiede all’Italia di "impegnarsi di più" (e dopo che contro il nostro Paese è stata anche aperta una procedura d’infrazione per insufficiente condivisione delle informazioni dei database europei), arriva notizia di questa norma, descritta ai sindacati "in avanzato stato di predisposizione" e "volta a disciplinare il soccorso, la prima assistenza, l’identificazione" e, appunto il "rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche forzoso" dei migranti. Un punto molto delicato, quello di poter usare la forza contro migranti riottosi in larga parte a fornire le proprie impronte (secondo il trattato di Dublino, dovrebbero poi rimanere nel Paese di primo approdo), da chiarire e delimitare con attenzione. "Aspetto a esprimermi di leggere la norma - dice Daniele Tissone della Silp-Cgil - auspico che sia scritta nel pieno rispetto dei diritti umani e in modo chiaro e attuabile, per tutelare il lavoro degli operatori", evitando cioè denunce e polemiche. Una iniziativa che potrebbe destare critiche, soprattutto a sinistra. E che si iscrive nell’ambito delle faticose politiche per gestire la crisi migratoria, una vicenda difficile da inserire "in un quadro più normale, più logico", secondo il premier Matteo Renzi, "per la mancanza di attuazione di un progetto che prevedeva hotspot, riallocazione e rimpatri": in particolare, sottolinea Renzi, "gli hotspot sono stati fatti, le riallocazioni e i rimpatri no". Centri di identificazione in Italia ci sono già, da Lampedusa a Pozzallo a Trapani: ieri, il Cese, organo consultivo dell’Unione europea, ha riferito in un suo rapporto sull’Italia come nel nostro Paese sia "in corso una discussione" per decidere "se aprire" un hotspot anche a Milano. Questo per far fronte al "crescente numero di persone che arrivano attraverso la rotta dei Balcani", si legge nel rapporto. Che però, a testimonianza di come evolva rapidamente il fenomeno migratorio, rischia di essere già superato dagli eventi: le considerazioni contenute sulla rotta dei Balcani fanno riferimento a una missione svolta in Italia un paio di mesi fa. Nel frattempo, quella rotta si sta infrangendo lungo un rosario di muri alzati. Col rischio che l’emergenza si trasferisca sulle coste pugliesi. Intervista al presidente egiziano Al Sisi: "in Libia l’Italia rischia un’altra Somalia" di Mario Calabresi e Gianluca Di Feo La Repubblica, 17 marzo 2016 "L’intervento potrebbe provocare effetti incontrollabili. Non c’è solo l’Isis, servono piani globali contro tutti i jihadisti". "L’intervento in Libia? Voglio essere molto sincero, perché l’Italia è un paese amico dell’Egitto ed entrambi siamo molto interessati alla sicurezza nel Mediterraneo. Prima di tutto bisogna chiedersi: qual è la exit strategy?". Nella sala dove il presidente Abdel al-Fattah Al Sisi rilascia l’intervista a Repubblica un arazzo fiammingo occupa un’intera parete: raffigura una battaglia del Cinquecento, una cruenta imboscata con cavalieri che uccidono gli avversari e cannoni che spazzano via accampamenti. E quando parla della situazione libica, l’esperienza del generale sembra prendere il sopravvento sulla diplomazia del capo di Stato: pur ribadendo la disponibilità dell’Egitto a contribuire a eventuali iniziative militari, ci tiene a sottolineare i rischi di una missione a guida italiana sull’altra sponda del Mediterraneo: "Mi sembra opportuno porre cinque domande. Uno: come entriamo in Libia e come ne usciamo? Due: chi avrà la responsabilità di rifondare le forze armate e gli apparati di polizia? Tre: nel corso della missione, come si farà a gestire la sicurezza e proteggere la popolazione? Quattro: un intervento sarà in grado di provvedere ai bisogni e alle necessità di tutte le comunità e i popoli della Libia? Cinque: chi si occuperà della ricostruzione materiale? Perché un intervento esterno abbia successo è necessario che riesca a farsi carico di tutti gli aspetti della vita del paese. Non vorrei apparire esagerato nel sottolineare queste domande, ma si tratta dei problemi con cui dovremmo misurarci nell’eventualità di una operazione sul campo. E in ogni caso è molto importante che ogni iniziativa italiana, europea o internazionale avvenga su richiesta libica e sotto il mandato delle Nazioni Unite e della Lega Araba". Ma gli sforzi per rendere funzionante il governo unitario formato con la mediazione delle Nazioni Unite finora non hanno avuto successo e il parlamento di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale, non lo ha ancora votato. Come si sta muovendo l’Egitto? "Sin dall’inizio l’Egitto ha avuto un ruolo per arrivare alla nascita di un governo nazionale unitario e ha spinto in questo senso assieme ai paesi amici come l’Italia. Stiamo incoraggiando il parlamento di Tobruk ad approvarlo e ci siamo attivati perché tutte le parti in causa si assumano le loro responsabilità". State facendo pressioni sul parlamento di Tobruk, che è ritenuto particolarmente legato al vostro paese? "Facciamo pressioni su Tobruk e abbiamo compiuto tutte le azioni perché quel parlamento approvi il governo unitario". Secondo Al Sisi c’è però un errore di fondo: "Gli europei guardano alla Libia come se l’Isis fosse l’unica minaccia: no, non è la sola incarnazione del pericolo, è un errore grave concentrare l’attenzione solo su questa formazione. Dobbiamo capire che la minaccia è nell’ideologia estremista che chiede ai propri seguaci di uccidere chi è fuori dal gruppo e bisogna essere consapevoli del fatto che abbiamo davanti sigle differenti con la stessa ideologia: cosa dire delle reti qaediste come Ansar al Islam, come gli Shabab somali fino a Boko Haram in Africa?". E anche se il presidente egiziano non ne fa cenno, in Libia operano diverse organizzazioni jihadiste di questo tipo, vicine al governo di Tripoli e spesso avversarie dell’Isis. L’intervento occidentale però non è l’unica opzione sul tavolo. Al Sisi suggerisce un’alternativa, quella che l’Egitto segue da quasi due anni, appoggiando l’Esercito nazionale libico del generale Haftar, l’armata legata al parlamento di Tobruk. "Ci sono risultati positivi che si possono raggiungere sostenendo l’Esercito nazionale libico. E questi risultati si possono ottenere prima che noi ci assumiamo la responsabilità di un intervento". Finora però le forze dell’Esercito nazionale non sono riuscite a sconfiggere né l’Isis, né le altre formazioni jihadiste. "Se forniamo armi e supporto all’Esercito nazionale libico, può fare il lavoro molto meglio di chiunque altro, meglio di ogni intervento esterno che rischia invece di portarci in una situazione che può sfuggire di mano e provocare sviluppi incontrollabili". Quali? "Bisogna tenere a mente due lezioni: quella dell’Afghanistan e della Somalia. Lì ci sono stati interventi stranieri più di trent’anni fa e quali progressi sono stati raggiunti da allora? I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la storia parla chiaro". Il problema è lo stesso, che si è ripetuto anche nell’Iraq del dopo Saddam e nella Siria della guerra civile: "Se le istituzioni vengono distrutte, per ricostruirle occorre molto tempo e sforzi significativi. Questa è l’origine delle nostre grandi paure riguardo alla Libia: più tardi agiamo, più rischi si generano. Dobbiamo agire in fretta e difendere la stabilità di tutti i paesi che non sono ancora caduti nel caos, per questo ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia ma affronti i problemi presenti in tutta la regione. Problemi che poi possono trasformarsi in minacce alla sicurezza pure in Europa. Guardate cosa sta succedendo con le persone in fuga dalla Siria: cosa accadrebbe ad esempio se l’Europa dovesse misurarsi con un’ondata di profughi due o tre volte più grande di quella attuale? Per questo dico che non ci si può occupare solamente del problema militare della Libia". Le autorità italiane riconoscono all’Egitto un ruolo molto importante nel contrasto del traffico di uomini e dell’immigrazione clandestina che avviene attraverso il Mediterraneo. Cosa può fare l’Europa? "Partiamo dalla definizione di immigrazione illegale: cos’è? Un movimento di persone che cercano un luogo dove vivere in modo migliore. Questa è la definizione corretta. Quando parliamo di sforzi per contrastare il traffico di esseri umani non possiamo pensare di eludere o dimenticare le radici di questo fenomeno. Ci sono ragioni politiche, i conflitti, le violenze, il terrorismo e la mancanza di sicurezza, ma anche ragioni sociali come povertà disoccupazione e fame. L’Unione Europea può avere un ruolo fondamentale per lavorare sulle cause, aiutando i paesi da cui partono i migranti e collaborando agli sforzi per diminuire i conflitti e eliminare il terrorismo". Oggi invece molti paesi della Ue sembrano solo preoccupati di costruire muri. "L’Europa deve sostenere quei paesi dove ci sono fame e disperazione così da creare un ambiente più sicuro e stabile che convinca i giovani a restare a casa e a non partire. Questo, in senso metaforico, sarebbe il vero muro da costruire. Io dico sempre che capacità significa responsabilità, significa che i mezzi di cui disponete vi danno la responsabilità di aiutare la gente e i paesi che soffrono. Se non saremo capaci di dare risposte profonde a questi problemi, l’immigrazione illegale continuerà per molti anni insieme alla sofferenza di tante popolazioni e la crisi continuerà a spostarsi dai paesi di origine alle coste dell’Europa". In che misura l’Egitto deve fronteggiare questa ondata di profughi? "L’Egitto ospita cinque milioni di rifugiati, che vengono da Libia, Iraq, Siria e Africa e noi non siamo ricchi e avanzati come l’Europa. Non li trattiamo come rifugiati ma dividiamo con loro quel poco che abbiamo trattandoli da fratelli. Spero che queste parole non vengano lette come un incoraggiamento per chi vuole emigrare, sono solo una diagnosi nella ricerca di soluzioni per chi soffre, per non dimenticare la necessaria umanità. Quanta gente è morta nel viaggio verso di un paese migliore dove vivere? Quelli che conosciamo e quelli di cui non sappiamo nulla, i morti senza nome. E non ci sono soltanto i pericoli del mare, ma le traversate nel deserto, i campi minati e gli attacchi dei terroristi". Poi conclude, passando dall’arabo all’inglese per scandire le parole: "Non abbandonate i poveri e i deboli, non voltate loro le spalle". Egitto: generazione Regeni, la lista dei desaparecidos mina il regime di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 17 marzo 2016 Il corpo di Islam Atito, studente egiziano poco più giovane di Giulio Regeni, è stato trovato nel maggio scorso in una piazzola alla periferia del Cairo. Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar ha detto ucciso in un conflitto a fuoco ma i suoi amici dicono che è stato prelevato da agenti in borghese nel campus universitario, una mattina, e mai più rivisto in vita. Secondo l’associazione locale per i diritti umani Nadeer, in contatto con il Parlamento europeo, sono 66 le sparizioni soltanto nel mese di gennaio in Egitto. Desaparecidos, una parola che bisognerebbe imparare a pronunciare in arabo classico, ormai. Quanti? Le stime del Dipartimento di Stato americano dal 2013 all’anno scorso arrivano a 60 mila arresti arbitrari legati all’attività politica. Quanti di questi si sono trasformati in morti sotto tortura, è più difficile a dire, molti sono stati spacciati per "terroristi" o "criminali". Tanto che Nicholas Piachaud, ricercatore per Amnesty International in Egitto scriveva in un articolo apparso sulla rivista Newsweek uscito proprio il giorno della sparizione di Giulio Regeni: "Il mondo farebbe bene a non ascoltare le sirene del governo egiziano di stabilità e sicurezza. Un apparato che utilizza tortura, forza eccessiva, detenzioni arbitrare e sparizioni per schiacciare ogni forma di dissenso non dovrebbe essere considerato un partner strategico". Per l’analista era già allora più che evidente: polizia segreta ovunque, telefonate e social media sotto controllo, condizioni carcerarie disumane. "Il sistema di giustizia penale è fuori controllo", concludeva. Secondo Human Right Watch nelle carceri egiziane ci sono attualmente 22mila detenuti senza processo, per Amnesty sono 41 mila le persone arrestate e processate in modo arbitrario nel 2015. Le testimonianze di sevizie nelle carceri sono tantissime, specialmente durante gli interrogatori sia della National security agency, diretta da Mohamed Shaarawy, sia dell’intelligence (il Mukhabarat) diretta da Khaled Fawzy, generale veterano della Guerra nel Golfo. Giulio Regeni è in cima a una lunga lista di persone che spariscono, che i familiari sperano di riabbracciare ma hanno paura a cercare, un elenco di giovani vite massacrate così lungo da comincia a far traballare il regime di Al Sisi, "il buon padre di famiglia" con le mani grondanti sangue, che ha decretato il 2016 "l’anno della Gioventù egiziana". Amnesty si batte per i casi che si potrebbero ancora risolvere positivamente, oltre che per la verità per Regeni. C’è Ahmed Said, "medico e poeta" in carcere con altri quattro da novembre per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata (art.143 della Legge di procedura penale di cui Amnesty chiede l’abrogazione), una manifestazione che nessuno ha visto, che in effetti non c’è mai stata. Condannato a due anni senza prove. C’è Mahamoud Hussein in cella da più di due anni, ben oltre il massimo di carcerazione preventiva, entrato bambino a 17 anni e ancora dentro da uomo a 20, solo perché trovato con indosso una maglietta con la scritta "Una nazione senza torture" e una sciarpa che inneggiava alla "Rivoluzione del 25 gennaio", quella del 2011, la cosiddetta Primavera araba. Poi c’è Mahmoud Abu Zeid, detto "Shawkan", professione fotoreporter, dentro da più di mille giorni per aver fatto riprese in strada durante la repressione della polizia al sit-in contro il golpe il 14 agosto 2013, lasciando 600 morti a terra in un solo giorno. E Ibrahim Halawa, 20 anni, padre egiziano ma passaporto irlandese, arrestato in quella stessa giornata di sangue che ha incoronato Al Sisi. Era un turista lì. Il 6 marzo scorso il suo processo è stato rimandato per la 13° volta al 26 giugno. Ma almeno a Dublino il governo e i giornali non lo hanno lasciano solo. Turchia: da un anno detenuto in aeroporto, il rifugiato siriano che nessuno vuole di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 marzo 2016 Dal 15 marzo 2015 Fadi Mansour è agli arresti allo scalo turco di Istanbul. Fuori, 2,7 milioni di connazionali che ora guardano a Ginevra. Ma il negoziato è in stallo. Frase scontata, ma a volte è vero che la vita assomiglia a un film. Almeno quella di Fadi Mansour. Detenuto da un anno all’aeroporto Ataturk di Istanbul, come il più famoso Tom Hanks in The Terminal, pare il modello perfetto dalla guerra civile siriana. Scappato nel 2012 da un paese in fiamme per sfuggire all’arruolamento nell’esercito, si è trasformato in un rifugiato. Un rifugiato che non vuole nessuno, come altri milioni di suoi connazionali. Non lo ha voluto il Libano che lo ha respinto, non lo ha voluto la Malesia che l’ha cacciato. E non vuole la Turchia che preferisce relegarlo nella cosiddetta "stanza dei passeggeri problematici". La sua storia è stata resa nota da Amnesty International ad un anno esatto dalla sua detenzione. Fadi, 28 anni, studente di legge nato ad Homs, è detenuto nell’aeroporto turco dal 15 marzo 2015. Stanco, sfibrato, umiliato, chiede di tornare in Siria: "Meglio morire una volta e farla finita, che morire un po’ ogni giorno". Non vede il sole da 365 giorni, costretto in una stanza con una luce artificiale accesa 24 ore su 24. Di letti non ce ne sono, dorme su una sedia. Fuori da quell’aeroporto, in condizioni altrettanto pessime, ci sono 2,7 milioni di rifugiati siriani divisi tra campi profughi e grandi città. Chi può affitta una stanza in appartamenti affollati, pagando prezzi molto più alti della media. Molte famiglie vivono di elemosina per le strade di Istanbul e Ankara, altri si cercano lavori sottopagati in nero perché le autorità non riconoscono permessi di lavoro. Sono considerati "ospiti", a cui attribuire solo lo status di soggetto protetto in via temporanea. Sulla loro pelle si gioca il braccio di ferro tra Unione Europea e Turchia: la prima non vuole vederli arrivare sulle proprie coste, la seconda è disposta a tenerli in cambio di 6 miliardi di euro. Ieri il premier turco Davutoglu tornava a elogiare l’accordo, strumento "per ridurre l’immigrazione illegale", ribadendo di avere a cuore la vita dei siriani in fuga e non il premio in denaro per evitare rogne all’Europa. Anche su di loro, sui rifugiati siriani all’estero, pesa la disillusione per il negoziato in corso a Ginevra. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal centro turco di ricerca per l’Asilo e la Migrazione, le opinioni sono discordanti: il 57,6% è convinto che l’attuale cessazione delle ostilità porterà finalmente la pace, il restante 43,4% non condivide tale speranza. Il round negoziale è giunto al suo terzo giorno, senza risultati di sorta: il dialogo - dicono fonti interne - è fermo sulle precondizioni, ovvero la scarcerazione dei prigionieri politici, la composizione delle delegazioni e la consegna degli aiuti umanitari. La questione centrale, la creazione di un governo di unità, appare lontanissima. Da parte sua la comunità internazionale ha messo sul tavolo l’agognata soluzione federale, ovvero la divisione in entità amministrative della Siria. L’opzione è stata però ripetutamente scartata da entrambe le parti, che tra martedì e ieri hanno ribadito la contrarietà ad una separazione, anche solo amministrativa, del paese. Il governo di Damasco ha detto lunedì di aver presentato all’inviato Onu de Mistura un piano di transizione pacifica di cui non si hanno ancora i dettagli. Nessun faccia a faccia tra i negoziatori governativi e quelli di opposizione: ieri a seguito del secondo meeting con de Mistura il capo delegazione di Damasco, l’ambasciatore al Palazzo di Vetro al-Jaafari, ha dichiarato di non voler discutere direttamente con l’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), la federazione delle opposizioni. Non vuole - dice al-Jaafari - perché tra loro ci sono assassini terroristi, chiaro riferimento a Jaysh al-Islam. Poi torna sul parziale ritiro delle truppe e dei jet da guerra russi, che stanno gradualmente rientrando a Mosca: "La decisione russa è stata presa congiuntamente al governo, dai presidenti Putin e Assad. Non è stata una sorpresa per noi". La sorpresa giunge invece da chi al tavolo svizzero non è stato neppure invitato: il Pyd, il Partito dell’Unione Democratica, rappresentante politico dei kurdi di Rojava, ha fatto sapere di voler dichiarare a breve la nascita di un’entità federale autonoma nei tre cantoni di Kobane, Afrin e Jazira. Ad annunciarlo è Nawaf Khalil, membro del Pyd, che spiega l’idea dietro il "Sistema Federale Democratico per Rojava": una democrazia dal basso che rappresenti tutti, kurdi, turkmeni, arabi, una regione autonoma che resti comunque parte del governo centrale siriano. Stati Uniti: Investigative Project on Terrorism "la radicalizzazione passa dalle carceri" di Graziella Giangiulio agccommunication.eu, 17 marzo 2016 Gli estremisti islamici stanno intimidendo altri detenuti costringendoli a convertirsi all’Islam in Gran Bretagna. Le guardie carcerarie avrebbero "perso il controllo della situazione", riporta l’Investigative Project on Terrorism (Ipt). Il Ipt riprova dati del quotidiano britannico Evening Standard di Londra secondo cui il "bullismo islamista era così grave che alcuni prigionieri nel carcere di Thameside sono tenuti in "blocco" per proteggerli dai detenuti musulmani (...) C’è il senso che le autorità carcerarie abbiano perso il controllo". "Abbiamo la preoccupazione che gli estremisti islamici vogliano volutamente avere pene detentive al fine di radicalizzare i prigionieri vulnerabili. Sono spesso persone intelligenti e ben istruito e possono fare il lavaggio del cervello ai giovani" aveva detto l’assistente del segretario generale delle Prison Officers Association, Glyn Travis, nel mese di dicembre, prosegue Ipt. Queste affermazioni confermano le crescenti preoccupazioni per quanto riguarda la diffusa radicalizzazione islamica nelle carceri. Il segretario britannico per la Giustizia Michael Gove ha già ordinato un’inchiesta per valutare l’impatto dei detenuti islamici sulla radicalizzazione dei prigionieri. Le sfide poste dai detenuti islamisti radicali sono "un problema globale", ha detto Patrick Dunleavy, ex vice ispettore generale per il New York State Department of Corrections e autore del libro The fertile soil of Jihad. Per lui i jihadisti hanno una "straordinaria capacità" nel fiorire nelle carceri: "Fino a quando non riconosciamo la minaccia e mettiamo a punto misure efficaci e contromisure per affrontare il problema, questa minaccia continuerà a diffondersi", ha detto Dunleavy. Argentina: l’appello dei Vescovi per le carceri "la situazione va affrontata" Dire, 17 marzo 2016 Cambiare mentalità e affrontare, in forma concreta, la situazione delle persone private della loro libertà, in particolare di coloro che appartengono ai settori sociali più vulnerabili. È l’invito che la Conferenza episcopale argentina rivolge in un documento della 110esima assemblea plenaria, approvato nel mese di novembre 2015, ma reso noto ieri e diffuso ieri dalla stampa cattolica. Nel documento, dal titolo "Fui in prigione e veniste a trovarmi" (cf. Mt. 25,36), emerge la denuncia di "inammissibili celle di totale isolamento" nelle carceri argentine e di una corruzione che non consente ai detenuti di accedere ai beni essenziali per qualsiasi persona, quali l’alimentazione, l’assistenza, l’istruzione, la religiosità, i legami familiari, la ricreazione e l’arte. La Chiesa esorta pertanto a sradicare qualsiasi forma di violenza istituzionale e a percorrere vie di riconciliazione e amicizia sociale: "occorre un cambio urgente", hanno affermato i vescovi, auspicando che la società argentina possa costruire legami di comunione e di appartenenza tali che, di fronte al delitto, la risposta non sia soltanto la prigione e l’oblio dei detenuti. "Siamo convinti- hanno aggiunto ancora i prelati nel testo- che, in una società dove sfortunatamente si moltiplicano fatti delittuosi, uniti a violenza e morte, la soluzione non si raggiunga soltanto con pene più severe e con nuovi istituti carcerari. Crediamo che il cammino sia invece un altro: più politiche d’inclusione sociale che - nella ricerca del bene comune - offrano uguaglianza di opportunità a tutti i membri della società, al fine del loro giusto e doveroso sviluppo integrale". "Nessuno - hanno osservato gli autori del documento - per il solo fatto di delinquere, perde la sua condizione di persona, Figlio di Dio e membro della famiglia umana. Deve pertanto essere trattato come tale. Non si deve mai sottoporre il rispetto della dignità della persona a nessun’altra finalità, come ad esempio, la correzione o la riparazione del danno. Dev’essere riaffermato il valore della giustizia, nel rispetto delle garanzie del regolare processo e del diritto alla giusta difesa secondo diritto", concludono. Honduras: un altro ambientalista ucciso, dal 2010 sono 101 le vittime di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 marzo 2016 Nelson Garcia è stato vittima di colpi di arma da fuoco mentre tornava a casa dopo aver aiutato gli indigeni. Lavorava insieme a Berta Caceres, l’attivista uccisa il 3 marzo. Un altro attivista per l’ambiente e i diritti degli indigeni ucciso. Questa volta a cadere è stato Nelson Garcia, 38 anni, amico e collega di Berta Caceres, morta il 3 marzo dopo essere stata aggredita in casa. Garcia, che lavorava con Caceres al Copinh (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras), è rimasto vittima di quattro colpi di arma da fuoco in pieno volto mentre tornava a casa, a Rio Lindo, dopo aver assistito una famiglia di indigeni la cui casa era stata espropriata, a 120 chilometri a nord della capitale Tegucigalpa. Anche in questo caso - come dopo l’omicidio di Caceres - la polizia ha parlato di un caso di violenza isolato. Ma è evidente come il Copinh sia entrato nel mirino per le sue battaglie a favore degli indigeni e dell’ambiente. Caceres e i suoi colleghi da tempo infatti si battono contro gli espropri delle multinazionali che dal colpo di Stato del 2009 stanno acquisendo sempre più potere. L’anno scorso Caceres aveva vinto il premio Goldman, il cosidetto Nobel per l’ambiente, per aver bloccato la costruzione della diga di Agua Zarca. Dopo questo secondo omicidio il Copinh ha ribadito come sia in atto un tentativo di intimidazione da parte degli squadroni della morte al soldo dei privati. Aureliano Molino, un altro dei membri del collettivo, è stato arrestato e detenuto per 48 ore senza accuse. L’uomo ha denunciato giorni dopo di essere stato pedinato e che un uomo non identificato si è introdotto in casa sua. Come sottolinea il Guardian, dall’omicidio di Berta tutti i suoi colleghi e amici sono stati monitorati in modo del tutto illegale. Durante le manifestazioni successive alla morte di Berta la polizia ha scattato numerose foto ai manifestanti. E Amnesty International ha sottolineato come al testimone dell’omicidio di Berta, il messicano Gustavo Castro Soto, venga ancora impedito di lasciare il Paese. In Honduras tra il 2010 e il 2014 sono stati uccisi 101 attivisti per i diritti dell’ambiente secondo l’Ong Global Witness. Ciad: militare morto in carcere, famiglia deposita denuncia per sospetti maltrattamenti Nova, 17 marzo 2016 La famiglia del militare ciadiano Issa Abdelnabi Saleh, deceduto in carcere lo scorso ottobre in circostanze ancora non chiare, ha depositato in Francia una denuncia per la morte del loro congiunto. Lo riferisce l’emittente francese "Rfi", secondo cui gli avvocati della famiglia hanno accusato l’Agenzia nazionale della sicurezza ciadiana di aver detenuto illegalmente e maltrattato il giovane militare, privandolo di cibo fino a provocarne la morte. Issa Abdelnabi Saleh faveva parte di un gruppo di militari ciadiani che aveva disertato la loro base militare nel nord del Mali, in seguito al mancato versamento del loro salario. Il caso ha riacceso le polemiche sulle condizioni di vita dei militari ciadiani nel paese. Lo scorso 13 marzo un casco blu ciadiano ha ucciso due suoi commilitoni e ferito un terzo militare nel nord del Mali. Secondo quanto riferito dalla missione delle Nazioni Unite nel paese (Minusma), il militare è stato arrestato nella località di Tassalit, nella regione di Kidal. Le indagini sul caso sono in corso, ha detto Radhia Achouri, portavoce Onu. L’incidente è il secondo nel suo genere nel giro di pochi giorni. Lo scorso 25 febbraio, sempre nella regione di Kidal, un altro militare ciadiano della missione ha ucciso due suoi commilitoni. Qatar: graziato il poeta condannato a 15 anni per i versi contro l’emiro di giordano stabile La Stampa, 17 marzo 2016 L’autore della "Poesia del Gelsomino", Al-Ajami, era accusato di "insulti alla monarchia". Muhammad Ibn al-Dheeb al-Ajami, il poeta qatarino condannato a 15 anni carcere per aver recitato in pubblico al sua "Poesia del Gelsomino" a favore della Primavera araba e contro le monarchie del Golfo, è stato graziato dall’emiro Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani e rilasciato. Al-Ajami era stato condannato a 15 anni di carcere per "insulti alla monarchia". Ne ha scontati cinque. Un familiare che ha voluto restare anonimo, ha detto che "è in buona salute". La decisione dell’Emiro arriva dopo una conferenza sulla libertà di stampa che si è appena tenuta a Doha e fa parte della "distensione" nei confronti dell’opposizione e anche del clima meno teso fra potenze sunnite e l’Iran. Nel "Poesia del Gelsomino", dal nome della rivoluzione tunisina Al-Ajami elogiava la Primavera araba che spazzava via i dittatori e dedicava versi corrosivi anche alle monarchie del Golfo, "con i loro sceicchi che giocano alla Playstation" con il mondo.