Ergastolo e recupero, il bisogno di attuare la finalità della pena di Pietro Ichino Corriere della Sera, 15 marzo 2016 La condanna al carcere a vita e la rieducazione del detenuto potrebbero essere in antitesi. Caro direttore, dopo il libro del magistrato Elvio Fassone, Fine pena: ora, recensito su queste pagine da Corrado Stajano a fine gennaio, sul tema dell’ergastolo ostativo ne esce ora un altro, questa volta scritto da un condannato a quella pena, Carmelo Musumeci, insieme al costituzionalista Andrea Pugiotto (Gli ergastolani senza scampo, Editoriale Scientifica, 2016, pp. 216, € 16.40). La parte scritta dall’ergastolano consiste nella descrizione esistenziale di un giorno di pena, minuto per minuto, in cinque capitoli: alba, mattino, pomeriggio, sera, notte. Di un solo giorno, perché ne basta uno per dar conto degli altri diecimila precedenti o successivi. Con una avvertenza iniziale che dice tutto: chi è all’ergastolo ostativo può pensare soltanto al passato o al presente; non al futuro, perché per lui non c’è un futuro che non sia identico al presente. Nella seconda parte, Andrea Pugiotto spiega l’ergastolo ostativo dissezionandone con grande finezza la ratio e spiegandone i profili di contrasto con l’articolo 27 della Costituzione: la pena non può essere disumana e deve tendere alla rieducazione del condannato. Si coniuga così per la prima volta, che io sappia, e molto efficacemente, l’opera dello studioso che sta fuori del sistema penitenziario con la testimonianza personale di chi è dentro, "l’ergastolano senza scampo". Chi lo ha incontrato sa che, dopo un quarto di secolo di carcere duro, Carmelo Musumeci è ora una persona colta, pienamente recuperata alla convivenza civile, il cui destino di non uscire mai più di prigione stride violentemente con quanto detta la Costituzione. Anche qui, come nel racconto di Fassone, siamo di fronte al pieno raggiungimento dell’obiettivo posto dalla Costituzione: il recupero del condannato. E anche qui, se la pena consegue questo obiettivo, essa non può al tempo stesso recidere ferocemente ogni speranza di ricucitura del rapporto tra il condannato stesso e i suoi simili che hanno la ventura di essere rimasti "fuori". Tra i due racconti c’è però una differenza: mentre nel libro di Fassone la narrazione parte dall’inizio della vicenda, cioè dai crimini per i quali il magistrato ha irrogato l’ergastolo, conducendo il lettore lungo il percorso della conversione del condannato, il racconto di Musumeci sulla prima parte della vicenda tace. E invece, almeno in un libro come questo, darne conto è indispensabile. Parlarne è indispensabile perché significa andare al nocciolo della vicenda, a quella rinascita della persona che segna il raggiungimento di entrambe le finalità della pena previste dalla Costituzione: il recupero del reo ai valori della convivenza civile e la protezione di altre persone contro il ripetersi del suo comportamento criminale. Certo, residua una terza finalità della pena: la deterrenza, cioè il disincentivo efficace e proporzionato contro i possibili comportamenti criminali di altri individui. Ma è evidente l’impossibilità logica che l’esecuzione di una pena resti immutabile nel suo contenuto e nel suo rigore quando ben due delle sue tre funzioni siano state pienamente adempiute. Dunque, per l’efficacia della giusta battaglia di Carmelo Musumeci e di Andrea Pugiotto in difesa del "diritto a un futuro" dell’ergastolano redento, è essenziale dar conto non soltanto del suo tempo presente, ma anche del suo passato: precisamente dar conto di come nel corso dell’esecuzione della pena si è prodotta la sua redenzione. Anche perché il darne conto comporta il riconoscimento - necessario affinché la battaglia sia vincente - di una funzione positiva che la pena ha svolto, almeno in quella fase passata. Parlarne è indispensabile anche perché non si può dimenticare che una parte della durezza della pena - la parte prevista dal tristemente famoso articolo 41-bis della legge penitenziaria - non ha una funzione punitiva, ma costituisce una misura di sicurezza: quando a essa ci si oppone occorre dunque sempre spiegare quando e come sia venuta meno l’esigenza di sicurezza per la quale quella misura è stata adottata. Quando il detenuto in regime di 41-bis denuncia la lastra di vetro che impedisce a sua moglie e ai figli di accarezzarlo, il pensiero non può non andare ad altri coniugi e altri figli, ai quali accarezzare il proprio congiunto è impedito da una lastra di marmo: il 41-bis è lì per evitare in modo efficace che altre lastre di marmo si aggiungano, a separare altre persone dal mondo a cui hanno appartenuto. Non si può dimenticare che alla durezza di queste misure si è arrivati negli anni 80 per interrompere la serie tragica degli assassini compiuti dalle Brigate Rosse e in un secondo tempo quella degli assassini compiuti dalle organizzazioni mafiose. Ma - e su questo Musumeci e Pugiotto hanno pienamente ragione - non si può dimenticare neppure che nella maggior parte dei 700 casi in cui il 41bis oggi si applica, per il modo e il tempo in cui si applica, quel regime è con tutta evidenza incongruo rispetto all’esigenza di sicurezza che dovrebbe giustificarlo. Stati generali dell’esecuzione penale: il carcere chiama, il volontariato c’è di Teresa Valiani Redattore Sociale, 15 marzo 2016 Massiccia risposta alla consultazione pubblica avviata dal sito del ministero della Giustizia. Le maggiori proposte arrivano dalle comunità e dalle associazioni del mondo cattolico e riguardano le misure alternative. Quando il carcere chiama, il volontariato c’è. Se non basta la consistente presenza quotidiana negli istituti di pena italiani, a dimostrarlo arriva la significativa risposta alla consultazione pubblica avviata dal sito del Ministero della giustizia come percorso conclusivo degli Stati generali sull’esecuzione penale: la rivoluzione culturale voluta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per disegnare il nuovo volto del carcere e sottrarre l’Italia alla zona d’ombra delle maglie nere europee. La consultazione si è conclusa sabato scorso ed era stata lanciata subito dopo la pubblicazione dei report finali che raccontano il lavoro di ricerca svolto in 7 mesi dai 200 esperti chiamati a raccolta per sviscerare le diverse anime della detenzione: dalla sanità al trattamento dei detenuti, dal lavoro ai minori, dalle donne alle dipendenze, dalla cultura agli affetti, all’architettura. Una notevole opera di approfondimento che in queste settimane il comitato scientifico, coordinato da Glauco Giostra (università Sapienza), sta sintetizzando nel documento conclusivo che verrà presentato durante la cerimonia programmata per metà aprile alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’ambiziosa scommessa del ministro e di quanti in questi mesi hanno lavorato ai Tavoli è che attraverso gli Stati generali sui temi del carcere "si apra un dibattito che coinvolga l’opinione pubblica e la società italiana nel suo complesso, dal mondo dell’economia, a quello della produzione artistica, culturale, professionale". La risposta è arrivata puntuale dal mondo del volontariato e vede protagoniste le associazioni e le comunità terapeutiche e non, che in base alla propria esperienza e alla luce dei risultati arrivati dai Tavoli hanno avanzato proposte e possibili soluzioni alle criticità rilevate nel sistema dell’esecuzione penale. La necessità di un ricorso molto più significativo alle misure alternative al carcere è trasversale e abbraccia l’orientamento della maggior parte dei Tavoli. Ne consegue una ricerca continua di strutture che possano accogliere i detenuti destinati a scontare parte della pena fuori dagli istituti. Da qui le proposte, che provengono soprattutto dalle comunità degli ambienti cattolici, già fortemente impegnate nelle carceri italiane. Proposte articolate e puntuali che ora sono al vaglio degli esperti. Insieme ai contributi sono arrivati anche gli appunti: il più ricorrente lamenta "il parziale coinvolgimento del volontariato nel lavoro dei Tavoli". Mentre gli stessi Tavoli hanno ribadito l’importanza e il valore dell’opera gratuita. Proprio al contributo che arriva dal mondo delle associazioni, il Tavolo 7 ("Stranieri ed esecuzione penale") ha dedicato una sezione specifica. "Il valore del contributo di associazioni di volontari per lo svolgimento di attività e per l’accompagnamento dei detenuti nel processo di risocializzazione è previsto nell’Ordinamento penitenziario - spiegano gli esperti - ed è stato sempre più riconosciuto nell’esperienza di questi anni, in cui la presenza fattiva del volontariato si è affermata come uno degli elementi più vitali della società civile italiana. I volontari sono uno degli strumenti principali per la realizzazione di quei "contatti con il mondo esterno" che, soprattutto in previsione del fine pena, l’Ordinamento indica come elemento centrale del trattamento". Strumento ancora più incisivo per i detenuti stranieri, "che in Italia non hanno legami familiari e dunque saranno maggiormente disorientati e privi di appoggi al momento della scarcerazione. Per loro, avere una rete di sostegno esterna già conosciuta in carcere rappresenta in qualche caso una forma di prevenzione della recidiva". "I volontari, che provengono da associazioni che promuovono l’interesse per l’uomo e la donna e le loro condizioni di vita e che intendono spendersi per l’opera di risocializzazione dei detenuti, sono portatori di una cultura filantropica basata sulla gratuità, estranea al mondo del carcere e dei detenuti. La gratuità dell’intervento diventa un punto di forza, in quanto i volontari entrano in un rapporto dialogico con i detenuti e riescono talvolta a disinnescare tensioni e eventi critici attraverso la loro presenza affettiva, pur non essendo operatori, né parenti, né paesani. Promuovono anche lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera, si interessano della salute dei detenuti e della ricerca di accoglienza per persone che presentano vulnerabilità. Inoltre i volontari hanno una capacità propositiva e di liberazione da schemi prefissati, che l’amministrazione per ragioni istituzionali non può avere. Sono una risorsa per la realizzazione di progetti cui l’amministrazione non è in grado di provvedere direttamente. Riescono a connettere le diverse realtà presenti nel carcere e a facilitare la realizzazione di eventi che sembravano impossibili all’interno di un carcere". "Infine - conclude il Tavolo 7, l’apertura alla società esterna permette un’azione di vigilanza sulla condizione dei detenuti. Le difficoltà individuali prospettate dai detenuti nel corso dei colloqui, possono essere trasmesse quali istanze di giustizia nelle sedi (istituzionali e non) più opportune. Si deve dunque accogliere con favore la volontà - espressa dal Ministro presentando i lavori degli Stati generali - di potenziare la presenza dei volontari, incentivazione che già costituisce uno dei punti di approfondimento indicati dal disegno di legge per la riforma del sistema penitenziario". In Italia 628 detenuti disabili, arrivano le linee guida del Dap Redattore sociale, 15 marzo 2016 Nelle carceri italiani sono recluse 628 persone in condizione di disabilità: per garantire loro il pieno rispetto dei diritti il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato la circolare "La condizione di disabilità motoria nell’ambiente penitenziario - Le limitazioni funzionali" che indica le linee direttive in materia di barriere, formazione e assistenza sanitaria. L’Amministrazione Penitenziaria, nel rispetto delle Convenzioni Internazionali e delle norme nazionali, ha inteso aggiornare le disposizioni già adottate in passato adeguandole a più recenti provvedimenti in materia, in linea con gli interventi messi in atto per migliorare le condizioni detentive e, nello specifico, per garantire la massima autonomia possibile del disabile, si legge in una nota. La circolare è diretta agli adeguamenti degli spazi, sia per la realizzazione di nuove strutture penitenziarie, sia nella manutenzione e nell’ammodernamento di quelle esistenti. Gli interventi migliorativi prevedono l’abbattimento di barriere architettoniche, la realizzazione di percorsi e varchi per gli spostamenti verticali e orizzontali, adeguatamente dimensionati e attrezzati per garantire l’accessibilità ai locali frequentati da detenuti e/o operatori disabili, nonché ambienti con servizi igienici dedicati e una camera di pernottamento adeguata per ogni circuito. Inoltre, ai detenuti disabili dovrà essere garantita, eventualmente anche con la necessaria assistenza, la libera ed autonoma circolazione all’interno dell’istituto, compresa l’accessibilità ai locali destinati alle attività trattamentali. Secondo quanto indicato dal Dap laddove non siano disponibili ambienti adeguatamente attrezzati, dovrà essere verificata la presenza di luoghi idonei alle esigenze del disabile nell’istituto più vicino, così garantendo anche il principio della territorialità della pena. Il programma di trattamento rieducativo individualizzato (previsto dall’art. 13 l. 354/1975) dovrà tenere conto delle limitazioni funzionali dei diversi gradi di disabilità, favorire l’occupazione lavorativa e l’assistenza dei patronati e degli organi istituzionali preposti alla valutazione dello stato di disabilità (Asl e Inps). Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, di competenza della ASL, le direzioni degli istituti penitenziari dovranno segnalare, in collaborazione con i Provveditorati regionali, alle direzioni generali delle Asl l’opportunità di implementare i servizi sanitari interni per le esigenze delle persone con disabilità presenti. La circolare pone particolare attenzione alla formazione di detenuti lavoranti con competenze adeguate per lo svolgimento di interventi secondo il modello di "caregiver" familiare. Attraverso gli applicativi "Spazi detentivi" e "Torreggiani" saranno monitorate e incentivate le attività di formazione e di assistenza. Torturati risarciti, la Cedu dice no di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 15 marzo 2016 La Corte europea dei diritti umani respinge la richiesta del governo Renzi di composizione amichevole nel caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti. E decide di andare a giudizio. Il processo che non è possibile in Italia per mancanza del reato nel codice, si svolgerà in sede europea. La Corte europea dei diritti umani ha respinto la richiesta del Governo Renzi di composizione amichevole nel caso dei due detenuti torturati nel carcere di Asti, decidendo di andare a giudizio e valutare nel merito la questione. È una decisione importante che mette l’Italia davanti alle sue responsabilità, le stesse alle quali il nostro Paese fu inchiodato dopo la condanna per le torture alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. Il 7 aprile 2015 la Corte di Strasburgo ci condannò sia per gli episodi di quella notte di "macelleria messicana", sia perché l’Italia non aveva una legge che punisse la tortura. L’assenza della legge è infatti un’autostrada verso l’impunità. Nel novembre del 2015 il Governo italiano ha proposto un risarcimento pari a 45mila euro per ciascuno dei due detenuti torturati ad Asti senza però prendere alcun impegno per risolvere la questione dell’assenza del crimine nel nostro ordinamento giuridico. Una monetizzazione della sofferenza inflitta senza l’assunzione di impegni politici. Il caso di Asti ebbe inizio nel 2004 quando i due detenuti vennero denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo intenso, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello. Gli venne razionato il cibo, impedito di dormire, furono insultati e sottoposti nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo e giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi. La vicenda giudiziaria ebbe inizio a seguito di due intercettazioni nel febbraio del 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti, ma solo sei anni dopo si arrivò al rinvio a giudizio degli indagati. Antigone in quel processo si costituì parte civile. Il 30 gennaio 2012 si arrivò alla sentenza di primo grado e la Corte di cassazione chiuse processualmente il caso il 27 luglio dello stesso anno. Per nessuno dei quattro a giudizio si ebbe una condanna in quanto, non esistendo il reato di tortura, si procedette per reati di più lieve entità oramai prescritti o improcedibili. Il giudice nella sentenza scrisse che i fatti erano qualificabili come tortura ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite, ma che non potevano essere perseguiti come tali poiché in Italia non esisteva una legge che riconoscesse quel reato. Così Antigone, con l’avvocato Simona Filippi, difensore civico dell’Associazione, ha collaborato a predisporre il ricorso alla Corte europea dei diritti umani insieme ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. Nello scorso mese di novembre come detto la Corte lo dichiarò ammissibile. Il governo ha però proposto il patteggiamento senza nulla dire a proposito del reato che non c’è. La Corte ha dunque rifiutato ieri questa transazione. Ed è proprio su questa lacuna che ora il Governo dovrà obbligatoriamente intervenire. La discussione parlamentare langue. Senza un’iniezione dall’esterno anche questa legislatura passerà senza che nulla accada. Dopo la condanna per le torture alla Diaz, il Presidente del Consiglio Renzi con un tweet scrisse che la risposta di chi governa un Paese sarebbe stata quella di approvare il reato. Quel tweet non ha prodotto riflessi sulle Camere. Anzi, il Senato è stato prima capace di peggiorare significativamente il testo approvato alla Camera e poi di metterlo in naftalina. Sono trascorsi quasi trent’anni anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura. Nel frattempo abbiamo accumulato figuracce compresa quella di non potere estradare torturatori con la residenza in Italia verso Paesi dove sarebbero stati giudicati. Per questo, assieme agli oltre 54 mila firmatari della nostra petizione, chiediamo al Governo che una legge conforme al testo Onu sia approvata subito. Le Nazioni Unite hanno di recente elaborato le Nuove regole penitenziarie chiamate "Mandela Rules" nel nome del grande statista sudafricano. Nelle Regole Onu compare per ben otto volte la parola tortura. Nel nostro codice penale invece neanche una. La legge in meno che può aiutarci a combattere la corruzione di Michele Ainis Corriere della Sera, 15 marzo 2016 A Milano il vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, è stato arrestato per tangenti mentre era atteso alla Giornata della Trasparenza. A Palermo Roberto Helg, paladino della lotta al racket, ha ricevuto una condanna per estorsione aggravata. A Bari il pm Donato Ceglie, icona della lotta alle ecomafie, è stato sospeso dal Csm per i suoi rapporti con i clan. A Napoli giravano bustarelle nei concorsi per entrare alla Guardia di finanza. Mentre a Roma l’inchiesta su Mafia Capitale non ha cambiato d’una virgola il copione: tangenti sugli appalti dell’Anas, sui condoni urbanistici rilasciati dal Comune, perfino sulle sentenze delle Commissioni tributarie, che dovrebbero punire la corruzione fiscale. Smantelliamo tutto, verrebbe da esclamare. Se l’anticorruzione alleva il germe della corruzione, forse per venirne a capo dovremmo liberarci di sceriffi e tribunali, convegni e cerimonie. Magari fosse così semplice. Anche se il peccato degli angeli, di chi aveva giurato di proteggerci sotto le sue ali piumate, viene sempre da Lucifero, reca l’impronta del demonio. Perché sparge attorno a sé un veleno, e quel veleno corrompe la fiducia nelle istituzioni, prima ancora di corrompere gli animi, d’infiacchire le coscienze. Ne sanno qualcosa pure in Vaticano, dove papa Francesco s’è visto costretto a correggere le norme sui processi di beatificazione e canonizzazione: troppe pratiche truccate. Ma trucchi e raggiri si moltiplicano fuori dalle Mura leonine, come una pioggia acida che bagna lo Stivale. Così, in Piemonte la Corte dei conti ha appena denunziato il caso di un’addetta del 118, che tardava a chiamare l’ambulanza dovendo prima avvertire una società di carro attrezzi, dalla quale incassava percentuali per ogni segnalazione. A Messina 23 consiglieri comunali su 40 hanno imbastito una truffa sui gettoni di presenza. A Macerata s’aprirà un processo per corruzione attorno ai chioschi del cimitero. Insomma, nemmeno i morti possono restare immacolati. D’altronde in Italia un appalto su tre viene assegnato in modo irregolare, dichiara la Guardia di finanza nel suo ultimo rapporto. Per Transparency International siamo penultimi in Europa (solo la Bulgaria sta peggio) nella classifica dei brogli. E la corruzione affonda la nostra economia, come ha osservato Sergio Rizzo sul Corriere (12 marzo). La domanda è: ma quale linfa nutre il malaffare? Per rispondere, dobbiamo esaminare le risposte dettate fino ad oggi, giacché evidentemente si sono rivelate fallaci. Una su tutte: l’inasprimento delle pene. Nel 2012 la legge numero 190 ha ridisegnato il quadro delle misure repressive, introducendo nuove fattispecie di reato. Nel 2015 la legge numero 69 è andata ancora oltre, contemplando 10 o anche 20 anni di carcere per i corrotti. Potremmo spingerci fino alla pena dell’ergastolo, potremmo stabilire la lapidazione in piazza, ma non è questa la cura. Nessuna cura sarà mai efficace se si limita ad asportare la pustola infetta, senza aggredire l’organismo che propaga l’infezione. Quell’organismo è il nostro ordinamento normativo, costellato da 40 mila leggi e 80 mila regolamenti, da una folla di regolette e codicilli che spesso si contraddicono a vicenda. Sgorga da qui l’insicurezza che accompagna i nostri passi quotidiani, ed è l’incertezza del diritto a generare l’arbitrio delle burocrazie, ed è questo potere dispotico e indomabile la prima fonte della corruzione. Corruptissima republica, plurimae leges, diceva Tacito. Perché il troppo diritto offusca la cultura dei diritti, convertendoli in favori, chiesti e ricevuti in cambio di qualche banconota. È esattamente questo il ruolo del corrotto: nella maggioranza dei casi, lui è un facilitatore, t’aiuta a esercitare i tuoi diritti, che altrimenti resterebbero infecondi. Ma il facilitatore, nel suo turpe mestiere, viene facilitato a propria volta dalla solitudine in cui siamo stati risucchiati, dalla crisi dei corpi intermedi (partiti, sindacati) che una volta ci venivano in soccorso, dall’allentamento dei vincoli comunitari, del senso d’appartenenza a un popolo, a un destino collettivo. Sicché è questa solitudine che adesso si tratta di curare. Restaurando un clima, un ambiente legale e morale in cui ciascuno possa incamminarsi senza temere un’imboscata. Ma per riuscirci serve una legge in meno, non una legge in più. La riforma della giustizia deve passare attraverso una riforma dell’ordinamento da Giunta dell’Ucpi camerepenali.it, 15 marzo 2016 La riforma della giustizia deve passare attraverso una riforma dell’ordinamento, con la separazione delle carriere ed il rafforzamento dell’autonomia e dell’ indipendenza del giudice terzo. È richiesto un impegno politico che presuppone sin da ora una discussione aperta a tutti gli iscritti, ed una mobilitazione generale che non può che realizzarsi attraverso il lavoro di tutte le Camere Penali territoriali. Siamo oramai da tempo convinti che nessuna riforma della giustizia sia destinata al successo se non si incide sugli equilibri ordinamentali. E per aprire spazi nuovi ai futuri equilibri non basta cambiare le cose (le norme, i codici…), occorre cambiare anche i pensieri. O forse, non è possibile cambiare le cose se non cambiando anche i pensieri. Una società matura, nella quale sia sedimentata la consapevolezza che i diritti processuali dell’imputato siano il riflesso delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini, produce un sistema processuale moderno e liberale. Un paese nel quale l’opinione pubblica sia orientata a pensare che le garanzie degli accusati riguardino solo i colpevoli, produce evidentemente un sistema processuale primitivo ed autoritario, esposto alle ingiurie del giustizialismo. Per realizzare questo cambiamento occorre partire da una riforma dell’ordinamento. Avere un giudice davvero terzo è condizione indispensabile per il funzionamento del processo. Ma, perché cresca questa consapevolezza, occorre essere presenti in ogni discussione che riguardi la giustizia, significa anche intervenire, dove questo sia utile o necessario, sui fatti di cronaca e soprattutto essere presenti nei luoghi dove si forma la cultura e la sensibilità delle generazioni future, nelle scuole, nelle università, ed in tutti i luoghi della elaborazione culturale, affinché la voce dell’avvocatura penale sia sempre ascoltata e si contrapponga alle tesi di chi immagina e persegue un modello di processo autoritario inteso come strumento di lotta ai fenomeni criminali e non di accertamento delle responsabilità dei singoli, come indebito strumento di cambiamento sociale e non invece come luogo di verifica delle accuse e di tutela dei diritti di libertà. Occorre approfittare di ogni occasione di dibattito politico e culturale per intervenire in modo autorevole, con un linguaggio semplice e diretto, utilizzando senza alcun imbarazzo, ed in modo professionalmente e tecnicamente avveduto, tutti i moderni strumenti della comunicazione (new media). Dove per "avveduto" deve intendersi la consapevolezza dell’inefficacia dell’uso di tali strumenti che sia disgiunto dalla realizzazione di un progetto politico. Questo non significa che non si debba percorrere, nei luoghi della politica e dell’elaborazione normativa, la via delle interlocuzioni e delle mediazioni, ma tale indispensabile ed insostituibile interlocuzione di natura tecnica deve essere inevitabilmente accompagnata da un complessivo sforzo di presenza dell’Ucpi nella intera società, per far maturare le condizioni di un radicamento di idee nuove e diverse su quello che è, e che necessariamente deve essere, lo stretto vincolo fra processo penale e società. Su ciò che deve essere un Giudice in una società in grande cambiamento nella quale la richiesta di Giustizia ricopre spazi inusitati. In tal senso non può dunque attendersi che sia la politica a spostare in avanti i limiti delle riforme ordinamentali, sino ad abbracciare un tema, fino ad oggi ritenuto (troppo) divisivo, quale certamente è quello della separazione delle carriere. E ciò non solo perché si tratterebbe di lasciarsi dettare l’agenda su di un tema che appare fondamentale per la riforma del processo penale, ma soprattutto perché in questa riforma l’Ucpi non può essere una forza aggregata, comprimaria, subalterna a questa o a quella forza politica, ma deve porsi come motore, e come attore principale di un progetto al quale saranno le forze politiche a dare il loro sia pur fondamentale appoggio. Un referendum, o strumenti alternativi di rilancio politico come la elaborazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, che vedesse nell’Ucpi il soggetto promotore, sarebbe la straordinaria occasione per aprire un nuovo indispensabile spazio di discussione e per cambiare le cose cambiando il pensiero… Perché risulta oramai piuttosto evidente come nella nostra società la questione della "separazione delle carriere" assuma una declinazione nuova ed assai più complessa, che non investe più solo la garanzia del giudice terzo, ma finisce con il coinvolgere l’intero assetto degli equilibri istituzionali ed ordinamentali che nel volgere di pochi anni ha subito un progressivo deterioramento e disallineamento, con la creazione di nuove figure ibride che si pongono del tutto al di fuori degli schemi classici della divisione dei poteri, che cumulano tutta la irresponsabilità del potere giurisdizionale e tutto l’armamentario del potere esecutivo, secondo gli schemi della cd. "governamentalità" come forma alternativa di esercizio del potere che induce a presidiare tutti gli spazi del controllo economico e sociale all’interno dei gangli vitali della amministrazione, evitando la responsabilità della politica ed i limiti di competenza del potere esecutivo. Piuttosto che ricorrere alla formazione di un giudice terzo, si va componendo l’idea - come è stato efficacemente osservato - che sia meglio chiamare un "terzo" a fare da giudice, con il risultato che accertamenti e decisioni di straordinario rilievo sociale ed economico vengono regolati al di fuori degli spazi propri della giurisdizione e che al tempo stesso la giurisdizione (assunta la veste ambigua dei vari "assessori alla legalità", e di organismi anticorruzione), invada e gestisca spazi propri ed esclusivi della politica. Ma al tempo stesso si modificano anche gli equilibri che dovrebbero presidiare la separazione fra potere legislativo e giurisdizione, e, sotto il nome etereo di quell’eterogeneo strumento delle "autoriforme", si va instaurando una prassi degenerativa che sottrae di fatto al Legislatore spazi e competenze che gli sono propri. Ciò che appare ancor più grave è che, da un lato, siano ordini ed organi, quali le procure ed il Csm, gangli fondamentali dell’organizzazione e dell’ordinamento giudiziario, ad operare tali invasioni di campo, e che dall’altro la politica, piuttosto che insorgere, plauda a tali iniziative, come se fossero prassi virtuose da assecondare e da promuovere. Da una parte il Csm apprezza il lavoro delle singole Procure che producono circolari in materie sensibili quali quelle dei rapporti fra media e processo, o quelle della esecuzione e della diffusione delle intercettazioni, assumendo il ruolo del tutto improprio di legislatore-coordinatore, dall’altra il Governo e Parlamento apprezzano espressamente (o tacciono del tutto) di fronte a tali indebite ed inaudite iniziative, contenti che gli si sottraggano scottanti materie di confronto e di assunzione di responsabilità politica. Per recuperare, dunque, un nuovo e diverso equilibrio, non basta più soltanto separare le carriere, ma occorre un riassetto complessivo della giurisdizione, perché oggi quelle carriere non sono più i luoghi esclusivi nei quali si ridefiniscono le competenze della giurisdizione, ma sono divenuti gli strumenti complici di un nuovo disordine istituzionale, per cui la separazione delle due diverse magistrature non può essere a sua volta che il passaggio ineludibile di un potenziamento della figura del giudice, di un suo riassetto complessivo, di un potenziamento della sua indipendenza ed autonomia, e di un recupero di tutte le competenze che le sono proprie, con la consapevolezza che il recupero di tale competenza, indipendenza ed autonomia non può essere efficacemente perseguito, se non si recidono tutti il legami ordinamentali che insidiano i rapporti fra politica e giurisdizione e fra magistratura e amministrazione, se non si eliminano tutte le figure ibride che dovrebbero essere poste a presidio della legalità, e se non si restituisce interamente al Parlamento l’esclusiva competenza di regolare con le proprie leggi, non solo tutti i gangli più sensibili della giurisdizione ma anche, e soprattutto, quell’organo che, inammissibilmente, con la sua presenza onnivora e straripante, autonomamente ed arbitrariamente governa entrambe le magistrature. Si tratta di temi culturali importanti e di un impegno politico che presuppone sin da ora una discussione aperta a tutti gli iscritti ed una mobilitazione generale che non può che realizzarsi attraverso il lavoro di tutte le Camere Penali territoriali, per la elaborazione delle iniziative ritenute più opportune (incontri con studenti delle scuole superiori e delle università, contatti con le categorie professionali e dei lavoratori, con enti ed associazioni culturali e territoriali, partiti politici, sindacati e movimenti, con l’intero mondo dell’informazione e degli operatori di tutti i mezzi di comunicazione). Per la condizionale riconoscimento reciproco nella Ue, Dlgs in vigore dal 29 marzo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2016 Via libera, anche in Italia, al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di sospensione condizionale della pena per favorire il reinserimento sociale del condannato e, al tempo stesso, rafforzare il controllo del rispetto delle misure e delle sanzioni sostitutive. Dal 29 marzo, infatti, sarà pienamente operativo il Dlgs 38/2016, adottato il 15 febbraio e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di ieri, che recepisce la decisione quadro n. 2008/947/GAI "sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive". Con un ritardo di cinque anni, l’Italia dà attuazione all’atto Ue, in linea con la delega al Governo contenuta nella legge di delegazione europea 2014, completando così il quadro normativo costituito anche dal Dlgs 161/2010 relativo alla decisione quadro 2008/909/GAI sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale. Centrale, al pari di altri atti in materia di cooperazione giudiziaria penale, il dialogo diretto tra autorità giudiziarie che, però, il decreto prevede in via residuale, unicamente nei limiti fissati dal testo legislativo. In via generale, quindi, è il ministro della Giustizia ad occuparsi della trasmissione e della ricezione dei provvedimenti giudiziari e dei certificati. Per quanto riguarda la trasmissione all’estero, spetta al pubblico ministero presso il giudice indicato in base all’articolo 665 del Codice di procedura penale inviare la sentenza o la decisione di liberazione condizionale all’autorità competente dello Stato membro in cui il condannato ha la residenza legale e abituale. Proprio con l’obiettivo di favorire il reinserimento e di tener conto dei legami familiari e sociali, la persona condannata può chiedere la trasmissione a un’autorità competente di un altro Stato membro che, però, dovrà fornire il proprio consenso. La trasmissione è corredata dall’invio dei certificati predisposti nella decisione quadro e riprodotti nel Dlgs 38/2016. Se l’autorità competente dello Stato di esecuzione non si oppone al riconoscimento della sentenza o della decisione di liberazione condizionale, l’autorità italiana è libera dalla sorveglianza, salvo in specifiche ipotesi elencate all’articolo 8. Per la trasmissione dall’estero, la competenza è attribuita alla Corte di appello nel cui distretto il condannato ha la residenza legale e abituale. Le condizioni per il riconoscimento sono fissate dall’articolo 10. In linea con la legge 69/2005 sul mandato di arresto europeo, anche il nuovo testo deroga al principio della doppia incriminabilità, per 32 reati. Ampio spazio così al riconoscimento anche in assenza della doppia incriminazione, se la sanzione prevista nello Stato di emissione ha una durata massima non inferiore ai tre anni di reclusione. Con il sì al riconoscimento, la sorveglianza è disciplinata dalla legge italiana, che si applica anche in materia di amnistia, indulto e grazia e per le spese sostenute sul territorio. Le toghe spendono il 75% in più. E nascondono gli scontrini di Anna Maria Greco Il Giornale, 15 marzo 2016 Altro che spending review, il Csm passa da 39,3 a 69,4 milioni di spese per il 2016. E ricorre alla Consulta contro la Corte dei conti che vorrebbe verificare i bilanci. Alla faccia della spending review il Consiglio superiore della magistratura aumenta del 75 per cento il bilancio delle spese previste per quest’anno. In tempi di crisi anche gli organi costituzionali, dal Quirinale alle Camere, sono costretti a tagliare i conti ma Palazzo dè Marescialli passa dai 39 milioni e 543 mila euro del 2015 ai 69 milioni e 450 mila del 2016. Pare che l’impennata si debba anche alla previsione di trasferirsi da piazza Indipendenza alla magnifica Villa Lubin, al centro del parco di Villa Borghese. Finora era sede di lusso del Cnel, abolito dal Parlamento. Evidentemente al Csm fa gola, non basta lo storico Palazzo dei Marescialli, con le due palazzine moderne accorpate ed è già stato commissionato uno studio di fattibilità. Sulla trasparenza delle sue spese l’organo di autogoverno della magistratura non sopporta intromissioni e si sottrae al controllo della Corte dei conti. Ha fatto ricorso alla Consulta per respingere le pressioni dei magistrati contabili che vorrebbero verificare il rendiconto dei soldi pubblici. Una volta il Csm lo presentava, ma dal 1997 non lo fa più. Una sentenza della Consulta del 1981 ha stabilito che gli organi costituzionali - Parlamento, presidenza della Repubblica e Alta corte stessa - non hanno questo obbligo. E Palazzo dei Marescialli rivendica lo stesso status. Solo che non si tratta di un organo costituzionale - quello è la magistratura - ma di un organo "di rilievo costituzionale", un gradino sotto. Distinzione che il Csm non accetta, respingendo come un attentato all’autonomia del potere giudiziario, in cui s’identifica, la pretesa della Corte dei conti di frugare tra le sue spese. Così, risponde no alla richiesta arrivata a giugno dai magistrati contabili. Un mese fa la sezione giurisdizionale del Lazio manda l’ultimatum di 120 giorni per mettersi in regola. Quello del Csm è un "peccato di superbia" verso il controllo di un altro organo dello Stato "di cui non riconosce l’autorità", dice il presidente della sezione Lazio. Per Palazzo dei Marescialli è una "estemporanea iniziativa" e reagisce impugnando la decisione davanti alle Sezioni centrali contabili e sollevando davanti alla Corte costituzionale il conflitto tra poteri dello Stato. Il ricorso denuncia "una grave lesione dell’autonomia costituzionale della magistratura", un’interferenza nella "divisione dei poteri", per "un’interpretazione impropria, illegittima e incostituzionale" delle norme. Ieri il Csm precisava che "mai la Corte dei Conti aveva posto in dubbio l’autonomia contabile" del Csm, prevista dalla sua legge istitutiva. C’è già il controllo del Collegio dei Revisori e la trasmissione alla Corte dei conti del solo bilancio della gestione. Una terza verifica proprio no. Tanta insofferenza si spiega forse con il lievitare costante delle spese, in tempi di tagli e sacrifici. Per il bilancio di previsione 2016, quelle per l’acquisto di beni e servizi passano da 6 milioni e mezzo a oltre 26. A pesare sono appunto i 21 milioni e 291mila euro alla voce Fondo investimento per trasferimento sede, ristrutturazioni sedi in uso al Csm, interventi di sostegno ai consigli giudiziari. Ma spulciando qua e là ci sono anche 48 milioni (10 nel 2015) per divise degli autisti. D’altronde, l’aumento è costante. Nel bilancio 2015 erano previste spese superiori del 38 per cento a quelle effettive nell’esercizio contabile precedente. Nel 2014 l’aumento delle spese previsto era del 34 per cento rispetto al 2013. Claudia Francardi "perdono il ragazzo che uccise mio marito, ora non stia in cella" di Laura Montanari La Repubblica, 15 marzo 2016 "La riconciliazione è l’unica strada possibile se si vuole guardare avanti nella vita" "Non tutti riescono a capire la mia scelta Ancora adesso sul web c’è chi mi insulta". Un rave, cinque anni dopo. Si finisce col rinascere da una ferita, si ripassa magari dalla stessa parola, dallo stesso posto o da un prato che gli somiglia per andare avanti. "Io e Irene abbiamo pensato a un rave per guardare al futuro senza dimenticare il passato" racconta Claudia Francardi, 48 anni, vedova dell’appuntato Antonio Santarelli. Irene è la mamma di Matteo Gorelli, il ragazzo condannato per l’omicidio di Santarelli. Queste due donne hanno organizzato un rave nella zona di Grosseto. Medesima provincia di quell’altra tragica maratona musicale quando era quasi la mattina di Pasquetta, il 25 aprile 2011, e la pattuglia dei carabinieri si trovava vicino a una curva in una strada di campagna, fra Sorano e San Martino di Manciano. Fermarono per un controllo una Renault Clio con alcuni ragazzi a bordo. C’erano tre minorenni e lui, Matteo Gorelli, che allora aveva 19 anni. Patente, libretto e alcol test. Alcol test positivo. I militari stavano compilando il verbale delle contravvenzioni quando vennero aggrediti alle spalle da Matteo con un bastone preso dalla recinzione di un campo. Antonio Santarelli aveva 43 anni, morì dopo un anno di coma e di agonia. L’altro militare, Domenico Marino, 35 anni, se la cavò con gravissime lesioni a un occhio. Matteo ora è in carcere a Bollate, nel milanese, dove sconta una condanna a vent’anni (ergastolo in primo grado). Scrive poesie, dà esami di Scienza dell’educazione seguito dall’università Bicocca. Sua madre, Irene Sisi, con Claudia Francardi ha fondato l’associazione Amicainoabele che "fa del perdono una strada per andare avanti". Il mese prossimo, il 24-25 aprile, organizzano un rave a Rispescia, frazione di Grosseto. Perché? "Sarà un rave di sostanza, non di sostanze, lì non si farà uso di droghe e alcol, ma di contenuti, storie, confronti. Si discuterà di mediazione: ci saranno, fra gli altri, l’ex magistrato Gherardo Colombo e Guido Bertagna, il gesuita… quello che ha scritto "Il libro dell’incontro" fra gli ex della lotta armata e i familiari delle vittime. Ci sarà la musica dei 99 Posse che piace a molti ragazzi dei centri sociali, noi vogliamo parlare a tutti… soprattutto ai giovani". Come si fa a perdonare chi ti ha ucciso una persona cara? Lei quando ha cominciato? "Si deve perdonare, il rancore ti condanna sempre all’istante del passato. Io ho cominciato a perdonare vivendo prima in pieno il mio dolore e tutta la rabbia. Irene mi scrisse una lettera, quando la lessi decisi subito di incontrarla e di invitarla all’ospedale di Montecatone, vicino a Imola, dove Antonio era ricoverato in coma vegetativo. Irene voleva vedere tutto, voleva essere gli occhi di suo figlio che all’epoca era in carcere a Grosseto". Cosa vi siete dette? "Che la ferita era comune, le nostre vite erano indissolubilmente collegate dal 25 aprile 2011, da quell’enorme dolore. Da allora il dialogo è continuo, però non sempre viene capito". In che senso? "Troviamo a volte critiche e insulti sul web, anche di recente per quest’ultima iniziativa. Noi andiamo avanti. Penso che il perdono mi abbia ridato dignità. Davanti alla perdita di una persona che ami, ti ritrovi completamente nuda. Il perdono ti rimette addosso qualche vestito, puoi tornare a uscire per strada". È vero che ha detto che Matteo non dovrebbe stare in carcere? "Per come è organizzato, oggi il carcere non lascia spazio all’affettività e al recupero. Ho detto che in comunità il dialogo fra me e lui sarebbe stato più facile". Lei ha un figlio di 17 anni: lui condivide queste scelte? "Sì, condivide ciò che faccio. Del resto io continuo negli ideali di Antonio. Perché quella mattina fermò Matteo e lo stava multando? Per dargli un insegnamento, per dirgli "ragazzo, non è quella la strada". Io e Irene pensiamo sia importante andare fra i giovani, nelle scuole a dialogare, spiegare che è meglio parlare piuttosto che tenersi dentro un disagio…". Poi un giorno ha incontrato Matteo, nella comunità di don Mazzi, dopo la condanna di primo grado… "Non è stato facile, lui non aveva dormito la notte prima, io ero in ansia. Ci siamo guardati, ci siamo abbracciati, nessuno trovava le parole, ma abbiamo trovato subito molte lacrime. Io gli ho raccontato chi era l’uomo che aveva ucciso. Bisogna guardare in faccia le cose per quelle che sono". Cosa avete in comune lei e la mamma di Matteo? "La voglia di essere persone nuove, di dialogare e andare avanti. Speriamo vengano tanti giovani a Rispescia, noi li aspettiamo". Nei tribunali ma anche in un carcere, tre cerimonie per ricordare il giudice Guido Galli di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 marzo 2016 Magistrati e studenti il 16 marzo a Torino (dove furono processati i terroristi), poi un concerto tra i detenuti a San Vittore il 19, e un film all’Università Statale a Milano il 21. Tre cerimonie in tribunale (a Torino, nel carcere di San Vittore e a palazzo di giustizia di Milano) ricordano in questi giorni il 36° anniversario dell’assassinio del giudice istruttore milanese Guido Galli ad opera di un commando terroristico di "Prima Linea" il 19 marzo 1980. A Torino - Mercoledì 16 marzo, dalle quattro del pomeriggio, la Corte d’Appello di Torino rende omaggio a Galli in Aula Magna con proiezioni di filmati sulla vita del giudice e sugli anni del terrorismo in Italia, canti del coro degli studenti del liceo musicale di Pesaro coordinati dal prof. De Carolis, e brevi interventi del presidente della Corte, Arturo Soprano (che ha lavorato a Milano con la figlia di Galli, Alessandra), del procuratore della Repubblica Armando Spataro (che intervenne per primo sul luogo dell’agguato), di Francesco Pelosi per la Giunta dell’Associazione nazionale magistrati, e dell’ex capo dell’ufficio gip Francesco Gianfrotta, che del processo (svoltosi proprio a Torino) agli assassini di Galli e di Emilio Alessandrini fu pubblico ministero. A Milano - Tre giorni dopo, il 19 marzo anniversario dell’omicidio, a Milano la Corale Polifonica Nazariana diretta dal maestro (e magistrato) Lucia Nardi allestisce insieme all’Anm un concerto in onore di Guido Galli nel carcere di San Vittore alle ore 19. All’Università - Infine lunedì 21 marzo, dalle ore 11 alle 0re 13 nell’Aula Magna, l’Università degli Studi di Milano del Rettore Gianluca Vago organizza la "Terza Giornata sulla Giustizia - per Guido Galli", a partire dalla proiezione del film-documentario di Stefano Caselli e Davide Valentini (con la regia di Igor Mendolia) "Il Codice tra le mani - Storia di Guido Galli". L’edizione di quest’anno è poi incentrata su "La giustizia oltre le frontiere: i rifugiati", con la relazione di Francesca Paltenghi (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e gli interventi di Nerina Boschiero (professore di Diritto Internazionale), Cristina Cattaneo (professore di Medicina Legale) e Gian Luigi Gatta (professore di Diritto Penale). Una laboriosa officina di leggi ma con poca certezza del diritto di Edgardo Grillo Avvenire, 15 marzo 2016 La recente legge che sancisce l’omicidio stradale, come pure quella, varata tempo fa, che punisce il femminicidio, suggeriscono delle riflessioni. Il nostro Paese, storicamente definito "culla del diritto" (il grande giurista Giacomo Delitala soleva dire che "a forza di stare in culla si era addormentato"), è sempre stato una laboriosa officina di strumenti legislativi. Ne abbiamo per tutti i gusti e per ogni occasione, anche la più banale. Al punto da aver meritato, tra altre nazioni, l’alloro della proliferazione legislativa. Un conteggio preciso pare non sia possibile, anche perché non si provvede, con pari solerzia, a cassare leggi ormai desuete rispetto al mutare dei tempi. Con ragionevole approssimazione la catena di montaggio legislativa italiana conterebbe su 150/200.000 leggi, contro le 3.000 della Gran Bretagna, le 5.500 della Germania e le 7.000 della Francia: per la gioia e la disperazione degli operatori del diritto. Ma se abbiamo leggi per tutti e per tutto, manca, in modo evidente, quella certezza del diritto che rende equamente applicata la legge e che è baluardo di quei beni inalienabili che sono democrazia e libertà. Proprio la eccessiva proliferazione di leggi è un ostacolo alla certezza del diritto, assieme alla lungaggine dei processi, dovuta a un mostruoso carico di cause pendenti, assieme al difetto di chiarezza e al continuo mutamento delle norme, alla interpretazione spesso difforme e troppo elastica da parte della magistratura. Come soddisfare l’esigenza di giustizia e attendersi certezza del diritto se per chiudere un processo, dopo i tre gradi di giudizio, servono oltre dieci anni, tra cavilli, rinvii e prescrizioni. Cpme placare la sete di giustizia se una legge viene interpretata in modo diverso, a seconda del tempo e del luogo? Se le leggi ci sono, la giustizia non deve essere una fragile ragnatela in cui il moscerino rimane impigliato e il calabrone passa incolume. Né vogliamo condividere Guicciardini quando osservava disincantato che "sarebbe preferibile che le sentenze le facessero i turchi, perché le fanno presto e a caso". Legiferare meno ma applicare meglio le leggi. Date la grazia al vecchietto in cella per furto di dvd di Giordano Tedoldi Libero, 15 marzo 2016 Siamo un curioso paese. Prendiamo il tema del carcere. Da un lato d sono gli abolizionisti integrali e hippy, che avanzano a colpi di slogan "aboliamo il carcere" e che, a parte la loro tenera ingenuità, sono così poco logici che vorrebbero far espiare solo pene alternative, senza valutare che senza la pena principale, cioè la detenzione, non ci sarebbero nemmeno quelle alternative. E quindi poi bisognerebbe abolire pure le alternative, e via così fino al caos totale. Dall’altra parte c’è una giustizia che riesce a sbattere in galera un vecchietto di 81 anni, con la mania di rubare dvd, che costituiscono probabilmente la sua unica fonte di consolazione prima della morte. La notizia giunge da Pescara, dove il pensionato Ugo Guarnieri, residente a Montesilvano, è stato "catturato" a casa sua dalla polizia: deve scontare due anni di carcere per una denuncia relativa a un fatto del 2008, quando in un centro commerciale Auchan, sorpreso da una commessa a rubacchiare un dvd, la strattonò. Da allora il vecchio cinefilo s’è fatto pizzicare altre due volte, per il medesimo, non proprio gravissimo, crimine. Ma com’è finito in gattabuia? Perché alla sua età, naturalmente, è un pò sventato, quindi, dopo il fatto del 2008, non si è preoccupato di farsi assistere da un difensore (come ha fatto una sua complice), e quindi non ha beneficiato, come previsto per condanne inferiori ai 3 anni, della sospensione della pena, dato che nessun avvocato ne ha fatto richiesta. Un avvocato in realtà l’aveva, ma all’ultimo tentato furto di dvd, l’anno scorso, il legale ha inviato a Guarnieri una raccomandata, dove lo diffidava dal proseguire in quelle acquisizioni abusive di spettacoli cinematografici, ma non avendo ricevuto risposta, il cliente è stato abbandonato al suo destino. Considerata l’improbabile pericolosità sociale del soggetto, e l’evidente eccesso di trattenere in una cella un pensionato di 81 anni per furto reiterato di dvd (ma in generale, a una certa età, davvero dovrebbero irrogarsi solo pene alternative, a meno di avere a che fare con individui di spiccato allarme sociale), ci sentiamo di sposare la proposta del rappresentante del Movimento dei diritti civili, Franco Corbelli, che, alcuni giorni fa, ha chiesto al presidente Mattarella di graziare Ugo Guarnieri. Anche un deputato di Sel, Gianni Melilla, s’è interessato alla vicenda, sottoponendola all’attenzione del ministro della Giustizia Orlando, con un’interrogazione parlamentare. E davvero stupisce che bisogni fare tanto baccano, interrogazioni parlamentari, persino la richiesta di grazia, per mettere in atto ciò che il buon senso dovrebbe operare già al livello amministrativo: tenere fuori dalla galera un ottantenne e, semmai, affidarlo a qualche tipo di assistenza sociale, dove possa sorbirsi tutti i film che vuole - l’anziano ignorerà evidentemente che molte pellicole sono legalmente visibili in rete, per esempio su youtube - senza andarseli a rubare. In questo senso va anche la richiesta di grazia promossa da Corbelli, dove oltre a indicare, ovviamente, il caso specifico di Guarnieri, si mette sul tappeto la questione generale dei detenuti molto anziani - insomma, per dirla senza eufemismi, i vecchi in carcere. Lasciando stare chimere pericolose come quelle degli abolizionisti, si potrebbe cominciare a riflettere seriamente sul problema, onde evitare che altri vecchi indigenti finiscano dietro le sbarre per reati di poco conto, semplicemente per la loro incapacità a tutelarsi, al momento di presentare le dovute domande di sospensione o pene alternative. E temiamo che Guarnieri non sia un caso isolato, e non sarebbe peregrino indagare tra i carcerati più vecchi, per quale ragione siano dentro, e se non si possa loro risparmiare quell’afflizione. Umbria: Fiorini (Ln) interroga la Giunta sulla carenza di organico nel carcere di Terni tuttoggi.info, 15 marzo 2016 Visita del consigliere regionale della Lega Nord nei padiglioni di Vocabolo Sabbione. Nella sessione di Consiglio regionale prevista per domani, il capogruppo Lega Nord Umbria, Emanuele Fiorini, interrogherà la Giunta in merito alla questione legata alla Casa circondariale di Terni e la carenza di organico della Polizia Penitenziaria. Il consigliere regionale Fiorini ha voluto presentare un atto ufficiale dopo aver svolto una visita alla Casa Circondariale di vocabolo Sabbione a Terni e aver incontrato la Direttrice dottoressa Chiara Pellegrini, il Comandante di reparto, Commissario Fabio Gallo e una delegazione della Polizia penitenziaria. Una visita che ha consentito al capogruppo Lega Nord di portare la solidarietà al personale del carcere in seguito ad alcune aggressioni avvenute da parte dei detenuti. L’incontro è stato anche occasione per conoscere a fondo la realtà dell’istituto ternano. A tal proposito il consigliere leghista ha elaborato un’interrogazione urgente a cui la Giunta dovrà dare risposta. Secondo Fiorini, infatti, ormai da anni si rileva una grave carenza di personale che è oggetto di forte preoccupazione. In particolare la forza amministrata dalla Direzione della Casa Circondariale di Terni, è di 222 unità di Polizia Penitenziaria a cui vanno aggiunte 42 unità distaccate a vario titolo presso altre sedi, raggiungendo così, ipoteticamente, il numero di 264 unità che è comunque inferiore di 15 (riferibili al ruolo dei Sovraintendenti e degli Ispettori) rispetto a quanto previsto dal Decreto Ministeriale. Nel testo dell’interrogazione viene ripercorsa la storia del carcere di Terni, aperto nel 1991 per ospitare "uomini comuni o media sicurezza" e donne, ma che negli anni ha subito profondi mutamenti tanto da ospitare dal 2000, al posto delle donne, 25 detenuti sottoposti al regime 41-bis. Nel 2013 è stato inaugurato un nuovo padiglione che può ospitare fino a 200 detenuti ed è stata aperta una mini sezione di 9 posti riservata ai detenuti "Alta Sicurezza 2" (terrorismo ed ex Brigate Rosse). Nel 2014 il vecchio padiglione è stato trasformato in una sezione "Alta Sicurezza 3" (reati di associazione mafiosa e spaccio internazionale di droga) con l’arrivo di ulteriori 288 detenuti (oltre a circa 30 del 41-bis e 150 detenuti "comuni" di media sicurezza) per un totale di circa 470 carcerati. Tutto questo nonostante negli istituti penitenziari delle province di Viterbo, L’Aquila, Roma, Ascoli Piceno e della vicina Spoleto, fossero già presenti strutture attrezzate per accogliere detenuti ad alta sicurezza o in regime di 41-bis e che, pertanto, non si ravvisava l’esigenza di destinare anche la casa circondariale di Terni a tali fini. Le unità mancanti di Polizia Penitenziaria sarebbero necessarie per garantire l’ordine e la sicurezza dell’Istituto e del personale che vi opera e garantire un maggiore controllo dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis che potrebbero favorire le infiltrazioni criminali nel territorio ternano. Sciacca (Ag): quindici detenuti hanno frequentato un corso di eno-grastronomia di Giuseppe Pantano Giornale di Sicilia, 15 marzo 2016 Quindici detenuti nel carcere di Sciacca hanno frequentato un corso di enograstronomia di secondo livello e il magistrato di Sorveglianza Walter Carlisi, intervenuto ieri alla degustazione dei piatti, ne ha approfittato per lanciare un appello: "Il territorio di Sciacca deve sostenere il carcere e io sarei felice se gli enti pubblici, le associazioni, la chiesa, si sforzassero di inserirsi maggiormente in questa realtà per favorire l’attività di risocializzazione dei detenuti". "Questi detenuti hanno acquisito, grazie all’istituto scolastico "Arena", un’istruzione turistico alberghiera e adesso sanno cucinare, approntare una tavola, accogliere un turista. Io sarei contento se nel carcere di Sciacca si potesse organizzare, una volta alla settimana o una volta al mese, una cena aperta ai turisti. Trenta o quaranta turisti - aggiunge Carlisi - sottoposti ai normali controlli e autorizzati dal magistrato di Sorveglianza, assunte informazioni banali dalla polizia, potrebbero cenare all’interno del carcere". Genova: portone carcere di Marassi diventa Porta Santa in occasione della Via Crucis Ansa, 15 marzo 2016 Il portone principale del carcere di Marassi sarà porta santa per un giorno. L’autorizzazione è stata concessa nei giorni scorsi dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. In questo modo, i fedeli che saranno presenti alla Via Crucis vicariale che si terrà venerdì sera a Marassi, potranno varcare il portone della casa circondariale secondo quanto previsto da Papa Francesco in occasione del Giubileo della Misericordia. Come ha spiegato don Paolo Gatti, cappellano del Carcere, l’appuntamento per i fedeli sarà nella serata di venerdì 18 marzo davanti al carcere dove avrà inizio la Via Crucis del vicariato Marassi-Staglieno. I fedeli entreranno in carcere dalla vecchia porta carraia. Dopo una sosta in preghiera nel cortile del penitenziario, i partecipanti usciranno dal portone principale dopo la cerimonia dell’apertura della porta santa. Non è esclusa la partecipazione di alcuni detenuti alla preghiera che si svolgerà nel carcere. Pavia: "Uomini senza barriere", detenuti e agenti insieme sul palco di Anna Ghezzi La Provincia Pavese, 15 marzo 2016 "Uomini senza barriere", una compagnia di teatro a Torre del Gallo. Nel cerchio sul palcoscenico del teatro di Torre del Gallo sono tutti detenuti della sezione protetti, hanno dai 20 ai 60 anni e stanno scontando pene perché nella loro vita hanno fatto del male. Ma ora stanno scontando la pena, e sul palcoscenico diventano la compagnia Uomini senza barriere: stanno faticosamente cercando il modo di andare avanti. Di cambiare. La parola più usata verso l’insegnante Stefania Grossi del teatro delle Chimere e Annagiulia Brunati, che ogni giovedì varcano porte e sbarre è riconoscenza: "Il teatro, per me, è riabilitazione: mi ha dato fiducia per la prima volta. Ero sempre arrabbiato. Aggressivo. Ora riesco a tenere a bada tutta la rabbia che mi porto dentro", dice un giovane detenuto. "Ogni volta che scendo qui, nel teatro, mi lascia qualcosa di buono: mi sono liberato, mi lascio andare", risponde un altro. E ancora: "Ci aiuta a capire come rapportarci con gli altri. E ci spinge a tirar fuori le nostre risorse". "Il progetto del teatro in carcere è partito in maniera sperimentale con i fondi dell’amministrazione provinciale bando volontariato nel 2015 - spiega la garante dei detenuti Vanna Jahier - Quest’anno la rete di cooperativa Progetto ConTatto e gli amici della Mongolfiera per L.u.i.s, con il teatro delle Chimere e la Biblioteca ragazzi, grazie al progetto Climb della banca del Monte ha cominciato una serie di attività per promuovere la cultura del teatro in carcere con la partecipazione dell’assessorato alla cultura del Comune di Pavia e la direzione di Torre del Gallo". Detenuti e attori esterni, come Marco Pilierio, 31 anni, di Garlasco, fanno lezione insieme. "L’obiettivo - spiega Brunati - è creare una compagnia di teatro stabile di Torre del Gallo a cui partecipano anche gli agenti di polizia penitenziaria". "Grazie al finanziamento Climb e all’8 per mille alla chiesa valdese faremo partire anche laboratori paralleli destinati anche agli agenti e agli educatori perché vorremmo creare una compagnia integrata, che possa entrare nel circuito dei teatri in carcere", spiega Brunati. Grazie al progetto saranno allestiti due spettacoli di pupazzi in carcere e a giugno e settembre ci sarà uno spettacolo in carcere per i detenuti e le loro famiglie.In parallelo dentro la scuola in carcere gestita dal Volta si lavora per produrre testi e drammaturgie per la compagnia. Ogni giovedì la compagnia si ritrova, compatibilmente con i problemi degli spostamenti interni al carcere e della carenza di agenti. "Col gruppo ripartiamo con un nuovo spettacolo che andrà in scena in primavera - spiega Grossi - Loro mettono in gioco se stessi, la storia che porteremo in scena nasce da loro, dalle loro storie ed esperienze che portano sul palco. Il teatro in carcere deve essere un percorso evolutivo e di guarigione sul corpo altrui, che hanno violato e ferito, e su di sé". Quest’anno i detenuti lavoreranno su un percorso che va dalla memoria al perdono, attraverso alcune parole chiave: Memoria, Follia, Esodo, Sfruttamento, Genocidio, Olocausto, Femminicidio, Perdono e Redenzione". Trapani: concerto dell’Associazione Poeti Cantori alla Casa circondariale di San Giuliano lagazzettatrapanese.it, 15 marzo 2016 In data 12.03.2013, nei locali del teatro della Casa Circondariale di Trapani, l’associazione trapanese dei "Poeti Cantori" ha tenuto un concerto alla presenza di cento detenuti ristretti alla sezione mediterraneo. I poeti cantori hanno viaggiato attraverso la storia musicale italiana cantando brani della tradizione melodica napoletana, ma anche arie di opere come il va pensiero, brani la cui genesi è stata spiegata ai detenuti dal presidente dell’Associazione Poeti Cantori, Avvocato Leonardo Poma che visibilmente emozionato a fine concerto, ha voluto sottolineare anche la validità culturale dell’iniziativa. Il concerto fa parte di una serie di spettacoli di beneficienza, in favore dei detenuti, che saranno nei prossimi mesi da vari artisti e associazioni culturali che hanno dato, in modo del tutto gratuito, la propria disponibilità a concedere momenti di relax alla popolazione detenuta, mostrando in tal modo una grande sensibilità. Conto alla rovescia su migranti e Turchia e intanto slitta la riforma di Dublino di Marco Zatterin La Stampa, 15 marzo 2016 Vertice europeo, meno due. Si lavora per definire un’intesa vera che cambi il gioco difficile sui migranti per il patto con la Turchia, a tutti i livelli. Oggi nel pomeriggio la conferenza dei capigruppo del Parlamento europeo. Subito dopo la Commissione Affari Esteri voterà sul rapporto 2015 proprio su Ankara e le sue possibilità di avvicinamento all’Unione. È un documento duro, a tratti. Una evidente condanna delle violazioni dei diritti dei cittadini. Anche se continuano ad offrire la mano a un paese vicino che serve più da amico che da rivale. Anche se non è mai un interlocutore facile. Dibattito sul vertice anche al consiglio Affari generali (per l’Italia, Sandro Gozi), mentre il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, vola a Cipro per cercare di spazzar via le ritrosie sull’intesa turca. "È pronto ad andare a Ankara, se serve", dicono i suoi. Sempre in materia di migranti, la Commissione europea farà circolare oggi un "issue paper", un testo di ampio respiro con il quale cerca di identificare una via per risolvere il problema dell’asilo. Domani doveva arrivare una comunicazione sulla riforma del regolamento di Dublino, disputato testo che stabilisce il principio secondo cui il paese di prima accoglienza deve essere quello che "tratta" i migranti e i loro dati. Italia e Germania sono fra i principali fautori della riforma. Ma Bruxelles cerca di attendere. Dopo il voto in Germania e le incertezze del summit europeo che si apre giovedì, meglio evitare di mettere troppa carne al fuoco. L’"Issue paper", dopo il dibattito orientativo di domani dovrebbe diventare una più ampia proposta di intervento sull’asilo da mettere sul tavolo dei governi il sei aprile. Così si fa dopo, ma si prova a fare meglio. Speriamo. Attenzione ai dati Eurostat sull’occupazione nel quarto trimestre del 2015. Sappiamo già che non sono buoni come si voleva. Il miglioramento c’è. Ma è lento. Ancora troppo lento nella maggior parte dei paesi. Il tribunale nega l’espulsione per un 17enne pachistano "in patria sarebbe un terrorista" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 marzo 2016 Sassari, respinta la richiesta del questore per un 17enne pachistano: qui non è a rischio. A 17 anni è imputato di terrorismo internazionale, e il questore di Sassari ne ha chiesto l’espulsione dal territorio nazionale. Ma il tribunale dei minorenni ha detto no: non ci sono prove di un suo addestramento a compiere attentati, e un’eventuale conversione all’islamismo radicale sarebbe più probabile all’estero che in Italia. Ecco perché A.F. nato in Pakistan nel 1998 e dal 2009 residente a Olbia (dove il padre gestisce un negozio di casalinghi) è rimasto in Sardegna, nonostante l’autorità di sicurezza lo consideri un pericolo pubblico. L’arrivo in Italia - Tutto risale al novembre 2014, quando F. aveva poco più di 16 anni ed era rientrato temporaneamente in patria. Sul suo profilo Facebook pubblicò alcune fotografie che lo immortalano mentre spara raffiche di kalashnikov, e sorridendo mostra l’arma insieme a munizioni e soldi. Una performance corredata da commenti in lingua araba (poi rimossi) inneggianti ad Allah. Sei mesi dopo F. è tornato in Italia, e nell’ambito dell’inchiesta su 11 pachistani arrestati per presunta affiliazione ad Al Qaeda (attualmente sotto processo) è emerso un possibile collegamento con F; o meglio con suo padre che però non risulta nemmeno inquisito (nelle conversazioni intercettate si faceva solo riferimento a "indebiti favori). Contatti sospetti a parte, ad attirare l’interesse degli investigatori della Digos sono state soprattutto le immagini messe in circolazione da F., che hanno portato a una richiesta di rinvio a giudizio per "addestramento ad attività con finalità di terrorismo internazionale" da parte della Procura per i minori. Contemporaneamente - forse anche per la scarsità degli indizi a carico - il questore ha proposto l’espulsione, che richiede elementi meno gravi di quelli necessari per imbastire un processo. Aggiungendo la circostanza che F. "sarebbe appartenente a gruppi etnici radicali, legati da solidi vincoli di obbedienza e fratellanza". La richiesta del questore - Insieme all’allontanamento del ragazzo, il questore aveva chiesto e ottenuto, dal ministro dell’Interno, quello di altri due pachistani sospettati di simpatizzare per i terroristi; ma quando c’è di mezzo un minorenne la decisione spetta all’apposito tribunale, composto da due giudici togati e due onorari, "benemeriti dell’assistenza sociale". I quali con un decreto del gennaio scorso si sono opposti e hanno negato l’espulsione. Con questa motivazione: "L’unica condotta che potrebbe indicare un coinvolgimento del minorenne non è avvenuta in Italia bensì, verosimilmente, nel suo Paese d’origine, non avendo trovato alcun riscontro la notizia confidenziale che egli abbia trascorso un periodo di soggiorno in Siria". Conclusione del tribunale: "Potrebbe quindi accadere (come purtroppo è dimostrato che possa accadere a molti giovani che si trovano nelle sue condizioni di immigrati in Europa di cultura musulmana di seconda generazione, in bilico tra difficile integrazione sociale e richiamo alle proprie radici) che il minore possa subire, frequentando ambienti nei quali è diffuso il fanatismo religioso, gli effetti di un indottrinamento di matrice terroristica; tuttavia, allo stato, tale rischio appare sussistente con alto grado di verosimiglianza soltanto nell’ipotesi che egli facesse nuovamente rientro in Pakistan, dove evidentemente è già entrato in contatto con persone che dispongono di armi, e forse con ambienti fondamentalisti, mentre invece la sua permanenza ad Olbia non è attualmente legata ad alcuna organizzazione terroristica". Le conclusioni dei giudici - In altre parole, è più facile che F. diventi un terrorista (o aspirante tale) se rispedito in patria che lasciandolo in Sardegna. Anche perché i precedenti penali che ha accumulato (tra cui atti di bullismo compiuti insieme a ragazzi italiani) lo indicano come un ragazzo difficile, ma attratto più dallo stile di vita occidentale che dall’islamismo radicale. Caso chiuso, dunque. Ma solo per ora. Tra meno di due mesi, infatti, F. compirà 18 anni, e se la sua pericolosità dovesse essere considerata ancora "attuale" l’espulsione potrebbe essere riproposta. Non più al tribunale dei minori, però. Germania, respinto l’assalto ai profughi di Marco Bascetta Il Manifesto, 15 marzo 2016 La sorpresa era largamente prevista. Eppure resta tale. L’indiscussa affermazione, più consistente di quella pronosticata dai sondaggi della vigilia, di Alternative fuer Deutschland, il partito conservatore e nazionalista guidato da Frauke Petry che ha puntato tutte le sue carte contro la politica migratoria della Cancelliera non può che fare impressione. Anche se, come è accaduto in Francia con Marine Le Pen, il successo elettorale di Afd non le apre nessuna prospettiva di governo nei tre Laender che sono andati al voto con affluenza in aumento: Baden-Wuerttemberg, Sassonia-Anhalt, Renania-Palatinato, circa 16 milioni di elettori. Tuttavia la tornata elettorale di domenica è stata letta da tutti come un referendum sulla politica adottata da Angela Merkel nella cosiddetta "crisi dei rifugiati". Se di questo si tratta non si può dire che la Cancelliera, nonostante l’emorragia di voti subita dal suo partito, sia stata sconfitta. Il sorpasso conseguito sulla Cdu dal governatore verde del Baden-Wuerttemberg, (il Land di gran lunga più importante di questa tornata elettorale) il liberista pragmatico e conservatore Winfried Kretschmann, non può essere ascritta al fronte che reclama la chiusura dei confini tedeschi ai flussi dell’immigrazione. E infatti Merkel ha prontamente dichiarato che non cambierà opinione, né rotta. In realtà compromessi e correzioni non sono mancati, ma sul principio dell’ "accoglienza", sia pure sempre più selettiva e vessatoria, il governo di Berlino non arretra. Il prezzo pagato è alto, ma non catastrofico. Insomma, se i migranti in marcia scandiscono il nome di Angela, si può anche capirli, non c’è molto di meglio in Europa. Quel che è accaduto è che lo spostamento "a sinistra" della Cdu e il suo europeismo, seppure rigorista e attento alla "priorità nazionale", ha allontanato i settori più conservatori dell’elettorato, fenomeno che non mancherà di riaccendere la battaglia interna al partito e con gli alleati bavaresi della Csu di Horst Seehofer, sempre sul piede di guerra. Ma ciò che Merkel perde alla sua destra, compensa in parte alla sua sinistra. Con il tracollo vertiginoso del secondo grande partito di massa tedesco: una socialdemocrazia balbettante, scolorita e disorientata. La vittoria consolatoria della Spd in Renania-Palatinato non basta a smentire un declino inarrestabile che l’ha vista superata da Afd negli altri due Laender e che già si era manifestato nelle elezioni comunali dell’Assia. La grande sconfitta è dunque la sinistra, sia nella versione subalterna e afasica del partito di Sigmar Gabriel, sia nella versione più radicale della Linke, che in Sassonia perde 7 punti e altrove resta fuori dai parlamenti regionali. Avrebbe dovuto preoccupare una recente ricerca secondo la quale una elevata percentuale degli elettori della Linke nell’Est del paese guardava con favore al movimento radicale islamofobo Pegida. Le posizioni sovraniste, identitarie ed euroscettiche che la sinistra ha lasciato covare nel suo seno, finiscono con l’accasarsi nel posto al quale più naturalmente appartengono: la destra nazionalista appunto. La Germania è forse una delle democrazie più solide al mondo, anche se conserva tratti marcatamente disciplinari. Ed è superfluo spiegarne ancora una volta lo storico perché. Il radicalismo di destra vi incontra limiti per il momento insuperabili e una decisa "conventio ad escludendum". È dunque difficile immaginarlo come una tendenza in stabile crescita, oltre i risultati conseguiti con la "crisi dei rifugiati". Eppure uno spostamento a destra del paese vi è indubbiamente stato, ma sarebbe un errore imputarlo semplicemente alla paura dello straniero. È la debolezza, quasi cadaverica, di una politica a favore delle classi subalterne, la crescita delle diseguaglianze (non dissimile da quella che caratterizza la maggior parte delle grandi economie di mercato), la riduzione dei diritti e del welfare, il diffondersi della precarietà, ad avere alimentato questa paura e convinto gli elettori a voltare le spalle a una sinistra che ha perso la sua ragion d’essere. Questo spostamento rischia di avere ripercussioni pericolose anche in Europa. Da un lato rinfrancando i nazionalismi dell’Est, dall’altro accentuando l’impronta di una Germania in difficoltà sulle politiche europee, di cui le polemiche di parte tedesca contro le recenti scelte di Mario Draghi costituiscono un segnale da non sottovalutare. La Cancelliera potrebbe dover compensare i timori suscitati dalla sua politica migratoria con la difesa a spada tratta, e a scapito di altre economie dell’Unione, degli interessi dei contribuenti e dei risparmiatori tedeschi. La "priorità nazionale" ha molte facce e tutte piuttosto inquietanti. Tre migranti annegati nel fiume-confine di Ettore Livini La Repubblica, 15 marzo 2016 Tre afgani sono annegati mentre cercavano di attraversare il Suva in piena a pochi chilometri da Idomeni. La stessa sorte toccata a 8 profughi in un naufragio nell’Egeo. La disperazione dei migranti bloccati da giorni a Idomeni apre (per poche ore) una breccia nel muro di filo spinato alzato dalla Macedonia. Un migliaio dei 12mila profughi accampati al confine in territorio greco si sono messi in marcia ieri a mezzogiorno per provare ad aprirsi un varco attraverso i 48 km di rete metallica lungo la frontiera. Il serpentone umano ha imboccato una vecchia strada di campagna fino al villaggio di Hamilo e piegato poi verso nord, affrontando le acque gelide del torrente Suva. I primi arrivati hanno teso una corda una corda tra le rive, i genitori si sono caricati sulle spalle i bambini (tantissimi) e hanno affrontato il guado, affiancati da una catena umana improvvisata per aiutare chi scivolava sui sassi coperti di alghe. Raggiunta l’altra sponda, i protagonisti di questo piccolo esodo sono riusciti a entrare in Macedonia. Ma la polizia, preallertata dai colleghi ellenici, ha intercettato i rifugiati appena oltre il confine, arrestando centinaia di persone. Tra i fermati anche diverse decine di giornalisti e fotografi. Le autorità di Skopje hanno disposto l’espulsione immediata dei rifugiati verso la Grecia. Il governo Tsipras sta cercando da giorni di convincere i migranti di Idomeni a trasferirsi nei nuovi campi attrezzati che l’esercito sta allestendo in tutto il paese. Ma finora solo poche centinaia di persone hanno accettato di spostarsi. Gli altri preferiscono attendere, sperando nella riapertura del corridoio balcanico dopo il summit Ue-Turchia o per affidarsi ai contrabbandieri per entrare in Macedonia. Non tutti ci riescono. Tre afgani sono infatti annegati mentre cercavano di attraversare il Suva in piena a pochi chilometri da Idomeni. La stessa sorte toccata a 8 profughi in un naufragio nell’Egeo. L’Europa intanto affila le armi in vista del vertice di giovedì. Il presidente Ue Juncker si è schierato con Merkel: "La storia dimostrerà che ha ragione a tenere le porte aperte a chi scappa dalla guerra". "Dobbiamo affrontare i problemi della migrazione occupandoci delle condizioni da cui nascono", ha detto il presidente della Repubblica Mattarella mentre per Renzi "è ora di dire basta all’egoismo dei paesi che pensano che alzare un muro sia la risposta". Papa Francesco, invece, ha spiazzato tutti a modo suo, annunciando che la messa del Giovedì, quella che prevede la cerimonia della lavanda dei piedi, sarà celebrata con i migranti ospiti di una struttura romana. Stati Uniti: se s’impone la politica della paura di Gianni Riotta La Stampa, 15 marzo 2016 Donald Trump potrebbe oggi fare un passo decisivo alle primarie repubblicane verso la Casa Bianca, mentre il socialista Sanders, dapprima ignorato anche dai migliori esperti come Nate Silver, darà filo da torcere a Hillary. In Germania la destra anti emigranti di Alternative für Deutschland mette alle corde la Merkel: gli esperti minimizzano dicendo che neppure dove Afd va più forte, Sassonia-Anhalt con il 24%, raggiunge la forza di altri schieramenti populisti, Trump negli Usa, la Le Pen in Francia. Vero, ma le sottigliezze da seminario di alti studi internazionali non colgono la foga che anima le democrazie occidentali in questa vigilia di primavera, mentre il terrorismo squassa Turchia e Africa, Mario Draghi fatica a riaccendere il motore ingolfato dell’economia e la paura si impossessa di milioni di cittadini. Paura degli emigranti che "rubano lavoro", di posti di lavoro in fabbrica e in ufficio sostituiti da un software, di valori democratici che il mondo non solo non sogna più, come i dissidenti sovietici nei gulag della Guerra Fredda, ma disprezza stimandoli deboli e ammira invece la grinta di Putin - che annuncia, fiero e astuto, il "Missione Compiuta!" nella Siria devastata. La lunga intervista di fine mandato che il presidente Obama ha concesso al periodico "The Atlantic" conferma quanto grave sia l’anemia democratica. Di fronte ai suoi fallimenti Obama denuncia i leader alleati, dal britannico Cameron al francese Sarkozy, dimenticando che gli Stati Uniti dovrebbero guidare, non seguire di malavoglia, l’Occidente. Se i leader democratici sono stanchi, rassegnati, incerti, vanitosi e un pò petulanti, come impedire a Trump e Le Pen da destra, Sanders e il leader laburista inglese Corbyn da sinistra, di illudere i cittadini con piani fiscali impossibili, politiche protezionistiche che non durerebbero una settimana, muso duro da una parte, pacifismo da ballate di Lennon dall’altra, inutili contro Isis, terrorismo e ambizioni geopolitiche di Mosca e Pechino? C’è un recente saggio di economia del professor Robert Gordon che condensa le ansie del ceto medio e dei lavoratori perduti nella globalizzazione, "The rise and fall of American growth", (Ascesa e declino della crescita americana). Gordon calcola che, dopo un boom durato un secolo, crescita e produttività sono calate di netto dai tempi di Kennedy, rock and roll e American Graffiti. Dopo la crisi 2008 e la frenata dello sviluppo, il salario medio americano è di 50.600 dollari l’anno (stessa cifra, più o meno, in euro). Ma se gli americani che hanno oggi 30 anni avessero visto le buste paga crescere come i nonni che hanno ballato con Elvis Presley e i padri fan di Michael Jackson, dovrebbero avere per stipendio annuo quasi il doppio, $97.300. La corsa di Trump&Sanders, gemelli nemici, e dei loro emuli europei, la crescente diffidenza per i moderati, da Hillary Clinton ad Angela Merkel, è tutta qui. Un salario dimezzato è una speranza cancellata, vacanze, casa propria, laurea per i figli, pensione e sanità sicure. All’incertezza economica si accompagna il nichilismo di un mondo dove i regimi senza democrazia sembrano riscuotere più rispetto di Obama, Merkel, Cameron. C’è oggi paura in America, come in Europa. Si teme violenza nei comizi delle primarie, in un Paese dove John e Bob Kennedy e il reverendo King sono stati uccisi, il governatore Wallace e Reagan feriti in attentati, ma questo umore livido non si nutre solo di intolleranza populista, è sostenuto anche dall’impotenza pavida dei leader moderati. Trump alla Casa Bianca, la Le Pen all’Eliseo, un cancelliere AfD a Berlino, non muteranno la dinamica del XXI secolo, i salari dimezzati tali resterebbero. Servirebbe perciò, in fretta, un piano - perfino il "Financial Times" parla ora di forme di "salario sociale" per chi non ha lavoro - per eliminare la folla crescente di esclusi ed arrabbiati. Abbiamo invece, diffusi, inerzia e rassegnazione, sentimenti contro cui ieri, con forza, ha voluto parlare il presidente Sergio Mattarella, rompendo il riserbo tradizionale e chiamando i leader eletti a non farsi prendere ostaggio dal populismo di "minoranze" guidando, con visione strategica, i loro Paesi. Mattarella ha ragione, e il tempo, in America e in Europa, stringe. Se non si reagisce alla primavera di tensione, l’autunno sarà di paura. La primavera finita nel sangue, cinque anni di guerra in Siria di Franco Venturini Corriere della Sera, 15 marzo 2016 Doveva essere una protesta come tante, divenne conflitto: a causa della feroce repressione. Così Damasco schiacciò il tentativo di rivincita dei sunniti sulla minoranza alawita, poi intervennero i "fratelli" arabi e tutto degenerò. Lunedì sono ripresi i colloqui di Ginevra, oggi Mosca avvia la smobilitazione, Dopo cinque anni l’ottimismo è vietato. Ma sarebbe miope non vedere che qualcosa è cambiato. Le prime dimostrazioni contro Bashar al Assad, il 15 marzo del 2011, passarono quasi sotto silenzio. Dopotutto l’intero Mondo Arabo era scosso dalle "Primavere", perché la Siria avrebbe dovuto fare eccezione? Ma ben presto fu proprio il regime di Assad a far capire al mondo che quella non era una protesta come tante altre. La repressione fu feroce, e provocò centinaia di morti senza tuttavia riuscire a far tacere una rivolta che era sì libertaria, ma puntava anche a sancire la rivincita della maggioranza sunnita contro la minoranza alawita e dunque sciita. I disertori di Assad e il nuovo Esercito Libero - L’accelerazione delle ostilità e il coinvolgimento di gruppi e Stati decisi a darsi battaglia in Siria fu da subito, e ancor di più dal 2012, superiore ad ogni previsione. Nacque l’Esercito Libero Siriano composto da disertori dell’esercito regolare di Assad, ben presto gli si affiancarono altre formazioni ribelli compresi gruppi estremisti come al Nusra (ispirata da al Qaeda), e soprattutto come lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che noi chiamiamo Isis. L’Iran, gli Hezbollah libanesi e in parte l’Iraq intervennero a sostegno del fratello sciita Assad. La Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar difesero in vari modi la causa dei sunniti. La Russia (filo-Assad) e gli Stati Uniti (anti-Assad) cominciarono a confrontarsi per procura in Siria. E così, in un progressivo aggravamento della situazione, presero corpo i momenti cruciali che meritano di essere ricordati in questo quinto anniversario di quella che è ormai una immane tragedia (almeno 400 mila morti, oltre 7 milioni di profughi all’interno e all’esterno della Siria). (nella foto Epa, l’assedio a Kobane) Le armi chimiche e la risposta di Obama - Nell’estate del 2013, Obama mandò le sue navi davanti alle coste siriane per "punire" Assad, reo di aver utilizzato armi chimiche contro i ribelli. Il Presidente Usa si era impegnato proclamando una "linea rossa", e Assad l’aveva superata. Ma invece dei missili americani partì all’improvviso una mediazione russa, le navi fecero dietrofront e le armi chimiche di Assad furono poi distrutte di comune accordo. Recentemente Obama ha rivendicato la decisione di non aver premuto il grilletto. Ma l’inquilino della Casa Bianca pare aver sottovalutato il brusco declino della credibilità americana che quella ritirata provocò in tutto il Medio Oriente. La presa di Mosul da parte dell’Isis - Nel giugno del 2014 l’Isis, che si era già illustrato per la sua inaudita ferocia, "cancellò" il confine con l’Iraq, si impadronì della città di Mosul e proclamò il suo Califfato transnazionale arrivando a minacciare Bagdad. Le minoranze religiose e soprattutto le donne pagarono e pagano prezzi altissimi al fanatismo coranico degli uomini di al Baghdadi, e i Peshmerga curdi furono inizialmente gli unici a resistere (nella foto Ap, combattenti dell’Isis entrano a Mosul nel giugno 2014). Settembre 2015, Mosca schiera i bombardieri - Nel settembre del 2015 la Russia decise di intervenire nel conflitto (esisteva già una coalizione anti-Isis a guida americana) e con pesantissimi bombardamenti cambiò gli equilibri militari sul terreno. Assad che pareva ormai prossimo alla caduta poté rafforzarsi. I ribelli, ormai difficili da decifrare nei loro diversi radicalismi, si trovarono alla mercé degli aerei di Putin. L’abbattimento di un bombardiere russo da parte della Turchia gettò olio sul fuoco, e lo stesso avvenne, tra Iran e Arabia Saudita, dopo l’impiccagione da parte dei sauditi di un predicatore sciita. Il disastro siriano e l’onda dei profughi - Contemporaneamente, il disastro siriano proiettava all’esterno le sue conseguenze. Guardiamoci intorno, oggi. Le migrazioni di massa di chi scappa dalla guerra minacciano di far saltare la costruzione europea e la condizionano elettoralmente. L’Isis ha colpito duramente la Francia, e ora ha scelto l’Africa come nuovo fronte di espansione. Lì si allea con altri movimenti jihadisti (anche con al Qaeda nel Sahel) e intanto rafforza la sua testa di ponte in Libia, a quattrocento chilometri dalle coste italiane. La Turchia subisce continui attentati, per mano sia dell’Isis - diventato suo nemico - sia dei curdi, nemici da sempre. In Medio Oriente rischiano di esplodere il Libano e la Giordania, e la lotta tra sciiti e sunniti è più accesa che mai (nella foto Afp, migranti siriani alla frontiera tra Serbia e Macedonia). La speranza che la tregua possa reggere - La Siria sta destabilizzando grandi aree del mondo. Ma esiste, in queste ore, un filo di speranza. La tregua proclamata il 27 febbraio scorso "regge" malgrado le violazioni e malgrado la giusta esclusione dei terroristi dell’Isis e di al Nusra. Decine di migliaia di siriani che rischiavano la morte per fame hanno potuto essere assistiti. È ripreso lunedì a Ginevra un arduo negoziato tra le parti siriane. E a sorpresa Putin ha annunciato per oggi "l’inizio del ritiro delle forze russe dalla Siria". Senza specificare quanto durerà, e precisando invece che resterà operativa la grande base aerea costruita prima dell’intervento. Mosca vuole favorire la futura uscita di scena di Assad d’accordo con gli Usa? Deve tener conto delle sue difficoltà economiche? Putin vuole diventare lui il grande pacificatore, come nell’estate del 2013? Servirà tempo per capire le intenzioni russe. Dopo cinque anni l’ottimismo è vietato. Ma sarebbe ancor più miope non vedere che qualcosa è cambiato. Siria: bombe dal cielo e attacchi mirati, così la guerra ha cambiato direzione di Alberto Stabile La Repubblica, 15 marzo 2016 L’intervento di Mosca ha consentito ad un regime in crisi di risollevare le sue sorti e di arrivare al tavolo del negoziato in una posizione di forza. Ma il costo in termini di vittime civili è stato altissimo. Sulla strada che da Damasco conduce ad Aleppo, arteria vitale ancorché necessariamente tortuosa, per evitare le zone sotto controllo degli Jihadisti, è facile incontrare i convogli russi. Viaggiano aggrappati ai loro modernissimi APC, blindati per il trasporto truppe, dalla prua bassissima o di scorta ai carri armati T 72 rimodernati. Naturalmente si riconoscono innanzitutto dai caratteri somatici, ma anche per quell’aria da vincitori che ostentano, conquistando con i loro rumorosi mezzi il centro della strada. Non c’è dubbio che se la guerra siriana ha subito una svolta favorevole al regime, è per merito loro. Per capire se Putin ha ragione quando proclama compiuta la missione che si era prefisso, bisogna ricordare quale era il quadro della situazione militare alla vigilia di quel fatidico 30 Settembre. Semplicemente, l’esercito siriano si stava squagliando, indebolito dalle perdite (circa 60 mila i soldati lealisti morti in battaglia dall’inizio della guerra) e dalle diserzioni. La roccaforte in pericolo - Per la prima volta persino la roccaforte degli Alawiti, la minoranza eterodossa sciita a cui appartiene la stessa famiglia Assad, concentrata sull’altopiano che domina Latakia e Tartus, era apparsa in pericolo. I ribelli, che approfittavano dalla prossimità del confine turco per rifornirsi di mezzi e di truppe, avevano persino conquistato una posizione sul mare, praticamente alle porte di Latakia. Il nord minacciato - Più a Nord, una delle principali città della Siria, Idlib, era caduta nelle mani di una federazione di gruppi, Jaysh al Fatah (l’armata della Conquista) dominata dalla filiale siriana di al Qaeda, Jabhat al Nusra (il Fronte del soccorso al popolo siriano) e da lì gli jihadisti avevano esteso il controllo sull’autostrada internazionale Damasco- Homs. La coalizione filo-Assad - Ovvio, che in questa situazione le forze russe dovessero concentrare le loro energie prima sulla regione costiera, Latakia e Tartus, dove Mosca ha da decenni una base della Marina e dove sarebbe stata in pochi giorni approntata la base aerea di Hmeimeem, e successivamente sul Nord-Ovest della Siria. Così, colpendo le basi ribelli in maniera spietata e infliggendo perdite pesantissime, ma anche provocando vittime civili, l’avanzata degli oppositori armati è stata bloccata. E l’esercito siriano ha ripreso fiducia in se stesso. Anzi tutto il fronte filo Assad, formato dall’esercito rimasto fedele al Raìs, dagli Hezbollah libanesi, dai pasdaran iraniani e dai miliziani sciiti iracheni, ha cominciato ad assaporare il sapore della vittoria, grazie all’appoggio dell’aviazione di Mosca. Putin è stato abile a muovere questa Santa Alleanza sciita contro le forze anti-Assad, rappresentate da Turchia, Arabia Saudita, Emirati e dagli Stati Uniti, tutti accomunati dal fallimento del loro progetto di cacciare Assad dal potere. La battaglia di Aleppo - Cominciata come una battaglia per liberare il corridoio di Azaz, la maggiore via di rifornimento e di comunicazione tra ribelli che occupano la parte orientale di Aleppo e la frontiera turca, si è presto capito che lo scontro era in realtà sul destino della più grande e ricca città della Siria. Destino che resta ancora incerto, essendo un terzo della Aleppo ancora nella mani degli oppositori armati. Ma importanti infrastrutture come la centrale termica e l’aeroporto sono adesso nelle mani dei lealisti e soprattutto è ripreso il collegamento tra Aleppo e Damasco, anche se l’autostrada internazionale non è ancora praticabile. È difficile immaginare come sarebbe stato possibile questo successo senza il contributo delle forze russe. L’incognita di Palmira - Bisogna ora vedere in che misura la ritirata ordinata da Putin escluderà la possibilità di future operazioni sul terreno. Fino a qualche giorno fa, in Siria si dava per imminente una grande operazione per cacciare gli jihadisti da Palmira, il tesoro della romanità in parte distrutto. Possibile che Putin voglia rinunciare a questo momento di gloria?