L’ergastolano Aurelio Quattroluni in sciopero della fame di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2016 Do un po’ di luce e voce al mio compagno Aurelio Quattroluni, detenuto nel carcere di Padova che dall’11 marzo 2016 ha iniziato uno sciopero della fame perché dopo anni che aspetta una risposta alla sua richiesta di declassificazione dal regime di "Alta Sicurezza" a quello di "Media Sicurezza" s’è stancato di aspettare. Aurelio fa parte anche della Redazione di "Ristretti Orizzonti". Partecipa al progetto "Scuola Carcere". E incontra durante l’anno migliaia di ragazzi delle scuole. Penso che se non sia pericoloso per stare durante il giorno con i detenuti di "Media Sicurezza" e per rispondere alle domande dei ragazzi non possa essere certo pericoloso la sera, quando rientra nella sezione di "Alta Sicurezza". E Aurelio ha deciso di non mangiare più fin quando qualcuno gli risponderà (con motivazione scritta) perché è ancora così pericoloso da essere assegnato dopo anni e anni ancora in Alta Sicurezza. I detenuti che vivono in questi gironi infernali vengono tutti dal regime di tortura del 41 bis, dove però bene o male c’è una tutela giurisdizionale da parte della magistratura di Sorveglianza e nel decreto che ti notificano c’è scritta la durata della permanenza. Nella destinazione nei circuiti di "Alta Sicurezza" invece non ti danno nessun decreto e non c’è scritto da nessuna parte quanto durerà la tua permanenza in questi "ghetti istituzionali". E se non hai un colpo di culo (come è capitato a me) vivrai e morirai in queste sezioni per sempre. Proprio l’altro giorno un compagno detenuto nelle sezioni ghetto del circuito di "Alta Sicurezza" mi ha scritto: "Ormai in questo lager molti uomini ombra non escono quasi mai dalla cella. Non vanno neanche al passeggio, mangiano e guardano la televisione. Altri vanno solo dal passeggio alla cella e viceversa perché hanno smesso di pensare e sognare. In questi giorni riflettevo "Quanto costa ad un popolo, a tutto il popolo del mondo ignorare la possibilità del cambiamento?". Se ogni anno disapplicano trenta detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis e li inseriscono nei circuiti di Alta Sicurezza, perché di conseguenza non declassificano altri trenta prigionieri che da decenni sono ristretti in questi lager? Vengono invece tutti accatastati nel nostro circuito, destinati alla tristezza dell’immobilità a tempo indeterminato e infinito". Spero che qualcuno dell’Amministrazione Penitenziaria si degni di dare una risposta nel più breve tempo possibile ad Aurelio, affinché possa riprendere a mangiare. E il nostro è veramente uno strano Paese se un detenuto per avere una risposta deve rischiare di lasciarsi morire di fame. Tortura in Italia, un caso europeo di Giuliano Santoro Il Manifesto, 16 marzo 2016 Bianzino, Casalnuovo, Cucchi, Magherini, Uva e gli altri: le loro storie di dolore e dignità sono arrivate al parlamento Ue. Il sostegno dell’associazione Acad. I familiari delle vittime a Bruxelles. Forenza (Altra Europa): "Un libro bianco sulla repressione". Il telefono cellulare di Osvaldo Casalnuovo squilla a lungo. Lui non risponde. "Saranno clienti", dice sorridendo mestamente, schernendosi dietro occhi azzurri. Osvaldo è un signore sulla cinquantina, viene da Buonabitacolo, 2500 anime in provincia di Salerno. Per un giorno ha chiuso la sua officina meccanica e si è messo in viaggio alla volta di Bruxelles. È arrivato al Parlamento europeo per parlare di come morì suo figlio Massimo. Una sera di 5 anni fa stava a bordo di uno scooter, al suo paese, e venne disarcionato da una pattuglia di Carabinieri. "Non si fermarono soccorrerlo, erano già impegnati a programmare il depistaggio". Osvaldo è uno dei parenti delle vittime degli abusi di polizia che siedono attorno al tavolo ovale delle audizioni. I Casalnuovo, i Cucchi, i Magherini, gli Uva, Bianzino: cognomi che abbiamo imparato a conoscere in questi anni di denunce contro gli abusi di potere. Si sostengono a vicenda, nella maggior parte dei casi si tengono per mano. La cosa diventa ancora più sorprendente quando capita che ancor non si conoscano, ma scopri che sono al corrente delle vicissitudini reciproche, che si capiscono con uno sguardo e che si fanno coraggio come se facessero parte della stessa sciagurata famiglia. Sono accompagnati qui a Bruxelles da Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa. Si sono messi in viaggio su invito di Eleonora Forenza, parlamentare della Sinistra Unita Europea eletta in quota Rifondazione nelle liste dell’Altra Europa per Tsipras. "Vogliamo costruire un libro bianco, una mappa della repressione in Europa - dice Forenza dando il benvenuto alla delegazione italiana - La repressione è l’altra faccia dell’austerità e della fortezza europea contro i migranti. E in questo contesto l’Italia costituisce una anomalia". Così, il paese che secondo Amnesty International conobbe a Genova nel luglio del 2001 la più grave violazione dei diritti umani dal dopoguerra, si trova ancora una volta a dover fare i conti con la violenza delle forze dell’ordine. A dover raccogliere queste tragedie, a ripercorrere una storia fatta di tante storie terribili. Una concatenazione di morti e abusi che per Luca Blasi di Acad è fatta "di dolore ma anche di dignità". Di dolore, perché se ogni lotta punta alla vittoria, questa dei familiari delle vittime prende le mosse da perdite irrimediabili. Ma anche di dignità, cioè del coraggio di "prendere parola, sfidare il silenzio, rompere le solitudini e reclamare giustizia". Con la precisione geometrica di una requisitoria e la passione indignata della narrazione, l’avvocato Fabio Anselmo apre il suo faldone degli orrori. Le sue parole tracciano la discesa agli inferi del diritto. Sono accompagnate dalle foto dei corpi straziati di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, le immagini della morte di Michele Ferulli, l’audio dell’urlo disperato di Ricky Mogherini mentre viene colpito sull’asfalto. "La tortura è legittimata dal bisogno di sicurezza - spiega Anselmo - Più ci fanno credere di essere sotto minaccia, più i cittadini sono portati a tollerare gli abusi di polizia". Nelle stesse ore, la capitale belga è stretta d’assedio dopo una sparatoria durante una retata anti-terrorismo. L’emergenza non impedirà al programmato corteo contro gli abusi di polizia di muoversi, in serata. La dissertazione di Anselmo individua tre categorie di abusi: quelli che avvengono nelle carceri, quelli compiuti durante le operazioni di arresto e quelli relativi all’uso illegittimo delle armi. La sua analisi si intreccia con quella di Miguel Urban Crespo, eurodeputato di Podemos, che ha ripercorso la genealogia della repressione nel suo paese. "La democrazia spagnola si basa sull’impunità dei crimini franchisti - dice Urban - Negli anni Settanta numerosi fascisti italiani vennero da noi per combattere i dissidenti del regime. Con la transizione democratica, fu il socialista Felipe Gonzales a negare l’estradizione per alcuni di questi soggetti". Urban individua nel "populismo punitivo" uno dei problemi di questi tempi: "Con la scusa di combattere la criminalità si puniscono i poveri e si evita di fare i conti con le ingiustizie sociali". Il suo collega basco Iusu Abaunz annuisce: "Un’inchiesta sulla tortura nei paesi baschi ha scoperto oltre 3.600 casi - racconta - Abbiamo tantissime denunce ma soltanto 31 sentenze di condanna". Il suo ragionamento si intreccia con quello di Lucia Uva, sorella di Giuseppe. "Mio fratello venne fermato per ubriachezza. Lo trovai morto due ore dopo", dice Lucia. Poi riporta una delle costanti di queste storie di abuso: "Quando ti capita una cosa del genere e decidi di denunciare tutto, da vittima diventi imputato". Michele Ferrulli, 51 anni, stava bevendo birra con gli amici quando venne schiacciato pancia a terra con la forza prima di spirare. "Lo hanno colpito per sette volte col manganello, nonostante fosse immobilizzato da quattro persone", dice sua figlia Domenica. "L’anomalia italiana prosegue - dice un altro avvocato, Fabio Ambrosetti - Sarà difficile sanarla perché è anche un problema culturale". Forse non basteranno neppure quelle leggi la cui mancata approvazione viene letta come una legittimazione alle violenze di Stato, come quella sul reato di tortura o sul numero identificativo per le forze di polizia. È quel problema culturale che fa urlare a Rudra Bianzino, orfano di Aldo: "Se fosse per lo Stato noi non potremmo neanche raccontarle, queste storie. Infatti siamo dovuti venire qui: all’estero". "Anomalia italiana": le vittime raccontano gli abusi in divisa di Giuliano Santoro Il Manifesto, 16 marzo 2016 Dopo l’Ungheria l’Italia è al secondo posto in Europa per le violazioni dei diritti umani. La delegazione dei parenti delle vittime al parlamento europeo ha consegnato ieri un dossier sull’"Anomalia Italia". Il plico finito sui tavoli di Bruxelles contiene le storie delle vittime degli abusi in divisa, vicende di un paese che scopre di avere "un problema" con le sue forze dell’ordine, e presenta alcune tracce d’analisi che meritano attenzione. Il primo indizio è quella legge sul reato di tortura che continua a mancare nonostante i richiami internazionali e le grida di allarme di giuristi. "Nel nostro paese c’è una resistenza incredibile all’istituzione di un reato specifico del pubblico ufficiale", si legge nel documento. In barba a convenzioni Onu, condanne della Corte per i diritti dell’uomo e richieste di risarcimenti, la Camera ha approvato una versione monca del provvedimento sulla tortura, che non parla di torture psichiche e non individua le forze dell’ordine come destinatarie del reato specifico. Quel testo giace al Senato, nonostante le promesse di Matteo Renzi all’indomani dei pronunciamenti europei sui fatti del G8 di Genova. Tra gli elementi fondanti di questa "anomalia italiana", il dossier enuclea poi il paradosso di "un paese che, a fronte di una diminuzione generalizzata dei reati di microcriminalità, ha dovuto registrare la costruzione mediatica e politica dell’"emergenza sicurezza" funzionale alla costruzione della guerra dei penultimi contro gli ultimi". Tra le carte consegnate a Bruxelles, figura anche l’interessante studio sulla formazione delle forze dell’ordine ad opera di Charlie Barnao e Pietro Saitta. Lo studio parte da un’analisi etnografica degli addestramenti nella Folgore per risalire ai cambiamenti della gestione dell’ordine pubblico negli ultimi venti anni. Ci sarebbe, nelle forze dell’ordine italiane, una sorta di doppio codice dettato dalla militarizzazione dei corpi e dal disinvestimento in formazione. Da quando è stato varato il "nuovo modello di difesa", sostengono i ricercatori, la maggior parte dei posti disponibili nelle forze di polizia sono riservati ai reduci, ai veterani della guerra globale. Li abbiamo visti passare dalla Somalia a Genova, dal deserto a via Tolemaide. Questa tendenziale zona grigia, vero e proprio esercito urbano, o polizia globale che dir si voglia, produrrebbe una specie di "mutazione genetica" presso le forze di polizia: i corpi che tempo fa vennero creati proprio per impedire che fosse l’esercito a dirimere le questioni interne divengono adesso armate militaresche e incapaci di dialogo e comprensione dei meccanismi sociali. Questa mutazione è emblematicamente rappresentata nel lungo applauso con tanto di standing ovation che la platea congressuale di uno dei più rappresentativi sindacati di polizia, vale a dire il Sap, riservò ai quattro agenti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi. I pubblici ministeri che formularono l’accusa nei processi per le violenze e i sequestri di persona commessi dai poliziotti contro i manifestanti in occasione del Global forum di Napoli, nel 2001, ebbero a dire: "Se gli indagati non avranno remore a usare così gravi violenze nei confronti di giornalisti, avvocati, studenti comunque capaci per posizione e cultura di una qualche reazione, si pensi a quale comportamento potrebbero tenere gli indagati nei confronti di persone di fasce sociali più deboli". Dentro l’"anomalia Italia" che ieri è stata esposta a Bruxelles c’è anche questo, oltre che la preoccupante repressione del dissenso: c’è la guerra ai poveri che incede silenziosa e che solo raramente incontra il coraggio di chi denuncia. "Per noi questo non è né un punto di arrivo né una partenza, è una parte di un percorso che ha un obiettivo: fare in modo che una associazione che si occupa di abusi in divisa debba sciogliersi per mancanza di casi da affrontare", hanno detto quelli di Acad. Dal canto suo, Eleonora Forenza ha prospettato che il dossier diventi la base per una oral question e che ponga le fondamenta per una procedura d’infrazione. "L’Italia è al secondo posto, dopo l’Ungheria, tra i paesi dell’Unione europea, quanto a ricorsi presso la Cortei dei diritti dell’uomo, anche questo è un pezzo di quell’anomalia", dice Forenza. Ingiusta detenzione: interrogazione del deputato Melilla su mancato risarcimento danni Agi, 16 marzo 2016 Sull’ingiusta detenzione, alla quale non ha fatto seguito un risarcimento del danno, il deputato abruzzese di Sinistra Italiana Gianni Melilla ha presentato una interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Dai dati forniti dall’Unione delle camere penali e dall’Eurispes - è scritto nella premessa del documento - si evince che dall’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale nel 1989, che ha introdotto, con gli articoli 314 e 315, l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione e errore giudiziario ci sono state 22.323 persone che hanno usufruito di questo risarcimento. Di contro, non si sa nulla di coloro i quali pur assolti non hanno potuto usufruire di questo beneficio perché ritenuti con i loro comportamenti colpevoli del "dolo e colpa grave" inserito nel primo comma dell’art. 314 e ostativo al risarcimento. Si parla di quasi quarantamila persone dall’introduzione della legge, ma non esistono dati certi e ufficiali". Melilla chiede quindi "quante sono le persone innocenti, vittime di questo comma, palesemente ingiusto, perché - scrive - introduce nell’ordinamento un giudizio morale, e su cui i deputati di Sinistra Italiana hanno presentato una proposta di legge abrogativa (ddl n 2871 - febbraio 2015). Non può una persona assolta, subire un altro giudizio, in base alle frequentazioni che aveva o subire altre considerazioni sulla sua vita privata che non hanno nulla a che vedere con rilievi di carattere penale. Se la sentenza è assolutoria, questa va rispettata e la persona va risarcita". Il deputato chiede infine al Guardasigilli "cosa intenda fare per superare un comma a nostro avviso anticostituzionale e ridare fiducia nella giustizia a cittadini che hanno subito i danni della ingiusta carcerazione". L’aquilano Giulio Petrilli sono anni che, tramite i suoi legali, sta portando avanti una lunga battaglia per farsi riconoscere il risarcimento danni per ingiusta detenzione. Era stato arrestato il 23 dicembre del 1980, a 21 anni, con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Detenuto per 5 anni e 8 mesi, nel regime speciale riservato ai terroristi, è stato assolto dai giudici della Corte d’Appello. Un proscioglimento divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. La sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione gli è stata però sempre negata proprio in base al primo comma dell’articolo 314 del Codice di procedura penale poiché avrebbe avuto frequentazioni "poco raccomandabili". Gherardo Colombo "l’italiano medio vede il carcere come unica risposta al reato" di David Marceddu Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2016 "Per il cittadino medio è difficile percepire quanto sarebbe importante che chi ha commesso un reato poi non ne commetta più. Oggi due persone su tre che escono dal carcere poi ci ritornano. Forse allora il carcere non è particolarmente efficace. Invece solo uno su cinque di chi va ai servizi sociali poi commette di nuovo reati". Dati alla mano, il dibattito sulle pene alternative alla detenzione rimane un problema culturale, soprattutto in Italia. Ne è convinto l’ex pm Gherardo Colombo, che a Bologna ha preso parte a un convegno organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII sulla riduzione della popolazione carceraria. Una sfida difficile secondo lo stesso Colombo: "Colpa della cultura eccessivamente retribuzionista del nostro Paese". E chiarisce: "L’italiano medio vede il carcere come unica risposta al reato. Chi fa del male deve subire il male, stare male". Questo mentre l’inefficacia delle pene detentive si traduce nell’insicurezza di quegli stessi cittadini. Secondo l’ex magistrato, che insieme ai colleghi del pool di Mani Pulite contribuì a svelare l’intreccio di corruzione che travolse i partiti della prima Repubblica, anche per i reati dei colletti bianchi la soluzione non è il carcere, o almeno non solo: "Bisogna fare prevenzione, fare in modo che questi reati non producano un profitto e non li commetterebbe più nessuno" Ex dirigente del Dap a processo per truffa e peculato, il pm chiede 5 anni e 6 mesi di Martino Villosio Il Tempo, 16 marzo 2016 Chiesta la condanna per il generale Enrico Ragosa, collaboratore di Falcone. L’accusa: ha utilizzato mezzi e agenti della Penitenziaria per scopi personali. "Ma voi ce la vedete una scorta che si affitta un appartamento in una città diversa da quella in cui vive lo scortato?". La voce del pm Corrado Fasanelli sussulta più volte, impegnata a sorreggere una requisitoria dura quanto dolorosa. Al termine, nell’aula dell’ottava sezione collegiale del tribunale di Roma, arriva la richiesta di condanna per un nome tanto defilato quanto importante nella storia recente della lotta alla mafia e della giustizia italiana: 5 anni e 6 mesi di carcere per il generale Enrico Ragosa. Dirigente del Dap in pensione, ma soprattutto ex collaboratore di Giovanni Falcone durante il maxi processo di Palermo e fondatore del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria formato da uomini scelti con compiti di custodia e controllo dei detenuti al 41 bis e dei collaboratori di giustizia. Un uomo che sull’organo ufficiale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, quando andò in pensione ormai cinque anni fa, venne omaggiato come "un mito" dalla carriera "costellata di successi nella lotta alla mafia". E che adesso, se le accuse nei suoi confronti reggeranno alla prova della sentenza di primo grado, rischia di essere condannato per truffa, peculato, abuso d’ufficio e falsi. Per la procura di Roma, nella veste di Direttore Generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, tra il 2009 e il settembre 2011 avrebbe utilizzato gli uomini assegnati alla sua scorta come veri e propri chauffeur per sé e per la sua famiglia e le auto in dotazione al Dap per il trasporto di mobili, bagagli ed effetti personali sull’asse Roma - Genova. Il generale, tra le altre cose, avrebbe disposto che una serie di auto del Dap (diverse da quella assegnata specificamente alla sua scorta) fossero utilizzate per periodi fino a quindici giorni consecutivi da agenti appositamente mandati in missione nel capoluogo ligure per ragioni "falsamente attinenti" alla tutela di Ragosa il quale invece spesso rimaneva a Roma. Quando poi decideva di mettersi in viaggio alla volta della sua città, il generale secondo le accuse adoperava di solito due auto, anche queste diverse dalla vettura destinata ufficialmente a scortarlo: nella prima si accomodava lui insieme ai familiari, nella seconda venivano caricate valigie e masserizie. Per questi spostamenti in terra ligure, nel periodo considerato, il ministero della Giustizia avrebbe speso 58.000 euro in rifornimenti e buoni carburante mentre gli agenti utilizzati per le false missioni sarebbero 12. Altri due dipendenti del Dap, assegnati alla scorta personale di Ragosa e anche loro finiti a processo con l’accusa di truffa in concorso con lui, avrebbero vissuto addirittura stabilmente a Genova prendendo in affitto un appartamento e occupandosi, tra l’altro, di sorvegliare la barca del generale ormeggiata al largo e di accompagnare la madre a fare le commissioni. Anche se i legali di Ragosa, smentendo la ricostruzione della procura, sostengono invece che la madre dell’imputato sarebbe morta diversi anni prima dei reati contestati mentre l’uomo non risulterebbe in possesso di natanti, se non uno rottamato tre lustri fa. I due agenti addetti alla scorta personale del generale, per svolgere i compiti in terra ligure, sono comunque accusati di aver percepito indebitamente indennità di trasferta liquidate per una somma quantificata in 128.621 euro oltre ad aver preso 142.816 euro di stipendio per il servizio di tutela in realtà non svolto. Per loro il pm Fasanelli ha chiesto una condanna a 3 anni di carcere ciascuno. Da precisare che lo stesso Ragosa, un anno fa, è stato assolto dalla Corte dei Conti del Lazio dall’accusa di aver procurato un danno da un 1 milione e 800 mila euro allo Stato per il noleggio e il successivo acquisto di 35 auto blu blindate destinate alla scorta dei dirigenti del Dap ed è stato inoltre prosciolto in sede penale dal gup di Roma dalle imputazioni di abuso d’ufficio e turbativa d’asta, per la vicenda relativa a un bando per la fornitura di centinaia di apparecchi radio sempre destinati al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Via il vitalizio ai politici condannati, una lezione che arriva dalla Sicilia di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 16 marzo 2016 La locale sezione della Corte dei Conti ha respinto il ricorso di un politico. In quest’Italia dove la politica troppo spesso viene identificata con il malcostume capita che dalla tanto vituperata Sicilia arrivi una lezione di rigore. Capita che la locale sezione della Corte dei conti respinga il ricorso di un ex consigliere regionale privato un anno fa del vitalizio. Non uno qualsiasi: Vincenzo Lo Giudice, detto "Mangialasagne". Già sindaco di Canicattì, era stato per 13 anni deputato regionale prima di essere arrestato nel 2004 nell’ambito di un’inchiesta per mafia. La condanna a 11 anni e 4 mesi, seguita da una seconda a 2 anni e 8 mesi per concussione, non gli ha però impedito di incassare per ben nove anni, dal primo luglio 2006, il vitalizio regionale. Finché, a marzo del 2015, la scure abbattutasi sull’assegno dell’ex governatore Totò Cuffaro non colpisce pure lui. Immediato ricorso, che però il 25 febbraio 2016 la Corte dei conti respinge senza esitazioni. La sentenza spiega con chiarezza che il vitalizio va revocato in base all’articolo 28 del codice penale, con il quale si stabilisce che il condannato a una pena con interdizione perpetua dei pubblici uffici, sanzione prevista per condanne superiori a cinque anni, non può incassare assegni dallo Stato. Punto e basta. Questo, però, vale solo in Sicilia. Perché le regole introdotte lo scorso anno per Camera e Senato non fanno riferimento alcuno a quell’articolo 28 del codice penale. Articolo nel quale, per esempio, non è prevista la restituzione dell’assegno statale con tanto di arretrati in caso di riabilitazione. Un beneficio invece contemplato eccome dal regolamento sull’abolizione dei vitalizi parlamentari. Giusto un mese fa un ex deputato già condannato a 8 anni per bancarotta fraudolenta, Gianmario Pellizzari, si è visto restituire l’assegno da 5.481 euro netti mensili (più sei mesi di arretrati, ovvio) dopo essere stato riabilitato dal tribunale di sorveglianza. La Ue vieta le manette in pubblico di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2016 Consiglio Ue - Direttiva 343/2016/343. Rafforzare il diritto all’equo processo nei procedimenti penali. Garantire norme minime comuni per la presunzione d’innocenza. Ridurre all’osso i processi in absentia. Sono gli obiettivi della direttiva 2016/343 del 9 marzo, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue, edizione L 65 dell’11 marzo, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Un ulteriore tassello nella tabella di marcia verso un quadro di maggior tutela dei diritti procedurali, per incrementare la fiducia reciproca nei sistemi di giustizia penale. Con un più rapido riconoscimento delle decisioni e un punto fermo nei diritti già patrimonio consolidato, grazie alla clausola di non regressione che impedisce l’interpretazione della direttiva in modo tale da limitare o derogare alle garanzie procedurali fissate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal diritto internazionale e dagli ordinamenti interni, nei casi di livelli di protezione più elevati. La direttiva, che non si applica a Regno Unito, Irlanda e Danimarca, è limitata alle persone fisiche indagate o imputate unicamente in procedimenti penali, mentre sono escluse le persone giuridiche. Sulla nozione di presunzione d’innocenza dell’imputato, l’atto Ue stabilisce che si estende sino a quando "non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza", situazione che potrebbe far pensare anche alla possibilità, per gli Stati membri, di prevederla sino al primo grado. Tuttavia, il considerando n. 12, che richiama l’applicazione della direttiva fino a quando la decisione non diventa definitiva, porta a una restrizione dell’autonomia degli Stati, con effetti sulla durata della custodia cautelare. Chiari i limiti al comportamento delle autorità pubbliche, che non possono presentare "la persona come colpevole". Detto questo, però, resta ferma la possibilità di divulgare informazioni sui procedimenti penali, se ciò è necessario per l’indagine o per l’interesse pubblico. Freno, poi, a ogni misura di coercizione fisica in pubblico che può dare l’idea della colpevolezza. Sul piano processuale, è richiesto l’obbligo di accertare la colpevolezza "al di là di ogni ragionevole dubbio". Previsto, inoltre, il diritto al silenzio sul reato contestato e il diritto a non autoincriminarsi. Via libera, però, alla possibilità di valutare positivamente il comportamento collaborativo dell’indagato o dell’imputato. Per quanto riguarda il procedimento in absentia, è stabilito che il processo in contumacia possa essere celebrato solo se la persona sia stata informata in tempo adeguato del processo e delle conseguenze circa la mancata comparizione, nonché nei casi in cui sia presente un difensore nominato dall’indagato o dallo Stato. Il termine ultimo per recepire la direttiva è il 1° aprile 2018. Legittimo il foglio di via per il mendicante "aggressivo" di Alberto Ceste Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2016 È pericolosa per la sicurezza pubblica la persona già denunciata per furto, furto aggravato e furto con destrezza, anche non condannata penalmente, che sia sorpresa nei pressi di un supermercato a chiedere l’elemosina in maniera insistente e aggressiva nei confronti di persone anziane, destando in esse preoccupazione e manifestando un atteggiamento ostativo nei successivi controlli di polizia. Di conseguenza, nei suoi riguardi può essere legittimamente adottata la misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio, in forza degli articoli 1 e 2 del decreto legislativo 6 settembre 2001 n.159. Lo ha stabilito il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione I, con la sentenza del 9 marzo 2016 n.313. I presupposti del foglio di via obbligatorio - Il foglio di via obbligatorio può essere applicato nei confronti delle persone che: - sono da ritenersi atte a commettere reati, dal momento che sono abitualmente dedite a traffici delittuosi, o vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, o siano dedite alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la società, la sicurezza o la tranquillità pubblica; - sono ritenute pericolose per la sicurezza pubblica; - si trovano fuori dai luoghi di residenza. Il rimpatrio nel Comune di residenza con foglio di via obbligatorio non presuppone la commissione di un fatto di reato o di quasi reato, ma solamente la presenza di una serie di elementi indiziari dai quali possa evidenziarsi che la persona risulti pericolosa per il bene della sicurezza pubblica. La ragione giustificatrice di questa misura con finalità special-preventive è infatti quella di fronteggiare la compromissione del bene sopra ricordato, assegnando allo Stato il ruolo di garante dell’ordinato e pacifico svolgersi delle relazioni civili, costituendo quindi un mezzo diretto a prevenire i reati piuttosto che a reprimerli. Il caso - La ricorrente ha proposto ricorso contro il decreto del Questore con il quale le era stato vietato di far rientro per tre anni, senza preventiva autorizzazione, nel Comune nel cui territorio era stata segnalata dalle forze di polizia per la commissione di attività illecite e pericolose per la sicurezza pubblica, nonché avverso il decreto del Prefetto che aveva respinto il ricorso gerarchico proposto per l’annullamento del provvedimento questorile. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente ha lamentato di non aver ricevuto la comunicazione dell’avvio di procedimento, in violazione degli articoli 7 ed 8 della legge 7 agosto 1990 n.241. Con il secondo motivo, ha invece dedotto l’assenza dei presupposti di legge per l’adozione del provvedimento questorile, sostenendo che non emergono fatti di reato ad essa imputabili, né episodi a lei riferibili, significativi di un suo coinvolgimento in attività delittuose, pur ammettendo di vivere chiedendo l’elemosina ed esercitando la prostituzione. Condotte che, a suo dire, in assenza di elementi ulteriori, sarebbero del tutto irrilevanti per l’adozione del provvedimento di allontanamento obbligatorio dal territorio di un Comune, in cui, per lo più, la stessa ricorrente detiene un immobile in locazione, nel quale risiede con il convivente e con la figlia. Il Giudice amministrativo ha ritenuto ambedue le doglianze prive di fondamento e respinto il ricorso. La sentenza - Il Collegio, partendo dall’assunto che il provvedimento in questione si caratterizza per la sua tipica funzione cautelare e per l’urgenza perché diretto a rimuovere una situazione di attuale e grave pericolo per la sicurezza pubblica, ha ritenuto che per l’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio la pretesa comunicazione di avvio del procedimento non è affatto richiesta. Tanto più che la conseguente e relativa compromissione del diritto di difesa è bilanciata dal fatto che contro detto provvedimento è ammesso il ricorso gerarchico al Prefetto, "attraverso il quale la parte interessata può far valere tutti quegli argomenti, anche di puro merito e come tali non deducibili nel giudizio di legittimità, che avrebbe potuto esporre in contraddittorio con l’Autorità emanante, se avesse ricevuto l’avviso". Dagli atti risulta adeguatamente smentita la sussistenza di legami o interessi leciti della ricorrente con il territorio del Comune da cui è stata allontanata, perché non risulta ivi residente e poiché dagli accertamenti effettuati presso l’appartamento da essa locato, peraltro dopo la notificazione del provvedimento impugnato, non è stata riscontrata la sua presenza. Il Giudice amministrativo, ciò rilevato, conclude per la legittimità del provvedimento, pur in assenza di specifiche condanne penali a carico della ricorrente, attribuendo rilievo determinante alla descritta situazione rivelatrice di una personalità incline a comportamenti antisociali, tra cui le condotte moleste nei confronti degli anziani. Il monitoraggio dei fatti pericolosi che se non costituiscono reato - La sentenza in rassegna ha adeguatamente considerato tutti quei fatti oggettivi accertati dagli organi di polizia che, pur non dando luogo a condanne penali, possono integrare i presupposti applicativi per l’adozione delle misure di prevenzione personali. È stato attribuito un peso determinante alla richiesta insistente ed aggressiva di elemosina agli anziani nei pressi di un supermercato. Un fatto che troppo spesso viene ingiustificatamente trascurato dall’azione di controllo del territorio da parte degli organi di pubblica sicurezza e della polizia giudiziaria. Forse proprio perché tale comportamento, a seguito dell’abrogazione dell’articolo 670 del Codice penale che puniva come reato il solo fatto di mendicare in luogo pubblico o aperto al pubblico, oggi non costituisce più reato, fatto salvo il caso in cui tale comportamento sia così violento o minaccioso da costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Nel qual caso, esso darà luogo all’illecito che continua ad essere penalmente sanzionato di violenza privata, per come previsto dall’articolo 610 del Codice penale. Altri due anni di blocco per le auto blu: reato usarle nel tragitto casa-ufficio di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2016 Le pubbliche amministrazioni non potranno acquistare o noleggiare auto blu per altri due anni, fino al 31 dicembre 2017. Viene espresso per legge il divieto di utilizzare l’auto di servizio nei tragitti casa-ufficio, che diventa quindi reato (peculato d’uso, punibile da sei mesi a tre anni). Il parco auto delle amministrazioni pubbliche sarà poi sottoposto a un nuovo censimento annuale, che questa volta è accompagnato dalle sanzioni per i tanti uffici che non hanno risposto alle rilevazioni di questi anni:?la "multa", da 500 a 10mila euro, sarà a carico del "responsabile della mancata comunicazione", e il compito di colpirlo sarà affidato all’Anac. Il voto - Dopo sei mesi passati alla commissione Affari costituzionali della Camera, che l’hanno cambiato in profondità, è arrivato ieri all’approvazione dell’Aula il disegno di legge targato Movimento 5 Stelle (primo firmatario Giorgio Sorial) che prova a imporre un altro taglio alle almeno 23mila auto di servizio della Pubblica amministrazione, il cui costo è stimabile intorno ai 400 milioni di euro all’anno. Senza voti contrari (ovviamente), 19 astenuti e 387 favorevoli, la Camera ha consegnato il testo al Senato, ma l’intesa fra i gruppi è solo nei numeri del voto. "La nostra tenacia ha avuto la meglio per una legge che hanno tentato di affossare per due volte", rilanciano i Cinque Stelle, mentre il Pd per bocca di Emanuele Fiano rivendica alla maggioranza di aver costruito in commissione un testo che "mette fine a un malcostume indecente ma evita pulsioni populistiche e demagogiche di una certa frangia dell’opposizione". Fuori dal coro Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, che parla di "tanto rumore per nulla, perché la legge ripropone regole che già ci sono". Che cosa cambia - Rispetto alla formulazione iniziale, che chiudeva per sempre la porta ad acquisti e leasing di auto di servizio, il disegno di legge ha subito parecchie modifiche, anche per adeguarlo alle esigenze emerse qua e là nel corso dell’esame. Il blocco biennale di acquisti e noleggi, per esempio, replica quello già previsto fino al 31 dicembre scorso dalle vecchie norme, ma per le Regioni diventa una "disposizione di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica" perché la sentenza 43/2016 della Corte costituzionale ha appena dichiarato illegittimi i vecchi tagli puntuali alle auto dei governatori (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 marzo). Gli effetti per i Comuni - Le novità investono però in pieno Comuni, Città metropolitane e Province, tutti enti che finora erano stati coinvolti nei tagli ma esclusi dai vincoli sulle modalità di utilizzo scritti nel decreto varato da Palazzo Chigi nel settembre del 2014. Proprio in quel decreto era anche fissato il divieto di utilizzare l’auto di servizio per gli spostamenti da casa all’ufficio, che ora entra nella legge aprendo la porta alla contestazione del reato. L’altra novità rilevante è nella sanzione per chi non risponderà al censimento annuale, nel tentativo di scrivere finalmente un elenco completo delle auto blu. L’ultimo censimento, diffuso dalla Funzione pubblica il 29 febbraio, parla di 23.203 vetture nel 2015 contro le 66.619 dell’anno prima, per effetto dei tagli già scritti, ma alle richieste di dati continua a sfuggire quasi il 70% dei Comuni e il 25% di Province e Città metropolitane. Vero è che soprattutto negli enti medio-piccoli spesso le auto blu non esistono: per queste amministrazioni, il nuovo obbligo di risposta si limiterà a infittire ancora la sequela degli adempimenti. Ragionevole l’esclusione delle valutazioni nel nuovo falso in bilancio di Filippo Sgubbi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2016 Corte di cassazione., Quinta sezione penale ordinanza 4 marzo 2016 n. 9186. I nuovi articoli 2621 e seguenti del Codice civile puniscono coloro che nei bilanci (o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge) espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero; non figura più l’espressione "ancorché oggetto di valutazioni" che caratterizzava il testo previgente. Nella giurisprudenza della Cassazione è insorto un contrasto interpretativo in ordine alla questione se la condotta di falso valutativo sia ancora oggi punita, oppure se la riforma ne abbia determinato l’abrogazione. Due sentenze (Cassazione 33774/2015 e Cassazione 6916/2016), prendendo atto della eliminazione dal testo normativo del preesistente riferimento alle valutazioni, hanno escluso, pur con accenti diversi, la rilevanza penale delle valutazioni stesse. Per contro, una terza sentenza (Cassazione 890/2016) è giunta alla conseguenza opposta: ha ritenuto che la rimozione della locuzione ancorché oggetto di valutazioni non abbia rilevanza e ha adottato una interpretazione basata sulla voluntas legis e sullo scopo della norma (cioè, il rafforzamento della repressione penale). Soluzione confortata anche dalla Relazione 15 ottobre 2015 dell’Ufficio del Massimario della stessa Corte. Decisioni così divergenti disorientano: determinano diseguaglianze,, inducono a ritenere che i giudizi penali possano essere affidati al caso e appaiono vulnerare la funzione che è propria della Corte di Cassazione, cioè "assicurare l’uniforme applicazione della legge". Il tutto aggravato dal fatto che si tratta di decisioni di ultima istanza, a fronte delle quali non vi sono rimedi, perlomeno di giurisdizione interna. Inoltre, la disputa di cui si parla trova sì nella singola norma sul falso in bilancio l’occasione per manifestarsi, ma svela un conflitto molto più ampio e profondo, di stampo istituzionale: fra la fedeltà del Giudice al testo di legge e la concezione della giurisprudenza come investita di compiti di supplenza rispetto alla produzione normativa di un legislatore improvvido (e "di turno" come viene definito dalla sentenza 890/2016). È imminente la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte, alle quali è rimessa la questione con l’ordinanza 9186/2016. In attesa, non credo sia inutile cercare di sottoporre le nuove norme ad un’analisi tecnica e serena. Emergono, così, da un lato, profili di ragionevolezza intrinseca. Infatti, nelle nuove norme sono state eliminate le soglie di punibilità, al di sotto delle quali la condotta di falso non era punibile, in quanto non "tipica". È stata eliminata anche la procedibilità a querela, nell’ipotesi di falso produttivo di danno patrimoniale. Oggi, questi fattori di selezione della punibilità sono stati sostituiti da clausole affidate al Giudice che, all’esito del processo, ne valuterà la concreta sussistenza: come l’idoneità concreta del falso ad ingannare i destinatari della comunicazione sociale e la non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex articolo 2621 ter Codice civile. Così, la selezione dei fatti puniti non è più formulata in astratto, precludendo - di regola a priori - l’intervento del Magistrato penale, ma è affidata al giudizio concreto ex post, compiuto dal Giudice, di cui si viene esaltata la discrezionalità. E allora, può ben essere ragionevole escludere le valutazioni dall’ambito penale, al fine di delimitare da un’altra angolazione la discrezionalità del giudicante, assicurando una maggiore certezza circa il confine fra lecito ed illecito. Anche il consistente aumento (lontano dai parametri europei) delle pene edittali, implica necessariamente che le norme penali siano formulate sulla base di elementi costitutivi che siano accertabili con facilità e univocità dal Giudice; con un rafforzamento della tassatività. Più alta è la pena detentiva, più alta deve essere la certezza del precetto, considerato anche che per il falso in bilancio sono previste varie ed incisive sanzioni aggiuntive di natura patrimoniale (confisca e pene pecuniarie) sia per la società sia per le persone fisiche. Occorre perciò evitare che nel processo penale siano trascinati quei temi che sono peculiari dell’accertamento giudiziale delle valutazioni, temi sempre opinabili, incerti e coinvolgenti richiami a mutevoli regole private e a complesse prassi nazionali e internazionali. L’aumento delle pene legittima anche una concezione - certo non anacronistica - del diritto penale come extrema ratio, affidando ad altri strumenti giuridici (come quelli civilistici) il controllo sulla correttezza dei bilanci e l’applicazione delle relative sanzioni. Emergono anche, dall’altro lato, profili di razionalità rispetto al complessivo sistema del diritto penale dell’economia. Infatti, le nuove norme nascono nell’ambito di una legge volta al contrasto della corruzione e della criminalità organizzata e quindi dell’economia sommersa e illecita: ora, la formazione di provviste cosiddette riservate (vulgo: nere), prodromiche alla corruzione, avviene solitamente con meccanismi che hanno a che vedere non tanto con le valutazioni delle poste di bilancio, quanto piuttosto con l’esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero, quali - ad esempio - l’emissione/utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Punendo il falso valutativo si rischia di colpire penalmente le società che svolgono una regolare e fisiologica attività economica, più che la patologia del sistema economico. In questo quadro, non è affatto incoerente il testo dell’articolo 2638 Codice civile che punisce l’"Ostacolo alle funzioni delle Autorità di vigilanza". È vero che tale norma menziona i fatti materiali "ancorché oggetto di valutazioni", ma si tratta di una disposizione che ha struttura e dimensioni di tutela molto diversi. Protegge le funzioni delle Autorità di vigilanza, le quali esigono dai vigilati innanzi tutto lealtà e rispetto delle regole amministrative dettate dalle stesse Autorità e poi richiedono un ben più ampio ventaglio di informazioni rispetto alle esigenze proprie dei destinatari del bilancio. Tant’è vero che i possibili autori del reato sono, in genere, coloro che sono tenuti ad obblighi nei confronti delle Autorità (fra cui le persone fisiche); inoltre, la falsità può essere contenuta in un ampio novero di comunicazioni, previste o imposte non solo dalla legge ma anche dalla normativa regolamentare di vigilanza adottata "in base" alla legge. Infine, l’esclusione delle valutazioni dall’ambito della punibilità, con il correlato recupero di certezza penale, si presenta coerente - a livello di sistema - con altri rami del diritto penale dell’economia. Si pensi alle recenti riforme che hanno statuito la non punibilità della fumosa figura dell’abuso del diritto (decreto legislativo 128/2015) e l’abbandono, a proposito degli elementi passivi indicati nelle dichiarazioni fiscali, dell’incerto aggettivo fittizi (comprensivo anche dei costi sì esistenti storicamente, ma fiscalmente non deducibili), sostituendolo con la ben più precisa nozione di inesistenti (quindi non sussistenti nella realtà storica) di cui al decreto legislativo 158/2015. Segno della volontà, certamente consapevole, del legislatore di depurare le fattispecie del diritto penale dell’economia da elementi normativi e valutativi, ancorandole invece a dati solidi e materiali, dotati di un sicuro sostrato naturalistico e oggettivamente verificabili dal Giudice. Nessuno deve essere ucciso, nemmeno un assassino di Massimo Gramellini La Stampa, 16 marzo 2016 Ho pensato che poteva essere emozionante farsi di acidi e crack e eroina. E ancora più emozionante fare sesso in tre o in quattro o in cinque, ubriachi e sballati. Ho pensato che non avevo mai provato a rubare: non per bisogno ma per divertimento. E che non avevo mai picchiato un vecchio, un barbone inerme per sentirmi più forte. Ho pensato che non avevo mai violentato una donna per farla sentire debole e sporca e insicura: per sempre. E che non avevo mai ingannato un bambino per rubargli l’ingenuità e l’innocenza. Ho pensato che non avevo mai deriso un disabile e che, soprattutto, non l’avevo mai torturato. Ho pensato che non avevo mai ucciso per il gusto di uccidere, per desiderio di onnipotenza, per il piacere di procurare dolore, per privare qualcuno della vita senza una ragione qualsiasi... Adesso l’hai fatto, noi siamo i tuoi giudici e non invocheremo la legge, il diritto di difesa, il giusto processo, l’infermità mentale. Non ci chiederemo se la colpa è dei genitori, dei giornalisti, della scuola, dell’ambiente sociale, delle cattive frequentazioni, dei social media. Non chiederemo lumi agli psicoterapeuti. Non inviteremo i tuoi genitori a qualche talk show. Non ascolteremo le tue ragioni e neppure quelle di coloro che ti stanno vicino. Semplicemente ti toglieremo la vita. Spegneremo la tua vita come quella che tu hai spento, con indifferenza, sufficienza, supponenza. Quella vita che dobbiamo impedire tu possa dare ad altri. Chi è come te non può generare, può solo distruggere. E noi lo impediremo. E se la pena di morte non ci è consentita lo faremo sembrare un suicidio riparatore. Tu non sapresti suicidarti: questa è l’unica emozione che non hai mai pensato di provare. Chi è come te non arriva a tanto. Questo sì, per te, sarebbe sacrilegio. E poi, semplicemente, non ne parleremo più. E ancora più semplicemente ti dimenticheremo. Giulio Biino Risponde Massimo Gramellini Questa lettera colpisce allo stomaco e troverà tantissimi lettori disposti a lasciarsi colpire proprio lì. Quando Cameron divenne primo ministro britannico, invitò i cittadini a indicargli la loro priorità assoluta, promettendo che l’avrebbe subito trasformata in un disegno di legge. Non mantenne la promessa perché il provvedimento più richiesto dal popolo risultò essere la pena di morte per gli assassini. Credo che le posizioni estreme come la sua dipendano dalla sensazione di impunità che circonda il destino dei colpevoli di certi delitti particolarmente abietti. Per me un assassino non può essere ucciso per la semplice ragione che nessuno di noi può arrogarsi il diritto di uccidere un altro uomo. Ma deve scontare la pena che si merita senza troppi abbuoni, in un carcere civile e non in una di quelle fogne dove teniamo stipati migliaia di individui nel disinteresse generale. E invece di essere lasciato a poltrire in cella, va fatto lavorare per la comunità, affinché trovi nel lavoro uno strumento per redimersi e per ripagare i soldi pubblici spesi per il suo mantenimento. Sardegna: Caligaris (Sdr); sovraffollamento, 4 carceri su 10 oltre limite regolamentare Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2016 "Gli ultimi dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria delineano una realtà sarda sempre più problematica con 4 Istituti su 10 oltre il limite della capienza regolamentare e 2 bimbi a Sassari-Bancali. La Casa Circondariale di Cagliari-Uta in particolare registra al 29 febbraio 588 ristretti per 567 posti (27 donne - 88 stranieri), erano 574 a gennaio. Analogamente sono fuori quota le presenze a Oristano-Massama (291 per 260 posto), Tempio-Nuchis (181 per 167) e Lanusei (34 per 33). Non se la passa granché bene neppure il carcere di Badu e Carros di Nuoro, dove si trovano 170 reclusi per 271 posti, perché in realtà gli spazi regolamentari sono in numero decisamente inferiore in quanto una sezione è chiusa da quasi due anni. Molto delicata perfino la situazione di Sassari-Bancali con 410 detenuti per 455 posti ma dove c’è il padiglione di 92 posti destinato alle persone in regime di massima sicurezza, 2 creature (una bambina di 4 mesi e un maschietto di 14 mesi, con le rispettive mamme) dietro le sbarre e il più alto numero di reclusi stranieri (114)". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sulla base del resoconto del Ministero della Giustizia che fotografa la situazione detentiva in Italia al 29 febbraio 2016. "È sconcertante rilevare - osserva Caligaris - che i cittadini privati della libertà in Sardegna sono concentrati in 5 Istituti con 1640, presenze mentre negli altri 5, con 3 Colonie Penali, sono rinchiuse 387 persone. Delicata la situazione nella Casa Circondariale di Cagliari per la presenza di un’alta percentuale di ristretti tossicodipendenti e con doppia diagnosi e per un numero insufficiente di Educatori e di Agenti della Polizia Penitenziaria. Problematiche sono anche quelle di Massama e Nuchis in quanto i detenuti in prevalenza sono in regime di Alta Sicurezza nonché ergastolani. Ciò significa che ciascuno dovrebbe disporre di una cella singola dovendo scontare una pena detentiva piuttosto lunga. L’assenza di spazi adeguati invece genera profondo disagio con momenti di tensione e problematiche che talvolta rendono difficile la convivenza". "Assurda la condizione delle Colonie Penali dove, a fronte della possibilità di svolgere un’attività lavorativa e imparare un mestiere, il numero di detenuti è ridotto all’essenziale. Insomma in Sardegna si sommano aspetti contraddittori che fanno riflettere sulla considerazione che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riservano all’isola. Realtà che contrasta con la volontà espressa in più occasioni dal Ministro Andrea Orlando di voler considerare la pena detentiva - conclude Caligaris - come un’occasione di riscatto sociale. Va benissimo quindi rafforzare il ruolo delle Colonie Penali con la collaborazione di Confagricoltura ma occorre alleggerire le strutture chiuse". Sardegna: Caligaris (Sdr); complicazioni per divieto uso cellulare a detenuti in articolo 21 Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2016 "La recente disposizione del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna con cui viene fatto divieto ai detenuti che svolgono un’attività esterna al carcere di disporre e utilizzare il cellulare durante gli spostamenti e nelle ore extra-murarie sta creando difficoltà ai lavoratori e ai datori di lavoro anche con negative conseguenze sulla durata dell’impiego". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete dei disagi. "L’iniziativa - sottolinea - è stata assunta dal Prap con l’intento di uniformare il codice di comportamento del cittadino privato della libertà dentro e fuori dall’Istituto. Fino ad ora infatti i lavoranti esterni all’Istituto potevano prelevare il cellulare al mattino e depositarlo la sera al rientro in carcere. Ciò non è permesso al detenuto che lavori dentro la struttura. È evidente tuttavia che gli esterni sono detenuti "selezionati" e "particolari" che hanno ottenuto un contratto dopo un attento esame e che con il lavoro possono mantenere se stessi, la famiglia e pagare il mantenimento detentivo. Gli "articoli 21" peraltro hanno apposite celle di pernottamento distinte da quelle degli altri ristretti. Godono di una condizione derivante da una affidabilità che il Magistrato di Sorveglianza "certifica" con un’autorizzazione a lasciare il carcere, anche se solo per le ore finalizzate al lavoro. Deve altresì essere ricordato che nelle strade non ci sono più cabine telefoniche e ciò a maggior ragione nelle campagne". "L’applicazione rigida del divieto comporta - aggiunge la presidente di Sdr - dei problemi nel caso, purtroppo non infrequente, in cui il cantiere di lavoro non possa essere raggiunto a piedi e il mezzo pubblico ritardi o abbia un guasto, oppure se un malessere o un altro impedimento renda impossibile al detenuto di rispettare l’orario di ritorno in carcere. Tutte circostanze che le Forze dell’Ordine possono facilmente verificare. Senza preavviso o segnalazione tempestiva invece, la persona rischia di perdere il lavoro e di dover con maggior fatica ripercorrere ex novo la strada che lo aveva condotto al raggiungimento dell’obiettivo della propria emancipazione sociale". "C’è poi un altro aspetto sul quale riflettere. Potrebbe risultare anche molto più difficile per le Forze dell’Ordine verificare il genere di relazioni telefoniche che il detenuto potrebbe intrattenere qualora dovesse impiegare un cellulare messo a disposizione da un conoscente o da un amico. Allora forse sarebbe più opportuno fare un’analisi più approfondita, riflettere sulle conseguenze del provvedimento e, facendo prevalere il buon senso, ristabilire la precedente prassi permettendo l’uso del cellulare personale. È probabile che in questo modo - conclude Caligaris - tutti si sentirebbero più tranquilli, anche i datori di lavoro". Campania: Protocollo di Intesa sulle carceri tra la Comunità di Sant’Egidio e il Prap Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2016 È stato siglato ieri nella sede di Napoli del Prap (Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria) della Campania un protocollo d’intesa tra l’Amministrazione Penitenziaria e la Comunità di Sant’Egidio. Erano presenti il Provveditore Tommaso Contestabile e i responsabili della Comunità, che hanno sottolineato come questo accordo rappresenti un consolidamento del rapporto di collaborazione ed un incremento della sinergia tra l’Amministrazione Penitenziaria e i volontari di Sant’Egidio che mettono gratuitamente a disposizione il loro tempo e il proprio impegno per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. La Comunità di Sant’Egidio è presenti nelle carceri della Campania da oltre 10 anni per sostenere materialmente e moralmente i reclusi, soprattutto quelli indigenti e malati, con diverse attività: colloqui con i detenuti, catechesi, distribuzioni di generi prima necessità, incontri culturali, concerti musicali, pranzi di Natale. Solo nelle ultime festività natalizie ci sono stati 9 pranzi oltre a 4 eventi, che hanno visto la partecipazione di oltre 1000 detenuti, 250 volontari, artisti ed esponenti della società civile e religiosa. Un’amicizia e un impegno oltre le sbarre che continuano con più passione e determinazione. Abruzzo: Garante detenuti; cresce sostegno a nomina Bernardini, ma il M5S è contrario emmelle.it, 16 marzo 2016 Oggi è stata ascoltata dalla Conferenza dei capigruppo. L’augurio del vicepresidente Paolini. I grillini: "Per noi è ineleggibile". "L’ho detto a tutti i capigruppo che sono intervenuti e che ringrazio: non mi limiterò alla relazione annuale, ma li terrò molto informati, perché il carcere fa parte della città, della Regione, e i consiglieri devono sapere cos’accade nelle carceri; i loro interventi sono fondamentali". Così l’onorevole Rita Bernardini a margine dell’audizione convocata dalla Conferenza dei Capigruppo presso la Regione in relazione alla nomina del Garante dei detenuti abruzzesi: "Le carceri in Abruzzo sono come in tutta Italia: ci sono direttori bravi e personale preparato, ma si tratta comunque di istituzioni criminogene e chi fa il suo percorso in carcere non esce migliore - ha proseguito Rita Bernardini. Quindi c’è molto da lavorare, anche con gli Uffici di Esecuzione penale esterna e con gli Uffici di sorveglianza, per il reinserimento sociale di queste persone; ma deve collaborare tutta la collettività, dalle istituzioni ai cittadini volontari, perché molta strada dev’essere fatta". Intanto l’avvocato Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi, continua a portare avanti la campagna "Rita Bernardini Garante dei detenuti subito, assieme a Riccardo Chiavaroli, promotore della legge che istituisce in Abruzzo la figura del Garante dei detenuti: entrambi auspicano che venga eletta entro Pasqua. Analogo augurio arriva alla leader radicale dal vicepresidente del Consiglio, Lucrezio Paolini: "Non possiamo più aspettare - dice Paolini - dobbiamo finalmente procedere alla nomina di Rita Bernardini, che oggi ci ha dato dimostrazione della sua grande dedizione ai problemi del mondo carcerario, per fare in modo che ci si possa adeguare alle normative europee". Il no del Movimento 5 Stelle. "Abbiamo ascoltato in audizione Rita Bernardini, ma un processo democratico di scelta richiede che vengano sentiti anche gli altri candidati - commentano Gianluca Ranieri e il capogruppo Pietro Smargiassi del Movimento 5 Stelle". "Per quanto riguarda la Bernardini - aggiungono Smargiassi e Ranieri - la nostra posizione resta la stessa e prescinde da qualsiasi giudizio di valore sulla persona che è fuori discussione. Anche se le battaglie portate avanti dal segretario dei radicali sono condivisibili, Rita Bernardini resta ineleggibile come Garante dei detenuti. Le sentenze, anche se relative ad atti di disobbedienza civile finalizzati ad affermare valori di principio condivisibili, sono un fattore determinante da cui non si può prescindere. Non possono ammettersi deroghe al rispetto di una legge vigente". Napoli: muore suicida Giulio Murolo, l’autore della strage di Secondigliano di Antonio Di Costanzo La Repubblica, 16 marzo 2016 Giulio Murolo era ricoverato in ospedale dopo aver ingerito delle pillole. Il suo avvocato: "Una tragedia annunciata". È morto Giulio Murolo, l’infermiere autore della "strage di Secondigliano", che il 15 maggio, dopo una lite per la biancheria stesa in spazi condominiali, uccise il fratello e la cognata. Quindi iniziò a sparare all’impazzata dal balcone della sua casa di via Miano provocando la morte di due vigili urbani (il capitano Francesco Bruner e il luogotenente Vincenzo Cinque) intervenuti eroicamente per mettere in salvo i passanti, e di Luigi Cantone, cuoco del Convitto Vittorio Emanuele che stava percorrendo la strada in scooter. Nella follia omicida dell’infermiere anche rimasero ferite altre cinque persone. Murolo sabato, nella cella del carcere di Poggioreale dove era recluso, aveva tentato il suicidio, ingoiando alcune pillole. Da qui il ricovero nell’ospedale Loreto Mare, piantonato dagli agenti della polizia penitenziaria. A causa dell’aggravarsi delle sue condizioni cliniche era stato trasferito nel reparto di Rianimazione dove è deceduto in seguito a una grave crisi cardio-respiratoria. "È una tragedia preannunciata - accusa Carlo Bianco, avvocato di Murolo - Non c’è stato un colloquio che non facesse pensare che potesse compiere un gesto inconsulto. Avevamo chiesto l’autorizzazione a un nuovo consulto con un psichiatra di nostra fiducia per sottoporlo a una nuova cura farmacologica, ma non ha avuto neanche il tempo di incontrarlo". Piacenza: Lucia Annibali "non ho permesso al mio carnefici di distruggermi" di Patrizia Soffientini Libertà, 16 marzo 2016 Sfigurata con l’acido, la lezione di coraggio di Lucia Annibali. "Una parte di te muore, ma devi rimetterti in piedi. Io ho scelto di concentrarmi su me stessa, di cambiare, di cercare un modo di vivere più coraggioso e dignitoso". Chi "spreca" la sua vita è piuttosto il colpevole, non la vittima. Emerge un’intima forza dalle parole di Lucia Annibali, l’avvocatessa che nel 2013 venne sfigurata con l’acido e per la quale il mandante Luca Varani è stato condannato in appello a vent’anni di carcere. Da un volto "cancellato" - che oggi però si presenta già molto piacevole dopo decine di interventi sopportati - questa donna minuta dà forma alla propria rinascita, modella atteggiamenti nuovi. Non è, Lucia, la sola protagonista dell’incontro con gli ex detenuti della rivista Ristretti Orizzonti riservato in Cattolica agli studenti del Colombini e delle facoltà di Giurisprudenza e Scienze della Formazione, ma è quella che - pur fra mille contraddizioni più intuite attraverso il suo sguardo che espresse a parole - appare come la più titolata a trasmettere un messaggio infine luminoso. "Cercate di condurre una vita da persone illuminate, non siate mai fonte di dolore verso chi incontrate, siate per loro un’occasione. Siate illuminati anche verso chi commette i reati". Parole che colpiscono l’uditorio, silenziosissimo, come pietre gentili, rotolate da un monte di dolore. Ma L’avvocato Annibali in fondo rivela soprattutto la complessità di essere vittima anche in questa luce: "Io vivo nel coraggio ma non posso dimenticare quanto subito, se uscisse il mio carnefice ho paura che venga a cercarmi, a vedere come sto". E a chi le pone la domanda scomoda su come abbia reagito alle parole di Varani intervistato su Rai3 da Franca Leosini, esita. Le spiace. Non ha visto la trasmissione, la ferita c’è. Si sente. Ha vissuto quell’incursione televisiva come un’invasione della privacy. Per lei parla Ornella Favero, giornalista, che dirige Ristretti Orizzonti ed è presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. "Giornalismo irresponsabile, disgustosa intervista" taglia corto. Oltretutto Varani ha fatto ricorso in Cassazione, il procedimento è aperto. E appare doppiamente inopportuna la sua confusa autodifesa. C’è in Annibali la consapevolezza che le vittime donne "non sono così ben volute, quasi che se la fossero cercata. Il pregiudizio cresce se la vittima, come me, è reattiva" confida. Il terreno è ancora incandescente per questa donna. Le distanze vanno mantenute. "Secondo me vittima e autore del reato devono fare percorsi separati verso la loro consapevolezza. La vittima deve decidere se fermarsi all’odio e alla vendetta oppure cosa fare della propria esistenza". La fragile Lucia appare in questo fortissima. Piacenza: vittima e colpevole, la speranza nel "confronto" di Patrizia Soffientini Libertà, 16 marzo 2016 Con Ristretti Orizzonti tre testimonianze di chi ha ucciso o rubato e ha scontato anni di carcere. "Sguardi incrociati sulla giustizia: una prospettiva educativa" è il titolo di una straordinaria mattinata di lavori in Cattolica, propiziata dallo storico impegno sul carcere di Carla Chiappini e Stefania Mazza, punteggiata dalle riflessioni delle docenti Elisabetta Musi (Pedagogia) e Biancamaria Sprigico (Diritto Civile), e cosi interessante da aver richiamato troppi studenti per la piccola sala dove era confinata. E infatti l’uditorio si trasferisce -subito dopo i saluti della preside Anna Maria Fellegara (Economia e Giurisprudenza) - nel maggior respiro dell’aula magna. La lezione più profonda è che tutti, in vario modo, siamo un impasto di bene e di male. Ed è tanto più vero ascoltando le voci e i racconti molto circostanziati di tre detenuti, redattori della rivista Ristretti Orizzonti. Persone normali, la cui vita ha sterzato verso il buio. Rashid ha 35 anni e 16 li ha passati in carcere per a-ver ucciso un connazionale. "Del disastro che ho combinato mi prendo tutta la responsabilità, non ha colpa la mia famiglia, non i miei genitori". C’era tanta rabbia in Rashid che prima o poi farà i conti con la famiglia del ragazzo ucciso, oltretutto vicini di casa in Africa. Andrea ha passato 21 anni in carcere dopo un’esistenza di tossicodipendenza e un omicidio. Nelle sue parole si legge in controluce anche l’attualità di certi week-end da sballo che finiscono in tragedia, come è accaduto di recente a Roma. Bruno ha avuto una condanna a 14 anni dopo aver inseguito la sirena di guadagni facili e aver esibito una spavalderia iniziale che evapora nella durezza della carcerazione. Cosa accomuna queste storie? Il percorso di consapevolezza certo, la possibilità oggi di lavorare ma soprattutto la presa di coscienza del male compiuto, dove la leva più potente è specchiarsi nello sguardo di chi è vittima, nella storia di chi è vittima. A patto di aver l’aiuto di un mediatore. Il colpevole non deve cercare poi il contatto diretto con la persona o la famiglia delle persone offese. Ascoltare altre persone offese, altre vittime è la miglior terapia. Perché "non ci sono mostri, ma noi esseri umani possiamo fare cose mostruose, ma possiamo anche allenarci ad essere onesti". L’empatia con l’altro è il primo passo. Parma: detenuto da fuoco alla cella, protesta il Sinappe parmaquotidiano.info, 16 marzo 2016 Un detenuto ha dato fuoco ieri alla sua cella nel penitenziario di Parma. Un agente di servizio nel reparto è riuscito a domare l’incendio usando degli estintori in dotazione ma, anche a causa dell’assenza dei previsti sistemi di protezione individuale, ha subito un’intossicazione da fumo diagnosticata dal Pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore della città nosocomio cittadino. L’episodio ha causato le proteste di altri reclusi, spazientiti perché gli episodi dimostrativi sono ormai frequenti nella struttura di via Burla. L’episodio è stato riferito dalla segreteria regionale del Sinappe, il sindacato della polizia penitenziaria, che parla di "svariati colleghi aggrediti nell’ultimo periodo da alcuni detenuti particolarmente violenti". "È ormai troppo tempo che il Sinappe Emilia-Romagna - scrive il sindacato - denuncia, inascoltato, la difficile situazione in cui versano gli II.PP. di Parma, ma ora a venir messa a repentaglio è la stessa sicurezza dei poliziotti in servizio e della popolazione carceraria, a causa delle crescenti intemperanze da parte di alcuni detenuti particolarmente facinorosi. Stiamo difatti assistendo ad una escalation di aggressioni ai danni degli stessi poliziotti e di azioni di protesta da parte dei detenuti". Il Sinappe ha inviato una lettera all’Amministrazione penitenziaria sollecitando una serie di misure per ripristinare "condizioni lavorative adeguate alla funzione da svolgere e tali da scongiurare il ripetersi di simili episodi". In mancanza di risposte concrete, il sindacato minaccia protesta. Pisa: cani dei detenuti in carcere, il "Don Bosco" è il primo a consentirlo La Nazione, 16 marzo 2016 L’esperienza prende le mosse da "Cani Dentro" il percorso di pet therapy promosso all’interno della casa circondariale pisana. Che ora è diventata anche una mostra fotografica. "Non vedevo il mio cane da due anni e mezzo. Quando è entrato in carcere per la prima volta tremava, poi mi ha riconosciuta e quel punto ha cominciato a rilassarsi, mi ha fatto le feste e l’ho accarezzato per tutto il tempo che ho potuto". È uno dei tanti racconti ascoltati alla Casa Circondariale "Don Bosco" di Pisa, tra i detenuti che hanno partecipato all’inaugurazione della mostra fotografica "Cani dentro": una trentina di scatti in bianco e nero della fotografa Maria Cristina Germani, che resteranno in allestimento al Don Bosco per una settimana e raccolgono le immagini del progetto di pet therapy portato avanti dall’associazione "Do Re Miao" all’interno del carcere. Il progetto, unica esperienza in Toscana, ha permesso ai detenuti di interagire con i cani dell’associazione ma anche di incontrare i propri animali dato che gli operatori hanno potuto accompagnare all’interno del carcere i cani di proprietà dei carcerati, favorendo l’incontro con un "membro della famiglia" altrimenti escluso dalle visite. Una pratica che la Casa Circondariale Don Bosco, unico caso in Italia, dopo questa esperienza, ha istituzionalizzato. "Vogliamo assolutamente proseguire quest’esperienza - ha spiegato la Presidente della SdS della Zona Pisana Sandra Capuzzi - e l’obiettivo è cercare dei finanziamenti per dargli continuità e anche affinché sia possibile raccogliere i dati per rendere scientifico il lavoro che si sta portando avanti". Intanto per dare continuità al progetto è stata attivata una raccolta fondi on-line sul sito labuonacausa.org. Cinema. "Dustur": la forza delle parole, dialogo tra Islam e costituzione di Giovanna Branca Il Manifesto, 16 marzo 2016 Marco Santarelli racconta "Dustur", in gara durante le giornate del Cinéma du Réel dal 18 al 27 marzo. Istruzione, compassione, lavoro, libertà di viaggiare e vedere il mondo. Sono alcune delle parole chiave di una costituente molto particolare, composta dai detenuti islamici della Dozza, il carcere di Bologna, insieme ai quali un volontario religioso, Fra Ignazio, conduce una serie di incontri sulla comparazione della costituzione italiana con quelle islamiche - in particolare marocchina, tunisina e egiziana. A riprendere questi incontri c’è Marco Santarelli, regista romano, e occhio sensibile del documentarismo. Il risultato, Dustur, è ora in concorso al parigino Cinéma du réel (18-27 marzo). Un film questo (prodotto con bella indipendenza da Rino Sciarretta) "che viene da lontano", le cui radici rimandano al precedente milleunanotte, anch’esso girato alla Dozza, e almeno per una parte nel "braccio marocchino". Dustur in arabo vuol dire costituzione, l’insieme di norme che come Fra Ignazio spiega ai detenuti non è solo una successione di parole e formulazioni giuridiche astratte ma un corpus di regole e diritti ancorati alla Storia e alla realtà. E "la forza delle parole" è proprio il tema del film, costruito, come dice Santarelli, "quasi interamente sui primi piani dei ragazzi e sui loro pensieri". Tra loro c’è Samad, ex detenuto marocchino che ha scontato una pena per traffico internazionale di stupefacenti e ora studia giurisprudenza. Nel carcere è tornato su invito del regista per partecipare alla costituente. A emergere con forza è soprattutto la necessità della scolarizzazione e del lavoro come diritto, anche se l’unico argomento che accende gli animi dei partecipanti è quello della libertà religiosa. Quando vengono posti di fronte all’eventualità di un musulmano convertito al cristianesimo o a un’altra religione molti sono contrariati: "Se Dio non lo accetta, come posso farlo io?". "Soprattutto a Bologna sono tantissimi i detenuti stranieri come anche i volontari che fanno iniziative e corsi per scolarizzare questi ragazzi, molti dei quali fanno fatica anche a parlare e scrivere in arabo" dice Santarelli. Il film si chiude con i detenuti che trovano le parole chiave della loro costituzione. Quel lavoro ha avuto un seguito? "Mi piaceva l’idea di concludere su quei concetti. Il lavoro è andato avanti anche dopo la fine delle riprese, hanno messo insieme moltissimi appunti che poi sono stati pubblicati in un libro della Regione Emilia Romagna curato dalla garante dei detenuti che ha patrocinato il corso. L’idea mi sembra molto forte: è la prima volta che in carcere si affrontano argomenti di questo tipo, e soprattutto che vengono messi a confronto valori e articoli della nostra costituzione con quelli delle costituzioni arabe. A pensarci è stato Fra Ignazio, un volontario religioso con una storia particolare: ha vissuto tanti anni in Siria, dove ha imparato l’arabo, ha una laurea in giurisprudenza e un dottorato in diritto islamico". Come si è relazionato con i detenuti? "Durante le riprese ho dato solo raccomandazioni di carattere tecnico, il resto è venuto naturalmente perché con molti di loro c’era un rapporto quasi familiare. Specialmente con Samad, che aveva già partecipato a milleunanotte e col quale sono rimasto in contatto perché volevo fare un film su di lui e la sua vita fuori dal carcere. In Dustur i corsi e la vita di Samad procedono parallelamente per poi incontrarsi nel finale, quando torna alla Dozza per partecipare agli ultimi incontri. Ho ripreso le "lezioni" quasi sempre da solo, proprio con l’obiettivo di costruire un rapporto con i ragazzi. Ho pensato che se ci fossero stati altri insieme a me sarebbe stato più complicato. Ma ha anche aiutato il fatto di girare in una biblioteca, un posto molto piccolo, pieno di libri, dove tutti sedevano intorno a un tavolo". "Dustur" arriva in un momento in cui l’argomento trattato è di strettissima attualità… "Sapevo che avrei toccato un tema di attualità, un argomento "caldo" ma non immaginavo ciò che sarebbe accaduto. Durante le riprese c’è stata la strage di Charlie Hebdo, e appena prima che finissi il film, a poche settimane dal suo debutto al festival di Torino, ci sono stati gli attentati di Parigi". Nel finale si esce dai luoghi in cui si svolge tutto il film per fare visita al cimitero di Casaglia di Monte Sole, teatro della strage di Marzabotto. "Dustur è costruito quasi interamente sulla parola, perciò non mi interessava particolarmente mostrare il carcere o la casa di Samad: è stata una scelta stilistica. Aprirmi allo spazio esterno nel finale è stata invece una cosa che ho avuto subito in mente: avvertivo l’urgenza di mostrare il cimitero di Monte Sole perché era importante tornare dove eravamo partiti, nel luogo simbolo della Resistenza e dunque della costituzione. Volevo che i concetti che vi sono espressi avessero un’anima, venissero legati alla sofferenza e ai fatti concreti da cui sono nati, altrimenti potrebbero sembrare solo parole scritte una dopo l’altra. La nostra costituzione non è nata in un salotto, e il cimitero di Monte Sole - vicinissimo tra l’altro al monastero dove ha vissuto Fra Ignazio - è un luogo simbolico tanto quanto la biblioteca del carcere in cui si svolge la costituente dei detenuti". Libri: la libertà su Internet ha bisogno di regole di Beniamino Pagliaro La Stampa, 16 marzo 2016 Il saggio di Anna Masera e Guido Scorza (assieme a Stefano Rodotà) sui diritti del Web. Le parole "Internet" e "regole", digitate di seguito, ci avvicinano subito a Paesi in cui la censura è normalità, la rete e la stampa sono controllate e comuni diritti civili sono limitati. Ma è per garantire i nuovi diritti nell’epoca di Internet che servono nuove regole. La Camera dei Deputati ha approvato nel luglio del 2015 una "Dichiarazione dei diritti in Internet" che enuncia concetti nuovi e allo stesso tempo già essenziali della vita nell’ambiente digitale. La Dichiarazione ha il merito di provare a imporre dei nuovi standard minimi. Il libro "Internet, i nostri diritti", in uscita per i saggi di Laterza, ha una funzione complementare: ricostruisce il contesto e guida nelle complessità, attorno ai totem, dall’accesso alla rete alla conoscenza, dall’uguaglianza alla privacy, dalla cittadinanza all’oblio, fino a una necessaria idea di democrazia. Il libro di Anna Masera, public editor (ovvero garante dei diritti dei lettori) de La Stampa, e Guido Scorza, avvocato e docente, è nato proprio dal lavoro della Commissione che ha lavorato alla stesura della Dichiarazione. C’era una volta l’Internet senza bisogno di regole. Nata come tecnologia per comunicare, la Rete ha compiuto di corsa un salto di paradigma, da strumento ad ambiente, e uno di quantità, dalle nicchie alle masse. All’inizio, poco più di vent’anni fa, si è forse sperato in una sorta di traslazione della mano invisibile di Adam Smith dall’equilibrio economico a quello della Rete. Ma Internet non è solo un mercato, in cui comunque la crescita semi-monopolistica dei grandi gruppi sembra irrefrenabile. Internet è oggi anche il potere, di Stati e grandi aziende, di concedere o meno a un cittadino i diritti fondamentali ricordati da Masera e Scorza: consultare una notizia, non essere spiati, essere dimenticati. Internet è anche il terreno in cui i grandi gruppi dettano una propria politica estera, potenzialmente superando il controllo degli Stati e aprendo interrogativi inediti. Si è spesso temuto che nuove regole avrebbero potuto soffocare la libertà di disegnare nuovi servizi, lanciare nuove idee. Ma senza il rispetto di principi cardine, come la neutralità della Rete, il diritto a competere finisce, quello sì, nell’oblio. Internet è così "sempre più regolata da Stati invadenti e imprese prepotenti", come scrive nella prefazione del volume il giurista Stefano Rodotà, che ci porta non a un "vuoto" bensì a un "pieno di regole". La Dichiarazione, aggiunge Rodotà, risponde all’esigenza di avere un "sistema fermo nei principi", che aiuti quest’"inedita e infinita costituzionalizzazione". Scrivere nero su bianco i diritti è il primo passo, necessario. Ma la prossima pagina della storia di Internet, e della società, dipende più dalla cronaca che dalle dichiarazioni. Diritti che diamo per scontati nella vita reale ci sono a volte apparsi superflui nello spazio distrattamente definito virtuale. Internet non è più adolescente, e il cittadino è ancora una volta convocato all’esame della consapevolezza. Accordo sui migranti in salita e Cipro pone il veto ad Ankara di Carlo Lania Il Manifesto, 16 marzo 2016 Facile non lo è mai stata, ma per l’accordo con la Turchia con cui l’Unione europea spera di mettere fine agli arrivi dei migranti la strada appare sempre più in salita. "Non ci siamo ancora", ha ammesso ieri Donald Tusk, uno che da mesi spinge perché si arrivi a una conclusione con Ankara. "La proposta turca deve essere ancora riequilibrata per essere accettata dai 28 membri dell’Unione", ha spiegato il presidente del consiglio Ue. Tradotto significa che Ankara ha alzato troppo l’asticella delle sue richieste, sia politiche che economiche, troppo anche per un’Europa che sarebbe disposta a tutto o quasi pur di uscire da un incubo che la paralizza ormai da un anno e che ha stravolto leadership che sembravano consolidate. Troppi ulteriori tre miliardi di euro in aggiunta ai 3 già stanziati da Bruxelles, ma troppo anche la liberalizzazione dei visti e soprattutto l’accelerazione del processo di adesione all’Unione europea. Ostacoli che l’Europa deve "riequilibrare" in fretta, per dirla con le parole di Tusk, se davvero vuole arrivare alla fine di una trattativa che comunque vada rappresenterà una condanna per i migranti. Come spesso accade si tratta però del classico obiettivo facile a dirsi ma molto complicato da realizzare. A smorzare gli entusiasmi di Tusk ieri ci si è messo anche il presidente di Cipro Nicolas Anastasiades che ha ribadito l’intenzione di "non consentire" alcuna accelerazione che porti la Turchia nell’Unione europea. Nicosia non dimentica l’invasione dell’isola da parte delle truppe turche nel 1974 e la successiva proclamazione di una repubblica riconosciuta solo da Ankara. Cose che Anastasiades ha ricordato a Tusk, presente ieri sull’isola. Ma il presidente cipriota non è l’unico a frenare. Bruxelles chiede ad Ankara di fermare i migranti che vogliono raggiungere l’Europa e di riprendersi quanti sono già arrivati, a partire dai circa 46 mila già presenti in Grecia. Il che significherebbe dare avvio ad espulsioni in massa che sono vietate dal diritto internazionale oltre a essere lontane anni luce dai principi di accoglienza e assistenza di quanti fuggono dalla guerra ai quali Unione europea dovrebbe ispirarsi. Al punto che anche Tusk ha ammesso che "resta ancora da accertare la legalità" alcune parti dell’intesa. Il fatto è che il tempo stringe. Ankara si aspetta che il Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles non solo accetti tutte le condizioni poste, ma si sbrighi anche a metterle in atto. I dubbi di diversi stati membri come Spagna, Italia, Francia, Svezia e Lussemburgo, o addirittura una risposta negativa non piacerebbe al regime di Erdogan che per reazione potrebbe spingere i profughi a partire per far pressione sull’Europa. Tusk lo sa bene, e non a caso ieri dopo Cipro si è recato ad Ankara per un incontro con il premier Davutoglu utile a limare ogni possibile ostacolo. "Abbiamo stabilito un lista di questioni che dobbiamo affrontare assieme se vogliamo raggiungere un accordo per venerdì. Duro lavoro di fronte", ha detto. Quello che è certo è che di duro ci sono soprattutto le condizioni di vita alle quali sono costrette le migliaia di profughi ammassati al confine tra Grecia e Macedonia. Nel campo di Idomeni ieri è arrivato il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos che ha potuto toccare con mano la drammaticità della situazione. Dei circa duemila profughi che lunedì hanno tento di arrivare in Macedonia attraversando un fiume, più di 1.500 sono stati rispediti indietro dai poliziotti di Skopje. E non sempre gentilmente. Testimonianze parlano infatti di migranti, tra i quali tantissimi bambini, impauriti da poliziotti armati e con i cani e costretti in alcuni casi a percorrere a piedi gli otto chilometri che li separavano dal campo di Idomeni. Droghe: tra i ragazzi italiani ritorna l’eroina "consumi raddoppiati, non la temono più" di Caterina Pasolini La Repubblica, 16 marzo 2016 La fumano, la sniffano, la cercano negli sciroppi e nei medicinali legali. L’eroina è tornata in silenzio e dilaga: è raddoppiato in un anno il numero di quindicenni che ne fanno un uso continuato, sono ormai 9.000. Lo dice il Consiglio nazionale delle ricerche che nella sua ultima ricerca parla di 31mila teenager che l’hanno provata almeno una volta nel 2015 (in 20mila l’hanno addirittura presa dieci volte nell’ultimo mese). L’effetto è un enorme aumento nella fascia giovanile: gli under 35 che l’anno scorso hanno assunto eroina sono arrivati a quota 300mila, triplicati dal 2011. La droga che ha decimato una generazione tra overdosi e Aids, negli anni ha cambiato veste e forme. E ora entra nelle case di studenti e lavoratori e nei weekend dello sballo: ma sempre più spesso senza le siringhe e l’immagine del tossico emarginato. Una droga vissuta senza timori. Spogliata dal fascino dell’autodistruzione, dei "maledetti" alla Jim Morrison. Stupefacente ormai quasi "banale", analizzano gli esperti, ingerito per scelta ma anche inconsapevolmente. "Questo accade perché in Italia non si fanno sempre meno politiche di educazione ai rischi collegati all’uso. I ragazzi non sanno e, perso il senso del pericolo, fumano hashish o eroina come se non ci fosse differenza. La cosa allarmante è il poco scarto tra chi l’ha provata una volta, 1,6% dei quindicenni, e chi la prende dieci volte al mese, 1,2%. Segno che ormai sono agganciati", spiega Sabrina Molinaro, dell’Istituto di fisiologia clinica del Crn, studiosa del fenomeno. Una realtà dalle molte facce. A Milano i ragazzi vanno in Svizzera a comprare sciroppi legali con oppiacei per farsi la purple drank cantana dai rapper. A Palermo o Asti sniffano antidolorifici all’ossicodone tritati. Ma quello che unisce nord e sud sono i pusher: hanno cambiato logica di mercato. "Creano prodotti nuovi per fidelizzare i clienti, all’inizio a loro insaputa. Dopo aver visto crescere la tendenza a chiudere la serata con una sniffata di eroina per calmare l’eccitazione da cocaina e pasticche, chi vende ormai fa dosi preconfezionate: hashish mischiato con white o brown sugar, erba bagnata nel metadone, a volte resti di acidi. Sei convinto di farti solo una canna un più forte e diventi dipendente", sottolinea Roberto Mineo del Ceis, centro di prevenzione e riabilitazione nato 40 anni fa. Vere bombe che hanno portato quest’estate tre ragazzi in fin di vita in un ospedale a Napoli, mix che continuano a venir consumati sempre più spesso dai teenager. Adolescenti che passano da pasticche a psicofarmaci, canne con o senza eroina e alcol, con la convinzione di scegliere, di sapere dosare. "E purtroppo non è così. I ragazzi non hanno memoria di cosa sia accaduto in passato, non hanno gli anticorpi per difendersi e così consumano eroina come fosse una delle tante sostanze che si prendono in una serata di svago, una birra, un energy drink, senza sapere quanto velocemente arrivi la dipendenza", dice Giorgio Schiappacasse, psichiatra al servizio delle dipendenze dell’Asl di Genova dove si occupano di 800 giovani sotto i vent’anni consumatori anche di oppiacei. Secondo le sue stime per uno che si cura, cinque restano lontani convinti di non aver bisogno di aiuto. Sono ragazzi che hanno cominciato anche a 15 anni comprando la roba nelle piazze del centro prima come antidoto delle serate troppo su di giri per poi sceglierla per i suoi effetti stordenti. La pagano venti euro la dose in Liguria e a Bologna, anche 35 a Milano, mentre nel torinese anche solo 5 euro. Prezzi bassi per allargare il mercato, la metà di quanto costa la cocaina. Operatori di Onlus e medici delle Asl che lavorano nei Sert, sulla strada, raccontano realtà di provincia e metropoli. Dove lo spaccio avviene ancora nei luoghi della movida, anche se spesso basta una telefonata al pusher e non ci sono più i ghetti dei disperati in cerca della moneta per la dose, ma giovani che consumano droghe in cocktail. Le denunce arrivano anche dagli operatori del gruppo Abele di Don Ciotti, da chi lavora nelle unità di strada di Onlus come La Rupe di Bologna dove ricordano ragazzini di 14 anni con già mesi di eroina alle spalle. Uomini e donne che battono i quartieri, vanno nelle le scuole, chiedono e soprattutto ascoltano, lasciano questionari rigorosamente anonimi. Cercano di cogliere e intervenire prima che i numeri ufficiali testimonino che è troppo tardi. "Perché l’esperienza ci dice che fumare l’eroina è solo un passaggio prima o poi si rischia di tornare la buco", sottolinea la dottoressa Simonetta Frattini, del Serd di Roma che ha 18 unità di strada, una dedicata solo ai rave. E lo conferma la dottoressa Molinaro del Cnr: tra i giovanissimi sta tornando anche la siringa "e i ragazzi si iniettano di tutto". Ma chi sono questi ragazzi? Secondo l’indagine del Cnr vivono più al Sud (sono oltre 12mila) che al Nord (più di 10mila), ricchezza e classi sociali non contano. L’eroina, soprattutto fumata con l’hashish, è trasversale, facilitata dai prezzi bassi. "Quelli che incrociamo hanno tra i 17 e i 20 anni, studiano o hanno un diploma ma dopo spesso non trovano lavoro. Sono per lo più maschi, anche se le ragazze stanno aumentando sensibilmente", racconta Leopoldo Grosso, psicologo del gruppo Abele di Torino creato da Don Ciotti nel 1965, ha visto l’eroina tornare partendo dalla riviera adriatica arrivando a riconquistare il Nord. E davanti ai numeri, alle storie, alla droga dell’oblio vissuta come una sostanza normale, si moltiplicano le voci che denunciano la mancanza di prevenzione e di informazione. Dagli studiosi ai tecnici tutti chiedono che la politica si muova "prima che sia troppo tardi". Droghe, la scienza di regime depone le armi di Giorgio Bignami Il Manifesto, 16 marzo 2016 Pare di intravedere una cauta apertura degli scienziati del governo americano a una diversa politica. Compresa una presa di distanza dalla demonizzazione del consumo moderato di cannabis Tra le tante rassegne mirate a valutare gli innumerevoli lavori sugli effetti della cannabis, spesso con risultati contrastanti, merita attenzione un lavoro recente apparso su Jama Psychiatry. Infatti il primo autore è Nora Volkow, la direttrice dell’Istituto nazionale per l’abuso di droghe (Nida), uno degli Istituti nazionali per la salute degli Usa (NIH). Quindi è probabile che le posizioni espresse nel lavoro abbiano un peso particolarmente rilevante sotto il doppio profilo scientifico e politico. A prima vista il pezzo non promette bene, esprimendo forti preoccupazioni per le conseguenze del dilagare della cannabis medica e delle iniziative di legalizzazione della cannabis ricreativa. Ma poi il tono inizia a smorzarsi: affermato che gli effetti neuropsicologici acuti possono essere notevoli, "… è meno chiaro se l’uso di cannabis si associ a un deterioramento neuropsicologico duraturo". Notoriamente una associazione spesso si produce con meccanismi diversi dal rapporto causa-effetto: quindi, se le parole sono importanti, la combinazione tra il "meno chiaro" e il "si associ" significa che non vi sono prove affidabili del "deterioramento neuropsicologico duraturo". E in proposito vengono citate due metanalisi, la prima a favore di un danno, la seconda, invece, riguardante lavori su soggetti con almeno un mese di astinenza dal consumo, senza alcuna differenza tra consumatori e non consumatori. Segue una tirata sulla vulnerabilità degli adolescenti in rapporto ai processi di maturazione cerebrale, seguita tuttavia dalla menzione di dati contrastanti di varie indagini di neuroimaging: cioè alcune mostrerebbero alterazioni cerebrali, altre invece no; ed è significativo il fatto che tra queste seconde se ne trovi una che ha tenuto nel dovuto conto gli effetti dell’assunzione concomitante di alcol. Inoltre, prosegue il testo, le migliori o peggiori prestazioni neuropsicologiche (cognitive, di memoria, ecc.) potrebbero riflettere differenze interindividuali prodotte da cause di varia natura, precedenti il consumo di cannabis: cioè sarebbero set e setting a modulare propensione e modalità di consumo della sostanza, il che accredita l’ipotesi di una causazione inversa tra uso di cannabis e qualità delle prestazioni neuropsicologiche. Per giunta, in molti studi è elevata la proporzione di utilizzatori pesanti, quindi poco si può dire sulle conseguenze di un consumo moderato. Infine, dopo aver sostenuto la causa della psicopatogenicità della cannabis, il testo fa un mezzo passo indietro: cioè nota che la presenza di una fase prodromica precedente la psicosi dichiarata non consente di escludere che una parte dei soggetti ricorra all’uso di cannabis come automedicazione (altra eventualità di causazione inversa). Del resto il messaggio che un consumo pesante iniziato in età precoce possa produrre danni è più che ragionevole; anzi, pare fatto apposta per sostenere la causa di una legalizzazione controllata, atta a sostituirsi almeno in parte a un mercato nero libero e selvaggio, come quello che prevale oggi. Il pezzo si conclude con un’enfasi sulla gravità del danno provocato da droghe lecite come il tabacco e l’alcol, e con un’aspra critica del ruolo dominante assegnato dalla War on drugs alla repressione e alla giustizia penale. Insomma, pur con le dovute riserve sulle ambiguità di una presa di posizione per alcuni aspetti "cerchiobottista", par di intravedere una cauta apertura degli scienziati del governo americano a una diversa politica delle droghe; compresa una presa di distanza dalla quasi secolare demonizzazione del consumo moderato di cannabis. Libia: incontro militare a Roma. Gentiloni: "Pianificazione" di Simone Pieranni Il Manifesto, 16 marzo 2016 La riunione che si è svolta ieri a Roma, a Centocelle, presenti i militari di oltre trenta Paesi per discutere della Libia "non è l’annuncio di una missione che sta per partire, è una delle tante iniziative di pianificazione". Lo ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, alla Farnesina, a margine della firma del Protocollo di intesa per la valorizzazione all’estero della cucina italiana di qualità. Facile la battuta sui preparativi del banchetto libico. I commensali studiano il menu, pensano a come apparecchiare la tavola e soprattutto dove mettere le sedie e chi fare sedere al fianco di chi. "La condizione - ha aggiunto Gentiloni - per poter tradurre la pianificazione in realtà è che ci sia un governo legittimo che chieda assistenza all’Onu e alla comunità internazionale". Gentiloni ha poi ricordato gli ormai fatidici tre passi: La strategia italiana sulla Libia prevede, nell’ordine: la formazione di un governo legittimo a Tripoli, la risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che dia un mandato specifico ad una coalizione di forze internazionali per la stabilizzazione del Paese, il Parlamento di Roma che autorizzi la presenza degli italiani in quel Paese. Sulla stessa lunghezza d’onda, benché impegnato a firmare altri protocolli d’intesa, in questo caso in Africa, ad Addis Abeba a incontrare la presidente dell’Unione africana Nkosazana Dlamini-Zuma, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (che forse è intervenuto per placare il presenzialismo scatenato dell’ex capo di Stato Napolitano, a proposito): "L’auspicio - ha ricordato - è che in Libia si riesca a realizzare l’operatività del governo che si è costituito, per uscire dalla crisi a beneficio soprattutto degli stessi libici, e per contrastare fenomeni a danno dei migranti". Che poi dalla Libia arrivino notizie non sempre verificabili, è dimostrato da un’agenzia lanciata nel tardo pomeriggio di ieri: aerei "sconosciuti" avrebbero bombardato oggi postazioni dell’Isis a Sirte, in Libia. Lo hanno riferito testimoni citati dai media arabi, ripresi dalle agenzie internazionali. I jihadisti hanno sparato colpi con le artiglierie anti-aeree. I raid avrebbero centrato depositi di munizioni e armi. Egitto: caso Regeni. Il procuratore Pignatone "su Giulio sevizie anche peggiori" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 marzo 2016 Il procuratore Pignatone di ritorno dal Cairo: "Il capo dei pm egiziani ha promesso di sgombrare il campo da sospetti e illazioni sulla rettitudine del ricercatore ucciso". "Abbiamo un impegno formale del procuratore generale sulla massima collaborazione per arrivare alla verità e questo, al momento, ci soddisfa. Vedremo nelle prossime settimane come si evolverà il lavoro comune, però una cosa deve essere chiara: noi forniremo tutto il supporto necessario, ma i titolari delle indagini sono i magistrati egiziani". Il giorno dopo la missione al Cairo, il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone chiarisce i termini dell’intesa siglata due giorni fa insieme con il sostituto Sergio Colaiocco per arrivare alla verità sul rapimento e l’uccisione di Giulio Regeni. Ottenere giustizia - Nessuno si fa illusioni rispetto al fatto che risultati possano arrivare a breve, ma il procuratore assicura che "l’attenzione rimarrà alta, seguiremo passo dopo passo l’evoluzione degli accertamenti". Una strada che indicherà personalmente ai familiari del giovane: "Incontrerò i genitori di Giulio nei prossimi giorni e a loro ribadirò la nostra intenzione di andare fino in fondo perché possano ottenere giustizia". Basta falsità - Il risultato principale, spiega Pignatone, "è quello di aver ottenuto l’assicurazione che nessuna illazione venga fatta sulla figura dello studente, sulla sua rettitudine. Si è sgombrato il campo da tutte le falsità e i sospetti circolati sinora e questa è una buona base dalla quale ripartire. Entro qualche giorno consegneremo ai colleghi egiziani il nostro fascicolo, compreso il risultato dei controlli effettuati sul computer di Regeni. Al procuratore generale Nabil Sadeq invieremo anche il risultato finale dell’autopsia svolta dal professor Fineschi. Siamo convinti che quanto accertato dai medici legali italiani possa contribuire a stabilire che cosa è accaduto, tenendo conto che le sevizie scoperte sono addirittura più gravi di quelle riscontrate durante il primo esame svolto in Egitto. E infatti lo stesso collega egiziano ha dovuto riconoscere come il delitto sia di una ferocia efferata". Cooperazione - La precisazione sulla titolarità del fascicolo dei colleghi del Cairo ha il doppio scopo di non creare "precedenti" rispetto all’attività del proprio ufficio su eventuali interferenze in altri casi che dovessero sorgere in futuro e di ribadire "la responsabilità delle indagini" in modo da non doverne condividere obbligatoriamente anche il risultato finale. Non a caso Pignatone ci tiene a chiarire i termini della missione al Cairo, "che è stata pianificata d’intesa con il governo, ma svolta nell’ambito della cooperazione giudiziaria e infatti al più presto anche gli investigatori dovranno incontrarsi e confrontarsi per arrivare a uno scambio reale di tutto quanto è stato acquisito sino ad ora". L’incidente stradale - Con la procura di Giza, guidata dal magistrato che prima aveva accreditato la pista dell’incidente stradale e via via alimentato altre ipotesi legate alla vita privata di Giulio Regeni, non c’è stato alcun contatto. "Abbiamo deciso di accettare l’invito del procuratore generale - chiarisce Pignatone - consapevoli che lui ha il potere di supervisionare gli accertamenti in corso e dunque per ottenere la garanzia che nulla sarà lasciato di intentato per sapere chi ha torturato e ucciso Regeni". Le indagini - Ipotesi sul movente il capo della procura di Roma non vuole, nè può farle. Anche se più volte in questi ultimi giorni è apparso chiaro come le verifiche svolte dai carabinieri del Ros e dai poliziotti dello Sco abbiano imboccato in maniera decisa la pista che porta a un apparato di sicurezza che avrebbe catturato il ricercatore ritenendolo una spia e dunque per cercare di scoprire le sue fonti sulle ricerche che svolgeva sull’attività dei sindacati egiziani. Nessuna verità di comodo - "Il nostro obiettivo principale - dice Pignatone - era il confronto con la massima autorità giudiziaria. Siamo consapevoli della complessità della realtà egiziana e dunque delle difficoltà di svolgere un’indagine tanto delicata e segnata da innumerevoli interferenze, ma questo non può distogliere nessuno di noi dalla determinazione a scoprire quanto accaduto". Al momento si procede dunque seguendo una strada comune, anche se il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito di fronte al Comitato parlamentare di controllo sui Servizi che "l’Italia non si accontenterà di verità di comodo". Una linea che Pignatone fa propria: "Non abbiamo firmato alcuna cambiale in bianco". Egitto: cittadini scomparsi detenuti in centro immigrazione clandestina in Libia Nova, 16 marzo 2016 I 15 cittadini egiziani che inizialmente si sospettava fossero stati rapiti da membri dello Stato islamico si trovano rinchiusi in un centro governativo per l’immigrazione clandestina libico. Lo riferiscono i media egiziani riportando una dichiarazione del viceministro degli Esteri per gli affari consolari e gli espatriati, Hesham al Nabiq. Nabiq ha detto che "i 15 cittadini egiziani non sono stati rapiti, ma si trovano a circa 400 chilometri da Tripoli". A denunciare la scomparsa degli egiziani era l’avvocato Ramy Magdy, figlio di uno dei lavoratori scomparsi. Magdy ha presentato un’istanza presso il ministero degli Esteri chiedendo un suo intervento diretto per il salvataggio dei 15 lavoratori, per la maggior parte provenienti da Gharbia e Dakahilah, nella regione del Delta del Nilo, da Alessandria e da Sohag (Alto Egitto). Magdy ha inoltrato la sua richiesta al ministero dopo aver ricevuto una telefonata dal fratello in Libia in cui questo lo avvertiva della scomparsa del padre insieme ad altri 14 lavoratori. Nord Corea: "rubò un manifesto", studente Usa condannato a 15 anni di lavori forzati La Stampa, 16 marzo 2016 Sentenza per "atti ostili" contro il 21enne Otto Frederick Warmbier: "Ha ammesso che la Cia conosceva la sua missione". Ma quasi certamente è stato obbligato a confessare. Il giovane statunitense Otto Frederick Warmbier, arrestato due mesi fa in Corea del Nord, è stato condannato a 15 anni di lavori forzati per aver tentato di rubare un manifesto di propaganda politica dall’hotel Yanggakdo di Pyonyang in cui alloggiava. La sentenza arriva nel pieno di una situazione di accresciuta tensione nella regione, dove ieri ancora una volta il leader nordcoreano Kim Jong Un ha annunciato l’intenzione di condurre nuovi test nucleari e di testare missili balistici. Lo studente di 21 anni dell’università della Virginia, è stato condannato da un tribunale supremo 16 giorni dopo aver riconosciuto pubblicamente la sua "colpa" in una confessione che potrebbe essere stata forzata dalle autorità nordcoreane. In altre occasioni Pyongyang ha utilizzato la detenzione di cittadini statunitensi per cercare di iniziare negoziati politici con Washington, dato che tra i due Paesi sono interrotte le relazioni diplomatiche. Secondo la sentenza, lo studente avrebbe realizzato un "atto ostile" contro lo Stato cercando di sottrarre un manifesto con uno slogan politico da una zona riservata al personale dell’hotel. Nella sua confessione del 29 febbraio, Warmbier ha dichiarato di aver agito su ordine di una chiesa protestante dell’Ohio e di essere stato sostenuto da un gruppo universitario per "danneggiare la motivazione e l’etica di lavoro del popolo nordcoreano" e per "insultare nel nome dell’Occidente" la Corea del Nord. Inoltre, ha affermato che la Cia era a conoscenza della sua "missione" e ha fatto riferimento a un presunto piano di Washington per danneggiare la Corea del Nord attraverso la chiesa metodista. La pena a 15 anni di lavori forzati è la stessa che ha ricevuto il missionario Kennteh Bar, lo statunitense che è rimasto più a lungo in Corea del Nord, più di due anni, fino alla sua liberazione nel novembre del 2014.