Che succede nel circuito di Alta Sicurezza di Padova? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2016 Alla c.a. del ministro della Giustizia, Andrea Orlando Alla c.a. del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dottor Santi Consolo Alla c.a. del Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dottor Massimo De Pascalis Il passo del gambero di chi non vuole il rispetto della Costituzione. A che punto siamo in questa battaglia per la trasparenza nella gestione dei circuiti di Alta Sicurezza, ma anche per il riconoscimento della dignità delle persone rinchiuse lì dentro? A Padova la situazione è questa: il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria decide a inizio 2015 la chiusura delle sezioni AS1 e AS3 della Casa di reclusione di Padova con relativa programmazione dei trasferimenti di 100 detenuti, inizia una protesta e una "trattativa" con il Dipartimento che porta al blocco dei trasferimenti ad aprile 2015; alcune declassificazioni vengono finalmente concesse (quasi tutte di detenuti in AS3), altre negate, ora in totale sono state fatte circa 30 declassificazioni, 44 circa rigettate, con relativi trasferimenti, ci sono ancora 21 detenuti congelati in AS1 e 5 in AS3. E c’è un detenuto, Aurelio Quattroluni, che ha deciso di iniziare uno sciopero della fame perché non ce la fa più a reggere questa incertezza. Al Dipartimento dicono che probabilmente terranno aperta una sezione AS (AS1 o AS3?), ma nel frattempo sono arrivati i rigetti delle declassificazioni di 4 detenuti dell’AS3. Di questi, spieghiamo un po’ la situazione emblematica di Pasqualino Rubanu, per far capire quanto incancrenita sia la situazione dei detenuti parcheggiati nei circuiti: Pasqualino lavora alla Cooperativo Giotto, è iscritto all’Università, frequenta la redazione di Ristretti Orizzonti, non ha neppure il 416 bis, non ha l’ergastolo ostativo (fine pena 2022). Il suo è un percorso esemplare buttato, INUTILE, alla faccia delle energie e delle risorse spese dalla persona detenuta, ma anche da personale penitenziario, volontari e operatori delle cooperative. Scrivevamo mesi fa, quando è iniziata questa messa in discussione pubblica dei circuiti di Alta Sicurezza a partire da Padova: "Alta Sicurezza significa anche persone che stanno in questi circuiti da decenni; declassificazioni negate sulla base di motivazioni delle Direzioni Antimafia spesso letteralmente fotocopiate di anno in anno, senza neanche lo sforzo di cambiare qualcosa; trasferimenti continui e continue chiusure e aperture di sezioni, dove il sospetto è che si voglia alimentare un sistema inutile e costoso, invece di puntare a rapide e puntuali declassificazioni; sezioni dove quello che viene garantito è il nulla, la continuità del nulla". In questi mesi qualcosa però si è mosso: il ministro della Giustizia ha indetto gli Stati Generali sull’esecuzione della pena, 18 Tavoli di studio e approfondimento finalizzati, tra l’altro, a portare aria nuova in quelle carceri sempre più fallimentari se si pensa che producono oltre il 70 per cento di recidiva. Il Tavolo 2, dedicato anche al tema dei circuiti, si è pronunciato in modo netto per un "graduale superamento del Circuito penitenziario denominato "Alta sicurezza" con applicazione residuale, nei casi di effettiva necessità, della disposizione dell’art. 32 reg. (assegnazione per motivi cautelari) e dell’art. 14-bis o.p. (sorveglianza particolare da riservare ai casi più gravi di compromissione della sicurezza interna all’istituto)". Auspicando di arrivare in tempi accettabili a questo superamento, il Tavolo 2 ha anche parlato di una "possibile individuazione di attività trattamentali da svolgere in comune con i detenuti della ‘media sicurezzà attraverso opportune e diffuse sperimentazioni". A Padova queste sperimentazioni si sono fatte, e con successo, ma siccome quello che funziona mette troppo in luce quello che non funziona, qualcuno ha deciso che era meglio affossare Padova e salvare, per esempio, Parma (carcere che, tra l’altro, avendo finalmente la luce dei riflettori addosso per l’arrivo di alcuni detenuti da Padova, si è dato una mossa cercando di uscire dalla desertificazione di questi anni). A Padova "i criminali" dell’AS1 si sono confrontati con la società, hanno risposto alle domande severe degli studenti, hanno condiviso spazi e iniziative con i detenuti comuni, si sono messi in discussione e hanno scritto prendendo le distanze dal loro passato: quello che dovrebbe essere l’obiettivo di una detenzione sensata, la rieducazione, è stato ampiamente raggiunto, ma qualcuno preferisce invece un carcere incostituzionale e sponsorizza le sezioni AS gestite come ghetti. Al Ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria vogliamo porre delle domande, sperando di avere delle risposte, perché la più grande lezione di civiltà che si può dare alle persone detenute è dimostrare che le Istituzioni sanno ascoltare e non hanno paura delle domande severe: - Che cosa succederà ai 26 detenuti "congelati" a Padova, che in quest’ultimo anno in particolare hanno sperimentato una detenzione dignitosa e rispettosa delle regole, con delle opportunità di confronto con la società veramente rieducative, che non potrebbero ritrovare in nessun’altra sezione di Alta Sicurezza del nostro Paese? - Perché si continua a dire che il trattamento dei detenuti nei circuiti di AS è uguale a quello dei detenuti comuni, e poi ogni nuova circolare li esclude da qualcosa (per esempio l’uso controllato di Internet, e soprattutto l’uso di Skype, che a Padova è a disposizione di tutti ed è straordinario proprio per quelle persone che hanno le famiglie lontane, e però la nuova circolare pare prevederlo solo per la media sicurezza)? - Che senso ha tenere più di 9.000 detenuti relegati nei circuiti AS per anni, a volte per decenni, senza rivedere periodicamente, come prescrive l’articolo 32 del Regolamento penitenziario, la loro collocazione in questi circuiti? Che senso ha fare declassificazioni col contagocce e non dare alle persone detenute nessuna opportunità di crescere e di misurarsi con la società? Ma se le regole europee prescrivono che "la vita in carcere deve somigliare il più possibile alla vita esterna", è pensabile che ci siano circuiti dove le persone detenute stanno sempre tra loro, parlano tra loro, non si confrontano con nessuno? *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti La bellezza del confronto di Giovanni Donatiello (Sezione Alta Sicurezza 1, Casa di reclusione di Parma) Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2016 Ho riassaporato la bellezza del confronto! Sono trascorsi circa nove mesi dal mio trasferimento da Padova, dove il rapporto con le diverse componenti della società civile era la quotidianità, un susseguirsi di relazioni socio-culturali che aprivano sempre a nuove realtà a me prima sconosciute. Giunto a Parma ho constatato un’altra realtà. Poche le attività presenti. Da circa un mese frequento, per una volta a settimana, un laboratorio socio-narrativo, "La manomissione delle parole", pensato dalla cooperativa Sirio, dove lavoriamo sul libro dello scrittore Gianrico Carofiglio. Questo progetto prevede, in tutto, una decina di incontri con scuole e università che partecipano a questo laboratorio delle parole. Le scuole interessate sono il Liceo Artistico Toschi, il liceo scientifico S. Vitale e l’Università di Parma. Inoltre durante gli incontri settimanali, che si protrarranno fino a giugno, sono presenti, oltre ai responsabili Giuseppe La Pietra e Mario Ponzi, due stagiste dell’Università di Parma. Insomma è già un qualcosa. Il primo incontro avvenuto il 22 febbraio u.s. è stato proprio con l’autore Gianrico Carofiglio, un evento aperto per la prima volta alla stampa e alle tv locali, università e scuole che collaborano al progetto. Non vorrei peccare di autoreferenzialità rispetto ai nostri interventi e al contributo che abbiamo portato per la buona riuscita del dibattito, lascio agli altri il giudizio. Noi siamo stati coprotagonisti, dimostrando che anche nel carcere di Parma può nascere qualcosa di importante, si spera anche con la presenza di una piccola redazione di Ristretti. Tra l’altro abbiamo invitato il dott. Carofiglio a contribuire affinché questa iniziativa, l’avvio di una redazione di Ristretti Orizzonti in AS1, riceva l’autorizzazione del D.A.P., cosa che lo scrittore ha sostenuto immediatamente, proponendosi per appoggiare la causa. L’aspetto che più mi ha colpito, sono stati gli interventi delle docenti responsabili che collaborano all’attività del laboratorio nelle classi scolastiche. Parole come: "il dolore che avvicina", "affetto", "scambio di idee", "gabbie del pensiero", in un certo senso mi hanno fatto sognare per un attimo… Eppure, noto che la differenza culturale territoriale rispetto al carcere e alle persone detenute, tra Parma e Padova, è nulla. Allora la cultura è quella che viene introdotta in carcere dal territorio e non quella che il carcere vuol riflettere sulla società civile. Per lo meno quando il carcere è chiuso e non cerca il confronto. Ma può succedere come a Padova, che è invece il carcere che diventa un laboratorio e coinvolge la città nelle sue sperimentazioni. Questo è il percorso da seguire e che non va abbandonato affinché il valore di questa valida iniziativa non perda di consistenza traducendosi in una semplice vetrina. Con Gianrico Carofiglio si sono toccate diverse tematiche, considerata anche l’intera sua formazione professionale, si è parlato di giustizia, politica, diritti, carcere, rieducazione, cambiamento. Sempre seguendo uno schema, appunto, "la manomissione delle parole", ovvero quel lavoro di ricomposizione per riportare le parole al loro significato nell’accezione più compiuta, liberandole da quelle alterazioni che nel tempo si sedimentano e finiscono per ancorare le stesse vite a stigmi quali il carcere come solo luogo di espiazione della pena. Sono echeggiate parole quali: dignità, scelta, ribellione, bellezza, vergogna, giustizia, democrazia, libertà, sulle quali Carofiglio si è espresso senza mezzi termini, anche se a mio avviso un po’ compassato, su alcuni aspetti avrei preferito un po’ di intensità in più in alcuni suoi interventi. Tuttavia la sua capacità di sintesi è stata la prerogativa che ha permesso di concludere l’incontro rispondendo a tutte le domande. Nel complesso una giornata degna di nota, si può migliorare tutti insieme anche in queste iniziative, l’importante è volerlo. Noi siamo qui. Il costo del Paese illegale di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 12 marzo 2016 Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale non c’è in Eurolandia economia che dall’inizio del nuovo secolo sia andata peggio di quella italiana. Fra il 2001 e il 2015 il Prodotto interno lordo pro capite a prezzi costanti, cioè la ricchezza reale prodotta da ciascuno di noi, è diminuito dell’8,5 per cento. Anche la Grecia ha fatto meglio: meno 7,3 per cento. Per non parlare del confronto con i Paesi più ricchi dell’Unione. Quindici anni fa il Pil pro capite di ogni tedesco era superiore di appena 1.700 euro a quello di ciascun italiano. Nel 2015 la differenza è salita a 8.500 euro. Crisi o non crisi. Vi chiederete: che cosa c’entra tutto questo con le tangenti dell’Anas che ieri hanno portato in carcere 19 persone? L’economista Mario Baldassarri ha calcolato che se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale. E la classifica dell’autorevole Transparency international parla se possibile ancora più chiaro. Fra il 2001 e il 2015 la Germania, che ha registrato in quel periodo la migliore performance economica dell’area euro, con le sole eccezioni del Lussemburgo e dei Paesi dell’ex blocco sovietico, ha migliorato la propria posizione nella graduatoria internazionale della corruzione percepita di ben dieci posizioni, salendo dal ventesimo al decimo posto. Mentre l’Italia, invece, precipitava in basso di ben 32 caselle: dalla numero 29 alla 61. Nel 2001 ci separavano dalla Germania nove posizioni. Oggi, ben cinquantuno. Il fatto è che nelle economie avanzate la corruzione non rappresenta soltanto un danno economico diretto per lo Stato, ma in combutta con la cattiva burocrazia si trasforma in un formidabile freno allo sviluppo. La Corte dei conti non ha mai confermato la valutazione di un costo di 60 miliardi l’anno. Ma di sicuro, se sono vere le stime del governo Monti secondo cui la corruzione farebbe salire di almeno il 40 per cento il prezzo delle opere pubbliche, non ci andiamo troppo lontani. Questo però è ancora niente rispetto agli effetti nefasti sull’intera economia. La corruzione mortifica la concorrenza e blocca l’innovazione: perché spendere per migliorare i prodotti e rendere più efficiente la propria azienda quando si può vincere un appalto pagando una mazzetta? La corruzione colpisce dunque alle fondamenta la competitività del sistema Paese, in un rapporto simbiotico con la burocrazia parassitaria. Più cresce la burocrazia, più aumentano le occasioni per corrotti e corruttori. È quasi una legge fisica che, si badi bene, non vale soltanto per le imprese e gli appalti pubblici. Ed è questo forse l’aspetto più grave e allarmante. Grazie a una burocrazia sempre più pervasiva e autoreferenziale la corruzione è diventata molecolare, penetrando così in profondità da impregnare interi pezzi della società italiana. A cominciare dalla stessa Capitale. Nel libro scritto dall’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella con Giampiero Calapà ("Capitale infetta") si racconta di una metropoli nella quale le metastasi non hanno risparmiato alcun settore dell’amministrazione. Il germe che ha fatto dilagare la corruzione a tutti i livelli, sostiene il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, è nel fatto che per esercitare diritti elementari riconosciuti dalla Costituzione (come la salute…) siamo invece spesso costretti a chiedere favori. Tanto i labirinti burocratici sono impenetrabili che la ricerca delle scorciatoie è inevitabile. Se questo è vero basterebbe ricondurre la burocrazia alla sua funzione di semplificare, anziché complicare, la nostra vita. C’è solo il piccolo problema che dovrebbe occuparsene la politica. E purtroppo, in tutti questi anni, abbiamo visto i risultati. Carceri, ecco perché l’Europa ha promosso l’Italia di Massimo Solani L’Unità, 12 marzo 2016 Misure alternative alla detenzione e nuove norme sulla custodia cautelare: il Consiglio ha riconosciuto i progressi frutto delle leggi introdotte negli ultimi anni. Certo è ancora presto per dire che il problema è definitivamente risolto, ma il dato è comunque a suo modo storico: dopo tre anni da osservato speciale dell’Europa per l’annosa emergenza del sovraffollamento carcerario, l’Italia può finalmente dire di aver ritrovato la normalità e appuntarsi al petto la medaglia di un lavoro che nei giorni scorsi ha ricevuto il plauso del Consiglio d’Europa per i risultati ottenuti sinora, e per gli impegni assunti dal governo "di continuare a lottare contro il sovraffollamento carcerario in modo da ottenere una soluzione definitiva del problema". A poco più di tre anni dalla "sentenza Torreggiani" con cui 1’8 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo dichiarava la violazione da parte del nostro Paese dell’articolo 3 della Convenzione che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti accogliendo così i sette ricorsi, presentati da persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza dove scontavano la pena in condizioni di oggettivo sovraffollamento, infatti, il Consiglio d’Europa ha infatti deciso di chiudere il fascicolo aperto nei confronti dell’Italia per le condanne subite da parte della Corte europea per i diritti umani. I numeri, del resto, spiegano meglio di qualsiasi parole come sia cambiata la situazione carceraria italiana, soprattutto grazie agli effetti della legge che disciplina l’esecuzione domiciliare delle pene detentive e delle nuove norme sulla custodia cautelare. Se pochi giorni prima della sentenza Torreggiani gli istituti di pena italiani ospitavano 65.701 detenuti a fronte di una capienza di 47.000 posti censiti, oggi (i dati forniti dal Dap sono aggiornati al 29 febbraio) la popolazione carceraria è di 52.846 persone a fronte di una capienza totale di 49.504 posti. E se a settembre 2012 i detenuti in attesa di primo giudizio erano il 19% del totale, oggi la percentuale è scesa fino al 16,5%. Un cambiamento di orizzonte che l’Italia ha perseguito seguendo proprio le indicazioni date dalla Corte di Strasburgo che, nella sentenza Torreggiarli, evidenziava la necessità di considerare l’introduzione di misure alternative alla detenzione e di ricorrere alla carcerazione come misura di ultima istanza. Secondo gli ultimi dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, infatti, sono 18.571 i detenuti usciti dagli istituti per effetto della legge sulle misure alternative al carcere. Il rapporto "Space" A rendere giustizia agli sforzi fatti dall’Italia sono anche i dati contenuti nel rapporto "Space", lo studio annuale condotto sin dal 2000 sui sistemi penitenziari dal Consiglio d’Europa. Lo studio ha evidenziato infatti che tra il 2013 e il 2014, anche se l’Italia aveva ancora un problema di sovraffollamento, la popolazione carceraria italiana ha avuto un calo record del 17,8%, e che questa diminuzione è la più grande registrata nei 47 paesi monitorati. "Un risultato che è effetto delle leggi introdotte tra il 2013 e il 2014", ha spiegato Marcelo Aebe, responsabile del progetto "Space". Secondo le statistiche, inoltre, nel 2014 l’Italia si collocava in undicesima posizione in relazione al sovraffollamento carcerario, passando da 148 persone detenute per 100 posti disponibili nel 2013 a 110 dell’anno successivo. Secondo il rapporto "Space", inoltre, nel 2014 l’Italia registrava anche una delle percentuali più alte di persone trattenute in carcere senza una condanna definitiva, 31,7% a fronte di una media Ue del 24,2%. Peggio del nostro paese Andorra (79.2%), San Marino (75%), Monaco (67.9%), Albania (51,9%), Olanda (42.8%), Svizzera (39.4%), Danimarca (38.8%), Liechtenstein (37.5%) e Lussemburgo (37%). "La decisione del comitato dei ministri di chiudere il monitoraggio sull’esecuzione della sentenza Torreggiani è un risultato molto importante per l’Italia - commentava nei giorni scorsi l’ambasciatore Manuel Jacoangeli, rappresentante del nostro paese presso il consiglio d’Europa - e va intesa come un segnale a un Paese che davanti a una sentenza complessa ha reagito in maniera estremamente rapida in un settore difficile". Una soddisfazione espressa anche dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. "L’Italia da maglia nera per il sovraffollamento carcerario diventa modello per gli altri Paesi - ma c’è ancora da fare: in alcuni istituti la situazione è sempre vicina al collasso commentato - una notizia che mi riempie di orgoglio e soddisfazione, ma non di appagamento. È stato apprezzato il lavoro che abbiamo fatto, le riforme adottate e quelle in itinere e i risultati raggiunti. C’è tanto lavoro ancora da fare per rendere la pena aderente al dettato costituzionale, ma sono fiero di aver contribuito di evitare un’onta al nostro Paese". Molta strada ancora da fare In effetti, aldilà del "semplice" dato numerico, c’è ancora molto da fare. Lo dimostrano, ancora una volta, i numeri "scorporati" del Dap che fotografano ancora situazioni emergenziali in molte strutture italiane. Da Sulmona (456 detenuti per 304 posti) a Poggioreale (1919 persone, su una capienza di 1.640), da Secondigliano (1.312 detenuti contro una capienza di 897), da Latina (146 persone in 76 posti) a Regina Coeli (868 detenuti, 624 posti disponibili). Dati per cui il nuovo garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, scomoda addirittura la statistica di Trilussa. "Quando si dice che in Italia c’è un livello di affollamento ragionevole, perché su 100 posti ci sono 105 detenuti, non si dice del tutto il vero. Se ho 40 posti liberi in una sezione femminile, non ci posso trasferire una struttura maschile. Se ho dei posti liberi in alta sicurezza, non ci posso trasferire un detenuto di media sicurezza. Noi avevamo 100 posti e 150 detenuti. Siamo scesi, sono contento, ma non mi basta assolutamente. Il problema del sovraffollamento ancora c’è. Non è patologico, ma dobbiamo ancora lavorare". Il primo Garante nazionale dei detenuti di Massimo Solani L’Unità, 12 marzo 2016 Il primo garante nazionale dei detenuti è Mauro Palma, già presidente del comitato europeo contro la tortura Invocato da decenni, atteso invano dal 2014 quando il decreto svuota carceri ne istituì la figura, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale adesso ha un nome: è quello del professor Mauro Palma, volto noto a chi in questi anni si è occupato di carceri e detenzione. Perché ad inizio degli anni Novanta è stato fra i fondatori di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, e soprattutto perché è stato prima componente e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. "Siamo certi che il suo lavoro potrà far elevare gli standard di tutela dei diritti nei luoghi di privazione della libertà, troppe volte limitati e negati. È una nomina che attendevamo da quasi 20 anni: era il 1997 quando, per la prima volta, proponemmo l’istituzione di un difensore civico per i luoghi di detenzione", ha commentato Patrizio Gonnella che di Antigone è presidente. "È un’importantissima tappa nella generale fase di riflessione sull’esecuzione penale ha spiegato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il Garante si occuperà di tutte le forme di privazione della libertà, dalla custodia nei luoghi di polizia alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, ai trattamenti sanitari obbligatori, in particolare nelle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems)". Un compito tutt’altro che semplice, che prevede fra l’altro il coordinamento dei Garanti regionali, in cui Palma si è buttato a capofitto fin dal momento della firma del presidente Mattarella sul decreto di nomina. "Siamo ancora nella fase di costituzione materiale dell’ufficio, ma stiamo lavorando duramente - spiega. È un compito complicato, ci sono molte attese e speriamo di non deludere nessuno. Diciamo che la mia speranza, al termine del mandato di cinque anni, è di lasciare una Authority realmente esistente e operativa, incardinata e istituzionalizzata". Il primo appuntamento, previsto per metà aprile, sarà la presentazione del documento finale frutto dei diciotto tavoli di lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Un lavoro durato quasi anno, un approccio interdisciplinare e interculturale che supporterà i lavori sulla legge delega per la modifica dell’ordinamento penitenziario e i relativi decreti attuativi. Spesa per le carceri è 2,8 mld l’anno, manca apparato per applicare pena rieducativa Per il capo di Gabinetto del ministro dell’Economia e delle finanze, Roberto Garofoli, nell’ambito della discussione sul tema della detenzione, "c’è il problema delle risorse finanziarie, è inutile nascondersi: il costo dell’amministrazione penitenziaria in Italia è costante da molti anni, intorno ai 2,8 miliardi l’anno, con una spesa per detenuto di 54mila euro annui. E il governo può anche fare sforzi sul punto, ma è difficilmente pensabile possano moltiplicarsi questi oneri finanziari". Garofoli lo ha detto parlando con i giornalisti ieri a Bari, a margine del convegno "La nuova esecuzione penale: la legge delega 67/2914", che ha affrontato il tema della funzione rieducativa della pena con forme alternative alla carcerazione. "Le misure alternative alla detenzione - ha rilevato Garofoli - non mancano nell’ordinamento. La verità è che occorre mettere su, e non è semplice, un apparato che consenta di eseguire la pena con finalità rieducative fuori dal carcere". Nicola Cosentino in cella da 850 giorni aspettando una sentenza di Mattia Feltri La Stampa, 12 marzo 2016 L’ex deputato coinvolto in quattro inchieste resta in carcere. Nicola Cosentino è in detenzione preventiva da circa 850 giorni per concorso esterno in associazione mafiosa, reimpiego di capitali illeciti con l’aggravante mafiosa, estorsione, abuso d’ufficio, corruzione. Di questi 850 giorni, poco più di cento li ha trascorsi ai domiciliari e il rimanente in carcere. Cosentino è un detenuto in attesa di giudizio, condizione sotto la quale rientrano tutti i detenuti per i quali non sia stata pronunciata una sentenza definitiva: in Italia sono sui 20 mila, per statistica metà di loro risulterà innocente. Per Cosentino non è stata pronunciata nemmeno una sentenza provvisoria, né di secondo né di primo grado. Non significa che sarà innocente in eterno e in questo si confida. Infatti Cosentino è diventato sinonimo di "tutto il male del mondo", ha detto il suo avvocato Stefano Montone, e "cosentiniano" è un insulto senza rimedio: il politico chiamato "cosentiniano" perché amico o conterraneo di Cosentino, o compagno di militanza, ricava la sua piccola diffamazione preventiva giustificata dall’idea diffusa, a Roma, a Napoli, a Casal di Principe, che Cosentino è un uomo della camorra; le eventuali conferme del tribunale parrebbero una semplice certificazione burocratica. Nicola Cosentino è nato a Casal di Principe, il paese di Gomorra, il 2 gennaio del 1959. Ha cinquantasette anni. È chiamato Nick o Mericano o Nick o Texano perché è un imprenditore nei carburanti. Ha una moglie e due figli. È imparentato con i boss perché fratelli e cugini ne hanno sposato le figlie. Ha cominciato in politica con il Psdi e nella Seconda repubblica è passato con Forza Italia, e da lì sono cominciati i guai con la giustizia. Le prime tracce di indagini sul suo conto risalgono alla fine degli anni Novanta ma è iscritto nel registro degli indagati nel 2008. È l’inchiesta detta Eco4 sul riciclaggio di rifiuti tossici nella quale Cosentino è sotto processo per concorso esterno e per cui nel 2009 la procura di Napoli ha chiesto alla Camera l’autorizzazione all’arresto, poi respinta. Inizialmente Cosentino doveva andare in galera perché era sottosegretario all’Economia, parlamentare e coordinatore regionale di Forza Italia, e cioè detentore di un potere tale da consentirgli di manovrare persone, delinquere di nuovo, nascondere prove. Allora Cosentino si è dimesso da sottosegretario ma non bastava; si è dimesso da coordinatore regionale ma non bastava; e quando nel 2013 è finita la legislatura, e Silvio Berlusconi non lo ha ricandidato in nome delle liste pulite, non era nemmeno deputato ma continuava a non bastare perché il potere di Cosentino non discendeva più dalla cariche bensì da ciò che lui era, da ciò che era stato, dall’essere se stesso. Cosentino è stato il primo colpevole di essere cosentiniano. Che aggiungerebbe una sentenza? Quando nell’aprile del 2013 si è costituito a Secondigliano, Cosentino aveva già sulle spalle una seconda inchiesta, e ne sono seguite una terza e una quarta. L’ultima si incrocia con la prima e cerchiamo di spiegare come. Quando, per una serie di riforme legislative e un intervento della Corte costituzionale, Cosentino aveva l’opportunità della scarcerazione nonostante l’ipotesi di concorso esterno, gli è stata notificata un’ulteriore ordinanza di custodia cautelare per corruzione: è accusato di aver corrotto, per mezzo della moglie, un agente penitenziario che gli ha fatto avere in prigione generi alimentari, mozzarelle, salami, casatielli e così i giornali scrissero di "prigione dorata". I giornali scrissero anche che, oltre al bendidio, Cosentino aveva ricevuto un iPad. Un disgraziato refuso: era un iPod. C’è differenza perché con l’iPad si va su internet, si riceve posta, si comunica col mondo fuori, mentre con l’iPod si ascolta musica e basta. La moglie è stata condannata con rito abbreviato e lui non ha potuto vederla per dieci mesi, negata anche la visita di Natale. Torniamo alla vicenda principale, Eco4. Le indagini sono cominciate nel 2008 e il processo nel 2011, cinque anni fa. Nel corso di oltre centoventi udienze, si è riusciti a sentire giusto i testimoni dell’accusa. Ora si comincerà con quelli della difesa. Insomma, siamo più o meno a metà. E siamo solo al primo grado. Delle altre tre inchieste, soltanto una è arrivata in aula di tribunale ed è alle fasi iniziali. Resta da dire che Cosentino è imputato anche in due processi per diffamazione. In uno dei due la parte lesa è Michele Froncillo, ex capozona del clan Belforte, che si è sentito diffamato quando Cosentino ha definito "camorristi schifosi" la dozzina i pentiti che lo accusano e Froncillo, che è uno di loro, ha sporto querela perché Cosentino "dovrebbe definire camorristi schifosi quelli con cui va sotto braccio". E resta da dire che pochi giorni fa, sempre su Eco4, dopo una trentina fra istanze di scarcerazione e impugnazioni, all’imputato è stata riconosciuta la fine delle esigenze cautelari: può andare a casa. Anzi no, resta dentro per gli altri tre procedimenti. Si ricomincia da 850 giorni, e nessuna condanna. Metà dei detenuti in cella senza condanna di Luca Rocca Il Tempo, 12 marzo 2016 Nicola Cosentino non è l’unico italiano a scontare la pena prima della conclusione del processo. I numeri sulla custodia cautelare in Italia, sia pure in miglioramento, restano la prova dell’inciviltà giuridica nella patria di Cesare Beccaria. Fino al 2009 le persone detenute senza una condanna definitiva erano 29.809, pari al 46 per cento dell’intera popolazione carceraria. Il dato è cambiato negli ultimi anni, ma rimane abnorme. Nel 2015, infatti, la custodia cautelare è applicata a 18.622 reclusi, cioè il 34,5 per cento di tutti i detenuti. Un’aberrante anticipazione di pena non degna di un paese civile. Non è un caso se negli ultimi 50 anni siano stati incarcerati 4 milioni di innocenti e se, dal 1991, lo Stato ha pagato 580 milioni di euro a più di 23mila persone per riparare l’ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive conclusesi con l’assoluzione dopo anni di carcere preventivo. Nell’aprile scorso il parlamento è intervenuto sulla materia, cercando di rendere la custodia cautelare in carcere l’"extrema ratio" per giudici e pm, e privilegiando misure alternative quali obbligo di dimora, ritiro del passaporto, divieto di esercitare una professione, sospensione dal pubblico impiego. Il ricorso alla galera preventiva, inoltre, deve essere motivato in modo più circostanziato, provando che pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato, i tre motivi che stanno alla base del provvedimento, siano anche rischi "attuali". Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione camere penali, raggiunto al telefono dal Tempo, spiega che "la situazione è oggettivamente migliorata", ma ""a percentuale dei detenuti in custodia rimane ancora troppo alta". D’altronde la stessa Costituzione italiana, aggiunge Migliucci, "ancora oggi parla di carcerazione preventiva. Non ci si rende ancora conto che la custodia cautelare va adottata solo quando è assolutamente necessario per garantire la sicurezza, e che non dobbiamo mai dimenticare che esiste la presunzione d’innocenza". Inoltre, aggiunge il presidente delle Camere penali, se è vero che "il legislatore ha apportato miglioramenti normativi", è anche innegabile che "se le leggi non vengono applicate correttamente, alla fine cambia poco". Il problema, dunque, "è anche culturale, occorre modificare la filosofia di fondo della carcerazione preventiva", altrimenti si assiste al paradosso "di far scontare la pena prima della sentenza, per poi, magari, venire assolti". Quanto all’uso del carcere preventivo a mò di strumento per far sì che l’arrestato parli, Migliucci ricorda che, soprattutto negli anni di Mani Pulite, "si sosteneva che, quando la persona presa in consegna ammetteva la colpa o indicava altrui responsabilità, allora dimostrava di non essere più pericoloso. Un ragionamento del tutto errato". "Abusi in divisa": i familiari delle vittime in missione a Bruxelles di Giuliano Santoro Il Manifesto, 12 marzo 2016 Tortura. Al parlamento Ue con il dossier sul "caso Italia". Sono i familiari delle vittime di abusi polizieschi. Le istituzioni dovrebbero chiedere loro scusa. Ma per avere udienza, dovranno oltrepassare i confini nazionali e arrivare fino a Bruxelles. Lo faranno il 15 marzo prossimo, quando - in occasione della Giornata internazionale contro la violenza poliziesca - una nutrita delegazione porterà al Parlamento europeo le storie di mala polizia. Le ha raccolte in un dossier Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che organizza la missione belga assieme all’eurodeputata della Sinistra unitaria europea Eleonora Forenza. Ci saranno i volti e le storie tragiche dei parenti delle vittime, che hanno dovuto sfidare il silenzio per rivendicare giustizia: Ilaria Cucchi (sorella di Stefano), Lucia Uva (sorella di Giuseppe), Claudia Budroni (sorella di Dino), Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni), Domenica Ferrulli (figlia di Michele), Andrea Magherini (fratello di Riccardo) e Osvaldo Casalnuovo (padre di Massimo). "Vogliamo portare in Europa quella che chiamiamo l’anomalia italiana - spiega Luca Blasi di Acad - fatta di torture, alimentata da un sistema penale sbilanciato, coltivata dalle emergenze permanenti. I casi che in questi anni abbiamo seguito non sono opera di qualche mela marcia ma sintomo di un deficit strutturale nei corpi di polizia e nella macchina delle giustizia. Chi calpesta i diritti gode di appoggi mediatici, coperture giuridiche e sostegno politico. Prova ne è la mancanza di una legge sul reato di tortura". Impossibile non menzionare gli abusi commessi nei giorni del G8 di Genova. Eleonora Forenza quindici anni fa era in quelle strade, da giovanissima manifestante. Presentando l’iniziativa dell’audizione, ci tiene a sottolineare come la repressione colpisca in tutta l’Europa. Basti pensare ai casi delle leggi contro i movimenti in Spagna, alla violazione dei diritti dei migranti e alle deroghe al diritto dello stato d’emergenza in Francia. "Tutto ciò - dice la parlamentare europea - è anche l’altra faccia dell’austerità. È in questo contesto che si dipana il ‘caso Italià con le sue specificità". Ilaria Cucchi ammette che in passato aveva osservato queste faccende con un certo distacco. "Non avrei mai pensato che sarebbe successo a me, di perdere un fratello e di dover sfidare la rete di omertà e i muri di gomma degli apparati di sicurezza". Adesso i parenti in cerca di giustizia si conoscono e si sostengono a vicenda. Molti casi giudiziari vengono seguiti dall’avvocato Fabio Anselmo, che confessa che la missione di Bruxelles è al tempo stesso "un atto di fiducia e anche una mossa di disperazione". Anselmo ha sperimentato in questi anni l’importanza della comunicazione e del rapporto con l’opinione pubblica. Se n’è accorto quando prese in mano le carte del primo caso d’abuso. Riccardo Rasman, trentaquattrenne con problemi psichici, venne ucciso a Trieste da tre poliziotti nell’ottobre del 2006. "Il caso stava per essere archiviato - rievoca Anselmo - Ma grazie ad un’interpellanza parlamentare finì sulle pagine dei giornali locali e il corso degli eventi mutò. Per la prima volta in vita mia assistetti alla revoca di un’archiviazione e poi alla condanna, seppure lieve, degli agenti coinvolti". A distanza di dieci anni, con in mezzo le tante facce della Spoon River carceraria e repressiva, ecco l’ultima storia di violenza in divisa seguita da Anselmo. La vittima si chiama Rachid Assarag. È un detenuto che ha denunciato pestaggi nelle carceri di Parma, Prato e Firenze. Per di più, Assarag è riuscito a registrare le voci di agenti, medici, operatori e psicologi all’interno del carcere: gli dicono che è inutile denunciare e in qualche caso lo minacciano spiegandogli che in carcere non valgono le garanzie minime. Proprio ieri, il tribunale di Parma ha riconosciuto come rilevanti le registrazioni avventurosamente raccolte dall’uomo, disponendo una perizia che cerchi di associare a quelle parole inquietanti dei volti e delle responsabilità. Assarag si è presentato dal giudice in sedia a rotelle, coi segni di un nuovo, ennesimo pestaggio compiuto alla vigilia dell’apparizione in tribunale. Del suo caso e di tanti, troppi altri, si parlerà la settimana prossima a Bruxelles. Processo al carabiniere che sparò a Davide Bifolco, un passo avanti di Samir Hassan Il Manifesto, 12 marzo 2016 Il padre di Bifolco chiede giustizia e accusa lo Stato: "Ci fa morire tutti i giorni". Ieri il Gup ha rinviato al 16 marzo la decisione sulla perizia tecnica chiesta dalla difesa. "Come mi sento? Benino, non bene", ammette Gianni Bifolco, dopo la fine dell’udienza per il processo a carico del carabiniere che la notte tra il 4 e il 5 settembre 2014 tolse la vita a suo figlio Davide, raggiunto da un proiettile esploso dopo che il ragazzo - a bordo di un motorino con altri suoi due amici - non si era fermato all’alt di una gazzella dei carabinieri. Ieri mattina presso il tribunale di Napoli in Piazzale Cenni è stato ascoltato il consulente balistico nominato dal pm Manuela Persico (titolare delle indagini con il procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso); lo stesso pm che al termine della requisitoria aveva avanzato una richiesta di condanna di omicidio colposo a 3 anni e 4 mesi di reclusione con il riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti. Un’accusa, quello di omicidio colposo, che fece a dir poco discutere: non sarebbero infatti stati più di cinque gli anni che l’accusa avrebbe potuto ottenere per questa fattispecie, senza la diminuzione di un terzo della pena imposta dalla legge in caso di rito abbreviato. Il passaggio di ieri, però, è senza dubbio importante. Dopo che lo scorso ottobre il giudice Ludovica Mancini aveva accolto l’istanza avanzata dall’avvocato della famiglia Bifolco, Fabio Anselmo, per un supplemento istruttorio, ieri il gup ha rinviato il processo al prossimo 16 marzo, giorno in cui scioglierà la riserva sulla richiesta presentata dalla difesa del carabiniere imputato relativa a un’altra perizia tecnica. "L’importante è che esca verità: ho dubbi sulla parola giustizia. L’altro mio figlio è stato condannato a quasi 5 anni per furto, mentre per l’omicidio di Davide si parla di poco più di 3 anni. Com’è possibile?", racconta Bifolco al manifesto. "Sono stufo di abusi e repressione di Stato, questa è la verità. Altro che malavita e microcriminalità: nessuno dice che la gente è costretta alla fame e alla guerra tra poveri per colpa di uno Stato che, a modo suo, ci fa morire tutti i giorni. Sono felice che mio figlio sia morto una volta sola, perché nelle condizioni in cui vivo io, e migliaia di persone come me, si muore ogni giorno, in forme altrettanto criminali, per mano di chi governa". A Napoli, intanto, il processo non è una questione familiare. A supportare il dolore e la rabbia della famiglia di Davide ci sono, "dal giorno dopo l’omicidio fino a oggi, e anche domani", ragazzi del quartiere, movimenti e singoli cittadini che hanno creato la rete Verità e giustizia per Davide Bifolco. Ieri, partiti in corteo da Rione Traiano, hanno manifestato fuori il tribunale durante l’udienza, con cori, striscioni, torce e fumogeni. Se la difesa è sparare di Michele Cucuzza Corriere della Sera, 12 marzo 2016 Prendete uno dei temi più controversi e divisivi del nostro ordinamento giuridico: la legittima difesa e la possibilità di cambiare la legge che la regola, sull’onda dell’emozione suscitata dal caso del pensionato di Vaprio D’Adda accusato di omicidio volontario per aver ucciso un albanese che stava per rapinarlo in casa. Immaginate che il dibattito se dare alla vittima di un furto licenza di sparare in quanto aggredita nella proprietà e non solo nella persona diventi l’oggetto di uno scontro teatrale, di una sfida tra due squadre di oratori addestrati alla retorica che gareggiano fra loro argomentando una volta a favore del cambiamento della legge e subito dopo sostenendo il contrario. Probabilmente l’ultimo posto dove vi verrebbe in mente di ambientare la tenzone verbale, da far valutare a un’apposita giuria che decreti la squadra vincitrice, è un carcere. Invece, prima ancora che il penitenziario di Bollate aprisse al suo interno il ristorante "InGalera", proprio la casa circondariale più famosa d’Italia, "Regina Coeli", a Roma, ha visto sabato scorso - per iniziativa di un attore e regista generoso come Enrico Roccaforte ("Baarìa", "Montalbano" e "La catturandi" in attesa di messa in onda su Rai1) - due squadre in gara tra loro capaci di argomentare entrambe prima pro e poi contro il diritto a sparare per mettere in fuga i ladri: i gruppi in gara erano composti uno da studenti dell’università di Tor Vergata e l’altro da detenuti, adeguatamente preparati con quattro incontri di addestramento sull’argomento. "È la prima volta che capita una cosa del genere nel nostro paese", sottolinea Roccaforte che pure ricorda come il format originale con l’idea della sfida in carcere sia d’origine americana, adattato alla situazione italiana da Flavia Trupia, presidente dell’associazione "Per la retorica". "Sulle prime i detenuti intenzionati a partecipare alla gara, una quindicina in tutto, hanno discusso liberamente: ognuno diceva la sua sulla legittima difesa, poi però hanno dovuto imparare a sostenere anche idee opposte alle loro convinzioni, secondo le regole della retorica. Un esercizio straordinario di adattamento all’ascolto dell’altro oltre che una prova di recitazione, di comunicazione diretta, convincente e pacifica". Nella gara di sabato, dopo gli universitari pro armi, sono intervenuti i detenuti sostenendo la visione opposta: l’hanno motivata tre portavoce e due addetti agli appelli per il voto. Gli stessi reclusi, poi, hanno usato gli argomenti di chi ritiene troppo restrittiva l’attuale legge sulla legittima difesa mentre gli studenti hanno fatto il contrario. Alla fine, la giuria composta da giuristi e giornalisti ha proclamato vincitori i detenuti. Assieme ai corsi di legalità, catechesi e buddismo, la musicoterapia e i laboratori teatrali (uno curato dallo stesso Roccaforte) le attività culturali di Regina Coeli, una struttura sovrappopolata con i detenuti in gran parte in attesa di giudizio o di trasferimento, non possono essere di lunga durata: "tuttavia - spiega Roccaforte - siamo riusciti a lavorare con un certa continuità. Non ci interessava tanto conoscere per quale reato era finito dentro chi voleva partecipare alla gara, anche se abbiamo saputo che, oltre agli spacciatori, c’era chi era accusato di reati anche molto gravi: di tutte le etnie mediterranee, i detenuti hanno dimostrato grandi qualità umane e, pure, notevole sensibilità. Difficile da digerire, pensando alla pericolosità sociale e alle sofferenze procurate a volte ad innocenti da parte di chi commette reati. Non solo: nelle loro parole, nei sorrisi, nella partecipazione si percepiva come un senso di libertà recuperata, un’esperienza vera di ripensamento. Con un precedente illustre, il film Cesare deve morire, girato a Rebibbia dai fratelli Taviani, abbiamo realizzato qualcosa che aiuta loro a mettersi in discussione e spinge noi a non rifiutare i rapporti apparentemente più difficili". Forse non in eterno di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 12 marzo 2016 Una sentenza clamorosa dimostra ai politici che è arrivato il momento di rivoluzionare il concorso esterno. La lunga e tormentata vicenda giudiziaria del concorso esterno si è arricchita di un nuovo capitolo, che ha suscitato ancora una volta - com’era del resto prevedibile - reazioni contrastanti. Ci si riferisce alle opposte prese di posizione mediatiche, in termini di esplicita condivisione o di altrettanto chiara presa di distanza, provocate dalla lettura della motivazione della sentenza catanese di non luogo a procedere nei confronti dell’imprenditore Mario Ciancio. In alcune parti di tale motivazione il gip ha, infatti, riproposto le ragioni di problematicità del concorso esterno quale istituto carente di una descrizione legislativa precisa; e, nel farlo, ha non a caso richiamato più volte la ormai nota sentenza della Corte di Strasburgo relativa al caso Contrada, la quale ha appunto ravvisato nel concorso del reato associativo una fattispecie di formazione giurisprudenziale. Come stanno realmente le cose? Chi ha davvero ragione in questa sorta di guerra ideologica o di religione che ciclicamente si scatena tra i due partiti dei difensori e dei critici del concorso esterno, come se si trattasse di dovere scegliere tra concezioni contrapposte della legalità penale? In realtà, il discorso è molto complesso, per cui non è facile farsi capire con la semplicità e brevità richieste da un intervento giornalistico. Ma possiamo provare a spiegare gli aspetti essenziali della questione, prescindendo beninteso dal merito del recente caso catanese e ragionando in termini più generali. Una premessa è fuori discussione. In un ordinamento giuridico come il nostro, il principio di legalità in materia penale esige non solo che i reati siano definiti dal legislatore (principio cosiddetto di riserva di legge), ma che il legislatore li definisca nella maniera più precisa possibile (principio cosiddetto di sufficiente determinatezza o precisione), onde evitare che sia il giudice a stabilire di volta in volta a sua discrezione i fatti punibili. Ora, sotto l’aspetto del principio di legalità così concepito, un istituto come il concorso esterno nel reato associativo presenta alcune peculiarità. Ciò nel duplice senso che esso, per un verso, è privo di una previsione legislativa puntuale e specifica (a differenza ad esempio della norma sull’omicidio, sul furto, sulla violenza sessuale o sull’associazione mafiosa ecc., nessuna specifica norma penale definisce infatti il concorso esterno come tale, né tanto meno ne descrive i requisiti costitutivi) e, per altro verso, risulta abbastanza generico e indeterminato nella sua fisionomia con conseguente incertezza circa l’ambito e i confini della punibilità. Attenzione, però: affermare che manca una legge che lo preveda espressamente non equivale in realtà a sostenere che il concorso esterno sia del tutto privo di base normativa, e sia perciò il frutto di una vera e propria invenzione da parte dei giudici. Come ben sanno anche gli studenti di giurisprudenza, un suo fondamento legale esiste e deriva - per dirla in "giuridichese" - dal combinato disposto della norma incriminatrice relativa al reato in questione (nel nostro caso, l’associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis del codice penale o altra fattispecie associativa) con le più generali norme sul concorso di persone (artt. 110 e segg. c.p.), che consentono di estendere la punibilità anche ai concorrenti o complici. In altre parole, l’operazione logico-giuridica sottostante al concorso esterno riproduce, fondamentalmente, lo stesso schema concettuale che più in generale presiede al concorso di persone in un medesimo reato: sono infatti le stesse norme generali sul concorso criminoso che permettono di punire ad esempio come complice di un omicidio chi fornisce l’arma all’assassino, oppure come concorrente (esterno) il politico o l’imprenditore che - pur senza far parte integrante della struttura associativa - fornisce contributi vantaggiosi a una associazione criminale. Nessun problema, allora? No, il problema ciononostante esiste, come cerchiamo ora di spiegare, scusandoci di qualche possibile eccesso di tecnicismo. In effetti, il cuore della questione sta nella estrema genericità della disciplina normativa del concorso criminoso. Ciò perché l’art. 110 del codice penale si limita, dal canto suo, molto laconicamente ad affermare che tutti i concorrenti in uno stesso reato soggiacciono alla pena per questo stabilita; ma né l’art. 110, né altra disposizione del codice dicono una parola sui requisiti e sui tipi di comportamento che fanno da necessario presupposto a un concorso punibile. Lombardia: sport delle carceri, accordo tra Coni e Provveditorato Agenparl, 12 marzo 2016 Coni Lombardia e Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) insieme per un progetto comune che intende coinvolgere le 18 carceri lombarde e i 12 Coni Point provinciali. In attuazione del Protocollo d’intesa nazionale siglato dal Coni e dal ministero della Giustizia, è stato firmato questa mattina dal Presidente del Coni comitato regionale Lombardia, Oreste Perri e dal provveditore regionale Aldo Fabozzi, l’Accordo attuativo per formare istruttori sportivi tra i detenuti e incentivare lo sport negli Istituti penitenziari. L’accordo tende soprattutto a favorire il coinvolgimento di Regione, Comuni, Università, Enti, Fondazioni e Associazioni per, come ha detto il presidente Perri "dare qualità al progetto, ma soprattutto fare un gioco di squadra". Nel totale sono 18 le carceri che s’intende inserire nel progetto che, da parte del Coni regionale invece, vede potenzialmente coinvolti circa 200 formatori specializzati sia per la formazione di dirigenti sia per quella rivolta a istruttori sportivi di base. "È un accordo necessario, serve a dare una regia che uniformi e dia un’organizzazione migliore alle attività che si svolgono all’interno delle carceri lombarde" ha commentato il provveditore regionale Aldo Fabozzi "lo sport è importante perché i detenuti così stanno fuori dalle celle, fanno attività sportiva in modo intelligente e anche il lavoro della polizia penitenziaria ne trae beneficio". In 14 carceri, a esempio è presente la Uisp che promuove e organizza attività sportive, mentre il Csi opera su Milano. "Nelle carceri lombarde ci sono 7.600 detenuti, 4.000 sono in quelli milanesi" ha specificato Fabozzi "il progetto potrebbe coinvolgerne più della metà". In concreto, la Scuola regionale dello Sport del Coni Lombardia sta già avviando un’attività sperimentale di formazione tecnico-sportiva nel carcere di Opera con lo scopo di fornire una certificazione di operatore sportivo di base a 15 detenuti. "Dopo una formazione di tre, quattro mesi, avranno il compito di guidare l’attività fisica degli altri detenuti e la possibilità di acquisire una professionalità spendibile in futuro" ha spiegato Giacinto Siciliano direttore della Casa di reclusione di Opera. L’accordo firmato oggi prevede inoltre di fornire consulenza tecnica per la riqualificazione, l’ammodernamento o la progettazione di impianti sportivi presenti negli Istituti penitenziari da parte dei Tecnici regionali del Coni Lombardia e ideare attività di psicomotricità dedicate ai bambini fino ai sei anni, ospiti con le detenute-madri, nelle sezioni Nido di Como e Icam di Milano, oltre che per quelli in visita presi in carico negli Spazi gialli di Bollate, San Vittore e Opera. Infine, nel progetto saranno coinvolte anche le cinque Facoltà di Scenze motorie lombarde (Statale, Cattolica, Varese, Brescia e Pavia) per l’attivazione di convenzioni, a cura del Prap, per i tirocini dei laureandi presso le carceri che ne faranno richiesta. Per quanto riguarda i costi del progetto, se da un lato il Coni regionale mette a disposizione il proprio Know-how, con un costo economico pari a zero e legato alle risorse umane, dall’altro si tenta la strada delle collaborazioni con la Regione o altri enti, come a esempio avviene con Fondazione Cannavò. "Cercheremo di proporlo anche al Coni nazionale" fanno sapere dall’ufficio stampa "perché sia un modello operativo di esecuzione del progetto a livello anche nazionale in altre Regioni". Sardegna: recupero sociale e lavoro nei campi, accordo carceri-Confagricoltura cagliaripad.it, 12 marzo 2016 Formare i detenuti puntando sul futuro e su percorsi lavorativi e di inclusione sociale. È l’obiettivo, in estrema sintesi, delle colonie penali, già presenti in Sardegna a Isili, Is Arenas e Mamone. Formare i detenuti puntando sul futuro e su percorsi lavorativi e di inclusione sociale. È l’obiettivo, in estrema sintesi, delle colonie penali, già presenti in Sardegna a Isili, Is Arenas e Mamone. Un obiettivo che da oggi sarà perseguito anche con la collaborazione di Confagricoltura Sardegna. È stato siglato il protocollo d’intesa tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Sardegna e Confagricoltura. L’accordo prevede il coinvolgimento diretto dell’organismo di categoria. "Confagricoltura presterà una assistenza mirata nel campo legale, fiscale, previdenziale, tecnico-economica a favore delle aziende e delle colonie agricole che continueranno ad essere gestite direttamente dall’amministrazione Penitenziaria - si legge nel protocollo - potrà inoltre fornire la sua collaborazione, direttamente o attraverso enti di formazione, per iniziative dirette allo sviluppo e promozione di specifici percorsi formativi per i detenuti impiegati nelle colonie". Attualmente sono 300 i detenuti che gravitano attorno alle tre colonie penali. Alcuni progetti erano stati già avviati dall’amministrazione penitenziaria tra cui il "Gale Ghiotto" un marchio che contraddistingue alcuni prodotti caseari, miele, ma anche carni, ortofrutta e olio d’oliva. "Sono stati quasi ultimati i lavori di realizzazione del caseificio di Is Arenas - ha spiegato il provveditore Maurizio Veneziano che ha siglato il protocollo con il presidente di Confagricoltura Sardegna Luca Maria Sanna - è di grandi dimensioni e senza disturbare i produttori locali, potremo essere di supporto alle aziende presenti sul territorio". L’ipotesi è quella in futuro di poter lavorare per conto terzi, ma non solo. "Si potrà anche studiare la possibilità di ottenere i contributi comunitari - ha evidenziato Sanna - noi daremo il nostro contributo e allo sesso tempo cercheremo di coinvolgere le aziende locali". Con i progetti già portati avanti dall’Amministrazione sono stati assunti 5 ex detenuti. "Recuperare anche solo l’1 per cento dei detenuti è già un grande risultato". Napoli: detenuto malato, si aggrava ma resta ancora in carcere di Nino Pannella Roma, 12 marzo 2016 Il gip dispone gli arresti domiciliari presso una casa di cura: nessuna è disposta ad ospitarlo. L’appello delta sorella: mio fratello sta morendo. Sembrano peggiorare a vista d’occhio, le condizioni di salute del detenuto Domenico Gallo, arrestato a gennaio del 2015 per il reato estorsione in concorso aggravato dal vincolo associativo. Da luglio scorso (sono oramai trascorsi 8 mesi), il detenuto Gallo è stato scarcerato ma resta detenuto in carcere perché tra Napoli e provincia non c’è nessuna struttura sanitaria disposto ad ospitarlo per permettergli di curarsi. Inutili sono state le richieste avanzate dai suoi legali e dagli stessi familiari, che si sono rivolti, senza esito, anche al garante dei detenuti. Nei giorni scorsi, Domenico Gallo, 47 anni, è stato a più riprese sottoposto ad una serie di accertamenti diagnostici presso l’ospedale Cardarelli di Napoli, che hanno confermato il suo stato di malessere. A parlare per chiedere aiuto affinché il congiunto possa combattere con "dignità" la sua battaglia per vita è uno dei familiari. "Non gli rimane molto da vivere - ha raccontato la sorella Cinzia - e vorremmo che possa trascorrere i suoi ultimi giorni con le cure che merita e non da solo in una cella". Domenico Gallo, detto Mimmo, era divenuto nel corso degli anni il "Re dei Palazzinari" abusivi nelle terre di camorra tra Acerra e Afragola, ed è stato arrestato nel corso di un’operazione che ha portato dietro alle sbarre altre 29 persone, ritenute dagli investigatori boss e gregari del presunto sodalizio criminale facente capo ai Moccia che da decenni detta le regole del malaffare nell’arca a nord di Napoli. Le condizioni di salute di Domenico sono precipitate dopo alcuni mesi di reclusione, tanto che in una lunga relazione di consulenza tecnica, il medico incaricato della perizia ha concluso ritenendo incompatibile la detenzione in carcere del malato. Sulla scorta di questa "grave" incompatibilità, il giudice delle indagini preliminari, del Tribunale di Napoli, Claudio Marcopido ha disposto per l’indagato la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari presso il "nosocomio o la casa di cura indicata dal medesimo al momento della scarcerazione e [..,] prescrive al prevenuto di non allontanarsi dalla predetta clinica/ospedale senza idonea autorizzazione e di non comunicare in alcun modo con persone diverse da quelle che con lui convivono o che io assistono o che condividano con lui la stanza di degenza". Da allora, per i suoi familiari è iniziato la frenetica ricerca di un luogo dove poterlo curare. Ovviamente tutte le porte sono rimaste chiuse, anche quelle di alcune strutture d’eccellenza, che hanno l’obbligo della cura di malati difficili. "Sono pronta a donare a mio fratello una parte del mio fegato -grida con le lacrime agli occhi la sorella - ma nessuno vuole aprirci le porte per salvare nostro fratello". Catania: detenuti a lezione di cucina con lo chef Pietro D’Agostino di Sabrina Francalanza blogsicilia.it, 12 marzo 2016 Saranno dedicate alla pasta fresca all’uovo e ai primi piatti espressi le prossime lezioni dello chef Pietro D’Agostino, rivolte agli allievi dell’istituto alberghiero Karol Wojtyla di Catania, detenuti nel carcere di massima sicurezza Bicocca. Il "professor" D’Agostino ha rinnovato, infatti, la sua disponibilità per un nuovo ciclo di lezioni in programma i prossimi 14 marzo, 4 aprile, 20 aprile e 9 maggio. Un’iniziativa voluta dalla dirigente scolastica dell’Istituto alberghiero Daniela Di Piazza, resa possibile grazie alla disponibilità del direttore del penitenziario Giovanni Rizza e del team dell’area didattica, coordinato da Maurizio Battaglia. Del corpo docenti in servizio a Bicocca fanno parte anche Giuseppe Valore, che ne è il coordinatore, Rosario Torrisi, Giuseppe Rapisarda, Giovanni Bruno ed Enzo Scibilia. Un invito che lo chef D’Agostino, ambasciatore della cucina siciliana nel mondo, ha raccolto con grande entusiasmo, da sempre attento a utilizzare il linguaggio del cibo per parlare anche di solidarietà e impegno sociale. "Sono momenti di confronto fondamentali - commenta - per chi si trova ristretto in una cella per scontare lunghe pene detentive". Al di là della tavola imbandita con prelibatezze d’autore, l’iniziativa ha un enorme valore simbolico. "Con i ragazzi abbiamo già avuto una prima splendida esperienza lo scorso dicembre quando abbiamo organizzato un pranzo di Natale, si è fatto un bellissimo lavoro di squadra - ricorda Pietro D’Agostino - ognuno si è impegnato per ottenere il risultato che c’eravamo prefissi. È senz’altro un momento di crescita, di formazione professionale a tutti gli effetti per mostrare loro come funziona il mondo dell’alta ristorazione". Al Carcere di Bicocca circa 75 studenti, con una media di 30 anni, frequentano le lezioni dell’istituto alberghiero Karol Wojtyla. Rappresentano un terzo del numero complessivo dei detenuti che hanno deciso di acquisire un titolo di studio superiore. "Dopo undici anni di continuità possiamo dire che i risultati ci sono stati e non è stato facile - commenta il responsabile dell’area educativa di Bicocca, Maurizio Battaglia - soprattutto perché all’interno di un carcere dobbiamo fare i conti con una percentuale molto elevata di dispersione scolastica, ma con l’alberghiero ci attestiamo su una trentina di alunni per la prima e seconda classe e una decina alla terza". "Degli studenti che sono passati in questi anni dall’istituto penitenziario -aggiunge ancora Battaglia - c’è chi magari il ristoratore lo faceva già ma senza qualifica e in carcere ha avuto modo di acquisire un titolo di studio e chi, invece, partendo, proprio da un percorso didattico è riuscito poi a ricominciare a vivere, fuori dal carcere, aprendo un proprio ristorante, facendo lo chef o lavorando in sala". Roma: gara di retorica, i detenuti battono gli studenti di Tor Vergata di Sveva Alagna Corriere della Sera, 12 marzo 2016 Il duello di retorica sulla legittima difesa organizzato nel carcere romano ha visto vincitori i detenuti, gli studenti di Tor Vergata non hanno comunque deluso. Spontanei e determinati, sono stati i detenuti del carcere di Regina Coeli a vincere il confronto dialettico con gli studenti di Tor Vergata, nell’ambito di "È guerra di parole", il duello di retorica che si è tenuto proprio all’interno del carcere romano lo scorso 5 marzo. Organizzata da PerLaRe, Associazione per la Retorica, in collaborazione con Università di Tor Vergata, Casa Circondariale di Roma Regina Coeli, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e con il patrocinio della Regione Lazio, l’iniziativa intendeva portare al centro dell’interesse la retorica, offrendo l’occasione di tornare a riflettere sull’arte del parlare e dunque ragionare. Le regole del gioco - Semplici a dirsi, ecco quali erano le regole del gioco: due round da venti minuti per ogni squadra, una composta di detenuti e una di studenti, per sostenere prima una tesi e poi il suo opposto. L’argomento? I confini della legittima difesa: in Italia, al contrario degli Stati Uniti, la legge prevede che la legittima difesa sia simmetrica (non fare di più di quello che il malintenzionato stia facendo). Dunque, i partecipanti, forti di un periodo di training a cura dell’Associazione, hanno espresso le loro considerazioni attraverso un deciso esercizio di stile, prima a favore e poi contro l’uso della forza o delle armi per difesa. La giuria - La Giuria, composta dalla linguista Valeria Della Valle, dal conduttore del Tg1 Alberto Matano, dall’avvocato penalista Ciro Pellegrino, dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio e dall’attrice Carolina Crescentini, ha così espresso il suo verdetto: "Per la forza delle argomentazioni, per aver rispettato le regole della civiltà, per aver esposto le proprie argomentazioni con passione e vivacità, la giuria ha decretato vincitori i Signori di Regina Coeli". "I detenuti e gli studenti hanno offerto uno spettacolo che, nel rispetto delle regole della civiltà - spiega Flavia Trupia, presidente dell’Associazione per la Retorica - è riuscito a divertire e a commuovere il pubblico. È la prova che si possono suscitare emozioni, senza alzare i toni e senza ricorrere a facili espedienti e che lo studio delle strategie della retorica non porta a essere artificiosi e pomposi ma a far esprimere al meglio la propria intelligenza e creatività". Il coinvolgimento del pubblico - Tra la vivacità del dibattito e il clima coinvolgente, anche il pubblico ha risposto molto più che positivamente all’iniziativa. Lo si evince dalle frasi scritte sui post-it gialli: dato che più volte è stato detto che "Il carcere non è un centro convegni", al posto dello smartphone, che è rimasto in portineria, c’erano carta e penna. Così, tutti i presenti hanno avuto la possibilità di scrivere le proprie impressioni. Detenuti vs studenti - "I detenuti hanno fatto riferimento alle loro esperienze personali e le hanno tradotte in parole potenti. Gli studenti hanno cercato di supplire con la preparazione alla loro giovane età e alla mancanza di un’esperienza diretta sui fatti specifici dei quali si trattava. Ma la spontaneità dei detenuti ha avuto la meglio e il pubblico, a tratti, si è persino commosso", conclude Flavia Trupia. Dunque proprio come accaduto a New York, in un esperimento analogo realizzato dal Bard college di New York, tra gli studenti di Harvard e il carcere Eastern Correctional Facility, questi ultimi si sono rivelati vincitori. Ciò nonostante, "i giovani studenti di Tor Vergata sono stati davvero straordinari", sottolinea Andrea Granelli, vicepresidente dell’Associazione per la Retorica. "Non solo per aver accettato una sfida difficile, giocata in trasferta oltretutto su un campo difficile. Non solo per aver accettato un combattimento asimmetrico rispetto agli strumenti utilizzabili (contrariamente alla parte avversa potevano fare un uso limitato del pathos e dell’ironia visto il coinvolgimento emotivo della controparte sul tema in oggetto). Ma anche perché hanno messo in luce il loro talento, la loro tecnica argomentativa e soprattutto la loro umanità". Per chi volesse approfondire, sul sito di Radio Radicale è possibile ascoltare la registrazione audio del dibattito. Padova: il calcio ancora protagonista al carcere Due Palazzi padovanews.it, 12 marzo 2016 Si terrà sabato 12 marzo, alle 14.30 al campo sportivo del carcere Due Palazzi di Padova, l’edizione 2016 del Torneo triangolare amichevole di calcio a 11, organizzato nell’ambito del progetto "Col cuore si vince sempre", destinato a valorizzare i percorsi di formazione e rieducazione rivolti ai detenuti. L’iniziativa, promossa dal Comune di Campodoro con il patrocinio della Provincia di Padova, ormai da diversi anni rappresenta un punto di riferimento nel calendario degli eventi calcistici locali, perseguendo l’obiettivo primario di promuovere l’aspetto umano e sociale della persona. "Vogliamo che questo torneo metta in evidenza gli individui, non i risultati meramente sportivi - afferma il Presidente della Provincia di Padova, Enoch Soranzo - "promuovendo al contempo la tutela e il miglioramento della salute degli atleti. Insomma, crediamo in uno sport basato sul divertimento, la sana fruizione del tempo libero, la formazione continua dell’individuo, l’inclusione e la coesione sociale." "Pallalpiede - continua il Consigliere Delegato Provinciale alle Manifestazioni Sportive, Vincenzo Gottardo - nella sua prima stagione calcistica ha collezionato una serie incredibili di successi sul campo, mantenendo per diverse giornate la testa della classifica del Girone B e concludendo il Campionato di Terza categoria al secondo posto ma, soprattutto, aggiudicandosi la Coppa Disciplina per essersi distinta come esempio di correttezza, lealtà e disciplina." La passione e l’impegno dei calciatori detenuti ha talmente convinto sia le Istituzioni che le aziende private, che sabato a bordo campo saranno presenti non soltanto il Consigliere Delegato Provinciale Gottardo e tutte le autorità carcerarie, ma anche il main sponsor Carraro e lo sponsor tecnico Lotto, a testimonianza della bontà del progetto e per reperire le risorse necessarie alla sua sopravvivenza, dal momento che i costi per affrontare un intero campionato sono sempre molto elevati. "Una presenza di grande valore simbolico e un buon auspicio per tutte le altre iniziative correlate - conclude il Consigliere Gottardo - che verranno svolte nel corso del 2016, con l’attivo coinvolgimento dei detenuti del Due Palazzi. Alcuni di loro, grazie ad un permesso speciale, saranno presenti in veste di arbitri durante il grande Torneo di calcio giovanile in programma il 2 giugno 2016 a Campodoro, a cui parteciperanno oltre 500 bambini e ragazzi delle scuole di calcio e delle società sportive della Provincia di Padova. Una presenza fondamentale per testimoniare l’importanza dello sport come strumento di educazione, accoglienza, relazione e incontro, e per trasmettere ai giovani atleti un esempio ammirevole di applicazione sul campo di valori quali la correttezza, la lealtà e la disciplina". Bologna: Rai Cinema per "Cinevasioni", primo festival di cinema in carcere taxidrivers.it, 12 marzo 2016 Arriva il sostegno di Rai Cinema per Cinevasioni, il primo Festival del Cinema in carcere (9 - 14 maggio carcere della Dozza di Bologna). Una collaborazione importante che ha l’obiettivo di dare più visibilità a un festival unico nel suo genere e nella sua collocazione e di portare in proiezione, durante ma anche dopo il festival, opere importanti e di qualità. Non so, ha dichiarato Filippo Vendemmiati, direttore artistico di Cinevasioni, se i tempi sono maturi per dire che da oggi a Bologna è stato aperto un nuovo cinema: il Cinema Dozza nel carcere, ma questo è il traguardo di tutti coloro che stanno da tempo lavorando a questo progetto. Tutti i film degli ultimi anni per noi sono inediti, ha dichiarato uno dei detenuti cha da ottobre partecipa al corso-laboratorio cinema tenuto dai documentaristi della D.E-R, ma non capiamo perché in carcere, come si può leggere un libro, così non si possa vedere un film nella sua sede naturale: il grande schermo. Quello che insegniamo nel corso di cinema, afferma Angelita Fiore direttrice scientifica Cinevasioni, è guardare la realtà con altri occhi e con una consapevolezza diversa, anche se da dietro le sbarre il fuori può essere solo pensato… o visto attraverso i film. Un po’ come avviene quando s’immagina una storia. Questo forse è il punto di forza di Cinevasioni. Il bando per l’iscrizione al festival si chiuderà il 30 marzo 2016. Sono già arrivate numerose opere, soprattutto documentari, ma anche fiction. La giuria del festival è formata dagli stessi detenuti che stanno frequentando il corso laboratorio CiakinCarcere e sarà presieduta da un noto protagonista del cinema italiano. Il suo nome sarà comunicato nelle prossime settimane. Per maggiori informazioni, sono a disposizione i siti cinevasioni.it, dder.org e la pagina facebook.com/cinevasioni. Il ricatto di Erdogan sui migranti di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2016 La debolezza Ue favorisce la spregiudicatezza turca: indignarsi non basta. Il Consiglio europeo che si è concluso lunedì scorso non ha fatto "un passo in avanti" (come hanno detto il nostro premier e il cancelliere tedesco) con riguardo alla politica migratoria. Anzi l’ha aggrovigliata ancora di più collegandola alla "questione turca". Nelle conclusioni di quel Consiglio europeo, l’Unione europea (Ue) riconosce che non è in grado di gestire da sola l’afflusso di milioni di migranti e rifugiati che arrivano nel nostro continente. È divisa al suo interno, con ogni Stato membro preoccupato della propria situazione politica. Alcuni di essi (7), più altri (2) che non ne fanno parte, hanno deciso unilateralmente di chiudere le proprie frontiere o di introdurre controlli rigidi ai passaggi. Lo spazio Schengen di libera circolazione si sta sgretolando. Non riuscendo a gestire autonomamente l’afflusso di migranti e rifugiati, i leader europei si sono rivolti alla Turchia affinché ne blocchi il movimento verso i paesi europei. Quest’ultima, che pure ospita nel suo territorio più di 2,5 milioni di rifugiati siriani, ha colto l’occasione per rientrare, da protagonista, nel gioco europeo. Il suo presidente Erdogan sa che il cancelliere Merkel ha bisogno di una riduzione drastica degli arrivi dei rifugiati e migranti in Germania (che sono attualmente molto più di 1 milione), se vuole avere la possibilità di vincere le prossime elezioni federali (ottobre 2017) oltre che le elezioni che si terranno domani in 3 laender importanti. Quindi, come fa Putin con il gas, apre o chiude il rubinetto dei rifugiati che vogliono spostarsi verso nord in base alla risposta dei leader europei alle sue richieste. Ovvero: ulteriori finanziamenti, anticipazione della libera circolazione dei cittadini turchi nella Ue, accelerazione delle procedure per fare entrare la Turchia nella Ue. La debolezza europea favorisce così la spregiudicatezza turca. È legittimo indignarsi. Ma non basta. Occorrerebbe invece tener distinte la questione migratoria e quella turca. La questione migratoria richiede una riforma del policy-making. A Maastricht, nel 1992, la politica migratoria fu inserita tra le politiche della giustizia e degli affari interni, politiche da gestire attraverso un metodo intergovernativo nel cosiddetto Terzo Pilastro. Negli anni successivi, quel Pilastro fu gradualmente sovra-nazionalizzato, in particolare per quanto riguarda gli aspetti della sicurezza e dell’anti-terrorismo. La Commissione ha accresciuto il suo potere di iniziativa legislativa, promuovendo un coordinamento più stretto tra gli Stati membri. Tuttavia, la politica dell’ordine interno ha continuato ad essere gestita attraverso accordi inter-governativi, con ogni Stato membro geloso di preservare le proprie prerogative nazionali in questo campo. Tant’è che quando è arrivato lo tsunami dei rifugiati siriani, la Ue si è trovata senza una comune politica dell’asilo, una comune definizione dei paesi non-europei da considerare a rischio, una comune polizia di protezione delle sue frontiere esterne. Possiamo prendercela con il premier ungherese Orban o con il cancelliere austriaco Fayman perché chiudono unilateralmente le frontiere dei loro paesi, ma dobbiamo prima di tutto prendercela con un sistema della politica migratoria che non consente di giungere a decisioni efficienti e vincolanti. I sistemi decisionali (come quello per la politica migratoria) che si basano solamente sul consenso vanno bene per tempi di bonaccia, non già di tempesta. Se la politica dei rifugiati non verrà sottratta alla logica intergovernativa, allora non ci sarà soluzione al dramma che stiamo vivendo. Un primo passo potrebbe essere una cooperazione volontaria e rafforzata tra quegli Stati membri dell’Ue che concordano sulla necessità di giungere alla gestione sovranazionale del problema dei rifugiati. Diversa è la questione turca. La sua soluzione richiede necessariamente una revisione dei Trattati. Invece l’ambiguità continua a connotare la risposta europea alla richiesta turca di entrare nella Ue. La Turchia é un membro della Nato al cui interno assolve il ruolo importante di garantire la sicurezza dell’Alleanza sul versante orientale. La Turchia é un grande mercato importante per le imprese e le esportazioni europee. Ma la Turchia è anche un Paese altamente nazionalistico, sia nella sua versione religiosa che in quella laica. È una democrazia illiberale che legittima il potere attraverso le elezioni, ma rifiuta di controllarne l’esercizio attraverso bilanciamenti costituzionali e sociali. Come, ad esempio, attraverso una libera stampa. La "rule of law" non sempre è di casa nel Palazzo Bianco di Ankara, come abbiamo visto con la chiusura del principale giornale di opposizione una settimana fa. È evidente che la collaborazione militare ed economica con la Turchia è strategica per l’Europa. Ma è anche evidente che una Turchia nazionalista e illiberale, se entrasse nella Ue, costituirebbe un fattore di ulteriore destabilizzazione di quest’ultima. Ma a Bruxelles, e non solo lì, si continua a coltivare l’ambigua idea che la Turchia, prima o poi, entrerà nella Ue. E allora perché stupirsi che, al Consiglio europeo di lunedì scorso, il governo turco abbia avanzato richieste che assomigliano ad un ricatto? Accettando quel ricatto, la Ue accentuerà la sua crisi anche se il cancelliere tedesco potrà forse vincere le prossime elezioni. Non si può risolvere la questione turca senza una differenziazione costituzionale tra l’unione economica del mercato e l’unione politica della moneta. Se rispetta precise condizioni, il nazionalismo turco è compatibile con un mercato comune, ma non con un’unione politica. Ecco perché occorre tenere distinte la questione migratoria e quella turca. La prima richiede un accelerato processo di riforma interna ai Trattati, la seconda un cambiamento di questi ultimi. Aggrovigliando le due questioni, non si risolve la prima e si peggiora la seconda. L’errore di appaltare la gestione dei profughi alla Turchia di Guido Viale Il Manifesto, 12 marzo 2016 Per anni l’Eurobarometro ha indicato negli italiani uno dei popoli più "europeisti" e favorevoli all’ulteriore integrazione dell’Unione. Ma diverse indagini mostravano anche che gli italiani sono tra i meno informati sulle istituzioni e le politiche dell’Ue. È una caratteristica della vita politica italiana: meno se ne sa e più ci si appassiona. Questo fenomeno ha toccato il grottesco nelle risposte date a una recente indagine pubblicata dal quotidiano Repubblica sull’atteggiamento verso il trattato di Schengen in quattro paesi europei. Ora, con una completa inversione di marcia, i più favorevoli al ritorno ai confini nazionali (e i più contrari all’Ue) risulterebbero di gran lunga gli italiani. Un risultato in parte dovuto al modo bislacco in cui sono state poste le domande: nessuno ha spiegato agli intervistati che l’abolizione di Schengen avrebbe effetti tra loro molto diversi: per gli altri paesi europei sarebbe la soluzione "ideale" per tenere i profughi lontani dai loro territori; per noi significherebbe farsi carico di tutti gli arrivi, senza la possibilità di condividerne l’onere con il resto dell’Europa. Ma tant’è: una diffusa avversione per i profughi si mescola ormai in modo inestricabile con l’avversione per l’Europa, chiamata in causa dai nostri governanti, a volte anche a sproposito, per giustificare tutte le sofferenze e le malversazioni inflitte ai propri concittadini. Schengen è un’istituzione europea; quindi al diavolo anche lei… È una ventata di feroce stupidità che non si ferma ai valichi del Brennero e Ventimiglia. Investe ormai in forme altrettanto irrazionali tutta l’Europa, dove nessuno di coloro che vogliono respingere i profughi costi quel che costi ha la minima idea di che cosa ciò comporti. Eppure è chiaro che il filo spinato e l’esercito messo lì a presidiarlo (la nuova "cortina di ferro") sono una soluzione di poco respiro, che rischia di provocare una strage di proporzioni mai viste. Ma anche di suscitare delle reazioni incontenibili tra gli immigrati di prima, seconda e terza generazione, loro connazionali, già presenti in Europa e in larga parte già cittadini europei. In un campo sotto assedio come questo, in cui ogni Stato va per conto, suo cercando di scaricare sui vicini gli oneri che non vuole accollarsi, pensare che si possa continuare a fare la stessa vita che si è fatta finora, e forse anche a migliorarla, è pura follia. Alle forze anti-profughi e anti-Europa, in grande avanzata in tutti i paesi membri dell’Unione, e già vincenti in diversi di essi, si è da tempo accodato di fatto l’establishment che oggi governa l’Europa e la maggior parte dei suoi Stati, in una stupida gara a chi propone le misure più feroci e impraticabili. Così, dopo la favola della lotta agli scafisti, che si tradurrebbe in una vera e propria guerra ai profughi, e che per questo non è stata ancora intrapresa, e dopo l’illusione di poter distinguere tra profughi e migranti, per far credere di potersi liberare di almeno la metà dei nuovi arrivati rimandandoli nessuno sa dove né come, l’ultima misura senza senso è stata promossa da Angela Merkel. È il tentativo di "esternalizzare" nella Turchia di Erdogan la gestione di quei flussi che l’Europa non sa e non vuole accogliere, sperando così di tener insieme la sopravvivenza dell’Unione europea e la politica di austerity che ne ha innescato la crisi; e che è anche la causa del fatto che l’Europa non ha una politica in grado di trasformare i nuovi arrivati da problema in opportunità. Si vorrebbe remunerare non solo con un pacco di miliardi ceduti senza alcun controllo, ma soprattutto con l’avallo alla soppressione di ogni istanza di libertà, di pacificazione e di vita democratica, una Turchia sempre più fascistizzata e impegnata direttamente nella guerra ai Kurdi e in Siria e nel sostegno alle forze dell’integralismo islamista. Ma è un espediente senza futuro anche questo, che infatti stenta a concretizzarsi sia per il continuo rilancio da parte di Erdogan, sia, soprattutto, perché finirebbe per mettergli in mano le chiavi delle politiche dell’Unione; il che è come dissolverla. Per questo la rincorsa delle destre razziste e nazionaliste da parte della governance europea non fermerà né la loro avanzata, che anzi non fa che rafforzare, né l’acutizzarsi delle guerre e della pressione dei profughi ai confini diretti o indiretti dell’Unione. Ora, nonostante che la storia stia imboccando una svolta così pericolosa, è occorre più che mai definire e farsi carico di un’alternativa globale che abbia la sua chiave di volta in un diverso atteggiamento verso i profughi; perché è intorno a questo nodo che si avviluppano tutti gli altri problemi con cui l’Europa e i suoi popoli devono confrontarsi: innanzitutto quello della lotta al razzismo, all’autoritarismo, per la democrazia: una democrazia sostanziale e partecipata e non solo formale. Poi quello delle guerre in cui l’Europa si lascia trascinare passo dopo passo in forme sempre più inestricabili, moltiplicando la spesa a scopo distruttivo, la devastazione di interi paesi e la pressione di nuovi profughi ai suoi confini. Poi le politiche di austerity che, nonostante che Draghi continui a inondare le banche di quei miliardi che sta negando al welfare e all’occupazione, hanno ormai dimostrato quanti danni stiano infliggendo a tutta la popolazione europea, compresa quella degli Stati che contavano di poterne beneficiare. Poi quella delle politiche ambientali e, in particolare della lotta ai mutamenti climatici: soltanto un grande piano di conversione ecologica dell’apparato produttivo, a partire da energia, mobilità, agricoltura e alimentazione, edilizia e riassetto dei territori, può garantire sia la difesa degli equilibri ambientali del pianeta che la restituzione di ruolo, lavoro, reddito e dignità ai tanti profughi alla ricerca di un futuro per sé e per il loro paese di origine (molti dei nuovi arrivati vi faranno ritorno se, e non appena se ne presenterà la possibilità), ma anche ai tanti cittadini europei, soprattutto giovani, oggi privati del loro futuro. Non ultimo, il riequilibrio demografico e culturale di un’Europa che ha assoluto bisogno dell’apporto di forze fresche: non solo per compensare il progressivo invecchiamento e la drastica riduzione della sua popolazione, ma anche per risollevarsi, attraverso un incontro autentico con culture e persone diverse, dalla sclerosi in cui l’ha sospinta la dittatura del pensiero unico. L’arrivo di tanti profughi (meno, comunque, finora, di quelli che fino a pochi anni fa arrivavano in Europa come "migranti economici" e vi trovavano lavoro), viene presentato dalle forze razziste, a cui quelle dell’establishment al governo dell’Unione si sono accodate, come un’invasione. E verrà percepita sempre come tale se tutti gli sforzi saranno concentrati nel respingerli, o nell’isolarli, o nel tenerli inoperosi trattandoli come parassiti. Ma accolti con generosità, aiutati a trovare un ruolo e a difendere la propria dignità, lo "tsunami" dei profughi può rivelarsi invece una corrente in grado di trasportare l’Europa verso una nuova solidarietà tra i suoi membri e con i suoi vicini. Libia: se la guerra uccide anche la politica di Domenico Quirico La Stampa, 12 marzo 2016 La pace è diventata solo un armistizio, lo stato naturale è la guerra, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita. È così: solo che quando ce n’è troppa, allora diventa monotona come la pace. Ecco: in Libia la politica è stata uccisa, di vivo c’è solo guerra. La frase di Von Clausewitz secondo cui i conflitti non sono altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi oggi non ha più alcun significato, è inattuabile. Perché dopo una guerra come questa, così naturale e assoluta, non ci sarà nulla, negoziato, spartizione altro regime. Solo un’altra guerra. Tutto ciò che è politica sembra gettato via e dimenticato, in questo luogo non si fa che sbrigare il lavoro che la battaglia, imperiosamente, richiede. Come in fabbrica e nei campi. Noi chiediamo ai libici atti politici. Loro possono darci solo atti di guerra. Le stesse soluzioni diventano una parte del problema, lo complicano. Non ci si batte per uno scopo. Non ci sono più scopi. Si combatte e basta. Lo capisci guardando i combattenti che presidiano Tripoli o questi villaggi dall’aspetto di mucchi di macerie biancastre come se fossero precipitati dal cielo sulla terra. Più le nazioni come Siria, Somalia o Libia hanno i confini erosi dal massacro e più si strappano dal cuore guerrieri piene di sangue. A Nord a Sud ad Ovest: dappertutto battaglie di queste guerre nuove che si autoalimentano. Dovunque ci si volti la guerra è in qualunque punto di questa vastità. Questa massa smisurata di poveri manovali delle battaglie che hanno costruito con le loro mani questa immensa guerra sono manovrati da quelli che, grandi o piccoli sensali del caos, vivono in guerra e sono in pace durante la guerra, che proclamano l’irriducibile antagonismo tra le tribù, o che abbindolano e addormentano, perché il massacro non si plachi, con la morfina dei loro futuri paradisi. Trasformano la ricchezza del paese, il petrolio, in famelica patologia. La guerra, qui, ha partoriti uomini nuovi, il loro rapporto con il conflitto permanente definisce la loro identità. Noi pensiamo e agiamo come se ci fosse un fine, un momento in cui le armi dovranno necessariamente tacere e tra le fazioni o "i governi", (che spesso costruiamo noi per dare volto ai nostri progetti) emergeranno nuovi equilibri. E allora, automaticamente, le trattative la diplomazia il mercanteggiamento politico la fragile concordia troveranno un assestamento. Questo ai tempi delle guerre antiche: quelle che leggendo lo stratega prussiano erano facili a capirsi come un film, di quelli che in qualunque momento entri in sala, dopo due o tre scene, conosci subito l’intreccio, chi ha ragione e chi ha torto. Ora nessuno tra i protagonisti ha interesse che la guerra in Libia finisca. Perché segnerebbe così la propria fine. A Tripoli una milizia controlla il catasto, vende i titoli di proprietà di coloro che sono fuggiti o militano per altre fazioni. Come potrebbe desiderare la pace? Sono moderni capitani di ventura, spesso più imprenditori che strateghi, che la guerra nutre arricchisce e giustifica nella loro esistenza. Perfino la vittoria sarebbe una sciagura, li renderebbe inutili. L’equilibrio permanente della mischia è lo stato perfetto. I gruppi di banditi lo vogliono perché la pace segnerebbe la loro scomparsa, la fine dei sequestri e della gozzoviglia, i "partiti", fratelli musulmani, uomini di Tobruk, governo in esilio, perché nessuno di loro ha, contemporaneamente, la forza e la legittimità. Se ne ha una manca dell’altra. E allora la guerra garantisce di restare in scena. Gli uomini del califfato, loro sì, hanno un progetto politico che va oltre la guerra permanente e imporrebbe una pace cimiteriale, il paradiso in terra: ma la conclusione è remota nel tempo e per ora solo la confusione della guerra offre loro uno spazio e possibilità di azione. La guerra è una cosa semplice. Occorrono solo tre cose in fondo: armi uomini e denaro. Soprattutto denaro, che assicura le altre due. E in Libia non manca. C’è il petrolio, risorsa senza fine. Farla finita con la guerra sarebbe come impedire le tempeste. Oscuri sciami di umanità si ritirano uno dopo l’altro in se stessi, riassorbiti dal loro male misterioso. Un amico libico indica con la mano l’intera larghezza dell’indescrivibile paesaggio del deserto e ripete la frase: questa è la guerra… ed è così dappertutto, tremila chilometri di tragedie eguali, dal confine egiziano a quello tunisino e giù fino in fondo al deserto…. domani si ricomincia e come si è ricominciato l’altro ieri e tutti i giorni precedenti… volete venire qui per salvarci ma sapete che per farlo dovrete uccidere la guerra nel ventre della Libia…? Polonia: Stato di diritto, il Consiglio d’Europa gela Varsavia di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 12 marzo 2016 La Commissione di Venezia boccia la Polonia sulla riforma del Tribunale costituzionale. All’inizio dello scorso febbraio alcuni delegati della commissione si erano recati a Varsavia su invito del ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski per valutare una possibile violazione delle regole dello stato di diritto in Polonia. Il verdetto della Commissione guidata da Gianni Buquicchio è stato adottato in sessione plenaria dopo ore di estenuanti trattative nella Scuola Grande di San Giovanni Evangelista. Una decisione che condanna, in primo luogo, l’operato del partito di destra Diritto e giustizia (PiS), fondato dai fratelli Kaczynski, ma anche quello del precedente governo di centro-destra, targato Piattaforma civica (Po). Esito questo che sembrava già scritto la settimana scorsa quando il quotidiano Gazeta Wyborcza aveva pubblicato alcuni frammenti della bozza. Il PiS si era poi appigliato a questa fuga di notizie, giudicata inopportuna dalla stessa commissione, per chiedere invano un rinvio del verdetto a giugno. Quasi certo dell’esito, lo stesso Waszczykowski non si è nemmeno recato a Venezia. Si tratta di una batosta già annunciata per il PiS, consapevole ormai di essersi dato la zappa sui piedi, chiedendo il parere di un organo che può contare tra i suoi membri anche gli Stati uniti, tradizionalmente alleati del PiS. Alla decisione della Commissione di Venezia dovrebbe seguire una risoluzione simbolica del Consiglio d’Europa. I falchi del partito sanno bene che con il deteriorarsi del rapporto tra Washington e Varsavia sarà difficile chiedere una maggiore presenza Nato in territorio polacco o stracciare l’obbligo di visto per i propri connazionali che si recano negli Usa. L’unico a sorridere del progressivo isolamento diplomatico della Polonia potrebbe essere Putin. Intanto il conflitto tra i poteri dello stato ha raggiunto livelli intollerabili. "I membri della corte possono incontrarsi quando vogliono e ordinare un espresso o un biscottino", aveva commentato il numero due alla Giustizia Patryk Jaki in merito alla convocazione del Tribunale costituzionale che si era riunito mercoledì scorso per deliberare sulla riforma del proprio organo. In particolare, il tribunale ha espresso un parere negativo sul provvedimento che richiede la presenza di almeno 13 membri su 15 in aula e una maggioranza di due terzi nelle decisioni della corte. I magistrati hanno contestato l’assenza di una vacatio legis sul provvedimento votato in tempi record dal PiS. Forti preoccupazioni sono state espresse anche sull’obbligo di programmare lo svolgimento delle singole udienze secondo criteri meramente cronologici. "Il tribunale non ha il diritto di deliberare su un provvedimento del governo", ha continuato a ripetere come un mantra nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro. È la seconda volta in pochi mesi che il PiS decide di non pubblicare una sentenza della corte sulla gazzetta ufficiale. Lo scorso dicembre il governo della premier Beata Szydlo si era rifiutato di stampare un verdetto che richiedeva la reintegrazione di tre membri della corte eletti durante il governo del Po. La credibilità del governo polacco è destinata a vacillare ancora di più in sede Ue, visto che Bruxelles si prepara a tornare alla carica ad aprile per proporre con più decisione le sue raccomandazioni al governo di Varsavia. Anche sulla riforma votata dal PiS che garantisce al Ministero del tesoro un potere incontrollato sui media pubblici. Sud Sudan: civili, donne, bambini… campionario di atrocità senza fine di Gina Musso Il Manifesto, 12 marzo 2016 Nazioni unite. L’Alto commissariato per i diritti dell’uomo diffonde un rapporto raccapricciante sugli effetti della guerra civile che insanguina lo "stato più giovane del mondo". La licenza di stuprare e di uccidere fa parte del salario assegnato ai miliziani fedeli al governo di Juba. Un quadro raccapricciante di abusi e un duro atto d’accusa rivolto al governo di Juba. Sono questi i contenuti salienti del rapporto sulla situazione nel Sud Sudan stilato dall’Alto commissariato Onu per i diritti dell’uomo e reso pubblico ieri. Lo "stato più giovane del mondo" era stato salutato da squilli di giubilo dalla comunità internazionale, nel luglio 2011, nella speranza forse di far terra bruciata intorno al presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir, su cui pende ancora un mandato d’arresto della Corte penale internazionale per "crimini contro l’umanità" relativo ai massacri commessi in Darfur. Oggi si fanno invece i conti con gli effetti disastrosi del conflitto divampato nel dicembre 2013 all’interno del Sud Sudan tra l’esercito fedele al presidente Salva Kiir e le milizie ribelli guidate dal suo ex vice, Riek Machar, trasformatosi in principale oppositore. Una guerra civile che non si è mai veramente conclusa, malgrado gli "accordi di pace" siglati lo scorso anno in Etiopia, per effetto dei quali Machar è stato rieletto vice-presidente appena un mese fa. Peccato che al momento, temendo per la sua incolumità, non sembra avere intenzione di lasciare Addid Abeba per tornare a fare il vice del suo acerrimo nemico a Juba. La portavoce dell’Alto commissariato Cécille Pouilly non usa giri di parole: "Abbiamo assistito a esecuzioni sommarie e omicidi anche di ragazzini, persone disabili bruciate vive, gente asfissiata nei container, appesa agli alberi, fatta a pezzi… purtroppo la litania delle atrocità non ha fine in Sud Sudan". Dove l’opposizione si è militarmente indebolita e le forze governative non esitano a forzare i termini degli accordi pur di riguadagnare il controllo su città e regioni in cui lo aveva perso, non esitando a vendicarsi sui civili. Uno degli episodi riferiti nel rapporto era stato già denunciato di Amnesty International e risale allo scorso ottobre, quando 60 tra uomini e ragazzi sono morti asfissiati dopo essere stati chiusi con le mani legate in un container sotto il sole a picco dai soldati. Il rapporto sottolinea poi con particolare sgomento le brutalità di cui sono spesso vittime le donne, dal momento che per i gruppi armati alleati con il governo centrale la licenza di stuprare e uccidere le loro vittime è parte integrante del salario che gli viene riconosciuto. Egitto: assolti 49 membri dei Fratelli musulmani detenuti dall’agosto 2013 Nova, 12 marzo 2016 Il tribunale provinciale della provincia egiziana di Beheira, nel Delta del Nilo, ha assolto 49 membri dei Fratelli Musulmani, tra cui uno dei leader del gruppo, Mohamed Gamal Heshmat, dalle accuse relative a un presunto tentativo di rovesciare il governo. Secondo il quotidiano filo-statale "Al Ahram", gli imputati erano in custodia dal 30 agosto 2013 con l’accusa di aver tentato di uccidere dei manifestanti pro-esercito, di adesione a un gruppo terroristico e di attacco alle forze dell’ordine nell’intento di compiere un colpo di stato. Centinaia di membri dei Fratelli Musulmani, tra cui anche l’ex presidente della repubblica Mohamed Morsi, sono ancora sotto custodia in Egitto con simili accuse. Il gruppo islamista è considerato fuorilegge dalla giustizia egiziana. Stati Uniti: "60 Days In", reality manda i suoi partecipanti in carcere per due mesi thepostinternational.it, 12 marzo 2016 La rete televisiva statunitense A&E, specializzata in reality e documentari, sta mandando in onda dal 10 marzo una serie documentaristica intitolata 60 Days In, in cui sette persone hanno trascorso i sessanta giorni del titolo come detenuti in una prigione dell’Indiana. I volontari - nessuno dei quali aveva precedenti penali - sono stati rimborsati per i due mesi in cui non avrebbero potuto lavorare, e poi inviati con accuse false e false identità presso la Clark County Jail di Jeffersonville. Nessuno tra gli altri cinquecento detenuti o tra gli agenti di sorveglianza era al corrente del fatto che vi fossero degli "intrusi", ma l’autorizzazione è venuta dallo sceriffo della contea di Clark Jamey Noel, che ha dichiarato di necessitare di uno sguardo onesto dall’esterno alla vita dentro la prigione dell’area da lui governata. "Questi volontari coraggiosi ci hanno aiutato a identificare le criticità all’interno del nostro sistema, che agenti infiltrati non sarebbero stati in grado di trovare perché privi dei loro occhi vergini rispetto all’ambiente carcerario". Per esempio, alcuni dei detenuti sotto copertura lo hanno informato della rigida gerarchia vigente in carcere, che riguarda perfino l’uso del bagno: i nuovi arrivati erano infatti obbligati a offrire cibo o oggetti acquistati allo spaccio della prigione per avere accesso ai servizi igienici. I partecipanti hanno avuto modo di assistere a scene di violenza gratuita impensabili in altri ambienti, come quando un detenuto ne ha selvaggiamente picchiato un altro solo perché durante l’orario del pasto non gli ha dato le patate fritte che il primo gli aveva chiesto. "Quando si va in prigione per prima volta, gli altri detenuti lo percepiscono, e approfittano automaticamente di te. Ho subìto furti, e ho avuto problemi sulla possibilità di fare la doccia e dormire". Nel corso dei due mesi, i partecipanti hanno sperimentato violenza e molestie sessuali da parte dei compagni di prigione, e hanno raccontato l’uso di droghe tra i detenuti, che per l’80 per cento sono in carcere proprio per crimini connessi alla droga. Addirittura, alcuni detenuti - non partecipanti al programma - hanno confessato di essersi volutamente fatti arrestare perché le droghe erano più economiche in carcere di quanto non lo fossero in strada. Anche la figlia dell’ex campione di boxe Muhammad Ali ha fatto da volontaria per la trasmissione, e alla fine dei suoi due mesi, ha suggerito allo sceriffo Noel di migliorare i servizi del carcere proprio sotto l’aspetto delle droghe, il che ha portato alla creazione di un programma di Narcotici Anonimi per i detenuti. Questo però non è stato l’unico provvedimento preso dalle autorità grazie al programma televisivo: diversi agenti di sorveglianza sono stati licenziati in seguito a eventi raccontati dai partecipanti e una donna è stata arrestata per aver cercato di introdurre droga nel carcere. La rete A&E ha pagato 60mila dollari il carcere per realizzare la serie, e lo sceriffo ha dichiarato al sito Business Insider che il denaro sarà speso per una migliore formazione delle guardie, per un sistema di telecamere aggiornato e per un body scanner. La rete ha già confermato che lo show continuerà per una seconda stagione. Gran Bretagna: il detenuto "social" fa la recensione della cella e diventa virale La Repubblica, 12 marzo 2016 Fermato in Gran Bretagna, un uomo ha passato la notte in prigione, scattando foto che ha messo su Facebook. "A questo posto ho dato quattro stelle, sicuramente ci tornerei". Gli scatti sono stati rapidamente condivisi, ma la polizia sta indagando per le possibili ripercussioni sulla sicurezza. Figlio del suo tempo, non ha resistito al richiamo del selfie, neppure dalla prigione. Qualche scatto per documentare il soggiorno di una notte in cella di sicurezza, che ha definito "a quattro stelle", come se fosse una recensione su Tripadvisor. Le foto che Christian Willoughby ha scattato alla stazione di polizia di Grimsby, in Gran Bretagna, e poi pubblicato su Facebook, sono diventate subito virali, suscitando commenti divertiti. Mostrano la cella, definita "minimal", ma di classe, lodano il servizio "piacevole" e la sicurezza, ineccepibile. Unico neo? La colazione, non proprio all’altezza delle sue aspettative, con salsicce sommerse da una improbabile salsa. Anche queste immortalate in foto, racconta l’Independent, come la porta di sicurezza della cella, i vetri blindati e gli interni, nel dettaglio. Le immagini su Facebook, hanno inziato a circolare rapidamente. Chi però non ha trovato l’idea divertente è stata la polizia britannica, preoccupata per il rischio sicurezza. "A questo posto ho dato quattro stelle", scrive Willoughby su Facebook, non risparmiando però qualche lamentela per quelle salsicce che galleggiavano "su una strana salsa". "Ma al di là di questo, lo staff è molto piacevole. Ho avuto la mia stanza privata con tanto di maggiordomo che mi portava il tè e i giornali". Notevole, continua, la sicurezza del posto, con "vetri quadrupli" e porta blindata. Insomma, "il posto ideale per rilassarsi dopo una giornata difficile. Ci tornerei di sicuro", conclude la recensione. Il post è stato condiviso migliaia di volte, e c’è chi ha definito il suo autore - che non ha però chiarito perché mercoledì ha dovuto passare la notte in cella - come la persona più divertente del mondo. Invece di apprezzare le parole di apprezzamento, dalla struttura hanno iniziato a farsi qualche domanda. A partire da come sia stato possibile, per l’uomo, portare in cella lo smartphone, proibito. Lui, ha replicato, candido, che in effetti era un iPad. Ora la polizia locale sta indagando per le possibili ripercussioni sulla sicurezza del luogo.