Magistrati a confronto su sicurezza e diritti fondamentali di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2016 Avreste mai detto che il terrore è figlio della guerra e dell’amore? Eppure, se andiamo alle radici mitologiche della parola terrorismo, è questo che scopriamo: Deimos, che in greco arcaico significa terrore, è il figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea dell’amore. C’è dunque una fondamentale "ambivalenza" nella parola terrorismo, spiega Umberto Curi, storico della filosofia, alla platea di super esperti, nazionali e internazionali, di terrorismo (magistrati, giuristi, politologi, filosofi e giornalisti) riuniti a Pisa da "Magistratura democratica" per discutere di "Terrorismo internazionale, politiche della sicurezza e diritti fondamentali", nell’intento di sbrogliare la matassa di un fenomeno che, malgrado la sua globalità, ancora non trova risposte globali univoche ma, semmai, contrastanti e contrapposte, ora nel segno della sicurezza ora in quello della tutela dei diritti fondamentali. Matassa intricata anche per chi, come l’Italia, non ha subito gli attentati sanguinari consumati altrove e tuttavia vive in "un clima di sottintesa paura" - per dirla con lo storico Adriano Prosperi - che "frena l’approvazione di leggi come quella sulla tortura". Da qui una serie di interrogativi sul ruolo della magistratura nella strategia antiterrorismo, in uno scenario europeo che ha di fatto marginalizzato la giurisdizione e la cooperazione giudiziaria (vedi, da ultimo, la Francia) in favore di altre opzioni, militare e di polizia. E il confronto rivela, al di là della comune condivisione della tutela dei diritti fondamentali, inedite divergenze tra Pm di consolidata esperienza antiterrorismo, come Giovanni Salvi e Armando Spataro, con il primo che rompe il totem degli "schemi del passato", usati con successo contro il terrorismo degli "anni di piombo". "È l’alterità del terrorismo islamico - avverte - la minaccia più grave al mantenimento delle nostre libertà, e se la affrontiamo con gli strumenti del passato corriamo il rischio, al primo grave attentato, di essere travolti". In sostanza: siamo di fronte all’islamizzazione della radicalità, come dice Curi, oppure alla "radicalizzazione dell’islamismo", come sostiene Salvi? Il procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma esclude che l’ottica della giurisdizione sia vincente. "L’approccio dev’essere più ampio e impone la conoscenza dell’ispirazione religiosa del terrorismo islamico, del suo humus culturale, per tarare gli strumenti investigativi più adatti. Che non abbiamo", afferma. Va quindi "ripensato il rapporto tra giurisdizione e prevenzione, senza impedire la raccolta di informazioni, ovviamente con modalità corrette". Ma secondo il Procuratore di Torino, "milioni di dati raccolti non servono a niente e non danno risultati, né in prevenzione né in repressione. Spataro rivendica l’esperienza del passato, "da aggiornare", e ritiene che l’attività di prevenzione delle agenzie di informazione dev’essere "rigidamente sottoposta a controllo. Non sono ammesse zone grigie". Franco Ippolito, giudice di Cassazione che interviene in chiusura come presidente del Tribunale dei popoli, dubita della "lettura che àncora l’esplosione del terrorismo islamico al fenomeno religioso. Sono più d’accordo - dice - con chi sostiene che siamo di fronte a un’islamizzazione della radicalità. È giusto, tuttavia, non restare legati ad analisi del passato e cercare di costruire strumenti nuovi". Ulteriore sollecitazione viene da Massimo Donini, ordinario di diritto penale a Modena: la giurisdizione non è la risposta al terrorismo internazionale di matrice islamica perché rischia di trasformarsi in uno "strumento di lotta" in cui il giudice "diventa necessariamente parte del conflitto, e non terzo imparziale". "I guerriglieri di Daesh sono avversari istituzionali, non meri "criminali" - osserva - e la doppia risposta, giurisdizionale e non, giova anche all’autonomia della giurisdizione, al suo non coinvolgimento nella funzione di lotta di qualche nemico". Così nelle carceri i predicatori dell’odio radicalizzano gli emarginati di Karima Moual La Stampa, 13 marzo 2016 Nelle prigioni gli imam fai-da-te riempiono un vuoto. Vulnet Maqelara, alias "Karlito Brigande", macedone, e Firas Barhoumi, tunisino, nei loro colloqui su telegram, non parlavano arabo ma la lingua della loro detenzione: l’italiano. Ancora una volta, non ci sono barriere che possano fermare il messaggio jihadista dell’Isis. In questo caso, il carcere diventa lo specchio reale e il luogo ideale dove far crescere i "mostri" che sono i timori del mondo esterno. Lo ha provato sulla propria pelle la Francia, con i vari attentati per mano di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in macchine da guerra jihadista. E l’Italia non è certamente al riparo. Non solo per la percentuale di detenuti di fede islamica (il 35% del totale) ma soprattutto per il vuoto nel quale le carceri italiane riversano per quanto riguarda le politiche di prevenzione e de-radicalizzazione. L’Islam nelle carceri in Italia è ancora un fantasma. "È evidente - spiega il sociologo e autore del saggio "L’Islam in carcere", Mohammed Khalid Rhazzali - come la dimensione prigione frequentemente porti, attraverso il sentimento di fallimento esistenziale e la relativa mortificazione, a un ritorno alla pratica religiosa". Una volontà che per molti diventa una vera riconversione. Da delinquente a buon musulmano. Un’opportunità e un’iniziazione, nel vero e proprio senso della parola. Il problema è chi risponde a questa domanda di conversione. Per gli istituti di pena in Italia, sono solo 9 gli imam volontari che hanno accesso alle carceri e che provano a dare delle risposte. Un numero prossimo allo zero, se si conta che i detenuti di fede islamica sono 10 mila e 400 senza che ci sia un progetto che possa trasformare la loro volontà di riavvicinarsi alla propria fede come una risorsa, insieme ad altri percorsi di riabilitazione e rieducazione. Non sorprende, dunque, che inizino a emergere le prime falle per la mancata prevenzione al radicalismo nei nostri istituti di pena. Karlito Brigande esce dal carcere e non dimentica Firas Barhoumi che, nella detenzione, riempirà quel vuoto attraverso un indottrinamento efficace che lo porta a diventare un aspirante jihadista pronto a colpire gli infedeli. "Volendo fare una fotografia del profilo dei detenuti radicali e di conversazione tra i due, oltre a lettere cartacee. Baroumi invita il macedone a raggiungerlo passando da Turchia e Siria: "Inshallah, akhi, basta tu cerca per venire a Turchia, resto ci penso io per te, hai capito? Basta che tu venire a Turchia, hai capito?". Determinante il proselitismo in carcere proseguito poi per quasi un anno. È lo stesso Barhoumi che, in una lettera del 29 gennaio 2015 (quando si trovano in due prigioni diverse, uno a Velletri l’altro a Roma a Rebibbia), scrive al macedone: "Il grande re (Dio, ndr), quello che non mori mai ha dato a me l’occasione da venire fino alla tua cella e abbiamo pregato e abbracciare prima di uscire di lizzati (e non consideriamo qui i condannati o quelli in attesa di giudizio per reati di terrorismo) - spiega ancora Khalid Rhazzali - potremmo dire che si tratta di giovani che hanno commesso reati comuni - dopo aver sperimentato la precarietà, l’emarginazione e l’esclusione sociale - e che in carcere abbracciano il jihadismo proposto da qualche imam fai-da-te o autoproclamato Khatib (predicatore), che finisce per innescare in loro un processo di interiorizzazione dell’odio verso la società, e non solo d’accoglienza ma anche di provenienza, e di tutti i suoi modelli (famiglia, lavoro, istruzione...). Un odio che costituisce la base per una loro religiosità, violenta e aggressiva certo, ma che funge da risorsa che permette loro di invertire i ruoli e passare da condannati a persone che possono giudicare la società infedele". Un quadro perfetto per iniziare un percorso che non può più attendere. Firas poteva essere proprio uno di quei Khatib, imam fai-da-te, che ha trovato l’opportunità nel carcere di indottrinare Karlito, ma chissà quanti altri. Da criminale "comune" a soldato per il Califfo, bloccato prima di uscire dal carcere di Grazia Longo La Stampa, 13 marzo 2016 Mentre si tira un sospiro di sollievo per l’operazione anti-Isis dei carabinieri del Ros di Roma, le indagini proseguono alla ricerca di complici e di altri potenziali jihadisti. In particolare si indaga sul carcere come incubatore di terroristi islamici. È proprio nella prigione di Velletri, dove sono stati insieme in cella per due mesi, che nasce il sodalizio tra il tunisino Firas Barhoumi, 29 anni, e il macedone di 41 anni Vulnet Maqelara - alias "Karlito Brigande" in onore al protagonista del film "Carlitòs way", anche se con il nome storpiato - ex combattente Uck (esercito di liberazione del Kosovo) e ora aspirante jihadista. Brigande ha ricevuto in carcere l’ordinanza di custodia cautelare per associazione finalizzata al terrorismo, Barhoumi è irreperibile in Iraq, dalle ultime informazioni risultava a Baghdad ma nel frattempo potrebbe essere morto durante un attentato kamikaze. Il foreign fighter transitato dall’Italia, dove grazie a un elementare italiano è riuscito ad indottrinare Brigande (affettuosamente chiamato "Akhi", fratello), in varie comunicazioni video e chat accennava alla sua volontà di immolarsi nel nome di Allah, per conto del Daesh. Lo scorso 20 ottobre, per esempio diceva al macedone: "Guarda che inshallah spera inshallah per me io ho segnato… uno… per uno operazione suicida, vuol dire prendo una macchina con l’esplosivo dentro per fare un’operazione contro il kuffar (miscredente, ndr)". I carabinieri dell’Anticrimine del Ros, agli ordini del colonnello Giovanni Sozzo, hanno inoltre arrestato anche Abdula Kurtishi, ventiseienne macedone, ricercato in campo internazionale perché evaso da un carcere macedone dove stava scontando una condanna ad anni 8 di reclusione per rapina. Kurtishi, che Brigande definiva "un mio amico" lo avrebbe aiutato per il passaporto falso necessario a raggiungere l’Iraq. Dall’esame dei quattro telefonini di Brigande sono emerse numerose foto e conversazioni. Telegram, Facebook e Skype le principali vie di conversazione tra i due, oltre a lettere cartacee. Baroumi invita il macedone a raggiungerlo passando da Turchia e Siria: "Inshallah, akhi, basta tu cerca per venire a Turchia, resto ci penso io per te, hai capito? Basta che tu venire a Turchia, hai capito?". Determinante il proselitismo in carcere proseguito poi per quasi un anno. È lo stesso Barhoumi che, in una lettera del 29 gennaio 2015 (quando si trovano in due prigioni diverse, uno a Velletri l’altro a Roma a Rebibbia), scrive al macedone: "Il grande re (Dio, ndr), quello che non mori mai ha dato a me l’occasione da venire fino alla tua cella e abbiamo pregato e abbracciare prima di uscire di qua... ti salutano tutti i nostri fratelli quelli che fanno con noi riunione vicino Allah". Chi sono questi amici? C’è il rischio di altri potenziali miliziani jihadisti pronti a combattere? Dall’inchiesta coordinata dal pm Marcello Monteleone non emerge la volontà di compiere attentati terroristici in Italia, ma l’allerta resta alta. Nelle 27 pagine dell’ordinanza, il gip Elvira Tamburelli, ribadisce che il contenuto delle lettere riguardo "all’indottrinamento ideologico" e al percorso spirituale "è inequivocabile". Come questo: "Grazie a Dio, Dio Padre delle nostre terre, vincano i fedeli, i nemici sono peccatori", scritto da Barhoumi. Eloquente anche l’immagine del suo profilo Facebook: compare un bambino con vestito blu e nella prima pagina è inserita parte della immagine postata il ottobre scorso (che coincide con la data dell’ultimo aggiornamento) raffigurante Abu Mohammed Al Adnani, portavoce di Al Baghdadi, con bandiera, buffetteria e fucile. Lo slogan, tradotto dall’arabo, inneggia alla guerra santa, con minacce nei confronti degli infedeli che non si convertono all’Islam: "È meglio che noi musulmani ci sacrifichiamo facendoci tagliare la testa, che un nostro fratello muore senza motivo (…) noi giustifichiamo i nostri fratelli, che intraprendono la via della guerra santa". La giustizia che arranca di Andrea Cangini Il Resto del Carlino, 13 marzo 2016 Oggi che è tutto assai "fast", oggi che siamo tutti molto "speed", ci voltiamo indietro e in lontananza vediamo arrancare una vecchia signora chiamata Giustizia, chiaramente incapace di tenere il passo veloce dei tempi che viviamo. Non ci riferiamo alla nota piaga della durata biblica dei processi penali e civili, ci riferiamo alla giustizia in senso lato: alla capacità, cioè, dello Stato di proteggere i propri cittadini e di tutelarne i diritti. Due esempi. Il 25 febbraio una valente e coraggiosa collega della redazione di Reggio Emilia del Carlino è stata diffamata e minacciata su Facebook da un fondamentalista islamico reggiano solo per aver scritto che il bravo ragazzo in questione è indagato per istigazione a delinquere con aggravante del terrorismo. Con i tempi che corrono, ad essere additati come obiettivo da chi inneggia alla "legge islamica" uno tende a preoccuparsi. Segue, dunque, denuncia. Segue anche segnalazione a Facebook Italia. Che almeno si oscuri all’istante quella pagina impropriamente battezzata "Musulmani d’Italia". Tutto tace, nulla cambia. Il 29 febbraio la procura di Reggio apre un fascicolo, l’8 marzo il gip celebra la Festa della donna firmando un decreto per oscurare quella che nella migliore delle ipotesi è una gogna mediatica. Ad oggi, 17 giorni dopo la denuncia, la pagina Facebook è ancora visibile. Scarsa velocità delle parti in causa, ma anche assenza di una norma. Con le leggi vigenti è stato infatti possibile vietare al simpatico islamico, sulla cui fedina penale già spiccano precedenti per violenze, di frequentare locali pubblici, ma non è possibile impedirgli di pascolare su Internet arringando le masse che affollano la piazza telematica. Altro caso, siamo a Bologna. Antonio Santoro è cieco, vive con moglie e figli in una casa dell’Acer, l’ente pubblico regionale. Parte con la famiglia per qualche giorno, torna a fine febbraio e trova la serratura della porta cambiata. Bussa, nessuno apre. Chiede ai vicini, e scopre che il suo appartamento è stato occupato da alcuni punk poco socievoli. Telefona all’Acer e si sente dire che la cosa non li riguarda. Va alla polizia e gli rispondono che hanno le mani legate. Lo dice al Carlino, e grazie al clamore suscitato dalla notizia dopo una dozzina di giorni può riprendere possesso della propria casa. A Giovanni Ghelardi, 74 anni, è andata peggio: stessa, identica storia, ma purtroppo la stampa non se n’è accorta. Ghelardi ha impiegato più di un anno per rientrare nell’appartamento che gli era stato occupato. L’ha trovato svuotato di tutto: vestiti, mobili, elettrodomestici. Gli hanno portato via persino il lavandino. Oggi che tutto è assai "fast", oggi che siamo tutti molto "speed", una Giustizia lenta e indifferente, fatta di norme antiquate e di procedure farraginose, si fa beffe di chi rischia la vita per aver fatto solo il proprio mestiere come di chi ha avuto la vita rubata e non sa dove trovar riparo quando viene la notte. Puglia: dalla Regione progetto sulle pene alternative "restituire dignità a chi ha sbagliato" Ansa, 13 marzo 2016 La Regione Puglia sta lavorando alla concretizzazione di un progetto per la esecuzione di pene alternative nei confronti dei detenuti. Lo hanno confermato, in occasione del convegno "La nuova esecuzione penale nella Legge delega n. 67/2014", l’assessore regionale alla Formazione e al Lavoro, Sebastiano Leo, il presidente del consiglio regionale della Puglia, Mario Loizzo, e il direttore del carcere di Bari, Lidia De Leonardis. L’iniziativa, infatti, è partita con il protocollo di collaborazione tra l’assessorato regionale al Welfare e il carcere barese, siglato nell’estate 2014, per l’attuazione del diritto allo studio e alla formazione professionale di soggetti in esecuzione penale. "Il carcere - ha spiegato De Leonardis - molto spesso è manovalanza, soprattutto di quella fascia bassa di detenuti che hanno una pericolosità sociale limitata o non l’hanno affatto, per quelle che sono le compagini criminali. Quindi è giusto che queste persone, che creano poco allarme sociale, possano scontare la loro pena al di fuori". "La proposta alla quale abbiamo pensato - ha aggiunto - consente di prendere in carico queste persone accompagnandole in un piano di adattamento individualizzato. Questa parte sarà coperta dal terzo e quarto settore selezionato dalla Regione: si pensa o a un sistema di voucher ma anche ad una struttura di dimora sociale. E speriamo che questa fase sperimentale parta dalla Puglia perché terra di confine per la mafia". Leo ha assicurato che la Regione "sta lavorando al bando: cercheremo nelle prossime settimane di completarlo - ha aggiunto - per poi condividerlo col partenariato e con le cooperative sociali, anche attraverso l’assessorato al Welfare. Noi abbiamo i fondi" europei, ha proseguito, "destinati alla inclusione sociale e infatti sono questi che vogliamo utilizzare. Le risorse sono tante ma bisogna investirle, andando a scommettere su queste persone che hanno sbagliato ma alle quali dobbiamo dare dignità". La Regione Puglia, ha sottolineato Loizzo, "è impegnata a realizzare alcune buone pratiche, progetti che puntano al reinserimento di chi ha piccole colpe, ma che allo stesso tempo agiscono a favore dell’intera società civile, riducendo la recidiva penale". Genova: detenuto muore in cella, si sospetta l’overdose Il Secolo XIX, 13 marzo 2016 Lo hanno trovato senza vita all’interno della sua cella del carcere di Marassi. Massimiliano Ferrari, 51anni, detenuto genovese potrebbe essere stato stroncato da un’overdose di droga. È il sospetto del sostituto procuratore Francesco Cardona Albini che ieri ha aperto un’inchiesta sull’accaduto. Il reato ipotizzato è quello di omicidio colposo a carico di ignoti. Secondo quanto ricostruito l’uomo stava scontando una pena per spaccio di stupefacenti. Sul corpo nessun segno di violenza. Secondo il medico legale che ha fatto una prima ricognizione sul cadavere, il detenuto potrebbe essere morto per overdose o per cause naturali. Il pm ha disposto l’autopsia. L’uomo aveva ottenuto lo scorso anno l’affidamento a una comunità terapeutica, ma da settembre era tornato in carcere perché aveva abusato di sostanze tanto da finire in overdose, da qui il sospetto che anche ieri possa avere abusato nuovamente di droga. Le indagini serviranno anche ad accertare se qualcuno abbia fornito droga alla vittima. Il padre del detenuto chiede giustizia: "Vogliamo capire cosa è successo a nostro figlio - spiega Saverio Ferrari - ci hanno telefonato per dirci che era morto. E non sappiamo nulla di più. Se fosse per un’overdose sarebbe un fatto grave. La droga all’interno del carcere non dovrebbe circolare. E se è cosi vogliamo capire chi è stato a venderla". La morte del detenuto riporta l’attenzione sulla vita all’interno delle carceri genovesi. Per Donato Capece segretario generale del Sappe: "La situazione nelle carceri resta allarmante". "Dal punto di vista sanitario - prosegue il sindacalista - è semplicemente terrificante. Secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)" Firenze: olio degli incontri, dal carcere di Sollicciano l’extravergine della rivalsa di Sara Ficocelli La Repubblica, 13 marzo 2016 L’azienda toscana Frescobaldi ha messo a disposizione i propri agronomi per la realizzazione di un raffinato prodotto, frutto degli oliveti interni al comprensorio del carcere e franto presso il Castello di Nipozzano, a pochi chilometri da Firenze. Permettere ai detenuti di fare un’esperienza concreta nel campo dell’agricoltura, dalla viticoltura alla olivicoltura, significa non solo dar loro la possibilità di sentirsi utili alla società ma anche insegnare a queste persone un mestiere, e fornirgli strumenti preziosi da usare una volta tornati in libertà. L’olio degli incontri. Ecco perché, sotto la supervisione degli agronomi e degli enologi Frescobaldi, l’azienda toscana ha avviato col carcere di Sollicciano (Fi) questa importante iniziativa, dando il via alla produzione di un olio dal nome significativo: "Degli incontri". Dopo il progetto Gorgona, nato nel 2012 grazie alla collaborazione tra l’azienda e la direzione dell’unica isola penitenziaria rimasta in Italia, nasce dunque ora questo raffinato prodotto, destinato a condire non solo i nostri cibi ma i nostri pensieri, attivando, se possibile, una riflessione profonda sulla funzione delle strutture penitenziarie nel nostro Paese. Il precedente nel carcere di Gorgona. A Gorgona Frescobaldi ha dato la possibilità ai detenuti di imparare un mestiere e apprendere le tecniche di viticolutura e vinificazione, portandoli per mano alla realizzazione di un sogno: la produzione del vino Gorgona, un bianco a base di ansonica e vermentino. I detenuti che lavorano a questo progetto sono regolarmente assunti e stipendiati da Frescobaldi, che annualmente investe nell’iniziativa circa 100 mila euro Un’etichetta esclusiva. A Sollicciano, invece, l’azienda toscana ha messo a disposizione i propri agronomi per realizzare un prodotto se vogliamo ancora più elitario, ottenuto dagli oliveti interni al comprensorio del carcere e franto presso il Castello di Nipozzano, a pochi chilometri da Firenze, dove è stato poi imbottigliato e impreziosito da una speciale etichetta ideata, come per Gorgona, dallo studio toscano Doni & Associati. Il nome dell’olio deriva dall’omonimo giardino, costruito da Giovanni Michelucci per i momenti di incontro dei detenuti con le loro famiglie e in particolare con i bambini. Bottiglie per supportare il penitenziario. È la prima vota che in un carcere si produce olio. Le bottiglie realizzate fino sono 300, ognuna da 250 ml: una parte di esse è rimasta a disposizione del carcere, e un centinaio circa sono state donate a personalità e istituzioni tra cui il Santo Padre, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il premier Matteo Renzi, mentre le restanti si potranno acquistare contattando direttamente l’azienda all’indirizzo email clienti.italia@frescobaldi.it, a fronte di un contributo di 19 euro. Lo scopo del progetto è quello di supportare il carcere anche nel miglioramento ambientale, trapiantando olivi più giovani all’interno dell’istituto penitenziario. Un esempio da imitare. "L’evoluzione di questo progetto - spiega Lamberto Frescobaldi, presidente dell’omonima azienda - ci riempie il cuore di orgoglio e di speranza perché è un segno tangibile che tra pubblico e privato le cose possono funzionare. Obiettivo comune è quello di dare ai detenuti una concreta possibilità di rivalsa e di reinserimento reale nel tessuto lavorativo e sociale, e la speranza è che questo non rimanga un caso isolato, ma possa diventare una best practice italiana da esportare nel mondo, iniziata e portata avanti proprio in Toscana". Ottime prospettive future. Ma l’avventura è solo all’inizio. C’è infatti un’intera collina, quella di Scandicci, che la famiglia Frescobaldi vorrebbe dedicare alla produzione dell’olio degli incontri, facendo lavorare al progetto carcerati in permesso o in semilibertà. E qui la produzione potrebbe diventare importante, pari a circa ventimila bottiglie l’anno di altissima qualità. Trieste: Fedriga (Ln) "sos carcere del Coroneo, stranieri da rimpatriare" Il Piccolo, 13 marzo 2016 "Più risorse per gli operatori di polizia penitenziaria e rimpatrio dei delinquenti stranieri per svuotare le carceri senza compromettere la certezza della pena". Lo affermano il capogruppo alla Camera e segretario regionale della Lega Massimiliano Fedriga e il segretario provinciale Pierpaolo Roberti al termine di un sopralluogo alla casa circondariale di via Coroneo. "Quello che si evince - sostengono all’uscita dal carcere i due esponenti del Carroccio - è che, come purtroppo da tempo ci ha abituati il Pd, il governo si accanisce contro le vittime e si erge invece a strenuo difensore degli aggressori". E ancora: "Accade così che anche le nostre carceri siano costrette a pagare dazio al dilagante buonismo della sinistra, sotto forma di organici sottodimensionati obbligati a fare i conti con strutture sovraffollate e con detenuti in regime di "circuito libero", cioè a celle aperte, per oltre otto ore al giorno". Fedriga e Roberti denunciano anche l’escalation di detenuti stranieri: "È preoccupante constatare come, negli ultimi anni, la popolazione carceraria sia mutata: oltre il 50% dei detenuti a Trieste è infatti composto da stranieri di decine di etnie". I due leghisti concludono sostenendo che "le amnistie e gli indulti non sono la risposta giusta per una società che chiede giustizia e certezza della pena e i decreti svuota carceri non possono né devono diventare lo strumento per rimettere in libertà, con la scusa del sovraffollamento, delinquenti di ogni genere. Servono invece più risorse per permettere agli operatori di svolgere al meglio il proprio lavoro e accordi bilaterali per consentire agli stranieri di scontare i periodi detentivi nei loro Paesi di origine". Intanto anche le segreterie provinciali di Sap, Sappe e Conapo (i sindacati autonomi della polizia, della polizia penitenziaria e dei vigili del fuoco) denunciano la grave "debilitazione" dell’apparato sicurezza a Trieste. "I recenti fatti accaduti al Coroneo - scrivono i segretari Lorenzo Tamaro, Corrado Venturati e Alessandro Pradel - sono solo gli ultimi in ordine di tempo e figli di un sovraffollamento che ospita 204 detenuti di cui 117 stranieri su una capienza regolare di 139. Un problema, quello del sovraffollamento, in parte allentato dai recenti provvedimenti salva-carceri che però vanno a gravare all’esterno e che non garantiscono la certezza della pena a chi delinque". Torino "picchiato in carcere", denuncia di un detenuto. Sappe: lui ha aggredito gli agenti di Marco Balestrazzi La Stampa, 13 marzo 2016 In aula mostra i lividi. Il sindacato di polizia: "È lui che ci ha aggredito". Rachid Assarag, che da pochi mesi è in carrozzina, è difeso da un pool di legali guidati da Fabio Anselmo, lo stesso avvocato delle famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. "Mi hanno picchiato, anche con le chiavi sulla testa". Rachid Assarag, il detenuto che aveva denunciato di aver subito violenze nel carcere di Parma, registrando di nascosto conversazioni con gli agenti, rivela nuovi maltrattamenti che sarebbero avvenuti nel penitenziario di Torino dove è stato trasferito da due mesi. Assarag, quarantenne marocchino recluso per reati sessuali, è comparso in tribunale a Parma nell’ambito di un altro procedimento, per difendersi dalle accuse di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Ha chiesto di rilasciare dichiarazioni spontanee, poi ha sollevato la tuta, mostrando ai magistrati i lividi sulla fronte, un ematoma sulla zigomo, escoriazioni su braccia e gambe. Effetti, assicura il detenuto, dei pestaggi delle ultime settimane che a suo dire sarebbero avvenuti nel carcere Lo Russo e Cutugno delle Vallette. "A Torino mi hanno picchiato in carcere" - "Ho subito violenze verbali e minacce di morte" ha spiegato seduto sulla sedie a rotelle che utilizza da pochi mesi, debilitato da scioperi della fame e lesioni varie. "Non ha trovato ascolto dai medici - ha spiegato il suo avvocato Alessandra Pisa - ha deciso di mostrare pubblicamente quello che è successo". Opposta la versione del Sappe, sindacato della penitenziaria: "Il detenuto ha aggredito senza alcuna ragione i due agenti poi accompagnati all’ospedale Maria Vittoria: questo, perché pretendeva di uscire, si lamentava di tutto". Nella sua battaglia contro il "muro di gomma del sistema carcere", Assarag è sempre accompagnato dalla moglie Emanuela e seguito dal pool di legali guidati da Fabio Anselmo, lo stesso delle famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Una situazione kafkiana quella che lo vede imputato. "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu" diceva una guardia registrata di nascosto a Parma. Ha denunciato di essere stato vittima di violenze, producendo decine di file audio, ma la Procura emiliana ha chiesto l’archiviazione ritenendo che non ci fossero elementi sufficienti contro i dieci indagati. Ora, però, per quei fatti Assarag si trova a processo, denunciato perché avrebbe insultato e aggredito le guardie. Il giudice ha però disposto una perizia fonica sui file audio perché quelle voci abbiano un volto. Per capire se tra quelli che lo accusano ci siano gli stessi che lo hanno pestato. A quanto pare cambiano i penitenziari ma non cambia nulla per Rachid che a Firenze pochi giorni fa è stato assolto dall’accusa di resistenza agli agenti e danneggiamento. Ancona: protesta rumorosa in carcere, l’ira dei detenuti per i pochi canali tv Corriere Adriatico, 13 marzo 2016 Pochi i canali tv visibili e i detenuti di Montacuto organizzano una protesta. Protesta rumorosa di un centinaio di detenuti della casa circondariale di Montacuto di Ancona, che battono contro le inferriate per più volte al giorno perché un guasto all’antenna televisiva centrale ha oscurato una decina di canali, ad eccezione dei primi tre canali Rai. La notizia è stata diffusa in queste ore dal Cosp, il sindacato di polizia penitenziaria, che lamenta un aggravio di lavoro da parte del personale durante le ore della protesta dei detenuti e chiede quindi un intervento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per far riparare l’antenna. Empoli: dalla tragedia alla speranza, ecco il rave party anti-sballo di Paola Villani Il Tirreno, 13 marzo 2016 La vedova del carabiniere ucciso nel 2011 promuoverà una festa il 25 aprile insieme la madre del giovane di Cerreto Guidi condannato per omicidio: "Vogliamo insegnare ai giovani l’importanza dell’accoglienza e della mediazione". Il sorriso non ha mai lasciato spazio alle lacrime. "Il 25 aprile io e Irene (Sisi, ndr) organizzeremo un rave della sostanza, sostanza stavolta intesa come contenuti e valori e non come stupefacenti". Spazio alla speranza. Ancora una volta Claudia Francardi, moglie dell’appuntato Antonio Santarelli, ha stupito tutti con la sua forza, che da quel tragico 25 aprile 2011 non l’ha abbandonata. Claudia è coraggiosa, lo ha dimostrato ancora una volta, lei vedova del militare morto un anno dopo aver subito una brutale aggressione mentre con il collega Domenico Marino era in servizio in un posto di blocco vicino Sorano, dov’era in corso un rave. I due militari hanno fermato una macchina con alcuni ragazzi a bordo. Poi è successo l’inimmaginabile: Matteo Gorelli, di Cerreto Guidi, con un bastone ha ferito Santarelli e ha provocato la perdita di un occhio al collega. L’appuntato è morto dopo un anno di sofferenza: la compagna della sua vita non si è lasciata prendere dall’odio nei confronti di quel ragazzino, ma con la mamma di Matteo, Irene Sisi, è diventata amica e ha creato una associazione, AmiCainoAbele, per occuparsi della riabilitazione dei detenuti. Una donna forte, coraggiosa, capace di fare spazio all’amore invece che alla rabbia. E ieri mattina all’inaugurazione della caserma di Follonica intitolata a Santarelli, Claudia ha dimostrato ancora una volta il suo spessore umano. "È stato molto emozionante, un riconoscimento importante: essere qua oggi toglie il fiato - ha dichiarato commossa dopo l’inaugurazione. Provo sentimenti contrastanti perché chiaramente avrei preferito che questa celebrazione non ci fosse mai stata. Antonio lavorava con amore e non credo che oggi siano molti quelli che lo fanno, aveva una dedizione esemplare al suo compito. Antonio non era lì quel 25 aprile per esercitare il suo potere ma per svolgere un servizio per la comunità". Nei suoi occhi traspare l’amore per quel compagno che troppo presto se n’è andato e in una maniera così brutale. Ma la forza per affrontare tutto quel dolore forse Claudia l’ha trovata nel perdono: chiama la mamma di Matteo Gorelli per nome. Irene è per lei oggi un’amica e una compagna con cui portare avanti battaglie sociali. "Non c’è più tristezza – spiega. Per la prima volta oggi mi sono sentita bene nel profondo. Certo restano il dolore e la mancanza ma stiamo andando avanti, grazie anche ai progetti dell’associazione: in occasione della quinta ricorrenza di quel tragico 25 aprile insieme a Irene abbiamo organizzato un rave: ma stavolta saranno altre le sostanze presenti, perché ci saranno contenuti e valori, grazie all’intervento di personaggi come Gherardo Colombo (ex magistrato) e Guido Bertaglia (parroco che ha operato molti anni in carcere). La giornata sarà a Rispescia negli spazi di Legambiente. Vogliamo dimostrare che possiamo stare insieme senza sballo, insegnando ai giovani l’importanza dell’accoglienza e della mediazione". Senza la condivisione del dolore con la mamma di Gorelli, forse oggi questa iniziativa non ci sarebbe in programma: Claudia e Irene sono due persone nuove che dicono d’avere progetti importanti da portare avanti e che non possono perdere tempo con odio e rabbia. Como: al Bassone lo sport per i detenuti "aiuta ad essere persone nuove" comolive.it, 13 marzo 2016 Il Coni Lombardia guidato da Oreste Perri e le carceri di tutte le province lombarde hanno firmato un protocollo d’intesa che mira a favorire, attraverso lo sport, il recupero sociale dei detenuti. "Fare sport aiuta a riappropriarsi della propria vita, a reinserirsi nella società e a essere donne e uomini nuovi" ha commentato in una nota l’assessore allo Sport e Politiche per i giovani di Regione Lombardia Antonio Rossi. "Come Regione - ha ricordato l’assessore Rossi - avevamo finanziato, tra settembre 2014 e fine agosto 2015, il progetto ‘Oltre il muro, porte aperte alla speranza´ del capofila Uisp Lombardia, in partenariato con i comitati territoriali Uisp, nell’ambito del bando Progetti Speciali". L’iniziativa ha riguardato le Case circondariali di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lodi, Mantova, Milano (Bollate, Opera, Beccaria), Varese con un valore progettuale di 94.350 euro, finanziati dalla Regione con 47.175 euro. "Abbiamo coinvolto 2.236 detenuti, 145 detenute, 45 minori detenuti e anche 295 persone della Polizia penitenziaria e dell’area educativa - ha evidenziato l’assessore - che sono stati seguiti da educatori sportivi, tecnici sportivi, animatori, formatori, insegnanti, volontari". "Quest’anno - ha spiegato - abbiamo riproposto la misura dei progetti speciali, in collaborazione con Fondazione Cariplo, per un valore di un milione di euro". "Il protocollo che presenta il Coni Lombardia e che si collega a quello del 2013 del Coni nazionale con il Ministero di Grazia e Giustizia, con il coinvolgimento della Fondazione Candido Cannavò - ha concluso l’assessore Rossi - è quasi un Accordo attuativo regionale della misura nazionale, che saluto con piacere e che ben si coniuga con le finalità del progetto di Regione e Uisp e con la politica dell’Assessorato di riscattare le persone attraverso il moto". I migranti e noi: ciò che si dice, ciò che è di Leonardo Becchetti Avvenire, 13 marzo 2016 I migranti stanno invadendo i Paesi ricchi? Rapporto rifugiati per 1.000 abitanti: Libano 232, Giordania 87, Malta 23, Svezia 9, Italia 2 (media Ue 2). I musulmani ci invadono? Meno di un terzo tra gli immigrati che arrivano in Italia sono musulmani. Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Con i 5 miliardi di differenza tra contributi versati e percepiti dagli immigrati l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. Saremo travolti da milioni di poverissimi? Sono prevalentemente quelli dei ceti medi che riescono ad arrivare nei nostri Paesi perché i soli con le risorse economiche necessarie per fare il viaggio. Rischiamo una catastrofe demografica? Il Paese si sta spopolando, con la perdita di 180mila italiani nel 2015, rimpiazzati da meno di 40mila stranieri immigrati. L’arrivo degli immigrati ridurrà le nostre possibilità di sviluppo? Come ricordava ieri su questa prima pagina Massimo Calvi, gli Stati Uniti calcolano che l’invecchiamento della popolazione toglierà 0,8% punti di Pil all’anno per i prossimi otto anni: figuriamoci da noi dove la popolazione invecchia ancor più e non vogliamo forza lavoro giovane immigrata. Il Pil è la somma di beni e servizi prodotti e venduti e, a parità di competitività, con più anziani e meno forza lavoro (e forza lavoro più anziana) si produce meno e a tassi di produttività inferiori. Semplice. E drammatico. La differenza tra realtà e pregiudizio sul tema delle migrazioni, come anche qui si continua a documentare, è sostanziale. Il tema delle migrazioni è ostaggio delle chiacchiere del bar dello Sport e di una narrativa ansiogena che certa politica, e purtroppo anche certi media, hanno interesse ad alimentare. Questa narrativa è lo specchio delle paure e delle ansie della popolazione nei confronti della globalizzazione, alimenta le opinioni di settori importanti dell’elettorato e riduce lo spazio per le politiche d’integrazione. Nessun governo può pensare di approvare leggi lungimiranti in materia, conservando il consenso dell’opinione pubblica in presenza di questa congiuntura comunicativa e culturale avversa. Se le statistiche non bastano a contrastare la narrazione distorta (e qualcuno del bar dello Sport arriverà a pensare che la statistica fa parte del "complotto") c’è bisogno di contro-narrazioni e di iniziative che possano contrastare il fenomeno. Per risolvere il problema "politico" non basta dunque (anche se è ottimo e doveroso) proporre iniziative eccellenti che tante realtà della società civile organizzano rendendo vivo e tangibile il principio della sussidiarietà. In questo, la nostra cultura del "fare il bene, ma non dirlo" non aiuta affatto. Non si tratta di vantare quello che si fa quanto di affrontare una missione culturale. Bisogna anche sporcarsi le mani "entrando nel bar dello Sport" e affrontando direttamente il problema della narrativa distorta (come, ripeto, su queste pagine si fa spesso). Confutando innanzitutto il falso principio della "torta fissa". Come è noto in letteratura scientifica, la paura e l’ostilità per lo straniero è alimentata dal pregiudizio che l’economia e la società siano un gioco a somma zero. La torta delle risorse è fissa e, se c’è un nuovo arrivato, bisognerà dargliene una fetta e quindi ridurre la nostra (la recessione da questo punto di vista aggrava il problema di percezione in questione perché per anni la torta si è ridotta). L’economia, invece, è un gioco a somma positiva, perché quella torta bisogna produrla, e farlo in un Paese che invecchia è sempre più difficile. La produttività dipende anche dallo spirito imprenditoriale e dalla struttura per età della popolazione. Le nuove risorse ed energie che vengono da altri Paesi diventano quindi preziose per far funzionare l’economia, stimolare creatività e innovazione. Le abilità e le qualifiche degli stranieri sono molto spesso complementari e non sostitute di quelle degli italiani e rendono più vivo e vitale il "tessuto produttivo" del Paese. Per contrastare la narrazione culturale dominante ci vuole un lavoro paziente e capillare di formazione che faccia incontrare concretamente i diversi. Lo straniero è molto più minaccioso quando è un’entità astratta che entra in casa nostra attraverso le ansie alimentate dalla televisione. Può diventare relazione quando è persona della porta accanto che entra nella nostra vita. Accanto a questo lavoro paziente e impegnativo c’è anche bisogno di produrre narrative diverse. In questa seconda fase della globalizzazione in cui i movimenti di persone stanno diventando fluidi e veloci quasi come i movimenti di capitali è illusorio (oltre che moralmente ed economicamente sbagliato) opporre resistenza alla società meticcia che verrà ed allora la cosa più giusta che possiamo fare è predisporre nel modo migliore possibile il nostro Paese a un’accoglienza ben regolata e intelligente. Da questo punto di vista c’è bisogno di raccontare in modo efficace storie diverse (quale sarà il commediografo che scriverà l’Indovina chi viene a cena dei nostri giorni?), di abitare sporcandosi le mani lo spazio dei social media perché altrimenti quello spazio lo occuperanno altri producendo livori e diffondendo la cultura del mors tua vita mea e degli italiani prima. E di organizzare momenti visibili di piazza. È arrivato il momento di mobilitazioni che affrontino il tema. L’Europa di questi anni sarà giudicata per il modo in cui ha accolto chi è nel bisogno e ha ire parato il suo stesso futuro. Oltre al Family day, per valorizzare la troppo sottovalutata bellezza e la forza della famiglia, sta forse arrivando il giorno di un Migration day, per valorizzare la complessità buona e la ricchezza del fenomeno migratorio nel nostro Paese. Per chiedere, anche qui, una legalità salda e accogliente. E per cambiare la percezione della globalizzazione. Migranti, Parigi si smarca da Berlino. Renzi: stop ai vertici ogni 15 giorni di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 13 marzo 2016 All’Eliseo Hollande accoglie i leader della sinistra continentale per studiare un rilancio europeo. Il premier italiano: "Il nuovo mantra deve essere la crescita". Al termine dell’incontro Hollande promette nuove iniziative per "un’Europa molto più politica, magari a più velocità, con un budget e un governo della zona euro", rinviate però all’indomani del referendum del 23 giugno sulla permanenza o l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, "qualsiasi sia il risultato". Il presidente francese ha accolto sabato all’Eliseo il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi e gli altri leader della sinistra continentale per studiare un rilancio europeo basato su "crescita, crescita, crescita, il nuovo mantra", come ha detto Renzi. La prossima riunione si terrà a Roma. A rappresentare la Germania c’era il ministro dell’Economia e vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel, che non ha potuto fare molto per mascherare le difficoltà di molti Paesi con Berlino, evidenti dagli eventi delle ultime settimane e anche dalle dichiarazioni rese ieri dai leader. "Non è possibile fare un Consiglio europeo ogni 15 giorni, così diamo l’idea che non governiamo processi epocali come quelli migratori", ha detto Renzi, a pochi giorni dal vertice di lunedì scorso a Bruxelles nel quale la cancelliera Angela Merkel ha negoziato direttamente con il primo ministro turco Ahmet Davutoglu. Anche Hollande ha voluto precisare i termini delle discussioni con la Turchia, in vista della ripresa dei colloqui giovedì, dicendo che "non ci possono essere concessioni in materia di diritti umani o sui criteri di liberalizzazione dei visti". La Germania fa da sola sui migranti e per questo già un mese fa è stata apertamente criticata da Manuel Valls in visita a Monaco di Baviera. "Qualche mese fa i media francesi volevano dare il Nobel alla cancelliera, oggi ne constato i risultati...", disse il premier francese, segnando il punto forse più basso delle relazioni tra Francia e Germania negli ultimi anni. Ieri nessuno ha nominato Merkel, ma la sua politica è stata evidentemente chiamata in causa. "L’austerity in Europa non funziona - ha detto Renzi - o come minimo ha portato sfortuna. Basta guardare la lunga fila di governi "rigoristi" che sono caduti come in un domino: Grecia, Portogallo, Spagna, adesso Irlanda. C’è un tema ingovernabilità su questa linea, a fronte di un populismo montante. Oggi a Parigi facciamo un passo avanti per dare unità e visione e strategia dei socialisti e democratici in Europa. Con l’Italia che su questi temi (il lavoro, in particolare) detta l’agenda". Hollande ha parlato del rischio per l’Europa "non di una scomparsa, e neanche di uno smembramento, ma di una perdita di importanza" se non riesce a rispondere alla doppia esigenza di "sicurezza per i cittadini e speranza per i popoli". Mancanze delle quali Merkel - troppo aperta sui migranti, troppo rigorosa sui conti - è giudicata in gran parte responsabile. Appuntamento a Roma, dopo il referendum britannico, per scoprire le carte e vedere che cosa proporranno i leader di sinistra europei. Migranti ed Europa: il voto in tre Länder tedeschi è un test sulla Cancelliera di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 13 marzo 2016 Una campagna elettorale dominata dal tema dei profughi e che si è trasformata, negli ultimi mesi, in un plebiscito su Angela Merkel. Oggi si vota in Renania-Palatinato, Baden-Wuerttenberg e Sachsen-Anhalt, e la caduta pesante nei sondaggi dei partiti di governo, Cdu e Spd, ha reso più mosso lo scenario delle alleanze locali e sembra disegnare un quadro inquietante anche per il futuro del Paese. In due Land su tre le due "Volksparteien" potrebbero non raggiungere la maggioranza assoluta. Gli analisti prefigurano coalizioni a tre e combinazioni più fragili, che fanno pensare ad un quadro in questi Land più instabile, "italiano", maligna qualche commentatore. Da mesi, dunque, sia Merkel sia il vicecancelliere e capo della Spd, Sigmar Gabriel, fanno i conti con retroscena sulla loro imminente fine. Per la cancelliera si tratta di uno scenario più difficile da immaginare, visto che manca un’alternativa. Ma se si confermasse la caporetto dei sondaggi per la Spd, per Gabriel sarà molto difficile realizzare il suo obiettivo di una candidatura alla cancelleria. Gli elettori conservatori sembrano rifiutare l’idea delle "porte aperte ai profughi" voluta da Merkel. E il fenomeno che spaventa di più è il successo clamoroso dei populisti di destra dell’Afd. Dovrebbero superare ovunque, agevolmente, la soglia di sbarramento del 5%. Nell’unico Land dell’Est dove si vota, il Sassonia-Anhalt, il partito di Frauke Petry è dato addirittura al 19%. Il paradosso è che per limitare l’emorragia dei voti, i candidati Cdu, Julia Kloeckner (Renania-Palatinato), Guido Wolf (Baden-Wuerttenberg) e Reiner Haseloff (Sassonia-Anhalt) hanno cercato frettolosamente di prendere le distanze dalla cancelliera, nelle ultime settimane. Ma l’effetto è ambivalente. Anche perché la politica tedesca sta cambiando pelle proprio a causa della svolta "umanitaria" di Merkel. E, a ben vedere, pesano gli anni di coabitazione di Cdu e Spd. Ha confuso i contorni dei due partiti; soprattutto, a svantaggio dei socialdemocratici. Nel Baden-Wuerttenberg, il governatore Verde Winfried Kretschmann, ha sempre difeso Merkel, ad esempio. Il suo rivale Wolf, della Cdu, no. Al momento i Verdi sono primi, con il 33,5%, ma con un crollo di oltre dieci punti della Spd, che potrebbe diventare quarta forza (dietro l’Afd dato al 12,5%), Kretschmann potrebbe essere l’uomo di un primato: un governo regionale Gruenen-Cdu. Un esperimento che non dispiacerebbe a Merkel. In Renania-Palatinato, la sfida è tra due donne. La numero due Cdu, Julia Kloeckner, e la governatrice uscente della Spd, Malu Dreyer. Sono testa a testa al 35%, chi vincerà dovrà cercare alleati in un quadro sempre più frastagliato, in cui l’Afd è al 9%. Anche qui, posizioni paradossali: Kloeckner ha spesso criticato la cancelliera, proponendo un piano B per i rifugiati. La presidente uscente, la socialdemocratica Dreyer, la difende. Il Sassonia-Anhalt, però, rischia di prendere i titoloni di oggi. Un elettore su 5 potrebbe votare per l’Afd della "anti-Merkel" di destra, Frauke Petry. Il governatore Cdu, Reiner Haseloff, è sempre stato il più violento, nelle critiche contro Merkel. Ma da lunedì dovrà scendere a patti - causa crollo Spd, data al 15% - con alleanze a tre. Migranti. Quel bambino nato nel fango ai piedi del nuovo muro di Melania Mazzucco La Repubblica, 13 marzo 2016 Il bimbo nato nella tendopoli di Idomeni. Tu devi vivere. Per te, minuscola creatura senza nome venuta al mondo sotto un cielo di pioggia, su un materasso di fango. Ma anche per noi, che ti guardiamo inteneriti e ipocriti - disposti a piangerti morto e però non disposti ad accoglierti vivo. Sei l’ennesimo: un numero di troppo, in una somma con tanti zeri. Se l’acqua con cui ti hanno lavato non sarà stata troppo fredda, se i microbi e i batteri che proliferano nella fetida melma pestata da scarpe esauste non infetteranno la ferita del cordone ombelicale, allora anche per noi ci sarà perdono. Un giorno saprai dove, come e perché ti è stato tolto tutto, anche il diritto di appartenere, nei tuoi primi istanti, a chi ti ha generato. Invece il mondo intero ti ha visto nudo, inerme, poco più grande della mano che ti sostiene. Se resterai in questo continente, ci incontrerai a scuola, all’università, al lavoro e non potrai non chiederti dov’eravamo, mentre tua madre incinta attraversava il mare bellissimo in cui noi ci facevamo il bagno, o camminava sotto la pioggia ai margini di una strada che non doveva condurre a nulla. E perché nessuno le ha trovato un tetto, o un letto - nemmeno a lei, che degli ultimi era nella condizione di essere l’ultima. Guardando il genitore di un tuo compagno, o il tuo datore di lavoro, ti chiederai se è stato tra quelli che ritenevano tua madre una minaccia alla sua identità, alla sua religione o alla sua opulenza. Se è stato uno di quelli che distingueva i suoi bisogni in base alla presunta sicurezza della regione da cui era partita, e classificava i suoi compagni di viaggio tra aventi diritto e non aventi. O se è stato invece uno di quelli che ti hanno aiutato - dandole qualcosa da mangiare, o un passaggio, o anche solo la tenda in cui sei nato. Che in verità costa molto poco, sai, e i giovani di questo continente non la usano più nemmeno per andare in vacanza. Misero aiuto, potrai pensare - perché ciò che mia madre chiedeva non era cibo né tenda, benché ovviamente avesse bisogno anche di quelli, ma era ciò che voi considerate tutto. La dignità di essere riconosciuta come un essere umano, e il diritto di sognare un futuro per sé e per te. Che poi è l’unica ragione che muove il mondo, e lo rinnova. Forse ti diranno che tanti anni fa l’Europa era un campo di rovine, dopo una guerra peggiore o identica a quella da cui sono scappati i tuoi. Ricordandosi di non aver accolto neanche un profugo, di aver lasciato affondare le barche che trasportavano un popolo condannato a morte, giurando che lo scandalo non si sarebbe ripetuto, gli uomini che dovevano governare il nuovo mondo compilarono nobili costituzioni, e firmarono trattati impegnativi. Nel 1951, la convenzione di Ginevra ha sancito che nessuno Stato che l’ha sottoscritta "può espellere o respingere, in qualunque maniera, un rifugiato alle frontiere di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbe minacciata". Infatti non hanno espulso tua madre né te. Ma non vi hanno neppure accolti. Siete lì, entrambi - di tuo padre non so nulla - sospesi, nel bozzolo umido e primordiale di una tenda. Vi hanno fermato - come si ferma provvisoriamente un fiume, costruendo una diga, che allaga i campi tutt’intorno. Ma come tutti sanno, l’acqua trova sempre una strada. Tu l’hai trovata. Se un giorno, in Germania, in Svezia, in Danimarca mi incontrerai, chiedimi dov’ero il 12 marzo del 2016. Ti ho visto nascere, ti dirò, ti ho augurato di vivere, ho scritto di te. Tu mi dirai: non era abbastanza. Ma ci vorranno anni. E io ho ancora modo di dimostrarti che ti considero più prezioso della plastica che ti circonda, che sei tu il futuro mio e dell’unione di nazioni e popoli di cui vorrei essere orgogliosa di fare parte. Di dimostrarti che ti ho riconosciuto. Egitto: il mistero dei vestiti di Regeni e la telefonata dall’estero di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 marzo 2016 Sono questi gli elementi più significativi nella relazione riservata di 91 pagine consegnata dagli inquirenti egiziani al team investigativo in missione da oltre un mese. Un’utenza internazionale che contatta il cellulare di Giulio Regeni il primo febbraio scorso e alcuni indumenti "custoditi nel commissariato di polizia". Sono gli elementi più significativi contenuti nella relazione riservata di 91 pagine consegnata dagli inquirenti egiziani al team investigativo in missione da oltre un mese, alla vigilia della trasferta del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo sostituto Sergio Colaiocco al Cairo. L’esame del dossier fa emergere definitivamente tutti i depistaggi e le omissioni compiute dalle autorità locali per occultare la verità sulla cattura e l’omicidio del ricercatore. Perché contiene soltanto una parte di tabulati telefonici, testimonianze, relazioni di servizio e dimostra come alcune tracce utili siano state tralasciate o addirittura contraffatte. Ma soprattutto perché svela le manipolazioni compiute dopo il ritrovamento del cadavere del giovane ricercatore. Il telefono cellulare - Secondo l’informativa della polizia locale, l’ultimo contatto utile ricavato dal cellulare di Regeni è una "connessione internet alle 19.51 del 25 gennaio nei pressi della metropolitana". Nulla di più viene specificato, quindi non è possibile sapere se sia stato proprio lui ad effettuarla. L’annotazione dà invece conto di altre due chiamate "a cellulare chiuso". La prima arriva alle 11.40 del 26 gennaio ed è stata effettuata da un amico di Giulio nel tentativo disperato di riuscire a rintracciarlo. L’altra risale all’1 febbraio, quando la notizia della sua scomparsa era ormai pubblica ed era già forte la "pressione" delle autorità italiane sull’Egitto per sapere che fine avesse fatto. Proviene da un’utenza internazionale indicata nella relazione sulla quale non è stato effettuato alcun controllo che invece sarà svolto adesso dai carabinieri del Ros e dai poliziotti dello Sco. A chi è intestata? Chi cercava Giulio? E perché? Nessun ripetitore - Nel dossier si conferma che a scoprire il cadavere sul cavalcavia alle 10.30 del 3 febbraio è un tassista che si ferma sul ciglio della strada dopo aver forato uno pneumatico. Secondo la relazione, a bordo dell’auto ci sono alcune persone che si appartano per fare la pipì e sporgendosi dal parapetto notano il corpo. Il tassista avvisa subito il suo datore di lavoro, entrambi vengono poi interrogati ma - almeno a leggere il resoconto - si limitano a fornire una scarna ricostruzione. Eloquente è invece l’annotazione degli investigatori: "In zona non è presente alcun ripetitore". Un evidente tentativo di mettere le mani avanti rispetto all’istanza dell’Italia che aveva chiesto di ottenere il traffico delle "celle" telefoniche presenti sulla zona della scomparsa e su quella del ritrovamento per controllare eventuali corrispondenze di utenze. Il giovane è stato buttato nel fosso, probabilmente nell’estremo tentativo di depistaggio rispetto a quanto accaduto: la cattura da parte di appartenenti a un apparato di sicurezza che lo hanno seviziato e ucciso ritenendolo una spia. Le ricerche in Internet - Sono una ventina i verbali contenuti nel dossier, ma nessun testimone fornisce elementi determinanti. Non c’è traccia di filmati, si specifica soltanto che al momento di richiedere la copia dei video delle telecamere si è scoperto che le immagini "sono state sovrascritte". L’esame del computer di Regeni da parte degli investigatori italiani è terminato e nulla è stato trovato per spiegare l’interesse degli egiziani nei suoi confronti. Ora si sta verificando se abbia archiviato materiale in qualche casella esterna utile alle sue ricerche, ad esempio Dropbox. E anche che tipo di ricerca avesse effettuato quando si è collegato a "chathamhouse.org", sito britannico specializzato in affari internazionali e frequentato da esperti del settore. Il cambio dei vestiti - Inquietante viene ritenuto dagli investigatori italiani il mistero legato agli indumenti. Secondo il verbale della polizia locale al momento del ritrovamento del cadavere Regeni "indossa un golfino di lana celeste e una maglietta nera lacera, intorno al collo ha una maglietta verde lacera con un nodo dietro. È nudo nella parte inferiore del corpo". I dettagli annotati nel dossier sembrano voler accreditare la pista indicata inizialmente dalla Procura di Giza e da fonti governative: incidente stradale al termine di un festino. La comunicazione all’ambasciatore italiano al Cairo Maurizio Massari sull’avvenuto rinvenimento del corpo arriva alle 20 del 3 febbraio, nonostante da giorni la diplomazia stesse chiedendo notizie del giovane. Massari va all’obitorio "nelle prime ore del mattino successivo" e poi dichiara alle autorità italiane: "Il corpo di Giulio Regeni era coperto con un maglione a maniche lunghe di colore scuro". Qualcuno ha dunque spogliato e poi rivestito la vittima. Nessuno dei vestiti citati è stato però consegnato o mostrato agli investigatori italiani. Nella relazione si limita ad affermare che "gli indumenti sono custoditi nel commissariato". Quando è arrivato in Italia il corpo del ricercatore era completamente nudo. L’ennesimo oltraggio. Certamente non l’ultimo. Libia: "così nella sparatoria a Sabratha ho visto morire gli ostaggi italiani" di Francesco Semprini La Stampa, 13 marzo 2016 Il racconto di Wahida Bin Mokhtar Bin Ali l’unica superstite a bordo del convoglio dove si trovavano Piano e Failla. "Davanti a me c’era l’auto con gli italiani a bordo, ci siamo fermati, loro sono scesi per mangiare. A questo punto sono arrivati i ribelli e hanno iniziato a sparare, il mio gruppo ha tentato di scendere a patti con loro, non ci hanno dato retta e hanno ripreso a sparare, poi solo sangue e cadaveri". Sono questi gli ultimi drammatici istanti che hanno preceduto l’uccisione di Salvatore Failla e Fausto Piano, due dei quattro connazionali rapiti il 19 luglio mentre raggiungevano lo stabilimento della ditta Bonatti in Libia dove dovevano prendere servizio. Frammenti di storia recente messi insieme da Wahida Bin Mokhtar Bin Ali, cittadina tunisina sopravvissuta e testimone dell’uccisione dei nostri connazionali. Una ricostruzione fornita agli inquirenti libici, e resa pubblica in una serie di quattro video diffusi sulla pagina Facebook di informazione "SabratHa 218", di cui una menzione è stata data dalla trasmissione "Piazza pulita" di giovedì su La7. La testimonianza del massacro nei pressi di Sabratha è solo l’ultimo capitolo del racconto di Wahida. "Mi chiamo Wahida Bin Mokhtar Bin Ali, sono nata nel 1982, musulmana e tunisina. Sono venuta in Libia legalmente assieme a mio marito per lavorare. Ho una laurea in legge, a casa avevo poco lavoro e sono andata in Turchia, a Saral". Il marito le chiede di accompagnarlo in Siria, ma poi l’uomo, di cui non viene fatto il nome, alla fine varca il confine senza di lei, grazie all’aiuto di un gruppo che combatteva contro Assad. Poi "abbiamo deciso di andare in Libia, siamo arrivati a Tripoli, ci siamo fermati a Misurata, dove ho lavorato in un ospedale. In quei giorni mio marito riceveva sempre delle chiamate da Abu Nassim per lavoro". Il personaggio in questione è Moez Fezzani, leader della colonna jihadista di tunisini con passato italiano. Nonostante le resistenze di Wahida, l’uomo va a Sabratha: "Siamo stati a casa di Nassim. Era appena finito il ramadan", ovvero era il 18 luglio 2015 un giorno prima del rapimento degli italiani. "Ho chiesto alla moglie come facevano a essere così ricchi, lei mi ha risposto che suo marito lavorava con gli italiani". Un eufemismo forse, un modo per dire e non dire quello che sarebbe avvenuto di lì a poco? Wahid ne ha sentore, tanto che cerca di separarsi dal marito, il quale però la minaccia e giura che se la sarebbe presa col figlio. "Sono rimasta a Sabratha con lui, abbiamo preso casa in affitto, diceva di fare il meccanico, ma tornava sempre pulito. Un giorno mi spiegò che stava lavorando sulla questione tunisina". Il racconto passa ai giorni del raid americano su Sabratha, il 19 febbraio, in seguito ai quali le milizie di Tripoli, dichiarano guerra alla colonna filo-Isis di Nassim, ne seguono scontri drammatici per giorni, la situazione precipita. Gli jhihadisti decidono di serrare le fila, si riuniscono in una casa dove arriva Wahida, è il covo dove sono tenuti i quattro italiani: "C’erano tante persone, alle donne non era dato sapere chi fossero". Lo capisce il mattino quando un convoglio di almeno due vetture, una nera e una grigia, si dirige verso il Sahara. A guidare le operazioni è Abdullah Dabbashi, detto Haftar, emissario Isis. "C’erano gli ostaggi italiani, e i rapitori ripetevano che la strada doveva essere sgombra". Secondo la donna Haftar voleva portare via tutti e quattro gli italiani, ma poi ha desistito: con loro però c’è una sacca con una somma di denaro, il riscatto probabilmente. Da lì è un alternarsi di soste passando per Zaouia, sino ad arrivare al ground zero del bombardamento Usa, il covo di Noureddine Chouchane, "il terrorista di Novara" ucciso nel raid. "Davanti a me c’era la macchina con gli italiani. Ci siamo fermati e sono scesi per mangiare. A questo punto sono arrivati i ribelli è iniziato uno scontro a fuoco. Il nostro gruppo ha urlato: "Scendiamo a patti, abbiamo gli italiani". Ma i milizani tripolitini non gli hanno creduto e hanno continuato a sparare: "Hanno colpito mio figlio all’addome". Il racconto della donna si fa confuso, ciò che ne emerge è uno scontro pesantissimo, alla fine solo sangue e cadaveri, tra questi i corpi di Failla e Fausto Piano. Chi li abbia uccisi è da appurare: forse i rapitori per agevolare la fuga, o le milizie determinate a impossessarsi dei soldi senza lasciare testimoni. Libia: nella prigione di Garabuli per i migranti africani rimasti anche senza futuro di Domenico Quirico La Stampa, 13 marzo 2016 Gli uomini escono dal centro soltanto per lavorare i campi come schiavi. Le donne, in celle anguste, vengono violentate e restano spesso incinte. Il migrante numero 322 alzò lentamente la testa e aprì gli occhi. Non capivo se fosse svenuto o avesse soltanto dormito. Del resto tra una cosa e l’altra non c’era grande differenza. Da un pezzo la disperazione, l’esaurimento avevano compiuto la loro opera. L’una e l’altra erano, ogni volta, come uno sprofondare in abissi pantanosi da cui era impossibile riaffiorare. Mi viene in mente una frase che mi disse un migrante cristiano: "Nella testa io ho l’inferno, sai. Può essere una posizione di favore per l’aldilà, se è come lo raccontano i preti. Una parte dell’inferno noi l’abbiamo già avuta qui". Il 322 restò fermo un istante, in ascolto. Nel cortile, scandito dalle porte delle celle, il sole invadeva le pareti nude di cemento, alte venti metri, ovunque è diffusa questa umida luce che produce ombre così tenui sui muraglioni giallastri. La rete di ferro che chiudeva il cielo, in alto, e lo metteva, anche lui, in prigione, e il filo spinato arrotolato come una parrucca disegnavano sottilissimi, quasi invisibili segni. Era il restare immobile una vecchia regola dei migranti: perché non si sa mai da che parte viene il pericolo e fino a quando non ti muovi hai sempre la possibilità che non ti vedano o che ti prendano per un cadavere. Semplice legge di natura, qualunque insetto la sa. Non c’era rumore. La distribuzione del cibo doveva ancora cominciare, tutti i migranti erano chiusi nelle celle da cui veniva solo un lieve pianto di bimbi e le ninne nanne delle madri per farli rimanere tranquilli. I guardiani erano impegnati a discutere con me e due giornalisti spagnoli. Il 322 godeva fino all’ultimo istante il privilegio di esser lì fuori, sdraiato contro la parete calda di sole. Gli era toccata la fortuna di portar via le immondizie: trecento ventidue, un "anziano" anche se ha 24 anni. Dopo ho scoperto che era qui da più di un anno e in lui si era accumulata una massa smisurata di sofferenze e di piccole vittorie, di miracolosi attimi di pace come questo e di abissi vuoti. Il campo di raccolta dei migranti di Garabuli sonnecchiava tranquillo al sole della primavera libica, indifferente ai drammi che conteneva come uno scrigno. Nel cortile più piccolo quattro neri erano accucciati a terra, in fila davanti alla stanzetta del medico. Non ho mai visto nulla di così orribile quanto questa posizione da bestie, vestiti di stracci, le mosche che facevano nido nei capelli. Aspettavano tremando di febbre con un atteggiamento di così incrollabile rassegnazione come se avessero atteso già da centinaia di anni e sapessero che dovevano attendere ancora per altre centinaia. Dal cortile della prigione non si poteva vedere la campagna adagiata nella limpida luce primaverile e neppure la linea azzurra del mare, appena oltre le file di olivi e di aranci. L’avevo attraversata tutta quella campagna, la strada bella ma malinconica serpeggiava a zig zag attraverso lunghi viali di eucalipti stanchi dell’inverno. I migranti li avevo già incontrati, in un tratto di landa a basse dune cespugliose di piantagioni di fave che racchiudevano il piatto orizzonte. Poca terra e molto cielo: erano apparentemente liberi, fatti uscire di giorno perché venduti ai contadini della zona per pochi dinari. Schiavi? Sì, schiavi, felici di poter, per qualche ora, vedere il sole, toccare la terra e l’erba grassa. Sono venuto a Garabuli, sulla strada che porta da Tripoli a Misurata, per cercare i migranti, gli africani, che non ci infastidiscono, che non ci danno pensiero: perché il loro viaggio interminabile verso il mare e noi, si è fermato qui, forse per sempre. E sono diventati, a migliaia, prigionieri delle galere libiche, schiavi, ostaggi, vittime senza nome e senza memoria. Ci sono dodici "centri" come questo solo a Tripoli. Da principio c’era solo il 322, poi, a un cenno di una guardia, le porte delle celle si spalancano e il cortile della prigione si affolla e pare che tutto l’edificio gridi. Grida dalla lunga fila delle donne che si allineano con l’automatismo dei reclusi, in mano la ciotola per il cibo, grida dalle celle dei maschi ancora serrate, spuntano dagli spioncini solo occhi che si accalcano come a respirare già la luce. Si sente solo quel grido improvviso come di bestie in gabbia che vedono la possibilità di muoversi, agitarsi, fuggire. Gridano contro il cielo che è tutto silenzio. Il responsabile del centro è elegante, in giacca, pieno di premure e di informazioni. Scopre che, cinque anni fa, sono stato prigioniero dei soldati di Gheddafi: "anch’io anch’io"... e mi mostra le sue medaglie di oppositore e di vittima, profonde cicatrici alle spalle e i segni di infinite operazioni alle gambe. Estrae dal portafoglio orribili foto: "Guarda! Mi fracassarono tutti i denti a calci e le ossa con i fucili, animali erano animali". E le foto si mischiano a quelle di lunghe file di migranti seduti a terra su un molo le braccia dietro la testa, le operazioni riuscite contro gli "africani". Penso quanto sia terribile questo senso di grande e impersonale ingiustizia che prorompe nel momento in cui destini di sofferenza si incrociano, ma l’uno non riesce a specchiarsi nell’altro, ad attingervi. Il guardiano ha attraversato un terribile dolore, ma perché, ora, quegli uomini quelle donne quei bimbi che custodisce non gli parlano, sono numeri come era lui nelle mani dei poliziotti di Gheddafi? Il nostro sentimento, la nostra pietà forse non sa contare, non diventa più intenso con le cifre. Sa contare solo fino ad uno. Se stesso. Alla parete dell’ufficio sono appoggiati i kalashnikov e una mitragliera pesante. Due dei guardiani, ragazzi grossi dall’aria impacciata, mi guardano perplessi. Uno di loro sillaba due parole in italiano, ha vissuto a Brescia. "Che facevi in Italia?" chiedo, ingenuo. Mi guarda in silenzio. "Gli africani restano qui poco tempo, li vestiamo diamo loro da mangiare, li mettiamo in contatto con le ambasciate dei loro Paesi che organizzano il ritorno in patria, tutto funziona bene". Mi fanno entrare nella prigione. Lo so: è molto difficile amare degli uomini che non sono nulla per noi, che non ci possono domandare nulla e forse non vorrebbero nemmeno il nostro aiuto. È difficile amare questi uomini e tuttavia essi sono la realtà vivente e presente del popolo dei migranti, soprattutto quelli che non vediamo. Il cui calvario non è riuscito. Rimasti senza denaro, dopo un viaggio di anni, si sono fermati in Libia per raccogliere l’ultimo pugno di dollari e guadagnarsi il mare. La trappola è scattata. Il verdetto per loro è certo, oscura la colpa. Li ha pedinati di tugurio in tugurio, a Tripoli, Misurata, Zuara, nei porti di imbarco, attraverso i cafarnai sudici di città zeppe di moschee e inutili preghiere: prima o poi viene a stanarli ed è la prigione dove non resta loro, per mesi, per anni, che lamentarsi di essere nati e cioè puniti a camminare, a partire. Da chissà chi, chissà perché. Entro nella prigione, i guardiani non sembrano preoccuparsi che io parli con loro. Una cella delle donne è aperta, fetida fredda angusta, forse dieci persone ci starebbero, ne conto almeno cinquanta e i bambini, i bambini… La finestrella è piccola ma lascia filtrare la luce. Il quadrato infuocato del sole che si stampa sul pavimento è come il marchio della segregazione dal mondo. Un tanfo di odore umano, di cibo cattivo, di urina e di escrementi avvolge le stuoie allineate l’una all’altra, non c’è spazio, per muoversi bisogna calpestare chi ti sta vicino. Sulle pareti leggo infinite scritte: "dio è grande"… "io amo la vita". Una donna grossa, è seduta per terra in un angolo. Tiene un bambino attaccato al seno scoperto. Siede con la straordinaria dignità di un animale sano e con il diritto di una madre, fra quel frastuono e quella sporcizia. E i suoi occhi sono solo per il suo bambino. Una ragazza giovane, eritrea, esile, bellissima non è uscita per il cibo. I suoi occhi mi fissano pieni di semplice calore umano. Accarezza le dita di una collega con infinita dolcezza e mi vengono in mente le parole di Giobbe: "quello che temevo mi è accaduto, ciò che mi atterriva mi è toccato…". È incinta di quattro mesi ed è qui da più di un anno. Quante tra loro, quanti di questi bimbi? L’attesa le ha fatto perdere il turno, le altre rientrano con le ciotole del cibo, lo spartiscono avidamente. Per lei non resta nulla. Si rivolge ai guardiani che la guardano interrogativi. Spiego per lei: è rimasta senza mangiare. "Che importa, guarda che questa è diventata pazza, torna in cella". Adesso gli uomini, tutti giovani, ragazzi, mi si affollano intorno: Ti prego ti prego, chiediamo aiuto, fai sapere che siamo qui da mesi da anni. Ci hanno rastrellati nella notte, preso i documenti, i telefonini, derubato di tutto. Eppure lavoravamo per i libici, senza dare fastidio, per pochi dinari. Qui ci sfruttano, ci chiedono denaro e ci maltrattano. Molti sono malati. Non abbiamo mai potuto avvertire le nostre famiglie, chiedere aiuto. Le ambasciate? quali ambasciate? È venuto una volta un funzionario di quella nigeriana. È andato via senza neppure parlare con i suoi". A Tripoli, vicino al vecchio suq turco dove si cambiano milioni al mercato nero, alcuni giovani africani aspettano stando seduti dentro delle carriole. A un cenno qualcuno di loro si alza e corre a caricare enormi, pesanti valigie seguendo libici indaffarati: sono zeppe di denaro. Forse stanotte busseranno alla porta anche della loro tana. Siria: il prezzo del domani di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 marzo 2016 Piovono precondizioni sul negoziato di Ginevra. Sullo sfondo un paese devastato a cui serviranno decenni per ricostruire la propria economia e una società frammentata da una guerra fratricida. "Yes, it can". Il segretario di Stato Usa Kerry storpia lo slogan con cui il suo presidente incantò il mondo 8 anni fa e lo appiccica al negoziato siriano. In Svizzera ieri si sono incontrati funzionari russi e statunitensi e Kerry ha assicurato: sì, il dialogo si può fare. Nonostante alcune violazioni della tregua, "il livello delle violenze si è ridotto dell’80-90%". Domani le sedie intorno al tavolo dovrebbe finalmente riempirsi. Qualcuno è già arrivato: Mohammed Alloush, leader di Jaysh al-Islam e il capo negoziatore dell’Hnc al-Zoabi. L’inviato Onu de Mistura resta in religiosa attesa, mentre gli piovono addosso le precondizioni. Se le opposizioni venerdì hanno ribadito di volere un governo di transizione senza Assad, ieri Damasco ha detto che del futuro del presidente non intende discutere: "Non tratteremo con nessuno che voglia mettere in discussione la presidenza - ha detto il ministro degli Esteri al-Muallem - Bashar al-Assad è la linea rossa". Ha poi aggiunto che la delegazione governativa arriverà a Ginevra oggi e concederà alle opposizioni 24 ore: se non si paleseranno, Damasco abbandonerà il tavolo. Le solite dichiarazioni a cui il popolo siriano è dolorosamente abituato, distante anni luce dalle ambizioni di governo e opposizioni. Sulle spalle, una devastazione senza precedenti che i numeri non riescono a catturare. Di numeri certi nemmeno ce ne sono: il pallottoliere Onu è fermo da mesi sui 250mila morti, mentre l’ultimo rapporto del think tank Syrian Center for Policy Research ne denuncia almeno 470mila. I feriti sarebbero un milione, ma 5 anni di guerra civile fanno immaginare che siano molti di più. Chissà se questi bilanci tengono conto solo delle ferite visibili, degli arti persi, dei siriani divenuti disabili, o calcolano anche gli effetti psicologici del conflitto. Se tengono conto di una generazione intera di giovani che ha perso l’opportunità di studiare, formarsi, trovare un lavoro dignitoso nel proprio paese e non su un barcone diretto verso l’illusorio sogno europeo. I rifugiati all’estero sfiorano i 5 milioni, 6.5 gli sfollati interni. Basta una semplice somma: la metà della popolazione siriana non vive più nella propria comunità. Chi è rimasto abita in città - Damasco, Aleppo, Homs, Hama, Latakia, Idlib - un tempo simbolo di storia e cultura araba e oggi macerie e devastazione. Palazzi distrutti, strade divelte, siti archelogici polverizzati, suq svuotati sono lo specchio della rovina dell’economia siriana. A gennaio l’ultima valutazione della Banca Mondiale stimava danni tra 70 e 80 miliardi di dollari alla fine del 2014. Un altro anno è trascorso, un anno che ha visto lo Stato Islamico avanzare a nord ovest e assumere il controllo di quasi un terzo del paese. A mettere qualche punto fermo è un recente rapporto pubblicato dall’ong World Vision e dalla società di consulenza Frontier Economics: il conflitto è costato alla Siria 275 miliardi di dollari in termini di crescita economica. Ovvero, 4,5 miliardi al mese persi dal settore produttivo e da quello dei servizi. E se anche le violenze si spegnessero ora, il paese continuerebbe a perdere denaro a causa della distruzione delle infrastrutture, dell’evaporazione dell’economia di produzione, dello stop dell’esportazioni di prodotti che prima erano venduti in tutto il mondo arabo. Fino al 2020 Damasco assisterà allo stillicidio della propria economia, dei servizi, dei settori dell’educazione e della sanità, per una perdita totale che si aggirerà intorno ai 1.300 miliardi di dollari: "Un valore che è 140 volte superiore a quanto attualmente richiesto dalle agenzie Onu ai donatori internazionali", spiega Conny Lenneberg, responsabile di World Vision per il Medio Oriente. Da ricostruire c’è un intero paese, un business stellare su cui la comunità internazionale che ha infiammato il conflitto si getterà: pochi mesi fa Syria Report parlava di 200 miliardi di dollari da spendere per la ricostruzione. E da incassare: in prima fila c’è la Russia che ad ottobre ha strappato a Damasco la promessa di aprire le porte alle compagnie russe. Alla distruzione di capacità produttiva, industrie, settore agricolo, reti idriche e elettriche, settore turistico si affianca il costo umano. Se il tasso di disoccupazione supera ampiamente il 50%, la fuga di metà della popolazione ha privato il paese di professionisti, operai, contadini, insegnanti, medici. Infine, le divisioni interne hanno frammentato la società siriana in etnie, gruppi politici, religioni, una separazione mai vissuta in precedenza. Saranno necessari decenni per richiudere le ferite aperte da un conflitto fratricida, per rimettere in piedi le normali relazioni sociali in un paese in cui 8 milioni di bambini hanno subito sfollamento, interruzione degli studi, violenze fisiche e psicologiche. Regge la tregua in Siria, una luce alla fine del tunnel di Franco Venturini Corriere della Sera, 13 marzo 2016 Il cessate il fuoco è stato rispettato tra l’80 e il 90% ed esistono le condizioni per una ripresa dei negoziati tra le parti lunedì a Ginevra. In molte località si torna alla vita. Abituati come siamo a identificare la Siria con inauditi massacri e incontrollabili maree di rifugiati, ci siamo accorti troppo poco di quel che è accaduto in quel martoriato Paese nelle ultime due settimane. A rinfrescarci la memoria ha provveduto, ieri mattina, il Segretario di stato americano John Kerry: la tregua entrata in vigore il 27 febbraio è stata rispettata "tra l’80 e il 90 per cento", ed esistono le condizioni per una ripresa dei negoziati tra le parti lunedì a Ginevra. Gli osservatori dell’Onu riferiscono che in molte località hanno riaperto i mercati, che la gente è scesa in strada gridando talvolta gli stessi slogan di prima della mattanza durata cinque anni senza alcuna interruzione, che tra le macerie i bambini hanno ripreso a giocare a palla. Miracoli della diplomazia? Anche, ma a noi quelli siriani paiono soprattutto miracoli d’interesse. Mai prima della fine di febbraio era stato raggiunto un accordo operativo per far giungere aiuti alle decine di migliaia di uomini, donne e bambini che rischiavano letteralmente la morte per fame. E se va elogiata la capacità mediatrice dell’inviato dell’Onu Staffan de Mistura, quale delle parti in causa avrebbe voluto esporsi all’accusa di genocidio? Il secondo fattore è ancor più importante del primo: per la prima volta e dopo molti contrasti Stati Uniti e Russia hanno agito insieme e hanno premuto insieme per la tregua, consultandosi quotidianamente e mostrando agli altri un fronte comune conveniente per entrambi. Per Obama, perché consentiva agli Usa di risalire la china e di riconquistare la perduta influenza sugli eventi. Per Putin, perché l’obbiettivo di diventare un protagonista del futuro siriano è già stato raggiunto a forza di bombardamenti ma non è prudente (e costa troppo) aspettare il prossimo presidente americano senza aver raggiunto accordi vincolanti. Il punto è ora di sapere se l’intesa russo-americana reggerà, e se basterà a rintuzzare le intransigenze contrapposte che domani - se non ci saranno ulteriori rinvii - torneranno a confrontarsi a Ginevra. Servono altri miracoli. De Mistura vorrebbe discutere di transizione, di nuova Costituzione e di elezioni libere entro 18 mesi, che secondo il Cremlino decideranno della sorte di Bashar al Assad. Ma le schermaglie della vigilia non incoraggiano l’ottimismo: i gruppi dell’opposizione esigono da subito un "organo di governo provvisorio" senza Assad; Damasco esclude che ciò possa accadere, e le elezioni le vuole decidere in prima persona. E poi c’è la rete ormai palese di altri e più potenti interessi contrastanti. I turchi bombardano i curdi siriani (che Mosca vuole invece al tavolo del negoziato), l’Arabia Saudita si contrappone all’Iran e rischia di far saltare i fragili equilibri libanesi che prevedono un ruolo chiave per Hezbollah, la lotta tra sunniti e sciiti non accenna a placarsi, l’Isis e Al Nusra sono nella lista concordata dei terroristi e per questo esclusi dalla tregua ma i russi ne approfittano per colpire anche altri gruppi anti Assad. Far durare ancora la tregua, perché questa è la vera posta in gioco, sarà un’impresa. Eppure in Siria e sulla Siria qualcosa è cambiato, una piccola luce in fondo al tunnel è stata vista per due settimane e sarà difficile per tutti dimenticarla. Soprattutto per russi e americani. E anche per gli europei, peraltro pochissimo influenti anche se pesantemente coinvolti. I siriani sono il contingente più numeroso tra i migranti che bussano alla porta quasi chiusa della Ue. Il passato insegna che troveranno altre rotte se si chiuderà del tutto quella dei Balcani, ed esistono buone probabilità che l’Italia venga a trovarsi in prima fila più di quanto sia già. Anche per questo non dobbiamo affidarci soltanto agli accordi peraltro zoppicanti con la Turchia. Dobbiamo sperare e volere che la tregua siriana regga, che si moltiplichino gli aiuti, che i mercati aperti e i bambini che giocano a palla siano sempre più numerosi. Questa è l’unica risposta degna che si può dare a chi fugge dalla guerra. Norvegia: se il killer di Utoya fa causa per abuso di diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 marzo 2016 Ha a disposizione tre celle, una tv, una console per i video game e un cortile per fare ginnastica ma denuncia le sue condizioni carcerarie come disumane. Il protagonista è noto a tutto il mondo: si chiama Anders Behring Breivik, 35 anni, ed è lo spietato killer che nel 2011 in Norvegia uccise 77 persone. I sopravvissuti alla strage di Utoya sono ancora increduli: vedere il loro carnefice tornare in aula per sostenere che i suoi diritti umani sono stati violati sembra loro il colmo dei paradossi. "Non leggerò i giornali questa settimana per la mia salute mentale - dice sconsolato Dag Andre Anderssen, vice leader del gruppo dei sopravvissuti al massacro, cerchiamo di andare avanti con le nostre vite ma per alcuni tornare indietro a quel momento può essere un trauma". Breivik sconta una condanna a 21 anni di carcere per terrorismo e strage di massa. Il 22 luglio del 2011 le sue azioni sconvolsero la pacifica Norvegia quando fece esplodere un’autobomba ad Oslo e poi aprì il fuoco sui giovani di sinistra radunati per un campo vacanza ad Utoya. Otto persone furono uccise dall’esplosione e 69 dalle pallottole del cecchino. Il killer non ha mai mostrato rimorso per le sue azioni descrivendosi, anzi, come un patriota e un nazionalista. Ha accettato la condanna senza presentare appello ma poi ha cominciato a lamentarsi della sua vita nelle tre celle di sicurezza che ha a disposizione. Le guardie carcerarie sono state accusate di "tortura a bassa intensità" per averlo sottoposto più volte a perquisizioni e per avergli impedito di avere contatti con altri estremisti di destra. Nel 2013 il terrorista minacciò lo sciopero della fame se non avesse avuto videogiochi migliori, un divano e una palestra più grande. Nella causa si sostiene che le sue condizioni detentive violano la Convenzione europea sui diritti umani. Il governo ha respinto le accuse facendo notare che il detenuto ha tre celle a disposizione, una tv, una console per i video game e l’accesso a un cortile dove fare ginnastica. "Non c’è nessuna prova che il querelante abbia avuto problemi fisici e mentali come conseguenza delle sue condizioni detentive" ha detto Marius Emberland, l’avvocato del governo. L’isolamento di Breivik è dovuto all’intenzione, dichiarata più volte, di usare la detenzione per costruire un network estremista. In un manifesto pubblicato online prima della strage il killer diceva che "i combattenti per la resistenza patriottica devono considerare la prigione come un periodo di allenamento da cui trarre più forza di prima". Durante il processo la stampa internazionale aveva più volte stigmatizzato l’eccessivo rispetto mostrato dalle autorità nei confronti del terrorista cui era permesso entrare nell’aula di tribunale con sguardo di sfida salutando a pugno chiuso il pubblico e di leggere vaneggianti dichiarazioni politiche. Ma i norvegesi avevano replicato che Breivik aveva diritto allo stesso trattamento di qualsiasi altro imputato. Una linea appoggiata anche dalla maggioranza dei sopravvissuti alla strage. Per questo oggi la protesta del detenuto appare ancora più incredibile.