L’Islam in prigione: nelle carceri italiani operano 30 imam e ci sono 52 luoghi di preghiera di Francesco Grignetti La Stampa, 14 marzo 2016 I detenuti musulmani sono 5.780. Accordo tra l’amministrazione penitenziaria e l’Ucoii per combattere la radicalizzazione. Non più 9, ma sono ormai circa 30 gli imam che da un mese frequentano le carceri italiane. Ancora pochi, considerando che in Italia sarebbero 5.780 i detenuti che si professano di religione islamica e che la radicalizzazione degli islamici passa spesso per la predicazione infuocata degli imam fai-da-te. E però qualcosa si sta muovendo. D’altra parte è noto che gli imam non sono paragonabili al clero cristiano, in quanto comuni fedeli che "guidano" la preghiera, e c’era un oggettivo problema di "accreditamento" per riconoscere l’imam islamico come ministro di culto. Dacché il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha stretto una convenzione con l’Ucoii (unione delle comunità islamiche italiane), però, il problema sembra in parziale via di risoluzione. La vicenda di Carlito Brigande, al secolo Vulnet Maqelara, macedone di 41 anni, passato per la guerriglia in Kosovo nelle file dell’Uck, poi la criminalità comune, e infine fuggito a Roma perché inseguito da una mandato di cattura, rilancia prepotentemente il tema del proselitismo islamista nelle carceri. Carlito l’avevano fermato in carabinieri nel novembre scorso, nel corso di un ordinario controllo sul territorio. Avevano scoperto così che era un latitante, ricercato in Macedonia. Arrestato e perquisito, in casa gli avevano trovato materiale inneggiante alla Guerra Santa. Si è scoperto successivamente che era stato indottrinato nel carcere di Velletri da un imam fai-da-te tunisino, Firas Barhoumi, che non a caso ora combatte in Iraq, e che Carlito voleva raggiungerlo per immolarsi come martire della Guerra Santa. Il problema della radicalizzazione, dunque. Al pericolo del proselitismo era dedicato qualche giorno fa un convegno (Diritti religiosi in carcere - una risposta razionale alla radicalizzazione) dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti. "La presenza di detenuti di fede islamica è numericamente significativa - spiegava nell’occasione il presidente dell’associazione, Patrizio Gonnella - e giustifica l’indicazione di dar vita a luoghi di culto nei singoli istituti, oltre che prestare un’attenzione non formale alle regole di alimentazione". Anche i vertici dell’amministrazione penitenziaria, comunque, sono in grande allarme. Secondo i più recenti dati del Dap, i detenuti radicalizzati sarebbero 19 e perciò sono ristretti in apposite sezioni di alta sicurezza. Circa 200 sarebbero quelli sotto "attenzione". In 52 istituti penitenziari ci sono luoghi di culto ufficiali definibili come moschee; in altri 132 istituti ci sono soltanto stanze utilizzate come luogo d’incontro. Nel corso del convegno, però, il capo del Dap, Santi Consolo, ha spiegato: "In base al protocollo con l’Ucoii, firmato prima dei fatti di Parigi, negli 8 istituti dove maggiore è la presenza degli islamici, la preghiera viene assicurata in locali destinati. Dobbiamo ora creare le condizioni strutturali affinché i diritti vengano garantiti attraverso l’ingresso di ministri di culto e mediatori culturali". Tra le proposte accettate dagli Stati generali per l’esecuzione penale, oltre a corsi di formazione specifica per la polizia penitenziaria e anche per i volontari, si dovrebbero favorire i rapporti e gli interventi con le Autorità consolari rappresentative della popolazione detenuta straniera, anche nell’ottica del ritorno nei Paesi di origine, e prevedere modelli per la deradicalizzazione in carcere. L’allarme degli 007: trame islamiste in Italia, occhi puntati anche all’interno delle carceri di Giovanni Tizian L’Espresso, 14 marzo 2016 Nato nel cuore dell’Europa a pochi chilometri da Stoccarda. Residente in un tranquillo paesone del nordest italiano. Era un perfetto insospettabile, il macedone Ajhan Veapi. Ma il profilo anagrafico non deve trarre in inganno: gli investigatori del Ros dei carabinieri lo reputano un reclutatore dello Stato islamico nel nostro Paese. Uno di quelli che arruola aspiranti jihadisti e li fa viaggiare lungo la "rotta balcanica". La via che conduce alla guerra santa più vicina a noi. Veapi arruolava mimetizzato nella quiete friulana. Indottrinava per conto di un imam itinerante bosniaco e fedele al Califfato. I sermoni del macedone avevano convinto tre persone a partire per la Siria: un suo connazionale, un serbo e un pakistano. Due di loro sono morti in combattimento, mentre il terzo è tuttora in forza all’Is. Si nascondono così gli aspiranti terroristi nella anonima provincia italiana. La caccia ai jihadisti di casa nostra è aperta. E si è fatta ancora più intensa nell’anno santo del Giubileo. C’è persino una pista, al vaglio degli inquirenti di una procura del Sud, che conduce nei quartieri del radicalismo islamico del Belgio con il possibile coinvolgimento di presunti estremisti. In tutta Italia nel mirino ci sono i foreign fighters ancora in guerra e altri che hanno intenzione di tornare in patria, i gruppi del salafismo radicale di origine balcanica, ma anche i possibili "lupi solitari", che nel mosaico del terrore, per la loro imprevedibilità, sono le schegge più insidiose. L’attenzione è dunque altissima. A maggior ragione dopo l’allarme lanciato dagli 007 italiani. Che nel loro dossier presentato al Parlamento segnalano i fattori di pericolo per il nostro Paese, sottolineando che il territorio italiano è, oggi, ancora più esposto ad attacchi di commando armati in stile Parigi. Coincide, l’analisi dei servizi, con i primi risultati dell’attività della procura nazionale antimafia guidata da Franco Roberti, che dall’approvazione delle nuove norme antiterrorismo ha ottenuto la delega al coordinamento delle inchieste sul terrorismo. Il procuratore definisce Daesh (acronimo arabo per Stato islamico) "uno Stato-mafia". Una miscela di radicalismo ideologico, violenza terroristica, imprenditorialità criminale e dominio territoriale con proiezioni internazionali: in pratica "i connotati essenziali e tipici delle associazioni di tipo mafioso". Per incassare quattrini il metodo utilizzato dall’Is non è diverso da quello usato dai talebani: il narcotraffico è lo strumento privilegiato per accumulare risorse. E non si tratta solo di ipotesi: "Dai più recenti sviluppi delle attività in tema di terrorismo riconducibile all’Is, sono emerse rilevanti connessioni, fra cellule terroristiche operanti in Europa e trafficanti di stupefacenti" osservano i magistrati della procura nazionale nell’ultima relazione annuale. Occhi puntati anche all’interno delle carceri, che possono trasformarsi in laboratori dell’indottrinamento religioso. Le spie di questo fenomeno sono numerose, come raccontato da "l’Espresso" ormai un anno fa. Secondo le ultime stime in prigione si trovano circa diecimila musulmani praticanti. E sarebbero cinque i musulmani che durante la detenzione hanno abbracciato la causa islamista e una volta usciti sono partiti per campi d’addestramento in Siria o in Iraq. Prima degli attentati di Parigi i detenuti sotto osservazione per estremismo religioso e proselitismo erano 200. Attualmente sarebbero 282. Fuori dai penitenziari, invece, i detective stanno monitorando l’ambiente del fondamentalismo islamico. Dal riciclatore legato al terrorismo internazionale con interessi a San Marino al combattente siriano transitato dall’Italia per sottoporsi a un intervento maxillofacciale, dall’imam di un paese della Romagna sospettato di "adescare" giovani per il jihad al ragazzo, con problemi psichici, partito dalla provincia bolognese per combattere in Iraq e bloccato dalle autorità irachene. Più di un sospetto anche su un egiziano, ritenuto un reclutatore, transitato in Italia dalla Francia, e su un cittadino kosovaro domiciliato sull’Appennino modenese, ma al momento irreperibile, sospettato, come scrive la procura nazionale antimafia, di "progettare un attentato a Vienna". "Csm superbo, presenti i conti", lo scontro finisce alla Consulta di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 14 marzo 2016 Ultimatum della Corte dei conti. Le toghe: siamo un potere supremo. Il "ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato" è stato depositato nei giorni scorsi e dunque sarà la Corte Costituzionale a scrivere la parola definitiva su uno scontro senza precedenti tra Corte dei conti e Csm. I giudici contabili esigono che l’organo di autogoverno della magistratura presenti il rendiconto dei soldi pubblici che maneggia, come qualsiasi funzionario statale deve fare. Il Csm non intende adempiere, perché si ritiene organo supremo dello Stato - al pari del Quirinale e del Parlamento. Dopo le prime schermaglie a colpi di delibere, i duellanti si rivolgono ora alla Consulta. In gioco, al di là della specifica questione, c’è la definizione del ruolo della magistratura nel nostro sistema costituzionale: potere al pari di quello politico, con tutto quello che comporta, o subordinato come qualsiasi branca dell’amministrazione pubblica? È dal 1997 che il Consiglio superiore della magistratura non presenta il conto. Nel giugno dello scorso anno, la Corte dei conti se ne accorge mentre "aggiorna l’anagrafe dei soggetti titolari di gestioni di denaro, beni o valori assoggettabili alla resa del relativo conto". La Corte chiede al Csm di comunicare "nominativi e funzioni" degli "agenti contabili". Il Csm risponde negativamente un mese dopo: nessun dovere di rendicontazione "in ragione della speciale collocazione costituzionale". Del resto, spiega il segretario generale del Csm, la regolarità contabile è assicurata "da elevate e specifiche professionalità" e da "controlli puntuali, seri e costanti". Ma la Corte dei conti non ci sta. Il magistrato competente si rivolge alla sezione giurisdizionale del Lazio e ottiene, un mese fa, una sentenza ultimativa, che dà al Csm 120 giorni per presentare il rendiconto del cassiere, dell’economo e dell’amministratore dei beni. Lo scorso 4 marzo, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della sezione Lazio della Corte dei Conti infierisce, definendo la renitenza dell’organo di autogoverno della magistratura "un peccato di superbia, che abbiamo ricondotto nei corretti canoni, (...) mosso dall’insofferenza istituzionale di essere sottoposto al controllo di un altro organo dello Stato di cui non riconosce, nella specifica materia, l’autorità". Di fronte a parole così dure, al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini non è rimasta che una strada. La più delicata e impegnativa da punto di vista istituzionale: il conflitto tra poteri davanti alla Consulta. Nel ricorso il Csm lamenta nell’iniziativa della Corte dei conti "una grave lesione dell’autonomia costituzionale della magistratura" frutto di "un’interpretazione impropria, illegittima e incostituzionale" delle norme. "Assoggettare il Csm all’obbligo di rendiconto contrasta con l’assetto costituzionale della divisione dei poteri". Tutto ruota attorno all’interpretazione della Costituzione, nella parte in cui definisce la magistratura "un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". Il Csm rivendica il suo ruolo, che "rende immune la magistratura da ogni interferenza di qualsivoglia potere dello Stato" e pertanto impedisce di degradarlo "a un qualsiasi organo esecutivo della macchina statale" come la Corte dei conti fa con le sue pretese. Nel 1981 la Corte costituzionale aveva già sottratto Parlamento e Presidenza della Repubblica dagli obblighi di rendicontazione contabile. Ora il Csm chiede il medesimo status di "organo supremo" aggiornando l’applicazione del Regio Decreto del 1934 sul rendiconto degli uffici pubblici alla luce della successiva Carta costituzionale, che ha conferito indipendenza alla magistratura. Ma la Corte dei conti obietta che il Csm non è affatto "un potere sovrano" al pari di Quirinale, Camera e Senato. E con la sua richiesta alimenta un "equivoco di fondo". Quando decide le carriere delle toghe, esercita funzioni di rilievo costituzionale e come tale va tutelato da ingerenze di altri poteri. Ma quando i suoi funzionari maneggiano denaro, si tratta di faccende amministrative uguali a quelle di ogni altro pubblico ufficio. Dunque non c’è motivo di derogare al "principio generale del nostro ordinamento, che prevede l’obbligo di chi gestisce denaro, valori o beni altrui di rendere il conto del proprio operato". Deciderà la Consulta. Sentenza delicata: delimiterà ruolo dei magistrati, grado di autonomia e rapporti con un potere politico tutt’altro che succube. Minori, varata la Direttiva europea per il "giusto processo" di Barbara Carbone Il Messaggero, 14 marzo 2016 I minori vanno tutelati, anche nel caso in cui siano responsabili di un reato. La rieducazione e il reinserimento devono essere gli obiettivi primari della pena. Questo concetto adesso è legge: è nato in Europa il giusto processo penale minorile al quale, entro 36 mesi, tutti gli stati membri dovranno uniformarsi. "Una svolta storica - commenta soddisfatta la relatrice, l’europarlamentare Caterina Chinnici - Per la prima volta viene introdotta una disciplina specifica dei procedimenti penali nei confronti di minori. A loro dovrà essere garantita anche la formazione, l’educazione e il regolare esercizio delle relazioni familiari nel pieno rispetto della libertà religiosa e di pensiero". L’iter del giusto processo minorile, si è concluso a Strasburgo con l’approvazione del testo a larghissima maggioranza: 613 i voti a favore. A dare l’ok anche tutti i deputati italiani. Un plauso alla "legge Chinnici" è arrivato anche dal Commissario europeo alla giustizia, Vera Jourova, che ha sottolineato come "i minori hanno bisogno della massima protezione possibile nell’ambito di un procedimento penale". "Non è stato semplice - sottolinea Caterina Chinnici - giungere a Un testo condiviso". Il 12% delle persone coinvolte in procedimenti penali ha meno di 18 anni. A conti fatti la legge andrà ad incidere sulle vite di oltre un milione di minori che, ogni anno, entrano in contatto con la giustizia. L’ambizione del Parlamento Europeo è ancora più ampia: raggiungere uno "Spazio europeo di giustizia" nel quale ci si muova tra principi fondamentali comuni. Ma che cosa cambierà in concreto? Tre le novità più rilevanti: l’obbligo di assistenza legale per gli under 18; la valutazione individualizzata della personalità volta a comprendere il grado di consapevolezza del minore; la detenzione separata dagli adulti. Diventa poi fondamentale la formazione specialistica dei magistrati e degli altri operatori coinvolti. Spazi e giustizia a misura dei minori. Per il sistema processuale italiano, che ha di fatto ispirato la Direttiva comunitaria, non si tratta di concetti nuovi ma per altri Paesi si. Basti pensare che sulle 28 nazioni della Ue soltanto sei (Italia compresa) hanno già una magistratura specializzata. Fino ad oggi, la maggior parte dei minori indagati o imputati per un reato, dovevano affrontare il processo dinanzi al Tribunale Ordinario e, in caso di pena detentiva, si ritrovavano in carcere accanto a detenuti adulti. Per l’Europa tutto questo era normale. "Il testo realizza un perfetto equilibrio tra l’esigenza di accertare fatti e responsabilità di reato con le vulnerabilità e gli specifici bisogni dei minori - dice ancora l’europarlamentare Chinnici - Credo che la legge contribuirà al reinserimento sociale dei minori coinvolti e alla prevenzione delle recidive, come l’esperienza italiana dimostra". L’impegno a tutela dei minori comincia per la figlia del mai dimenticato Rocco Chinnici, magistrato ucciso dalla mafia, venti anni fa, quando, giovanissima, va a ricoprire il suo primo incarico come procuratore per i minorenni presso la procura di Caltanissetta. Esattamente dopo un ventennio, quel sogno professionale e di impegno nelle istituzioni ha raggiunto una dimensione europea con una legge per molti versi rivoluzionaria che porta il suo nome. Intervista a Bruno Contrada "doveva uccidermi la mafia e invece lo ha fatto lo Stato" di Giancarlo Perna Libero, 14 marzo 2016 L’ex superpoliziotto: "Hanno distorto le parole di Falcone e Borsellino per farmi passare da colluso. Ingroia ha creduto ai pentiti: lo disprezzo". Incarcerato per mafiosità e vilipeso in Italia, Bruno Contrada, classe 1931, è invece innocente secondo la giustizia Ue. Per la Corte europea dei Diritti dell’uomo il calvario giudiziario del superpoliziotto è stato un sopruso. E l’Italia deve rimediare. È l’attuale punto d’arrivo della nota vicenda iniziata 23 anni fa. Fino al 1992, Contrada era il più famoso detective antimafia di Sicilia. Ma il 24 dicembre di quell’anno venne arrestato a ridosso del cenone di Natale per dare ridondanza alla faccenda. Iniziava il suo annichilimento. Queste le tappe. Due anni e sette mesi di carcere preventivo, quattro processi - in uno dei quali è assolto da tutto, definitiva condanna per "concorso esterno". Altri due anni di galera, quattro di domiciliari, due condonati per buona condotta. A 81 anni, nel 2012, è tornato in libertà. Un quarto di secolo di angosce lo hanno ridotto una larva. Continua a gridare la sua innocenza e vuole la riabilitazione. Scrive un libro, fa qualche intervista ma è roba scritta sull’acqua. Poi, la sorpresa. La Cedu, dopo la bellezza di otto anni dal ricorso, con una micidiale doppietta ribalta i giochi: la vittima è Contrada; il carnefice la giustizia italiana. Una sentenza del 2014, condanna l’Italia per averlo tenuto in galera malato, violando i diritti umani. Con una seconda decisione, nel 2105, la Corte annichilisce la nostra giustizia trattandola da asina, nell’interpretazione più benevola, e da staliniana in quella più realista. Contrada infatti - sentenzia la Cedu - non poteva essere processato perché il reato contestato - concorso mafioso esterno - non era previsto dall’ordinamento all’epoca dei fatti. Nullum crimen, sine lege. L’Abc del diritto. Contrada, capelli bianchi, alto e un po’ curvo, mi accompagna nel suo studio, piccolo come un boudoir. Ha il tappeto, le poltrone di cuoio rosso e un capitale in libri. C’è l’intera Treccani e tutta la serie Utet degli Scrittori italiani e latini. "Orazio è il mio preferito", dice Contrada e, aprendo a caso, me ne legge e traduce un passo. C’è un busto in bronzo di Seneca e un cartello con la scritta: "Il libro non è morto e la carta neppure". "Leggere è il mio passatempo prediletto - dice. Specie Storia, quella napoletana in particolare. Sia io che mia moglie, insegnante di latino, siamo di Napoli ma viviamo a Palermo da quarant’anni. Abbiamo sempre abitato in questa casa popolare, prima in affitto, poi ho acquistato. Ho letto tutto Benedetto Croce storico. Ora, però, ho problemi di vista. Un ictus - una delle mie quindici patologie carcerarie - ha colpito gli occhi e mi stanco presto". "Quello è lei bersagliere?", chiedo indicando una sua foto col piumotto. Ogni spazio tra i libri è riempito da foto, attestati militari, polizieschi ecc. "Ho cominciato nell’Esercito, poi il concorso in Polizia e la laurea - racconta. Eravamo nove fratelli. Mio padre avvocato e combattente, faceva guerre e cause. Era un ardente mussoliniano. I valori della mia infanzia erano Famiglia, Dio e Patria". "Classici della destra", osservo. "Mi sono sempre sentito di destra - prosegue - ma non fascista come mio padre. Liberale. Nelle mie vene, oltre al sangue paterno, scorre quello di mio nonno socialista e del bisnonno liberale e antiborbonico". "Segue ancora la politica?", chiedo. "Ne sono sconcertato - risponde. Non vedo differenze tra Pd e Fi. Tutti uniformi, mandano avanti la baracca dello Stato, senza progetto". "Chi vota?", chiedo. "Non ho questo problema perché sono interdetto, causa condanna. Devo vedere che vota l’extracomunitario che ha appena avuto la cittadinanza e io, che ho sempre avuto l’amore per la Patria e lo Stato, non posso". E schiuma di rabbia. "Non conosco l’odio. Sono pervaso di indignazione". Com’è stilé. "Dopo essermi tanto prodigato per lo Stato mi è stata fatta un’inenarrabile ingiustizia. Mai chiesto la grazia perché mi aspettavo invece il "grazie" dello Stato". E ha ricevuto una pedata. "Io rispetto le istituzioni, tutte. Compresa per la magistratura, ci mancherebbe. Ma ho anche disprezzo per chi - nel mio caso - non ha servito le istituzioni nel modo corretto avendone il dovere". Diceva Richelieu: "Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò di che farlo impiccare". E ciò che le accadde? "Esatto. Se si vuole trovare qualcosa si trova, specie nella vita del poliziotto. Perché il mio mestiere era di restare con le mani pulite pur rimestando nel sudiciume della società". Suoi più accaniti accusatori furono il Capo della Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, e il pm Antonio Ingroia. "Caselli arrivava dal Piemonte senza conoscere nulla né della Sicilia, né della mafia. Così come irruppero nel 1861 i funzionari del Regno sardo. Gli concedo perciò qualche attenuante per ciò che mi è stato inferto". Ingroia è sicilianissimo. "E non gli concedo attenuanti". Quando parla di disprezzo pensa a tipi come lui? "Per disprezzo intendo non apprezzamento, non rispetto, non lode. Ingroia doveva capire la differente valenza tra le accuse che mi facevano criminali mafiosi - da me combattuti e arrestati - e le dichiarazioni in mia difesa di 140 uomini delle istituzioni che sfilarono nel processo". Cinque capi della Polizia, con quello in carica, Vincenzo Parisi, Capi del Sisde, generali, prefetti. Le toghe però dettero retta solo alle coppole pentite. Perché? "Bisognava dare sostanza giudiziaria al teorema della collusione tra mafia e Stato nelle sue varie espressioni: politica, incriminando Giulio Andreotti e Calogero Mannino; giudiziaria, con Corrado Carnevale; forze dell’ordine, incriminando Contrada, uomo della Polizia e del Sisde". Perché lei? "Avevo il physique du ròle come poliziotto più conosciuto di Palermo. Nelle mie previsioni c’era quella di lasciare la pelle per la mafia, non di essere ucciso civilmente dallo Stato". Dichiarò di essere stato amico di Paolo Borsellino ma la famiglia smentì fermamente. "Mai detto amico. Solo che tra me e il giudice c’erano ottimi rapporti professionali. Furono i parenti a dire che non ero suo amico per sottintendere che Borsellino diffidava di me". Secondo Antonino Caponnetto, pure Giovanni Falcone non la stimava. Raccontò che, dopo averle dato la mano, se la pulì. "Il giudice Caponnetto fu sbugiardato in tribunale: nella circostanza che aveva riferita, Falcone non c’era. Di Falcone ho elogi scritti". Perché queste fandonie? "Servivano a dare sostanza a un processo fondato sulla sabbia. Bisognava fare credere che tutti i caduti sotto il piombo della mafia diffidassero di me. Si facevano parlare i morti per fargli dire che mi consideravano un colluso. Provarono a mettermi contro anche Boris Giuliano ucciso anni prima da Leoluca Bagarella". Era suo amicissimo! "Ci chiamavano Castore e Polluce ed eravamo più che fratelli. Stesse scarpe e stesse cravatte perché compravamo tutto insieme negli stessi negozi. Sa cosa traspariva in tutta la mia vicenda processuale?". Ormai mi aspetto di tutto. "La domanda nell’aria era: perché non hanno ammazzato anche te, come Ninni Cassarà, Beppe Montana, Giuseppe Russo, Giuliano? Se non l’hanno fatto, è che eri d’accordo con loro". Bella domanda: perché non l’hanno fatto? "Ci avevano pensato. Mi raccontò il colonnello Russo che i mafiosi si riunirono per stabilire se uccidermi. Rinunciarono, dando di me questo giudizio: "È sbirro tinto ma non veste ‘e pupe". Ossia, è un poliziotto cattivo ma non inventa le accuse. Uno giusto, insomma". In cambio dì cosa, lei sarebbe stato colluso? "La sentenza esclude che l’abbia fatto per denaro ma non dice il perché. Come se fosse un mìo hobby". L’Italia ha ottemperato alla doppia condanna europea? "Ha pagato la piccola somma di denaro prevista. Ora deve annullare la illegale condanna a dieci anni. Ho fatto ricorso in Cassazione". Come si annulla un carcere già scontato? "Applicando l’art. 46 della Convenzione europea con l’eliminazione dei danni provocati dalla condanna". L’elenco? "Ingiusta carcerazione, ricostruzione della carriera, danni esistenziali e morali, le quindici patologie che ho contratte in galera. Più i danni alla famiglia. Mia moglie ha avuto una cardiopatia che la immobilizza. Mio figlio, Antonio, poliziotto, è caduto in una depressione che gli impedisce ogni attività". Le auguro giustizia, prima o poi. "L’uomo ha diritto ad averla sulla Terra, non dopo la morte". Mi porta in un’altra stanza piena di faldoni del processo, almeno cinquanta, e dice: "Vorrei dare fuoco a tutto. Ma non posso lasciare un nome infangato. Lotterò fino all’ultimo respiro". Depenalizzazione, strada in salita per le sezioni Unite di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2016 Esiste una "soluzione salvifica" per la depenalizzazione fondata sulla trasformazione del reato in illecito civile? Impegnate nella risposta a questo quesito saranno prossimamente le sezioni Unite della Cassazione - che dopo il rinvio voluto dalla Sezione V Penale con l’ordinanza 9-23 febbraio 2016 n. 7125, in assenza di un qualsiasi contrasto giurisprudenziale - dovranno risolvere i delicati nodi ermeneutici, generati dall’innesto del decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7, in vigore per la prima dal 6 febbraio scorso. Ebbene, nell’attesa del giudicato delle sezioni Unite la soluzione "salvifica" potrebbe essere quella di interpretare le norme del Dlgs n. 7 del 2016 nel senso che il giudice penale, in caso di degradazione della violazione penale in illecito civile, resta competente per il risarcimento del danno e la sanzione civile da applicare contestualmente, ma la tesi non è condivisa dall’Ufficio del massimario della Cassazione. Una lacuna che condiziona gli operatori - È il caso, però, di andare con ordine quando si parla di una disciplina già interessata da un processo di legificazione che appare "un coacervo lacunoso e contraddittorio". La Suprema corte si posto un problema molto sentito in queste settimane dagli operatori del diritto, cioè il problema relativo all’impatto del fenomeno abrogativo portato dal Dlgs n. 7 del 2016 sui processi pendenti, con particolare riguardo alle statuizioni civili di condanna pronunciate a favore della parte offesa, costituitasi parte civile. I due casi affrontati dalla sezioni Penali - I giudici della Suprema corte hanno emesso due sentenze, la 7124 e la 7125, che riguardano due vicende con un medesimo denominatore comune, cioè la verifica dell’impatto del Dlgs n. 7 del 2016 sui processi pendenti. Entrambi i reati di cui si sono occupati i giudici di legittimità (ingiuria e falsità in scrittura privata) sono stati infatti abrogati e sostituiti da un illecito civile sanzionato con una somma di denaro. Il Dlgs 7/2016 e le sentenze non irrevocabili di condanna - Nella sentenza n. 7125 del 2016, la Suprema corte premette che la questione dell’impatto sulle statuizioni civili dell’abrogazione della norma incriminatrice è stata ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità con specifico riguardo all’ipotesi della revoca della sentenza di condanna divenuta definitiva. E richiama, dunque, gli argomenti già spesi al riguardo, da ultimo nella cennata decisione n. 7124 del 2016. Appura, tuttavia, come nel caso sub iudice questi principi non possano essere applicati tout court, poiché si tratta di una fattispecie in cu i l’abolitio criminis è intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (ostandovi il combinato disposto di cui agli articoli 185 del Cp e 74 e 538 del Cpp). Esclusa la possibilità di far governo delle regole utilizzate nella sentenza n. 7124 del 2016, il collegio della Suprema corte osserva che, venendo meno la possibilità di una pronuncia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, verrebbe meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito (ciò in conseguenza dell’abrogatio cum abolitio). I giudici di Cassazione, al cospetto di questa soluzione, non possono esimersi "dall’evidenziare come i contenuti del Dlgs 7/2016, così come quelli del "parallelo" del Dlgs n. 8/2016, rivelino anche la possibilità di altre ipotesi, profilandosi così la concreta possibilità di contrasti interpretativi in grado di generare sperequazioni applicative". Premettono che il Dlgs n. 7 del 2016, da una prima lettura, realizza, come il Dlgs n. 8 del 2016, un intervento di depenalizzazione; lo rivelano diversi elementi: la configurazione di fattispecie sanzionatorie specificamente tipizzate ricalcando il contenuto delle norme penali abrogate; l’autonomia delle sanzioni rispetto al risarcimento del danno e la destinazione erariale dei loro proventi. Al lume di questo rilievo, Dlgs n. 7 e Dlgs. n. 8 sono risvolti applicativi di un medesimo istituto (la depenalizzazione) seppur con metodologie trasformative diverse (il Dlgs n. 7 degrada il reato in illecito civile; il Dlgs n. 8 patrimonializza l’illecito penale mediante trasformazione in illecito amministrativo). Stando così le cose, alla Suprema corte pare che l’opera legislativa, così considerata nel suo complesso, presenti delle aporie: infatti, entrambi i decreti contengono una disciplina transitoria (rispettivamente contenuta nell’articolo 12 del 7/2016 e nell’articolo 8 del Dlgs 8/2016) il cui tratto comune è costituito dall’applicabilità tanto delle sanzioni amministrative relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dei due decreti, salvo che in relazione ai medesimi non sia già intervenuta una pronuncia definitiva all’esito del procedimento penale, della quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice dell’esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al quarto comma dell’articolo 667 del Cpp. Ciò nondimeno, solo per il decreto 8/2016 (e non anche per il decreto 7/2016) è prevista una ulteriore disposizione di diritto transitorio (articolo 9) al fine di disciplinare, nell’ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già adottate. Attenuanti generiche anche se l’imputato nega la propria responsabilità Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2016 Reato - Circostanze attenuanti generiche - Confessione dell’imputato e protesta di innocenza - Valutazione ai fini della concessione del beneficio. Ai fini della concessione delle attenuanti generiche mentre la confessione dell’imputato può essere valutata come elemento favorevole, per contro, la protesta d’innocenza, pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole alla concessione stessa, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l’efficacia delle prove di reità. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 28 dicembre 2015 n. 50565. Reato - Circostanze attenuanti generiche - Diritto di mentire dell’imputato - Diniego delle attenuanti - Legittimità - Esclusione. Non può essere esclusa la concessione delle attenuanti generiche per il solo fatto che l’imputato abbia persistito nel negare la propria responsabilità e quella dei complici rimasti ignoti. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 14 novembre 1988 n. 10962. Reato - Circostanze - Attenuanti generiche - Mancanza di resipiscenza - Rilevanza ai fini del non riconoscimento delle attenuanti generiche - Condizioni. In mancanza di resipiscenza, ancorché desumibile dal comportamento processuale tenuto dall’imputato, si può giustificare il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in quanto confermativa di una personalità negativa e non in quanto espressione di scelte difensive di per sè non valutabili e peraltro riconducibili all’esercizio del diritto di difesa. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 9 dicembre 1993 n. 11302. Reato - Circostanze attenuanti generiche - Omessa confessione dell’imputato - Diniego del beneficio della concessione delle attenuanti - Legittimità - Esclusione. Il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche non può essere fatto discendere dalla mancata confessione dell’imputato, poiché questi, come ha diritto di non rispondere, ha pure diritto di mentire nel processo, senza che da ciò possano derivargli conseguenze negative. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 giugno 1984 n. 7105. Il giudice può ascoltare in camera di consiglio le intercettazioni su supporti digitali Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2016 Processo penale - Prove - Ascolto di supporti analogici o digitali recanti le registrazioni in camera di consiglio - Utilizzo dei risultati anche in caso di precedente rigetto di richiesta di ascolto in contraddittorio - Legittimità. È sempre consentito al giudice l’ascolto e l’utilizzo ai fini della decisione in camera di consiglio dei supporti analogici o digitali recanti le conversazioni intercettate, debitamente acquisite e trascritte, pur a fronte di un precedente provvedimento di rigetto dell’istanza della difesa avente ad oggetto la richiesta di ascolto in contraddittorio e in pubblica udienza degli stessi supporti, poiché tale attività non è qualificabile in termini di acquisizione o istruzione probatoria. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 9 settembre 2015 n. 36350. Processo penale - Prove - Ascolto di supporti analogici o digitali recanti le registrazioni in camera di consiglio - Utilizzo dei risultati dell’ascolto - Legittimità. È sempre consentito al giudice l’ascolto in camera di consiglio dei supporti analogici o digitali recanti le registrazioni, debitamente acquisite e trascritte e l’utilizzo ai fini della decisione dei risultati dell’ascolto medesimo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 23 maggio 2013 n. 22062. Processo penale - Prove - Ascolto dei nastri contenenti l’incisione delle conversazioni in camera di consiglio - Legittimità - Utilizzazione del contenuto delle conversazioni - Legittimità. Non è precluso al giudice l’ascolto in camera di consiglio delle bobine magnetiche sulle quali sono incise le conversazioni intercettate, così come l’utilizzo, ai fini della decisione, dei risultati dell’ascolto stesso, anche se ciò avvenga a seguito di rigetto dell’istanza della difesa concernente l’audizione dei nastri in dibattimento. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 16 febbraio 2010 n. 6297. Processo penale - Prove - Ascolto diretto delle registrazioni - Modalità di apprezzamento della prova - Contradditorio - Esclusione. Il giudice può procedere con l’ascolto diretto delle registrazioni delle conversazioni telefoniche intercettate, benché disponga agli atti della relativa trascrizione, senza che questa modalità di apprezzamento della prova documentale debba svolgersi nel contraddittorio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 20 gennaio 2009 n. 2409. Reati sessuali, utilizzabili le dichiarazioni de relato sul minore violato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 18 gennaio 2016 n. 1620. In tema di reati sessuali, sono utilizzabili le dichiarazioni de relato aventi a oggetto quanto appreso dal minore vittima di abusi sessuali non esaminato nel giudizio solo ove all’esame di questi non si faccia luogo in ragione dell’accertamento di possibili danni, anche transeunti, alla sua salute, collegati all’assunzione dell’ufficio testimoniale, non essendo di contro sufficiente la previsione di un mero disagio da essa derivante. Occorre cioè a tal riguardo il supporto di un motivato parere reso da professionista competente che consenta di affermare che il minore ha una personalità così fragile da poter essere qualificata in termini di infermità ai sensi dell’articolo 195, comma 3, del Cpp, ovvero che dalla testimonianza possono insorgere danni, anche transeunti, alla sua salute. Lo ha precisato la corte di Cassazione con la sentenza 18 gennaio 2016 n. 1620. Le precisazioni della Corte - La Cassazione ha peraltro chiarito che, per l’applicabilità di tale principio, che legittima la non escussione del minore quale teste diretto solo nella ricorrenza delle condizioni di potenziale pregiudizio di cui all’articolo 195, comma 3, del Cpp, è necessario che l’imputato abbia sollecitato l’esame del minore (come impostogli dal comma 1 dello stesso articolo 195), con la conseguenza che l’omesso esame della vittima dell’abuso, se non sollecitato appunto dall’imputato, si riflette solo sulla tenuta logica e sulla completezza della motivazione. Pertanto, qualora l’imputato abbia omesso di chiedere l’esame del minore, non può ipotizzarsi alcuna inutilizzabilità delle dichiarazioni, né a tale omissione può ovviarsi con la richiesta di rinnovazione anche parziale del dibattimento in appello, perché questa sarebbe ammissibile solo nell’ambito circoscritto dall’articolo 495 del Cpp, concernente prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado (articolo 603, comma 2, del Cpp). Una tale disciplina, ha precisato la Corte, non contrasta con l’articolo 111 della Costituzione, in quanto l’ordinamento ammette che la formazione della prova avvenga senza contraddittorio quando vi è il consenso dell’imputato. Proprio tale consenso (che si esprime attraverso la rinuncia alla facoltà di interrogare il testimone diretto) esclude, inoltre, sempre secondo la Corte, che la condanna fondata sulla sola escussione dei testimoni de relato contrasti con l’articolo 6 della Cedu, la cui violazione sarebbe ravvisabile solo quando l’imputato si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di esaminare il testimone diretto. La paura di una follia che potrebbe abitare anche in casa nostra di Paolo Graldi Il Messaggero, 14 marzo 2016 Dice lo psichiatra: "Delitto illeggibile" e illumina la scena del delitto del Collatino con l’irrompervi di un Narciso maligno che deflagra in una violenza distruttiva alimentata da un desidero irrefrenabile di dominio sugli altri. Per schiacciarli, sopraffarli, annullarli. Scendono in campo gli specialisti del ramo, criminologi e scrutatori d’anime, nei salotti televisivi, sulle colonne dei quotidiani: tutti a cercare una spiegazione plausibile e convincente, in grado di inquadrare, sia pure clinicamente, quei giorni di orrore, di droga e di morte, impegnati a scandagliare la mente di quei giovani sciagurati, imbevuti di alcol e imbottiti di cocaina, in un crescendo di ludica (non lucida) follia, fino allo sgozzamento della vittima predestinata, attirata nel covo "per vedere che effetto che fa" ucciderla lentamente. E così è stato. Luca Varani, racconta l’esito dell’autopsia, è morto dissanguato, dentro un corpo sul quale i suoi due aguzzini hanno infierito con coltelli da cucina e scagliandosi sul suo cranio con un martello. La scena del delitto, raccontata dagli stessi autori del crimine, non si sa ancora quanto premeditato, Manuel Foffo, il padrone di casa, e Marco Prato, l’amico gay intrappolato in una dipendenza non solo per la droga ma anche per il sesso estremo, amante dei travestimenti trash, succube e insieme e saltato dalla trasgressione senza limiti che gli veniva imposta ma che, anzi, accettava e cercava. Weekend di paura che si ripetevano, sempre più oltre il limite fisico e l’altrove della mente. Un sodalizio segreto che diventava rito macabro e che tendeva a coinvolgere altri soggetti, rastrellati via cellulare con chiamate suadenti o sms allettanti, per allargare il cerchio marcio della follia. Ragazzi passati da quell’appartamento di via Giordani e poi, per diverse ragioni, sfuggiti alla trappola che si è poi rivelata fatale per Luca Varani, adescato con la promessa di un compenso, centocinquanta euro più il buffet da sballo approntato chiamando e richiamando rifornimenti del pusher, millecinquecento euro di cocaina. Droga che, si sa, circola senza problemi in certe parti della città ma che, si scopre ora, è proprio come chiedere un bicchier d’acqua e si viene serviti anche in locali che andrebbero altrimenti sorvegliati con il "biglietto Vip". Ma è il movente di questa orgia tra maschi e simil-maschi finita nel sangue che non appare con chiarezza e contribuisce all’interesse davvero imponente verso il caso. Un fatto che va assai oltre la cronaca nera, al di là dell’omicidio intriso di sesso e di sangue, il gorgo infernale della droga e delle sue possessioni, eventi che si liquidano come squallide storie che non fanno fenomeno e non nutrono statistiche. No, in questo caso, l’eccezionalità dell’interesse che suscita è nutrito da domande inquietanti che, con le dovute differenze, si potrebbero formulare in molte famiglie normali, o almeno famiglie che vivono nella normalità. I racconti di Manuel Foffo e di Marco Prato, le silhouette dei comprimari e delle comparse di questo dramma, svelano una normalità dietro la quale vi è ben altro che il disagio dei giovani, il conflitto con i genitori, la insensata sottovalutazione dei rischi di consumare cocaina e alcol fino ad annientarsi. Foffo ad un certo punto, quasi a disegnare sul cielo nero del suo destino prossimo venturo un movente accettabile e credibile, dispiega a verbale l’odio crescente verso il genitore, il padre Valter, lo stesso al quale ha confessato il delitto, che lo ha portato dai carabinieri, che lo ha descritto in tv da Bruno Vespa, come un ragazzo modello, certo con qualche leggera devianza, ma veniale, incidentale, venialissima. E invece lui, il figlio Manuel, che racconta del raptus omicida che lo ha pervaso allorché, chiacchierando con Marco Prato il discorso finisce sulla famiglia, sui genitori. Vien fuori che odia il padre fino a desiderarne la morte per sua stessa mano, "se fosse qui lo ucciderei all’istante", che il risentimento risale a dieci anni fa quando il genitore gli tolse il motorino, "è mio", per comprargli una Yaris, "mentre io volevo un Maggiolino". Neanche la madre separata (abita nell’appartamento sotto quello del delitto) è amata, tutt’altro. Si salva il fratello "mi dispiace per lui, per il dolore che gli procuro". Ma anche Marco ce l’ha coni genitori, li vive come nemici: "Mi hanno trovato un appartamento per allontanarmi da loro". Lo scrutatore d’anime che invoca la discesa dall’inferno quotidiano il Narciso Maligno ci pensa su e poi sentenzia che non basta l’odio per la famiglia per giustificare o anche solo per comprendere tanta macelleria e quasi invita ad allungare lo sguardo, a guardare per vedere, se anche intorno a noi il disagio represso dei giovani che sfuggono ai controlli del dialogo e degli affetti, ha messo radici profonde, più velenose e aggressive di quanto non si possa constatare a prima vista. È la terribile domanda che attraversa il caso a tenerne alta l’attenzione e la tensione mediatica: è un caso isolato o il malessere che si rifugia nella droga, nell’alcool e cerca nella sopraffazione l’affermazione del sé è materia inafferrabile e tuttavia presente, vicina. Dove abita questa follia? Abita anche in casa nostra? In quella del vicino? Quel giovane, modello di giovane, ha dentro un fuoco che lo divora e lo trasforma in una sfera di odio puro, che rotola tra i nostri piedi e noi non ce ne accorgiamo finché non arriva la Morgue? Non basterà il processo, la verità giudiziaria, per rispondere ai mille interrogativi del "Caso del Collatino". Ci vuole ben altro. Sardegna: raccolta di libri da inviare ai detenuti delle carceri della regione di Antonio Serreli L’Unione Sarda, 14 marzo 2016 Una rinnovata biblioteca per garantire nuovi stimoli e incentivare la consuetudine della lettura nei detenuti degli istituti penitenziari che hanno intrapreso un percorso di crescita culturale. È questo l’obiettivo del progetto "Libertà nella lettura", promosso dal Rotary Club di Quartu, presieduto da Marco Argiolas, e condiviso dall’amministrazione comunale. Il circolo, di concerto con il Comune, si occuperà anche della catalogazione e del riordino dei testi raccolti. La Giunta Delunas ha infatti patrocinato la raccolta di libri organizzata per oggi sino alle 18,30 in piazza Sant’Elena, in contemporanea con diverse altre piazze dell’Isola (Alghero, Bosa, Cagliari Est, La Maddalena, Macomer, Nuoro, Ogliastra, Olbia, Oristano, Ozieri, Sanluri Medio Campidano, Sassari, Sassari Nord, Sassari Silki, Siniscola e Tempio), con l’obiettivo di coinvolgere tutti quei cittadini che volentieri sono disposti a rinunciare a qualche libro usato per regalare un momento di piacere ai carcerati amanti della lettura, dando così valore a giornate troppo spesso insulse o insignificanti. Il materiale librario e multimediale consegnabile include saggi (storia, letteratura, scienze sociali, scienze naturali, filosofia, ecc.), enciclopedie e dizionari (livello medio/alto), testi universitari, romanzi (italiani, stranieri, in lingua originale), fumetti (d’autore), Cd musicali, Dvd (film e documentari). Non vengono invece ritirati i testi scolastici, le enciclopedie a fascicoli, i quotidiani e i settimanali, i libri eccessivamente usurati, le dispense e i testi fotocopiati, i Cd e i Dvd masterizzati, le videocassette e le audiocassette. Genova: manca la Rems, detenuto psichiatrico "parcheggiato" in ospedale di Giuseppe Filetto La Repubblica, 14 marzo 2016 Liguria senza strutture Rems e Castiglione delle Stiviere non può accoglierlo. La Liguria è sprovvista di Rems, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, cosicché i malati psichici considerati criminali perché si sono macchiati di pesanti reati, ritenuti socialmente pericolosi e che andrebbero internati in strutture vigilate come alternativa al carcere, finiscono negli Spdc (Servizi Psichiatrici Diagnosi e Cura): nei reparti ospedalieri privi di vigilanza, che sfuggono ai controlli della polizia penitenziaria. A voler essere cauti, si può dire che i soggetti sottoposti alla misura cautelare, diventano "liberi cittadini". Quantomeno, come tutti i ricoverati, possono circolare tra i reparti e dentro le mura ospedaliere, con i rischi che ne derivano. D’altra parte, i pazienti negli Spdc non sono controllati, a meno che non siano assoggettati al Trattamento Sanitario Obbligatorio. Una situazione che, a sentire il procuratore capo (facente funzioni) Francesco Cozzi, nella nostra regione è diventata drammatica e fortemente a rischio. Tant’è che l’altro ieri uno straniero, che secondo il Tribunale di Sorveglianza doveva essere internato in una Rems, per mancanza di posto è finito all’Spdc dell’ospedale di Imperia. Una condizione che oltre all’esposizione ad rischio, mette la Regione Liguria a repentaglio di commissariamento. Come accaduto al vicino Piemonte. Per capire, occorre ripercorrere le tappe della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (avvenuta il 31 marzo del 2015) e ancora prima dei manicomi criminali, entrambi sotto l’ombrello del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, quindi vigilati dalle guardie carcerarie. In seguito sono state aperte le Rems: strutture internamente seguite dal personale socio-sanitario, esternamente controllate dalle Forze dell’Ordine attraverso accordi tra le prefetture e le Asl. La Liguria non ha residenze di questo tipo ed ha stipulato una convenzione con Castiglione delle Stiviere. Tra gli internati ci sono Matteo Biggi, che il 12 novembre 2012 uccise il suo omonimo, portuale Culmv; Ivano Paganetto, di 38 anni, che nel 2010 ammazzò il padre; Danilo Pace, che nel settembre 2008 con una coltellata fece fuori il poliziotto Daniele Macciantelli, di 36 anni. "Prima avevamo la disponibilità di 10 posti, ora di 19, ma non bastano", ripete il procuratore. Che sabato scorso ha cercato di rendere esecutiva la misura del Magistrato di Sorveglianza, rivolta al soggetto già sottoposto alla libertà vigilata presso una comunità. L’uomo, però, ha dato segni comportamentali di aggravamento, tanto che il giudice ha dovuto aumentare la misura e destinarlo ad una Rems. Cozzi, però, si è visto respingere la richiesta di ricovero da Castiglione delle Stiviere, per assenza di posti, così da rendere la misura ineseguibile. Ed ha dovuto ripiegare sull’Spdc. "Non è il primo caso, ne abbiamo avuto altri - precisa -. Purtroppo, in Liguria abbiamo una domanda superiore all’offerta. Non voglio fare polemica, ma dobbiamo metterci attorno ad un tavolo e discutere". Il richiamo è all’Assessorato Regionale alla Sanità, competente all’allestimento delle Rems e che ne ha una in progetto a Calice al Cornoviglio. Parma: la direzione del carcere autorizza la celebrazione ai Testimoni di Geova parmatoday.it, 14 marzo 2016 Il Garante Roberto Cavalieri: "Per il carcere di Parma si tratta della prima volta che viene autorizzata una celebrazione per una fede diversa da quella Cattolica nonostante la grande varietà di provenienze geografiche, culturali e religiose della popolazione detenuta". La Direzione del carcere di via Burla di Parma ha autorizzato i testimoni di Geova a celebrare la commemorazione della morte di Gesu Cristo il 23 marzo, dopo che un ministro di culto si era rivolto al Garante dei Detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri per chiedere la possibilità di celebrare. Una richiesta che i Testimoni di Geova portano avanti la richiesta dal 1975. "La recente decisione della Direzione del carcere di Parma -scrive il Garante- di autorizzare la commemorazione della morte di Gesù Cristo da parte della Congregazione Cristiana dei testimoni di Geova prevista per il prossimo 23 marzo segna un importante passo avanti nel rispetto della manifestazione della libertà religiosa dei detenuti prevista dalle norme penitenziarie. Per il carcere di Parma si tratta della prima volta che viene autorizzata una celebrazione per una fede diversa da quella Cattolica nonostante la grande varietà di provenienze geografiche, culturali e religiose della popolazione detenuta. La presenza religiosa nel penitenziario della città vede attivi operatori delle fedi dei cattolici romani, della Chiesa avventista e dei Testimoni di Geova e svolgono attività di sostegno religioso, ascolto e accompagnamento spirituale. Nel corso del 2014 uno dei ministri di culto dei Testimoni si era rivolto al Garante dei detenuti esponendo le difficoltà relative allo svolgimento della commemorazione (che è la più importante celebrazione annuale della loro confessione). L’attività di condivisione della richiesta da parte del Garante con le autorità del carcere ha permesso il raggiungimento di una intesa autorizzativa che giunge per la prima volta dopo le annuali richieste del movimento dal 1975. All’evento è prevista la presenza di quattro detenuti oltre ai 3 ministri di culto dei Testimoni che operano regolarmente in carcere". Padova: i detenuti diventano attori e cantanti per la festa di Telefono Azzurro di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 14 marzo 2016 Il sorriso, generoso e stanco, della giovane mamma che allatta seduta sulla panchina davanti all’ingresso della Casa di reclusione Due Palazzi, dove circa 800 detenuti stanno scontando una pena definitiva: "È la terza volta che finisce dentro, e per me questa è l’ultima: abbiamo due figli, o cambia o per me è finita": la sintesi è efficace e racconta una vita intera. Le lacrime del padre, che in quel carcere sta da anni, con il suo bambino aggrappato addosso; la moglie arrivata a trovare il marito con la figlia piccolina che non smette di singhiozzare: non riesce a stare in braccio a quel papà che poco conosce. La coppia con il figlio adolescente, tutti e tre allacciati in un groviglio di braccia che si fanno largo nell’angoscia. L’energia, potente di umanità e rattrappita di costrizione, che si respira nelle prigioni, ieri ha trovato ossigeno. Lì, nell’enorme, mesta e gelida palestra del Due Palazzi, dove l’instancabile gruppo padovano di Telefono Azzurro, come ogni anno, ha organizzato la festa del papà. I cinquanta i volontari, coordinati da Concetta Fragasso, che gestiscono tre ludoteche nei due carceri (penale e circondariale), hanno messo in piedi, con la direzione del Due Palazzi, una mezza giornata durante la quale i detenuti hanno potuto incontrare mogli e figli in uno spazio diverso dal parlatorio. Un angolo di vita normale, coni tavolini dove mangiare assieme, un buffet, le pizze, il gruppo clown di Montà e uno spettacolo. Lo spettacolo di fiabe "A mille ce n’è": una quarantina di detenuti in scena, quelli del Teatro Carcere che Maria Cinzia Zanellato con ostinata e sconfinata passione porta avanti da anni (anche ora che la Regione ha tagliato quei quattro euro che stanziava per un progetto che in un carcere fa la differenza, e ne fa tanta) e quelli del coro Canto Libero (messo in piedi dall’associazione Coristi per Caso) e diretto da Giuseppina Casarin. In scena un gruppo di detenuti da mezzo mondo uniti in un gioco fatto molto sul serio. Uomini che stanno camminando oltre quello che erano. Che cambiano anche attraverso il fare teatro, le prove, la disciplina di gruppo, l’imbarazzo da superare, i talenti da tirare fuori e chi mai l’avrebbe detto, la capacità di tornare a comunicare, ché il carcere senza spiragli rende muti. E sul palco arriva Raffaele che canta "Non insegnate ai bambini" di Gaber e si commuove, ci sono Slavisa che trascina tutti con i bonghi, Juan Carlos, Arbi, Tonino e Haitam che mimano una partita di calcio, Mario (che in carcere si è laureato, ha scritto libri e ora frequenta un master), Luca e Mahmudcon la storia del "Cavallo recioto", Lillo vestito da pagliaccio. E poi Ahamed, Besmir, Said, Antonio e gli altri. In un unico respiro di altro orizzonte. Milano: a Bollate il critico dal New York Times "vale la pena di andare InGalera" di Roberta Rampini Il Giorno, 14 marzo 2016 "Per la cucina italiana vale la pena andare in galera". È l’azzeccatissimo titolo dell’articolo pubblicato dal New York Times lo scorso 5 marzo in cui si parla del ristorante "InGalera" aperto ad ottobre all’interno della casa di reclusione di Bollate, il primo in Italia all’interno di un carcere. Nell’articolo l’inviato del quotidiano statunitense Jim Yardley racconta la sua esperienza all’interno del ristorante in compagnia di "Ms Silvia Polleri", presidente della cooperativa Abc La Sapienza a Tavola, ideatrice del ristorante, che lui definisce "visionaria". "InGalera è un trionfo vertiginoso - scrive il giornalista - più per il locale che per il cibo", salvo poi plaudire anche quello. E poi aggiunge, "è difficile immaginare una storia di successo culinario più inconsueta o un esperimento più intrigante di riabilitazione dei detenuti". Nell’articolo si celebra davvero tutto: dal design del ristorante, "elegante, arioso e moderno, con le pareti decorate dalle locandine di famosi film come Fuga da Alcatraz con Clint Eastwood". All’eleganza e professionalità dei detenuti che lavorano in cucina sotto la guida dello chef Ivan Marzo (non detenuto) e tra i tavoli in sala, "vestiti con cravatta, camicia bianca e gilet nero". L’inviato si fa raccontare pregiudizi e soddisfazioni dei detenuti, "è una questione d’orgoglio, un modo per rendere felici le persone e mostrare loro che anche i detenuti possono cambiare ed evolversi", spiega Mirko. E poi ancora descrive la clientela eterogenea: un ex presidente di banca, famiglie intere con bambini e un ex Miss Italia e molti ancora che verranno, tanto che per la cena il ristorante è al completo per tutto il mese di marzo. Nell’articolo non mancano cenni al prezzo, "per avere prezzi onesti, tocca venire in galera" e riferimenti ai giudizi lusinghieri su TripAdvisor che da una valutazione di 4.5 su 5 stelle. Commenti anche sul carcere più stellato d’Italia, all’avanguardia per il trattamento dei detenuti e i suoi programmi di riabilitazione e ai problemi del sistema carcerario italiano, per cui il nostro Paese ha ricevuto un richiamo ufficiale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. "Mr Parisi ha detto che solo uno dei detenuti con il permesso d’uscita per andare a lavorare non è rientrato nel tempo stabilito, ma poi dopo due giorni è tornato in carcere", racconta Yardley. L’articolo oltreoceano è l’ennesima soddisfazione per Silvia Polleri che ogni sera, prima dell’arrivo dei clienti ricorda ai detenuti-camerieri di "camminare dritto". Una scommessa vinta, per il momento, a dispetto di quanti "mi guardavano come se fossi pazza quando ho avuto l’idea del ristorante". E infine la soddisfazione della Polleri, "ecco la rivoluzione - commenta indicando la sala piena all’inviato del New York Times - prima, la maggior parte di queste persone neanche sapeva dov’era, il carcere". Insomma uno "strumento di marketing" che ha traghettato il carcere di Bollate negli Usa. Libri: "Sindona. Biografia degli anni Settanta", di Marco Magnani recensione di Bruno Manfellotto L’Espresso, 14 marzo 2016 Relazioni criminali, politica imbelle. E una corruzione che non è ancora tramontata. Quella mattina di luglio del 1979, dietro la bara di Giorgio Ambrosoli, ucciso dalla mafia per ordine di Michele Sindona, lo Stato non c’era. Con l’eccezione di Paolo Baffi, che di lì a poco - umiliato da accuse infondate - lascerà la carica di governatore della Banca d’Italia, e dei due magistrati che indagavano sul crac della Privata, la banca di Sindona i cui segreti erano stati svelati proprio da Ambrosoli. Il mandante sopravvivrà alla sua vittima e si suiciderà nel carcere di Voghera nel 1986, esattamente trent’anni fa, inscenando la sua ultima, tragica farsa: passare per vittima di un omicidio. Del suo impero non resterà niente, ma quell’insieme di relazioni criminali, politica imbelle, corruzione che stava generando il nuovo re della finanza italiana, non scomparirà, continuerà anzi a produrre i suoi effetti. Con altri protagonisti. Segnando per sempre il destino del Paese. Ecco, forse è questa la chiave di lettura del bel libro - insieme saggio e romanzo giallo - che Marco Magnani, economista e storico, non a caso ha intitolato "Sindona. Biografia degli anni Settanta" (Einaudi, pp.160, € 21), perché questa è non solo la storia di un ambizioso faccendiere che lascia la Sicilia per dare l’assalto a Milano e al "salotto buono", ma l’affresco di una stagione in cui, grazie alla resa della politica, dettano legge poteri occulti, bande criminali, servizi segreti, spiriti eversivi. Tutti uniti nel fare di un uomo spregiudicato lo strumento consapevole dei loro traffici. Magari con la benedizione del Vaticano. Il fenomeno Sindona nasce nei primi Sessanta, gli anni del Piano Solo, del fallimento dell’apertura a sinistra, del sogno infranto della programmazione. Ed esplode nei Settanta, segnati dal terrorismo nero e dalle Br, dalle guerre di Cosa Nostra e dalle manovre della P2, da scandali politico-finanziari (Lockheed, Eni-Petromin, petroli) e dalla prime tempeste monetarie. In questa "grande pestilenza" (Guido Carli), Sindona sguazza da par suo alimentandone i vizi peggiori: mentre costruisce il suo impero - Banca Unione, Sviluppo, Finambro, Banca Privata - aiuta gli imprenditori del boom a evadere il fisco, porta i loro capitali all’estero, sfonda negli Usa, finanzia generosamente la Dc, si allea con la massoneria e con la finanza cattolica (l’Ambrosiano di Roberto Calvi), diventa l’uomo di riferimento dello Ior e dei suoi traffici. Di questa fase oscura che durerà a lungo - solo oggi la Chiesa ha messo mano allo Ior - diventa il simbolo. Raccomandato all’inizio dal banchiere dei banchieri Raffaele Mattioli, apprezzato da Enrico Cuccia (che poi diventerà il suo più acerrimo nemico e ne riceverà in cambio minacce mafiose), Sindona incuriosisce (ma per poco) perno Cesare Merzagora ed Eugenio Scalfari che in lui intravedono l’arma per fermare Eugenio Ces, primo campione di quell’intreccio tra impresa pubblica, politica e affari che tuttora avvelena la storia d’Italia. Ma per paradosso la sua "grandezza sinistra" (ancora Carli) si manifesterà proprio quando il suo impero crollerà e il fallimento della Franklin Bank e della banca Privata coinvolgerà 125 società di undici Paesi legate tra loro da holding basate nei paradisi scali. Per salvarsi dall’inevitabile crac e dalla galera, Sindona implora Giulio Andreotti, mette in moto Gelli, arma un sicario di Cosa Nostra per far fuori Ambrosoli. Intanto giudici compiacenti arrestano Mario Sarcinelli, numero tre della Banca d’Italia, sulla base di accuse ridicole e spingono Baffi alle dimissioni. Già, ma che cosa favorì il sistema Sindona? Innanzitutto un mercato chiuso, poco avvezzo alla concorrenza, dominato da banche pubbliche condizionate dalla politica, nel quale Sindona irruppe con metodi che sarebbero diventati usuali anni dopo con la globalizzazione della finanza. Anche allora, come oggi, gli organi di Vigilanza faticavano ad adeguarsi ai nuovi trucchi; e comunque, allora come oggi trovavano sulla loro strada timori e prudenze: la Vigilanza, per esempio, segnalò le clamorose violazioni firmate Sindona, ma Carli, preoccupato delle ricadute sul credito, fece di tutto per tenere lo scandalo in famiglia secondo una prassi cara alla Banca. Le denunce giunsero anche alla Procura di Milano, ma non ebbero seguito. Se questo avvenne, sostiene Magnani, è anche perché proprio allora i grandi partiti cominciavano a mostrare una debolezza che diventerà cronica. La Dc dorotea foraggiata da Sindona era percorsa da dissidi e scissioni interne; il Pci, coinvolto nella "solidarietà nazionale", sottovalutò Sindona, e comunque - confessò Luciano Barca a Pierluigi Ciocca - non aveva chiaro se Andreotti fosse "un diavolo o un angelo". Come altre volte, faceva premio il realismo politico. Le conclusioni di Magnani sono amare. È allora che comincia il declino della cultura repubblicana, si forma la "versione patologica del capitalismo relazionale" all’italiana che negli anni Ottanta si finanzia con la spesa pubblica, non scompare con Tangentopoli e persiste no a oggi. Sul bene comune vince il disprezzo delle regole che istituzioni e politica non sanno difendere. Insomma, se Sindona fu sconfitto e il pericolo evitato, lo si deve solo a poche persone tenaci e determinate. Oggi ce ne sarebbe un gran bisogno. La costituzione e la difesa dei diritti, se i ragazzi scoprono l’empatia dei giusti di Alessandra Ballerini La Repubblica, 14 marzo 2016 In un incontro coi bimbi di una scuola poche settimane fa, mentre si parlava insieme all’amico scrittore Fabio Geda, di diritti, profughi e solidarietà, una spavalda alunna, sollecitata dalla nostra domanda circa la definizione della parola "empatia", con la mano ancora alzata ha prontamente risposto: "è stare con entusiasmo dalla parte di qualcuno". Abbiamo sorriso, noi adulti, sbalorditi e fieri di una definizione cosi precisa e limpida. Tra me ho pensato che questa definizione potrebbe a volte calzare perfettamente con la mia professione. Pochi giorni dopo, in un altro incontro organizzato dalle insegnanti del Liceo Marconi-Delpino di Chiavari insieme all’avvincente prof. Aime, l’ex ministro Fernanda Contri ha incantato le classi, spiegando con inimitabile passione il senso stesso dei diritti fondamentali e della loro universalità. Ha ricordato ad una rapita platea di ragazzi le ragioni per le quali si deve amare e difendere la nostra Costituzione (che l’ex magistrata della Corte costituzionale ha svelato custodire sul comodino insieme alla bibbia - proprio come don Gallo - perché "in quelle pagine si trovano sempre le risposte"): perché in essa sono enunciati con impareggiabile nitidezza i diritti e le libertà di ognuno e di tutti. Le sue parole e la lettura di alcuni articoli hanno rinsaldato, in chi l’ascoltava, l’entusiasmo che dovrebbe essere appunto ingrediente imprescindibile dell’empatia. Non si sta dalla parte di qualcuno, non lo si difende, non si sopportano le sue sofferenze, non si sostengono i suoi diritti, se non con forza e in qualche modo con gioiosa determinazione. E l’entusiasmo dell’essere empatici non deriva necessariamente dal credere di fare ciò che si deve (la mera obbedienza quasi mai rallegra) ma dal "sentire" che tra noi e l’altro dalla cui parte si decide di schierarsi e battersi, non c’è una grande differenza. O quanto meno non ce n’è nei rispettivi diritti e nella loro necessaria difesa. Si tutelano i diritti degli altri per proteggere i propri, perché nessuno li debba mai mettere in discussione ai danni di alcuno. Da qui deriva, più o meno inconsapevolmente, l’entusiasmo degli empatici. Il 6 marzo si è celebrata anche la loro festa, ovvero la giornata delle donne e degli uomini Giusti, delle persone naturalmente empatiche, che non si sono voltate dall’altra parte quando è capitato loro di assistere ad una sopraffazione, ad una violazione dei diritti, ad un’ingiustizia, ma anzi si sono "con entusiasmo" posti al fianco di chi le ingiustizie le subiva, nella consapevolezza che ogni abuso o iniquità, riguarda indistintamente tutti. Se si ha la fortuna di partecipare agli incontri organizzati nelle scuole, di frequentare attivisti che distribuiscono coperte, cibo e buoni consigli, di partecipare alle riunioni delle tante associazioni o ong che hanno tra gli obiettivi statutari la tutela dei diritti, se ci si è ritrovati a confrontarsi con luoghi di "sventura" come ospedali, centri di identificazione ed espulsione per migranti, carceri, campi rom, mense per senza dimora, si comprende perfettamente che quella che Deaglio definisce banalità del bene non è affatto merce rara. La tradizione ebraica vuole che nel mondo ci siano sempre 36 Giusti, nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno d’esserlo ma quando il male sembra prevalere escono allo scoperto e si prendono i destini del mondo sulle loro spalle e questo sarebbe uno dei motivi perché Dio non distrugge il mondo. Ogni volta che muore un Giusto contemporaneamente deve nascerne un altro per non lasciare sguarnito il pianeta. Per questo sono ragionevolmente certa che il 3 febbraio mentre veniva ritrovato il corpo senza vita di Giulio Regeni al Cairo un nuovo Giusto o una novella Giusta veniva alla luce. Per esperienza personale e condivisa con migliaia di persone posso dire che nel mondo almeno gli empatici sono molti più di 36, sono innumerevoli, e, a giudicare dall’energia con la quale si espongono al fianco degli oppressi e degli esclusi, sono destinati a moltiplicarsi Perché se il male è certamente banale e dunque noioso, l’empatia è entusiasmante e quindi contagiosa. Privacy: forza Apple contro gli Stati intrusivi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 marzo 2016 Perché il no del colosso digitale alle richieste dell’Fbi difende le nostre libertà. Lo Stato è un "mostro freddo", diceva Max Weber, dall’appetito insaziabile. Non vuole argini che limitino la sua onnipotenza: sono le democrazie liberali che ne contengono la smania di controllare tutto, intromettersi ovunque, ficcare il naso in ogni atomo della vita dei cittadini che reclamano il diritto inalienabile a una sfera privata sottratta ai tentacoli dello Stato. Perciò chi ha a cuore l’integrità di una sfera privata, o di ciò che resta oramai di una sfera privata già ridotta al pallido simulacro di se stessa, non può che tifare per la Apple che si rifiuta di consegnare allo Stato americano le chiavi per irrompere nella vita dei cittadini, e spiarla senza limiti. Dicono: non è vero, gli inquirenti americani non vogliono intromettersi nella vita delle persone, non siate paranoici. Sbagliato: la forza del potere politico deve essere contenuta per evitare che dilaghi l’arbitrio, non c’entra la buona fede di chi in un momento specifico la esercita. Dicono: ma senza quelle chiavi non possiamo usare un’arma formidabile per scovare degli assassini. Sbagliato: con questo ragionamento perché non permettere la tortura per estorcere confessioni utili contro assassini reali i potenziali? O non procedere a rastrellamenti di massa, ad arresti senza mandato? Non potremmo avvalerci di strumenti efficaci per neutralizzare ladri e criminali, mafiosi e terroristi? Dicono: allora niente intelligence per la cattura di assassini senza scrupolo. Sbagliato: i servizi segreti si chiamano segreti per un motivo preciso, hanno un campo circoscritto di azione, non pretendono di diventare legge generale. Lo Stato, poi, esibisce sempre buoni propositi e nobili intenzioni, per appagare la sua smania di controllo. Con la scusa della lotta all’evasione fiscale, sta abolendo ogni segreto sui nostri conti bancari, sui nostri movimenti al bancomat, persino sugli spiccioli. Dicono: ma se non hai niente da nascondere di cosa hai paura? Sbagliato: il diritto alla riservatezza non è sinonimo di criminalità. E il mito dell’assoluta trasparenza è una mostruosità totalitaria, indice di una perversa mentalità autoritaria. Nel suo romanzo Il palazzo dei sogni subito censurato dalle autorità comuniste albanesi, Ismail Kadaré, che ha ben conosciuto gli orrori del totalitarismo, ha descritto uno Stato che pretendeva di controllare persino ciò che le persone vedono nel sonno. È l’aspirazione segreta di ogni Stato i cui poteri non siano temperati e arginati. Forza Apple. Le forze anti-sistema che scuotono l’Europa di cesare martinetti La Stampa, 14 marzo 2016 Da ieri sera l’Europa è più piccola, Angela Merkel è più debole e, in attesa del referendum inglese sull’uscita di Londra dalla Ue (la cosiddetta Brexit), un nuovo vocabolo già si affaccia nel lessico politico: Frexit. Se lo mettete su Google vi darà l’indirizzo di un hotel di Friburgo, in realtà è l’annuncio di un nuovo choc che potrebbe non tardare: anche i francesi vogliono uscire dalla Ue, secondo un sondaggio degli ultimi giorni addirittura al 60 per cento. Per ora facciamo i conti con il voto tedesco, amarissimi per la Cancelliera. La sua leadership è apertamente in discussione ma il successo dell’Afd (come quello di Marine Le Pen in Francia) non è valutabile con le normali e antiche categorie della dialettica politica. Rappresenta invece qualcosa di più, è il cambio del paradigma politico novecentesco: la discriminante ora non è destra/sinistra, ma pro o contro l’Unione europea. È una rivolta per via elettorale e dunque democratica contro questo sistema Europa. La crisi dei migranti è stata il detonatore che rischia di far saltare il sistema. La generosa ma avventurosa apertura della Cancelliera al flusso biblico di quest’estate aveva in pochi giorni messo in crisi anche la collaudata organizzazione teutonica e da allora Angela Merkel ha capito che la sua stagione poteva finire. Però il malessere dell’Europa viene da più lontano e si sarebbe manifestato anche senza la crisi dei migranti. È qualcosa di molto più complesso, è la fine di quella solidarietà che aveva accomunato le destre e le sinistre democratiche all’uscita della Seconda guerra mondiale e su cui era stato edificato il sogno dell’Unione europea. È il crollo di un’egemonia culturale che delegittimava qualunque pulsione nazionalista, era per l’appunto un’utopia che si sta schiantando contro il riemergere di sentimenti diffusi come la difesa delle proprie radici e l’esigenza di riconoscersi in un’identità anche economica di fronte al ciclone della globalizzazione. Ma è anche la rivolta contro un ceto politico che ha perso il senso di quell’utopia e ridotto l’Europa a un groviglio di regole inestricabili e - apparentemente - sempre penalizzanti. La lingua comune appresa dai ragazzi delle "generazione Erasmus" (questa sì un vero successo) si è mutata in un lessico tecnocratico irriconoscibile. E questa è una responsabilità vera dei politici che hanno governato a Bruxelles, di destra e di sinistra. È per questa ragione che se il voto tedesco ha indubitabilmente un carattere "antisistema", se davvero vogliamo capire cosa succede, dobbiamo smettere di liquidare questi risultati elettorali con la vittoria dei "populisti", un termine che serve soltanto ai partiti al potere per autoassolversi dalle loro gravi responsabilità. Quella che esce dalle urne tedesche, come a dicembre da quelle francesi, è una domanda politica legittima e comprensibile. È una domanda di autodifesa di una società che si sente impoverita e minacciata. Frauke Petry, interrogata da un giornale francese, ha respinto qualunque somiglianza con Marine Le Pen: "Lei ha un programma economico socialista, noi siamo liberali...". Non è dunque un fronte compatto quello che emerge, ma che sa parlare alla gente, spesso al di fuori del galateo politico e non raramente al di là della grammatica democratica. Ma o la politica tradizionale saprà interpretare il sentimento popolare e condurlo dentro una nuova dialettica europea o per l’Europa può davvero essere la fine. L’unione europea e la cittadinanza minacciata di Fernando Savater La Repubblica, 14 marzo 2016 L’ideale di un’effettiva e piena cittadinanza europea è antico quasi quanto la stessa Ue, ma i suoi progressi non sono stati facili né rapidi. La sua prima formulazione - poco più di un abbozzo firmato da Leo Tindemans nel 1974 - fu accolta dai governi con scarso entusiasmo. Dieci anni dopo si formò in seno al Consiglio europeo un comitato denominato "Europa dei cittadini", le cui proposte, che pure influirono positivamente sul progetto di Trattato dell’Ue redatto da Altiero Spinelli, furono recepite solo in minima parte nell’Atto Unico europeo. Si dovrà attendere altri quattro anni per vedere un progetto di cittadinanza europea articolato e motivato, presentato dalla delegazione spagnola al Consiglio europeo riunito a Roma, e inserito due anni dopo nel Trattato di Maastricht. L’ulteriore miglioramento e sviluppo di questo progetto non solo innovatore, ma con aspirazioni ragionevolmente rivoluzionarie, fu poi frenato dall’insuccesso del referendum sulla Costituzione europea, anche se nel Trattato di Lisbona si tentò, per quanto possibile, di salvarlo dal naufragio. Non è difficile comprendere la reticenza dei governi nazionali, così come dei cittadini degli Stati membri, nei confronti di questa prospettiva post-nazionale. Già il filosofo George Santayana aveva scritto, in Dominations and Powers, che nelle grandi alleanze internazionali la parte più difficilmente assimilabile è la prospettiva di essere almeno in parte governati da stranieri. Oltre tutto, in questo caso si esige di andare anche più in là, accettando come concittadini i nativi di altri Paesi, e dimenticando che poco prima quegli stessi individui erano considerati a tutti gli effetti come "stranieri". Deterritorializzare la cittadinanza separandola dal luogo d’origine, dalla comunità genealogica che ci tiene ancorati al passato, per farla dipendere invece da una stessa legge, con uguali diritti e doveri di fronte al futuro, vuol dire porsi in contrasto con quella che è la visione elementare in questo campo. La cittadinanza, in tal modo legata all’universale e non più a tradizioni locali, sarebbe allora aperta a tutti, indipendentemente dal luogo d’origine. Finora ciò che caratterizzava gli spagnoli, i francesi, i tedeschi, erano le "radici", il "ceppo" di provenienza (de pura cepa per gli spagnoli, de souche per i francesi): metafore agricole, basate sul seme che germoglia dove è stato piantato e non altrove. Ma come bene ha detto George Steiner, noi non abbiamo radici, ma gambe che ci consentono di muoverci qua e là e recarci dove ci conviene. Il progetto europeo nasce, come a suo tempo la stessa democrazia, da uno sradicamento: non si è europei per la purezza del ceppo ma per le leggi condivise. Peraltro, tutti gli Stati moderni sono nati da un movimento analogo, che ha radunato diverse etnie, tribù, lingue e usanze popolari sotto una comune amministrazione, destinata a rendere gli individui uguali per diritti e doveri, liberandoli dalle strettoie collettive delle rispettive origini locali. Essi rappresentano quindi il primo passo verso il successivo cosmopolitismo post-nazionale. Ecco qual è il pericolo dei movimenti separatisti e disgregatori dello Stato che oggi si sviluppano in Europa, e più particolarmente in Spagna. Il nazionalismo separatista di catalani e baschi pretende di trasformare la diversità culturale in frammentazione politica. Il "diritto di decidere", che definisce la cittadinanza democratica, spetta secondo loro ai territori e non agli individui, i quali sarebbero cittadini dello Stato solo parzialmente; e la sovranità di ciascuno risulterebbe ristretta in base a determinazioni pre-democratiche e persino pre-politiche quali l’etnia, la genealogia, la geografia o la lingua. In alcuni territori si chiede un referendum per decidere se continuare o meno a far parte dello Stato, ammettendo però al voto solo chi è preventivamente identificato come "catalano" o "basco": in altri termini, si vuol far accettare a priori ciò che dovrebbe essere determinato attraverso la consultazione. Nella Spagna franchista il castigliano era l’unica lingua spagnola autorizzata nel sistema scolastico e nei rapporti con l’amministrazione. Attualmente viviamo nel solo Paese dell’Ue ove in alcune aree dello Stato la lingua ufficiale comune non è ammessa per gli stessi usi. Oggi i separatisti in Spagna si appoggiano ai partiti populisti e cercano di far leva sull’indignazione provocata dalla crisi, dalla corruzione e dagli sprechi. Il resto dell’Europa si disinteressa di questi conflitti, definiti "interni". Ma le rivendicazioni disgregatrici si stanno affermando anche in altri Paesi, e un successo dei separatismi in Spagna contribuirebbe a rafforzarle. Non dimentichiamo che nel secolo scorso un conflitto spagnolo è servito da prova generale a un tragedia europea. Unione Europea: rifugiati e sicurezza, i nodi principali di Bruxelles di Marco Zatterin La Stampa, 14 marzo 2016 Problemi maledettamente reali, dunque ricette maledettamente difficili. Bisognerebbe che fosse una settimana decisiva per casa Ue, quella che si apre stamane. Sarebbe importante che i governi nazionali riuscissero a dare delle risposte su rifugiati e sicurezza perché il bisogno di archiviare problemi e incognite ha raggiunto il livello di guardia: l’Europa si avvicina alla Non Europa. Meno soluzioni, più populismo. Tutto qui. A Bruxelles i ministri degli Esteri dell’Unione (per noi, Gentiloni) aprono la volata verso il consiglio europeo di giovedì e venerdì, appuntamento ordinario solo sulla carta. Si parlerà di migranti, di quelli che sono già arrivati e quelli che continuano a prendere la strada del nostro continente perché a casa, magari sotto le bombe russe, non posso restare. L’ultima minaccia concreta sono gli due milioni di afghani che potrebbero sul punto di lasciare l’Iran e incamminarsi verso occidente. La riunione odierna serve per ricucire il clima fra i ventotto dopo il pessimo summit di una settimana fa. Si discuterà anche di Libia - con dibattito su possibili sanzioni contro chi non partecipa al processo di pace - e Siria. Anche sicurezza e Turchia. Nonostante l’attivismo dei servizi di Federica Mogherini, le capitali continuano a preferire gli scenari alle delibere congiunte. Così facendo, si tagliano i ponti del consenso dei loro cittadini. In città anche i ministri dell’Agricoltura. Hanno la preoccupazione di dare certezze a allevatori e coltivatori in crisi per il crollo dei prezzi in molto settori, oltre che per la domanda caduta anche per la conseguenza delle sanzioni alla Russia. Si vanno cercando misure di sostegno e di compensazione, battaglia condotta in primo luogo dai francesi. L’Italia con Martina ha annunciato un’iniziativa sulle etichette "semaforo", quelle che indicano solo su base matematica il contenuto di grassi di un prodotto e poi dicono se è verde (salutare) o rosso (pericoloso). Le ha introdotte il Regno Unito con danni pesanti per il "made in Italy". Roma battaglia da anni perché il parmigiano è "rosso" e le bibite gasate "verdi", il che non ha senso. Il ministro ha per l’occasione annunciato preventivamente che farà una vera conferenza stampa. È la prima a Bruxelles dal 2014. Mentre Eurostat pubblica i dati sulla produzione industriale a gennaio, numeri che ci aiuteranno a capire se la "ripresina" è frenata davvero, ci si aspetta un gran turbinio di incontri e scontri sulla questione rifugiati. Entro giovedì, momento in cui si vedranno i leader, è obbligatorio andare oltre il "tutti contro tutti". Gli animi sono corrotti dai litigi e dal prevalere delle soluzioni nazionali. L’attenzione è tutta rivolta a blindare i passaggi, a "chiudere le rotte", quella adriatica dopo quella balcanica. Sacrosanto. Ma bisogna anche decidere dove che futuro dare tutti quelli che sono entrati, gente che - è chiaro - non può restare ammassata fra le montagne del confini che separa la Grecia dalla Macedonia. Il mondo brucia. Ecco perché stiamo perdendo la guerra contro il terrorismo di Stefano Stefanini La Stampa, 14 marzo 2016 Una coincidenza è una spiegazione mancante. I due attentati di ieri, in Costa d’Avorio e in Turchia, sono quasi sicuramente opera di terroristi non in contatto fra loro e senza alcun coordinamento ideologico o operativo. Non sono tuttavia una coincidenza. La spiegazione, drammaticamente semplice, è che stiamo perdendo la guerra contro il terrorismo. I terroristi ne approfittano perché sanno che per continuare a vincere - a guadagnar terreno - basta esattamente quello che hanno fatto ieri. Colpire, fare vittime, seminare paura, in un angolo o l’altro del pianeta. Che noi vogliamo o meno chiamarla guerra importa poco. Chi la conduce, in particolare lo Stato Islamico, Al Qaeda, Boko Haram, Shabaab, Taleban, ha pochi dubbi sul dichiararla e condurla spietatamente. Ammanta di religione la barbarie e approfitta di qualsiasi bersaglio o punto debole a disposizione. Ogni bersaglio è legittimo. Più di un migliaio di chilometri separa Ankara da Grand-Bassam, un abisso psicologico le vittime di ieri nella capitale turca da quelle nel villaggio vacanze in Costa d’Avorio. Il filo diretto è la stretta del terrorismo sulla scena internazionale. Per diversa che sia l’etichetta che ha armato i Kalashnikov e le bombe, i due attentati rispondono ad una logica unica. Una logica che sta destabilizzando il mondo soprattutto intono a noi. Non facciamoci illusioni perché non ne siamo al riparo né in Italia né in Europa. Anche senza tirare in ballo le tragedie di Parigi dello scorso anno, e la caccia al terrorista nei quartieri di Bruxelles, siamo di fronte ad una minaccia crescente e continua alla nostra quotidianità dai viaggi agli affari, dalla cultura al turismo. Non siamo al riparo dalla guerra del terrorismo perché, come Europa ne siamo circondati. La stiamo perdendo perché, malgrado tutti i nostri sforzi, malgrado le forti dichiarazioni di solidarietà, 15 anni dopo l’11 settembre e le code di Londra e Madrid, lo scenario di sicurezza intorno a noi è peggiorato anziché migliorare. Siamo sulla difensiva mentre abbiamo permesso al nemico d’insediarsi in Siria, in Iraq, in Libia e nel Maghreb: intorno all’Europa. Continuiamo a dire che la sfida dello Stato Islamico non ha soluzioni militari. Vero, ma intanto lo Stato Islamico ci aggredisce con le armi, per di più senza alcun scrupolo nell’usarle contro civili. Anzi, più civili colpisce, maggiore è il successo. Non verremo mai a capo di questa minaccia se non uniremo a un forte impegno diplomatico e politico anche lo strumento militare con più determinazione e coraggio di quanto abbiamo fatto finora. Sappiamo "dov’è" Isis. Conosciamo la sua capitale in Siria, le città dove esercita il suo barbaro potere con violazioni orrende dei diritti umani, conosciamo le basi sul litorale libico. Sono vulnerabili ai mezzi di cui disponiamo, ma esitiamo ad usarli o li centelliniamo. I due attentati di ieri sono lontani dall’Italia e dall’Europa. Possiamo continuare ad illuderci che la distanza basti a darci una certa sicurezza. Rinunceremo a qualche viaggio e cancelleremo i villaggi turistici in località esotiche. Ma non illudiamoci: così facendo il terrorismo continuerà ad avanzare mentre noi, l’Europa, il mondo civile, battiamo in ritirata. Egitto: caso Regeni, il Cairo accusa "anche in Italia è sparito un giovane egiziano" di Cristiana Mangani e Sara Menafra Il Messaggero, 14 marzo 2016 La partenza del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del pm Sergio Colaiocco che da oggi saranno al Cairo per incontrare i magistrati egiziani era stata considerata il primo vero segnale di collaborazione da parte del governo di al Sisi per ricostruire le responsabilità della morte del giovane ricercatore Giulio Regeni, trovato morto nella periferia del Cairo lo scorso 3 febbraio. Dopo un invito formale dell’ambasciatore egiziano a Roma al procuratore Pignatone è stato fissato per oggi l’appuntamento con l’omologo di Giza. Eppure, la vigilia del primo incontro tra le due procure si conclude sotto pessimi auspici: ieri un giornale governativo, Al Shorouk, ha pubblicato una notizia velenosa e attualmente non confermata. Un giovane egiziano sarebbe sparito in Italia in seguito ad una rissa sedata dalla polizia. E le autorità italiane non avrebbero fornito alcuna collaborazione all’Egitto. "Una fonte di sicurezza - scrive al Shorouk - spiega che un giovane egiziano di nome Adel Moawad Heikal del governatorato di Gharbia è sparito misteriosamente in Italia a seguito di una rissa con un giovane italiano di cui le autorità egiziane non sono state informate né hanno ricevuto informazioni sui fatti della sua scomparsa. L’Ambasciata egiziana in Italia ha presentato un’istanza alla polizia italiana, tuttora in esame". Stando alle prime verifiche fatte dalla Farnesina, il nome di Heikal non risulta essere stato segnalato al cerimoniale o all’ufficio che cura i rapporti con le rappresentanze di cittadini stranieri residenti nel nostro paese e non arrivano conferme neppure dal Viminale al quale, stando all’articolo, le autorità egiziane si sarebbero rivolte. Insomma, salvo eventuali sviluppi, la notizia ha tutte le caratteristiche della polpetta avvelenata fatta circolare per avvalorare la tesi che ci sarebbe un "Regeni italiano" il cui caso sarebbe stato trattato dalle autorità di Romacon gli stessi metodi usati dal Cairo per il giovane ricercatore. Da giorni, le autorità egiziane dichiarano di non aver gradito la presa di posizione del parlamento europeo sul caso Regeni. Giovedì scorso Strasburgo ha votato una risoluzione non vincolante in cui si impegna l’intera Unione a non dare più aiuti militari ed economici all’Egitto se lo stato non collaborerà alla ricostruzione della verità sulla morte del ricercatore italiano che lavorava sulla struttura dei sindacati urbani al Cairo. Il ministro degli esteri Sameh Shoukry ha fatto pubblicare una dichiarazione ufficiale: "Siamo molto dispiaciuti per le modalità faziose della decisione del parlamento europeo circa il rispetto dei diritti umani in Egitto", dice la dichiarazione riportata dal suo portavoce. L’Egitto non ha gradito il collegamento tra le scarse tutele dei diritti umani nel paese e la morte di Regeni, un collegamento, dicono che "anticipa le conclusioni dell’inchiesta in corso portata avanti in collaborazione con le autorità italiane", dando per certe "notizie non verificate pubblicate dai media". È in questo clima che nella mattinata di oggi il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco arriveranno al Cairo. L’appuntamento principale in agenda è quello con il procuratore capo di Giza che gestisce l’inchiesta egiziana e alcuni giorni fa aveva dichiarato di non voler più collaborare con il pool italiano. L’incidente diplomatico è rientrato dopo l’intervento dell’ambasciatore egiziano a Roma, ma non è chiaro quanto sarà utile l’incontro di oggi. Le leggi egiziane prevedono che l’attività investigativa sia gestita direttamente dalla polizia. La stessa che in queste settimane avrebbe dovuto collaborare con gli investigatori italiani di Sco e Ros. Terrore in Costa d’Avorio, Al Qaeda attacca gli alberghi dei turisti di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 14 marzo 2016 Un commando di 11 uomini armati nei resort Almeno 14 vittime: "Quattro sono europei". Palme, spiagge ampie e solitarie, un mare blu, e in più il fascino di una città fantasma, con i grandi alberghi affiancati da palazzi vuoti in decadenza, a memoria dei tempi in cui Grand-Bassam era la capitale, prima di essere svuotata dell’epidemia di febbre gialla. Oggi quello che resta della città, tutelata dall’Unesco come Patrimonio dell’umanità, per i viaggiatori è una destinazione particolare, probabilmente la più fascinosa della Costa d’Avorio. Ma ieri i turisti sdraiati sulla sabbia o seduti all’ombra nei giardini dei resort sono diventati l’obiettivo di un nuovo assalto terroristico. Un gruppo di uomini armati, almeno sei secondo le prime ricostruzioni, è arrivato dal mare e ha subito aperto il fuoco sui bagnanti, davanti agli alberghi "Etoile du Sud", "Wharf", e "La Taverne Bassamoise" nella zona che viene definita "Quartiere francese". Secondo una testimonianza raccolta dall’Associated Press, uno degli assalitori ha rivolto la parola in arabo a due ragazzi: uno dei due si è inginocchiato e ha cominciato a pregare, l’altro - evidentemente non musulmano - è rimasto in piedi, ed è stato ucciso immediatamente con un colpo al capo. Le forze di sicurezza ivoriane hanno ingaggiato una sparatoria, a fine serata il bilancio era di 14 civili, fra cui almeno un francese e altri tre europei, due uomini delle forze speciali governative e sei assalitori uccisi. Poche ore dopo l’assalto, i ricercatori del gruppo di analisti internet di " Site" hanno individuato su internet la rivendicazione: ancora una volta è di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, protagonista di altri attacchi sanguinosi in Africa occidentale. Dallo scorso novembre è la terza volta che una destinazione turistica di questa regione diventa obiettivo dei terroristi: prima è stato il caso dell’hotel Radisson, in pieno centro di Bamako, al di là del confine maliano: un commando di Aqmi e del gruppo fiancheggiatore Al Morabitoun ha assalito l’albergo, frequentato da occidentali, uccidendo 19 persone. A gennaio è toccato al Burkina Faso, dove l’attacco all’hotel Splendid di Ouagadogou ha causato la morte di 28 persone (fra cui diversi occidentali) oltre a una sessantina di feriti. Non è ben chiara l’affiliazione dei gruppi: alcune fazioni di Al Morabitoun hanno giurato fedeltà al sedicente Stato islamico, e al suo leader Abubakr al-Baghdadi, altre rimangono legate alle vecchie strutture di Al Qaeda. Gli analisti sono propensi a legare l’attenzione dei gruppi jihadisti verso queste zone con la disponibilità di denaro e armi provenienti dal crollo del regime libico di Muammar el Gheddafi. Dopo la rivoluzione e la fine della Giamahiriya, gli integralisti si sono radicati nel Mali, e l’offensiva militare francese, che pure li ha costretti in ritirata, non li ha sradicati dalla regione. Anzi, la presenza del contingente francese che li ha fatti ritirare dalla roccaforte di Gao, snodo importante dei traffici verso Timbuctù, nel nord desertico del Mali, è considerata oltraggiosa dai militanti islamisti, che hanno annunciato di voler attaccare obiettivi francesi come rappresaglia. Assalti alle caserme di polizia e raid contro i campi guerriglieri sono stati frequenti in tutto il 2015, soprattutto nei villaggi della zona di frontiera, dove è radicata anche l’organizzazione fondamentalista Ansar Dine. La strategia sembra quella immaginata dallo scrittore francese Michel Houellebcq nel suo controverso "Piattaforma": il turismo, considerato una contaminazione insopportabile dei tradizionali costumi islamici, diventa obiettivo privilegiato e per sua natura quasi indifendibile. Turchia: autobomba ad Ankara, oltre 30 morti di Paolo G. Brera La Repubblica, 14 marzo 2016 Attentato nella capitale turca. L’esplosione ha colpito una fermata dell’autobus di un parco affollato L’ambasciata americana aveva diffuso un’allerta terrorismo. L’ora di punta di un giorno di festa, il luogo e il momento migliore per fare una strage di gente inerme: 34 persone sono morte - tra cui almeno due kamikaze - e più di cento feriti sono ricoverati in una decina di ospedali per l’esplosione di un’autobomba avvenuta ieri sera alle 18:43 locali nel centro della capitale turca, Ankara. L’auto imbottita di esplosivo si è accostata al bus "284" alla fermata di Güvenpark, affollata come ogni domenica. Piazza Kizilay e il parco Güven sono un luogo di raduno, nei giorni di festa si riempiono di gente che a quell’ora fa la fila per autobus e taxi. Non solo è zona centrale, ma anche simbolica: lì accanto ci sono un tribunale e due ministeri, Giustizia e Interni. "Questi attacchi - dice in nottata il presidente Recep Tayp Erdogan - non fanno che aumentare la nostra determinazione nel combattere il terrorismo. Con l’instabilità della regione la Turchia è diventata un obiettivo". Chi ha voluto spargere altro sangue su una Turchia martoriata da un lungo elenco di attentati sapeva esattamente cosa voleva. Il boato dell’esplosione è stato fortissimo, udito in mezza città. Le prime immagini mostravano l’autobus sventrato e lame di fuoco, auto in fiamme e un’alta colonna di fumo. Ci sono stati anche colpi di arma da fuoco, secondo testimonianze da verificare. Solo due giorni fa l’ambasciata americana aveva diffuso un’allerta su un possibile attentato contro "edifici governativi" in una zona di Ankara lontana chilometri da quella in cui l’esplosione di ieri è effettivamente avvenuta. L’intelligence non era andata troppo lontano dal prevedere la realtà, purtroppo. A bordo dell’autobus si trovavano una ventina di persone. Molte altre erano a passeggio nella piazza, altre ancora alla fermata dell’autobus. E sono rimaste coinvolte anche diverse auto, le immagini rimbalzano su Twitter quasi in tempo reale: un suv Audi bianco che seguiva l’autobus, due taxi affiancati, una berlina distrutta… Quattro feriti sono morti durante il trasporto in ospedale, un’altra ventina sono ricoverati in pericolo di vita e il paese è un’altra volta sotto shock. Nell’orrore e nella foga per salvare vite, ieri l’attenzione era alle vittime assai più che ai carnefici, e anche se gli inquirenti sospettano i curdi il governo ha evitato di attribuire responsabilità affrettate. Ma saranno giorni neri: per l’ultimo grave attentato che ha sconvolto Ankara e l’intera Turchia - il 17 febbraio a pochi isolati da quello di ieri il governo affibbiò la matrice al Pkk e ai miliziani curdi in Siria. Lì i morti furono 29 soldati. A ottobre era andata peggio: 103 civili. Stati Uniti: intervista ad Angela Davis "ho fatto un sogno, cambiare il mondo" di Antonio Gnoli La Repubblica, 14 marzo 2016 I pregiudizi, il carcere, la lotta per la difesa dei diritti civili dei neri e delle donne. Parla l’intellettuale americana, che arriva a Roma. È stata una delle leggende politiche degli anni Sessanta e Settanta. Una figura di spicco del movimento americano per la difesa dei diritti civili, in particolare dei neri e della donne. Angela Davis è oggi a Roma invitata dall’Università degli studi di Roma Tre. Terrà stamane una lezione cui seguirà una discussione sui temi legati al femminismo nero nell’ambito della "Women’s Liberation". La sua maestosa e inconfondibile capigliatura è diventata brizzolata. È la sola cosa che è cambiata in una donna che continua a conservare la passione e la sicurezza dei suoi giudizi morali. La sua vita è costellata da episodi durissimi e a volte drammatici. Un’infanzia trascorsa nella segregazione di uno stato del Sud, l’Alabama. I pregiudizi e le ingiustizie subite a opera dei bianchi. Gli anni del carcere, con l’accusa di terrorismo. L’isolamento, ma anche i movimenti di opinione sorti in suo favore nel mondo. L’impegno politico e culturale. L’incontro con un maestro come Herbert Marcuse. Gli anni passati in Europa, tra la Francia e la Germania. L’insegnamento all’università. Angela Davis ha attinto alle contraddizioni della storia americana sposando sempre la causa dei deboli. Oggi che l’America è impegnata in un’aspra campagna per le presidenziali le chiedo per prima cosa un giudizio su quanto sta accadendo nelle primarie. È indignata per i toni. "È sicuramente la campagna per le primarie più sconcertante che abbia mai visto. Non è concepibile che un candidato alla presidenza possa associarsi a delle parole pronunciate da Mussolini e giustificarsi poi, commentando che era una buona citazione. Donald Trump fa leva sui settori più razzisti e politicamente più arretrati della popolazione. È un pericolo contro cui bisognerà lavorare per assicurarci che in futuro non nuoccia più al paese". Ritiene sia diversa l’attuale situazione dagli anni 70, quando scrisse "Autobiografia di una rivoluzionaria"? "È cambiato il quadro internazionale, con l’affacciarsi di nuove potenze e conflitti. Ma il razzismo non è stato sconfitto". Perché decise di scrivere un’autobiografia? Era giovane, con delle esperienze tutt’altro che compiute. "È un problema che allora mi posi. Per un po’ fui incerta se parlare della mia vita. Fu Toni Morrison, nel suo ruolo di editor alla Random House, a convincermi che sarebbe stato possibile scrivere un libro al cui centro ci fosse una storia collettiva di movimenti e di lotte, più che il racconto privato di una donna, allora trentenne". Per quasi due anni lei è stata rinchiusa in una prigione, con l’accusa di terrorismo. Seguì il processo e la piena assoluzione. Con che sentimenti ha vissuto quel periodo: paura, noia, disperazione? "Le emozioni che lei elenca le ho provate durante tutta la prigionia. Ma nello stesso tempo sentivo crescere la speranza. Molta gente si mobilitò, ritenendo un’ingiustizia la mia detenzione. La cosa più dura che mi toccò allora subire fu l’isolamento nel quale venni tenuta per la gran parte del tempo". Oggi come ripensa a quell’esperienza? "Oggi ritengo sia stato importante conoscere la realtà carceraria. Tanto più perché mi ha consentito di lavorare contro l’istituzione delle carceri. È stata un’esperienza che tra l’altro mi ha messo in contatto con le donne detenute e doppiamente discriminate: sia nella vita che nelle prigioni". L’ha sorpresa che anche fuori dai confini americani ci fosse un movimento per la liberazione di Angela Davis? "In un certo senso direi di sì. Seguivo con molto coinvolgimento le manifestazioni a mio favore. Ho visto foto di manifestanti in Europa, particolarmente Francia, Italia, Germania e Regno Unito; ma anche in Asia, in Africa, in America latina e in Australia". È stata, in fondo, la prima globalizzazione in difesa dei diritti di una persona. "E la cosa mi fa pensare che c’è molta più gente contro il razzismo che a favore". Lei ha vissuto in Europa? "Sì, arrivai la prima volta in Francia nel 1962. Ricordo che stava finendo la guerra contro l’Algeria. Ero cosciente che un razzismo, diverso da quello americano, veniva praticato sotto la forma del colonialismo. Il memoriale La question di Henri Alleg, che denunciava le torture contro i resistenti algerini, mi aprì gli occhi. Fu allora che conobbi anche lo straordinario lavoro di Frantz Fanon I dannati della terra". Ha conosciuto Sartre e Camus? "Purtroppo no. Camus morì nel 1960. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Ricordo che nell’estate del 1961 lessi il suo libro L’homme révolté. Il mio viaggio a Parigi era funzionale alla decisione di laurearmi in letteratura francese. Mentre leggevo i classici Corneille, Moliére, Racine, scoprii la forza di seduzione di Sartre e Merleau-Ponty. Anche se non ho mai incontrato Sartre, sono orgogliosa per la sua adesione alla campagna in mia difesa. I suoi libri mi hanno aiutato a spostare i miei interessi dalla letteratura alla filosofia. Ma la persona che in questo campo è stata decisiva fu Herbert Marcuse". Come lo ha conosciuto? "Durante una lezione alla Sorbona e poi in America, dove ha insegnato a lungo. Marcuse mi ha convinto a prendere molto sul serio la filosofia continentale. Trovavo affascinante il modo in cui parlava del primo Marx. La sua tesi era che non si poteva capire l’economia politica senza aver affrontato la parte filosofica di Marx. Ho avuto il privilegio, nel corso del mio ultimo anno di studi universitari, di lavorare fianco a fianco con lui. Fu Marcuse a consigliarmi di continuare a studiare a Francoforte con Adorno, Horkheimer, Habermas e Negt". E il consiglio lo ha seguito? "Sono stata per due anni a Francoforte. Durante quel periodo partecipavo allo SDS, un movimento studentesco di estrazione socialista, che lottava contro la guerra in Vietnam, contro lo Scià in Iran e contro i rigurgiti neonazisti tedeschi". Adorno non era molto contento della contestazione. "Adorno non amava la figura dell’intellettuale impegnato ed era molto critico verso ogni forma di attivismo politico. D’altro canto Marcuse era la personificazione di tutto ciò che Adorno detestava. Il suo impegno intellettuale era per tutti noi il modello culturale in cui credevamo". In cosa credeva? "Che il nostro compito, in quanto studiosi, fosse di cambiare il mondo sociale nel quale vivevamo". Ammetterà che le cose più interessanti sul piano dell’interpretazione arrivarono proprio da Adorno. "La sua acutezza come pensatore è indiscutibile. Continuo a leggere e a insegnare ai miei studenti la sua opera. In particolare La dialettica negativa e la Teoria estetica. Come studentessa, seguii le sue lezioni, partecipai ai suoi seminari e parlai con lui per discutere il lavoro della tesi. Fu in quel momento che mi resi conto che avrei dovuto operare una scelta". Quale? "Tra il desiderio di usare la mia formazione filosofica per cambiare il mondo e quella solo di interpretarlo. Decisi allora di interrompere la collaborazione con lui e di tornare in America". Ritiene che la sua Teoria critica abbia ancora validità? "Assolutamente sì! Nella versione che ne diede Marcuse si capisce che gli approfondimenti della filosofia riguardo alla libertà, l’uguaglianza e la giustizia, spesso ci obbligano a lasciare l’arena filosofica. L’eredità della "teoria critica" è di averci fatto abbracciare uno sguardo interdisciplinare". Che cosa pensa del postmoderno? "È un concetto ormai talmente largo che è difficile sappia fornire risposte convincenti su ciò che accade. Detto questo, credo che le teorie di Derrida e Foucault, sebbene i due abbiano poco in comune, siano di estremo interesse. Ma sono davvero dei postmoderni?". Preferisce ancora Marx? "Come si fa a buttarlo a mare? È ancora di grande aiuto consultarne i libri per capire i limiti dell’attuale neoliberismo. A questo proposito anche l’opera di Antonio Gramsci riveste un’importanza particolare in questo momento". Gli anni della protesta contro il razzismo sono stati accompagnati da un clima culturale straordinario. Intellettuali come James Baldwin, scrittori della Beat generation, artisti come Bob Dylan hanno secondo lei interpretato lo spirito di quel tempo? "I movimenti di massa che reclamano un cambiamento influenzano sempre il mondo culturale. Baldwin seppe dare una direzione al movimento e continua a essere per i giovani una spinta verso l’impegno. Quanto alla musica di Dylan, era il barometro che segnò il cambio di temperatura nel movimento culturale. Ha saputo indirizzare la coscienza popolare nella direzione progressista". A proposito di musica, John Lennon e Yoko Ono le dedicarono una canzone. Che cosa ha provato? "Ho un grande rispetto per Lennon e per la sua opera. E un rispetto ancora più vivo per Yoko Ono. Sono grata per avermi dedicato una canzone e per il fatto che hanno scelto di onorare la memoria di George Jackson". Jackson fu un importante esponente delle Pantere nere. Venne ucciso nel carcere di Saint Quentin. "Era il 1971. Fu ucciso per le idee in cui credeva e per le quali lottava". Che ricordo ha di Angela Davis bambina? "Non credo che la mia infanzia sia stata molto diversa da quella di altri bambini neri cresciuti nel sud segregazionista. Ma sono grata ai miei genitori per avermi aiutato ad avere una visione del mondo infinitamente più vasta del chiuso universo del Sud di "Jim Crow". Ancora oggi ho molti contatti con gli amici della mia infanzia e ritorno spesso a Birmingham, in Alabama, dove molti di loro vivono tuttora". Chi è oggi Angela Davis? "Una persona che crede che il mondo nel quale viviamo possa diventare un posto migliore per tutti. L’ho sempre pensato e ho sempre lottato per questo". Bahrein: cittadini privati della nazionalità ed espulsi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 marzo 2016 Nel 2014 erano stati 21, nel 2015 208. Il 2016 potrebbe finire persino peggio. Stiamo parlando di quell’odioso e illegale provvedimento cui ricorrono sempre più spesso le autorità del Bahrein, il piccolo stato-isola del Golfo persico in cui dal 2011 è in corso una rivolta affrontata col pugno di ferro: torture e uccisioni di manifestanti, prigionieri di coscienza condannati all’ergastolo e, appunto, la privazione della cittadinanza seguita dall’espulsione. Il 21 febbraio Muhamad Hassan Ali Jussain Khojasta, un religioso sciita, è stato espulso verso il Libano. Tre giorni dopo è toccato a Hussain KhairAllah Mohamed Mahmood, imbarcato su un aereo della Gulf Air con stessa destinazione. Testimoni oculari hanno assistito al pestaggio dell’uomo che cercava di resistere all’imbarco forzato. Il 7 marzo è stato espulso anche Masaud Jahromi, docente di Ingegneria delle telecomunicazioni all’università Ahlia della capitale Manama. Khojasta, Mahmood e Jahromi facevano parte di un gruppo di 72 bahreiniti che nel 2015 erano stati arbitrariamente privati della nazionalità per il loro coinvolgimento in "azioni illegali" tra cui aver invocato un cambio di governo e aver diffamato "paesi amici". In questi giorni è in corso l’appello contro la decisione, presa nel 2012 dal ministero dell’Interno, di privare della cittadinanza altri 10 bahreiniti considerati una "minaccia" per lo stato. La legislazione del Bahrein, più volte emendata in questi ultimi anni, prevede che la nazionalità possa essere revocata a colui o colei "le cui azioni siano in contrasto col suo dovere di lealtà verso la Corona" e a chi prenda la cittadinanza di un altro stato senza autorizzazione (a meno che non si tratti dei "paesi amici" del Golfo). Il meccanismo, implacabile, funziona così: la persona colpita dal provvedimento di revoca della nazionalità deve restituire passaporto e carta d’identità. A quel punto, o fa richiesta di un permesso di soggiorno per "stranieri" o rischia di essere arrestata per "soggiorno illegale" e conseguentemente espulsa. Oltre al carcere, è dunque in quest’altro modo che il Bahrein si disfa dei suo cittadini influenti considerati scomodi e pericolosi. Il diritto ad avere una nazionalità è riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, sottoscritto dal Bahrein. La Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia vieta - con pochissime eccezioni, descritte con grande precisione, nessuna delle quali applicabile alla situazione del paese - la perdita della nazionalità che determina l’apolidia.