Il lavoro è uno strumento di dignità sociale, anche per i detenuti di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2016 Il ministero della Giustizia, a firma del capo dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, presenta in Parlamento la consueta relazione sul lavoro penitenziario relativa al 2015. Per chi conosce il carcere non è una sorpresa: la mercede (ovvero, in italiano, la paga) corrisposta ai detenuti lavoranti (ovvero, in italiano, lavoratori) si aggira in media attorno ai 2 euro e mezzo l’ora, essendo più bassa per gli scopini, gli spesini e i portavitto (ovvero, in italiano, gli addetti alle pulizie, allo spaccio interno e i camerieri) e un po’ più alta per gli scrivani (ovvero, in italiano, i segretari di reparto). Chi conosce il carcere sa inoltre che quei 2 euro e mezzo l’ora vengono corrisposte magari per tre ore sulle sei lavorate in un giorno, e ufficialmente certificate dai turni scritti sul foglio appeso in bacheca. E sa che il lavorante lavora magari due giorni a settimana per due settimane al mese, per due mesi l’anno. Se il carcere ha costituito mai un’avanguardia, lo ha fatto nella sperimentazione di forme creative di liberismo lavorativo a basse garanzie. Le mercedi, che per legge devono essere pari ad almeno due terzi di quelle esterne (e già si capisce poco il senso della diminuzione, posto che il detenuto lavorante paga per il proprio mantenimento in carcere) sono ferme ai primi anni ‘90, in teoria per mancanza di fondi. Dopodiché i detenuti fanno ricorso, inevitabilmente vincono e a quel punto i fondi devono venire fuori. Solo la nostra associazione Antigone ha seguito una quarantina di cause senza perderne neanche una. Santi Consolo, e con lui il ministro Orlando, denunciano con forza la situazione, e questo è meritorio. Ma io credo che oggi il tema del lavoro in carcere vada posto in termini più ampi del solo - pur sacrosanto - adeguamento delle mercedi. Il tema va posto nel senso di una seria rivalutazione, riqualificazione, rielaborazione del lavoro in quanto tale per quella quota di persone che si trova privata della libertà di movimento (badate, solo questo deve essere la reclusione, e non privazione di altri diritti, quali quelli lavorativi), che si rispecchi innanzi tutto in un accantonamento del linguaggio carcerario gergale volto a infantilizzare, discriminare, irridere il lavoratore detenuto. Siamo in epoca di riforme penitenziarie. Facciamo in modo che prendano tutt’altra strada rispetto a quella da qualcuno proposta neanche troppo tempo fa che mirava a introdurre il lavoro obbligatorio e gratuito (in italiano, il lavoro forzato) nelle carceri italiane. Siamo in epoca di riforme: puntiamo allora a riforme epocali. Il lavoro merita di starvi al centro. Merita un ripensamento che sia prima di tutto culturale e poi economico. Il lavorante scopino o portavitto è oggi relegato al livello di un bambino cui la mamma chiede di mettere a posto la cameretta così potrà avere in cambio i soldi per le caramelle. Assistenzialismo e non reale inserimento in un contesto lavorativo e sociale. Il lavoratore - libero o detenuto che sia - deve invece essere messo in condizione di usare il suo lavoro come strumento sociale di affermazione della propria dignità, di autonomia, di responsabilizzazione. Solo così potremo sperare in un carcere capace di rispondere tanto ai diritti dell’uomo quanto al dettato costituzionale e alla convenienza sociale di una pena capace di reintegrare e abbattere la recidiva. Detenzione e lavoro, se 2 euro e 50 cent all’ora vi sembrano troppi di Marta Rizzo La Repubblica, 11 marzo 2016 Da settembre 2015 è aumentata la quota di mantenimento per i detenuti. Il lavoro carcerario è un mondo sconosciuto, eppure quasi il 30% dei detenuti svolge mansioni interne ed esterne agli istituti, con salari piuttosto bassi. Ed è lo stesso vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) a credere nell’urgenza di una riforma. Il 7 settembre scorso, il Dap - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - ha disposto che la quota di mantenimento in carcere a carico del detenuto è aumentata a 3,62 euro al giorno, 108,6 euro al mese: il doppio di quanto era prima. Il periodico del carcere di Bollate, "Carte bollate", denuncia che un recluso addetto alle pulizie di quell’istituto guadagna soltanto 2,50 euro l’ora. Quanti sono i lavoratori, interni ed esterni, che possono applicare il tempo della pena in modo produttivo in Italia? Che lavori fanno e quanto guadagnano? In seguito alle ricerche fatte, Massimo De Pascalis, vice capo Dap, è pronto a nuovi provvedimenti per migliorare il sistema lavorativo dei detenuti. Le cifre che non si conoscono. "Quasi il 70% della spesa nel bilancio dello Stato destinata al mantenimento della struttura carceraria è indirizzata alla Polizia penitenziaria. La retribuzione dei lavoratori carcerati con mansioni amministrative, dall’estate 2015, mediamente, il salario di un addetto alle pulizie, è passato da 220 euro netti mensili a circa 150 euro. I carcerati che fanno pulizie e distribuzione cibo (nel gergo carcerario "scopini") guadagnano 167,91 euro; gli addetti alle uffici spese (o "spesini") 152,78 euro; gli addetti alle tabelle spese ("scrivani") 205, 59 euro. Questo, per 25 giorni lavorativi e 75 ore complessive al mese". Lo riferisce un dossier del periodico del carcere milanese Carte bollate, che espone una busta paga di un detenuto lavoratore amministrativo dell’istituto del settembre 2015. "Chi lavora all’esterno - sempre seguendo l’articolo di Bollate - ha paghe sindacali e anche chi lavora all’interno per imprese private o cooperative. A volte, però, alcune imprese che assumono detenuti all’interno del carcere, usano espedienti per ridurre al minimo i costi, inquadrandoli come lavoranti a domicilio. Nei call center hanno invece una retribuzione che si aggira attorno agli 800 euro mensili, dipende dalle ore di lavoro". Cosa dice il Dap. Secondo il Dap, invece, il lavoro carcerario esterno agli istituti segue i contratti delle società per le quali i detenuti s’impiegano. Non è facile, pare, fare un quadro preciso su quanto ammontino, mediamente, le paghe di chi lavora fuori dalle carceri. Sempre il Dap, poi, fornisce la documentazione sui detenuti lavoratori per l’amministrazione penitenziaria, interni agli istituti, che hanno salari non dissimili da quanto su riportato. Ogni ora, al lordo, un addetto ai servizi vari di istituto (scopino, porta vitto, spesino, magazziniere, addetti alla cucina, barbiere, piantone) guadagna da 3,38 a 3,71 euro; l’addetto al Mof (muratore, imbianchino, idraulico, elettricista) tra i 3,62 e i 4,03 euro; i lavoratori agricoli (ortolano, agricoltore, mungitore, operatore macchine agricole, casaro) tra i 3,98 euro e 3,48; i metalmeccanici (fabbri, carrozziere, motorista) tra i 3,44 e i 3,77 euro; chi opera nel settore tessile (sarto, tappezziere, tessitore) tra i 3,30 e i 3,78 euro; i calzolai guadagnano tra i 3,05 e i 3,95 euro; i falegnami tra i 3,69 e i 4,13 euro; i grafici (tipografo, fotoincisore, decoratore) tra i 3,63 e i 3,92 euro. I lavori dei detenuti italiani. Il Dap fornisce uno studio statistico sul lavoro nelle carceri italiane, suddiviso per regioni; per coloro che operano all’interno del carcere e coloro che possono uscirne; con le varietà dei lavori che i detenuti possono svolgere. Le 79 pagine della sezione statistica Dap sono aggiornate a giugno 2015, data in cui il 27,62% della popolazione carceraria nazionale, svolge attività lavorative. Sono 14.570 persone, di cui 12.345 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (colonie agricole, servizi dell’istituto di pena, manutenzione dei fabbricati, servizi extra murari) e 2.225 no (semilibertà del detenuto per datori esterni al carcere); imprese e cooperative; lavori esterni secondo l’art.21 (non è una vera misura alternativa alla detenzione, ma un beneficio concesso dal direttore dell’Istituto; consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un lavoro, anche autonomo, o frequentare corsi di formazione professionale. Dal, 2001 sono ammesse al lavoro esterno anche le madri di bambini di età inferiore ai 10 anni, o i padri, se la madre è deceduta, o impossibilitata). Detenuti stranieri e categorie di lavoro. Sono 4965, poi, i lavoratori detenuti stranieri in Italia; 4664 lavorano per l’amministrazione penitenziaria, 601 no; 4630 sono maschi e 335 donne. Le regioni dove i detenuti lavorano di più sono, nell’ordine, Lombardia, Toscana e Piemonte; mentre cifre di 1 lavoratore soltanto si leggono in Friuli, Molise, Marche e Trentino. I settori più frequenti riguardano la falegnameria; quindi agricoltura, piante e serre; sartoria e calzoleria; i luoghi nei quali i detenuti lavorano meno sono invece autolavaggi, carrozzerie e call center. Per quanto riguarda i corsi professionali, sono 2254 i detenuti, stranieri e non, che li seguono, i promossi sono l’80%. Campania, Umbria e Sicilia le regioni degli istituti in cui i detenuti sono i più studiosi; i settori maggiormente seguiti appartengono a ristorazione e cucina, giardinaggio e agricoltura, artigianato. Poco interessano, invece, l’arte e la cultura, ancor meno le lingue, la meccanica e l’ambiente. Migliorare il lavoro carcerario senza gravare sullo Stato. "Il tema del lavoro penitenziario - spiega Massimo De Pascalis, vice capo Dap - è una criticità del sistema, pur rappresentando uno degli elementi fondamentali per assicurare un’esecuzione penale. Le percentuali di occupazione, la qualità del lavoro, la stessa retribuzione che risultano dai dati, ne sono la conferma. Con questi presupposti, sulla questione ci sono notevoli margini di miglioramento che possono essere realizzati con investimenti finanziari che, tuttavia, non necessariamente devono gravare sul bilancio dello Stato, bensì con finanziamenti europei e regionali, peraltro già disponibili. Per riorganizzare il Ministero della Giustizia nel giugno 2015, presso il ministero stesso, è stata realizzata una struttura dirigenziale finalizzata a reperire risorse in tal senso. L’obiettivo è ricondurre su un piano di organicità nazionale la progettazione, l’acquisizione delle risorse e l’impiego delle stesse in attività formative e di lavoro professionale. La stessa Amministrazione penitenziaria, che partecipa a quei lavori, sta incrementando le attività lavorative alle dipendenze dell’amministrazione con progetti finanziati dalla Cassa delle Ammende". Ci vuole una riforma, subito. "Rimane, comunque, invariata l’esigenza di modificare l’attuale normativa in tema di lavoro penitenziario - dichiara De Pascalis - per questo, il tavolo di lavoro dedicato a questo tema nell’ambito degli Stati generali per la riforma dell’esecuzione penale, istituiti dal ministro Orlando, ha prodotto analisi e proposte che indicano ipotesi di riforma utili a realizzare un incisivo cambiamento. Soprattutto, il lavoro dovrà migliorare la qualità delle prestazioni lavorative e l’ offerta dovrà essere anche coerente con le esigenze di mercato per poter assicurare la continuità dell’occupazione anche dopo l’espiazione della condanna. L’aspetto positivo, è la consapevolezza che tutti gli attori del sistema hanno sulla criticità di tale elemento che, a dire il vero, non è il solo. E che tutte le riflessioni e proposte si stanno muovendo verso una radicale riforma del lavoro penitenziario". A Bollate si denunciano paghe da fame. Un ristorante per clienti "liberi"; corsi e spettacoli teatrali; biblioteca; un’ impresa di catering di alto livello che lavora per grandi eventi; cura di animali; ortofrutta coltivata dentro e venduta fuori; incontri tra detenuti e universitari. Oltre a ciò, il carcere di Bollate, riconosciuto come esempio positivo e propositivo di reinserimento socio-lavorativo dei suoi carcerati, nel primo numero del periodico "Carte bollate" di gennaio-febbraio 2016, scritto anche da detenuti, denuncia le paghe su citate di chi lavora per l’amministrazione penitenziaria. "Bollate ospita in media 1100 detenuti - dice Massimo Parisi, Direttore di Bollate - Tra questi quasi 200 sono ammessi al lavoro all’esterno ai sensi dell’art 21. In molti casi il lavoro esterno è integrato da attività di volontariato. All’interno, per conto di ditte esterne, lavorano circa 200 detenuti a cui si aggiungono i lavoranti domestici. Gli studenti, complessivamente, sono circa 300, tra cui 26 universitari". "Reinserimento, volontariato, strutture alternative". "In merito al lavoro - conclude Parisi - è un elemento fondamentale per l’inclusione sociale dei detenuti. Va accompagnato ad altri interventi che stimolino i detenuti e li accompagnino nel rientro in società. In tal senso, sono convinto che vanno strutturati dall’interno del carcere interventi finalizzati alle dimissioni dei detenuti e che prevedano la costruzione, con il territorio, di un progetto di rientro in società. Se all’inserimento lavorativo si accostano progetti per le famiglie dei detenuti, collegamenti con i servizi territoriali di residenza, ricerca di soluzioni abitative, attività di volontariato dei detenuti a favore di soggetti deboli, possiamo favorire un effettivo reinserimento sociale e una conseguente diminuzione della recidiva". Lavoro in carcere: i detenuti fanno causa allo Stato che li paga poco… e vincono sempre! di Andrea Tundo Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2016 Da 23 anni la cosiddetta "mercede", cioè la retribuzione di chi lavora per l’amministrazione penitenziaria, non viene adeguata ai livelli previsti dalla legge perché non ci sono i soldi: è ferma a circa 2,5 euro l’ora. Innumerevoli i ricorsi. Il ministero della Giustizia sta cercando una via di uscita, ma le soluzioni che vuole proporre rischiano di essere incostituzionali. "Innumerevoli ricorsi" ai giudici del lavoro, davanti ai quali "l’amministrazione è, naturalmente, sempre soccombente". Cioè perde. E deve mettere mano al portafogli, con esborsi fino a 20mila euro per ogni singolo caso. È il risultato dell’inadempienza dello Stato, che da 23 anni "per carenza di risorse economiche" non adegua ai livelli previsti dalla legge la retribuzione dei detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. I quali ricevono in media 2,5 euro l’ora. A mettere nero su bianco il paradosso, senza nascondere che "l’esponenziale aumento del contenzioso rende sempre più problematico un intervento teso a sanare la situazione", è lo stesso ministero della Giustizia, nella relazione presentata al Senato dal titolare Andrea Orlando lo scorso 19 gennaio e firmata da Santi Consolo, capo del Dap. Via Arenula sta cercando di trovare una via di uscita, ma le "pezze" che vuole proporre sono peggiori del buco: rischiano di essere incostituzionali. La "mercede" al palo dal 1994 - I detenuti che lavorano nelle carceri per distribuire i pasti, come impiegati nell’ufficio spesa o come addetti alle pulizie sono più di 10mila (altri 1.400 lavorano per soggetti esterni all’amministrazione, tra cui le cooperative sociali). In base all’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario la loro paga, la cosiddetta "mercede", non deve essere inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto collettivo nazionale in vigore. Peccato che la Commissione ministeriale responsabile di disporre gli adeguamenti non lo faccia dal 1994 perché non ci sono i soldi. Per le mercedi vengono stanziati tra i 50 e i 60 milioni l’anno, a seconda delle presenze di detenuti, ma sempre stando alla relazione in caso di adeguamento servirebbero 50 milioni in più. Così con il passare degli anni la distanza tra i compensi di chi è "fuori" e chi è "dentro" si è allargata sempre di più. A questo va aggiunto che da agosto dello scorso anno la mercede ha subito una contrazione reale a causa dell’aumento, in alcuni casi del cento per cento, della quota di mantenimento, la cifra che ogni detenuto paga per i servizi che riceve in carcere. La denuncia di Carte Bollate - Le tabelle con la retribuzione netta intascata dai detenuti sono state rese pubbliche da Carte Bollate, il magazine edito dai carcerati del penitenziario in provincia di Milano. "Da noi dipendono tutti i servizi: il funzionamento dei laboratori, le cucine, la distribuzione delle vivande, gli sportelli giuridici e sociali, le cooperative, le biblioteche, la distribuzione della spesa - si legge nel bimestrale - Tutto nelle case di detenzione funziona grazie al lavoro dei detenuti". Le paghe nette? Da fame: uno scopino riceve 2,23 euro all’ora, uno spesino si ferma a 2,12 e un jolly arriva a 2,33. I più fortunati sono gli scrivani: due euro e settantaquattro centesimi. Notare che questi sono i nomi con cui il gergo ministeriale indica gli addetti alla distribuzione del vitto, all’ufficio e alla tabella spesa, ai quali è concessa una "mercede" in cambio del loro lavoro utile a portare avanti le strutture. "Budget insufficiente incide su qualità della vita" - La gravità della situazione viene evidenziata dalla relazione presentata al Senato dal ministro Orlando lo scorso 19 gennaio. Il documento è firmato da Santi Consolo, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La fotografia è deprimente e inequivocabile: "Non vi è dubbio che nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari", scrive Consolo. Il budget per la remunerazione dei detenuti nelle attività quotidiane "sebbene incrementato" di recente è "ancora insufficiente" e "incide negativamente sulla qualità della vita". La retribuzione dei detenuti non viene aggiornata dal 1993 "per carenze di risorse economiche". Ma la beffa è che quello che lo Stato non paga deve poi versarlo a seguito delle sempre più frequenti cause presentate dagli ex detenuti. Il "mancato aumento delle mercede", prosegue il documento, ha infatti innescato un "proliferare di ricorsi ai giudici del lavoro" davanti ai quali "l’amministrazione è, naturalmente, soccombente" con "ulteriori aggravi per la finanza pubblica". Oltre a pagare le differenze retributive modulate sugli anni, lo Stato versa infatti "anche gli interessi e le relative spese di giudizio". Osservatorio Antigone: "Mai perso una causa" - Accade sempre più spesso, conferma a ilfattoquotidiano.it l’avvocatessa Simona Filippi, difensore civico dell’Osservatorio Antigone: "Assieme ad alcuni colleghi abbiamo aperto un fronte giuridico e politico da circa quattro anni. In circa quaranta cause intentate non ho mai ricevuto un rigetto". Le sentenze dei giudici sono univoche e danno ragione agli ex detenuti corrispondendo risarcimenti che variano dai 2mila ai 20mila euro, a seconda del monte ore lavorato. "Visto che le retribuzioni sono ferme dal 1993 - si chiede Filippi - e che la legge prevede la facoltà, in realtà sempre applicata, di abbattere di un terzo i minimi dal contratto nazionale, perché quando è aumentato il mantenimento non è stata tolta la riduzione?". Carceri, l’eterna emergenza che odora di morte. In 15 anni quasi 900 detenuti suicidi di Nicola Lofoco huffingtonpost.it, 11 marzo 2016 Non è indubbiamente un mistero il fatto che quando si ricorda, ogni tanto, il problema mai risolto del sovraffollamento delle carceri italiane si scopra il classico segreto di Pulcinella. E scoprire che il sistema penitenziario soffra di anomalie che determinano alcuni dei problemi più seri per il sistema giudiziario italiano equivale alla scoperta dell’ acqua calda, dato che parliamo di un argomento che è stato più volte oggetto di discussione anche della politica nazionale per tanto, troppo tempo. Una recente indagine de L’Espresso ha sviscerato con precisione alcuni numeri che non possono lasciare indifferenti. In una tabella aggiornata al 5 marzo 2016 leggiamo che tra il 2000 e il 2016 ci sono stati ben 894 suicidi nelle carceri italiane su un totale di ben 2.510 decessi. Le strutture dove i detenuti scontano la propria pena non sono tutte eguali. Dobbiamo sempre tenere in mente la debita distinzione tra le case di reclusione, che accolgono i detenuti condannati in via definitiva ad una pena superiore a 5 anni e le case circondariali dove vi sono le persone in attesa di giudizio. Le strutture penitenziarie sono in tutto 231 e secondo i dati del Ministero di Grazia e Giustizia aggiornati al 29 febbraio 2016 erano, in totale, 52.846 i reclusi complessivi. Sempre consultando i dati del Ministero possiamo renderci conto di come la situazione per chi vive recluso nelle celle sia esplosiva, dato che si è di gran lunga superata la soglia massima di accoglienza che è pari 49.504 posti. Solo leggendo questi numeri ci rendiamo conto che per capire bene la reale situazione carceraria in Italia lo possiamo fare usando il pallottoliere. Il dramma dei numeri deve essere analizzato insieme anche a quello della ciclopica spesa che ogni anno sostiene lo Stato per l’esecuzione delle pena. Recentemente il ministro Guardasigilli, Andrea Orlando, in occasione dell’ inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo ha ricordato che nel nostro Paese si spendono "tre miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena", aggiungendo anche che siamo quelli che spendono di più in Europa per un sistema che sostanzialmente non funziona perché siamo anche "il Paese con il più alto tasso di recidiva di tutta Europa". A tutto questo, come se non bastasse, dobbiamo aggiungere quelle che potremmo definire senza mezzi termini le carceri fantasma. Parliamo delle classiche cattedrali nel deserto, che dopo essere state costruite vampirizzando la finanza pubblica sono rimaste inutilizzate. In tutta Italia vi sono in tutto ben 38 strutture edificate ed abbandonate. Il loro recupero potrebbe significare non solo un antidoto contro il sovraffollamento, ma potrebbe essere anche da stimolo per riqualificare tutto il sistema carcerario italiano dove a volte i detenuti versano in condizioni disumane e dove spesso trovano nel togliersi la vita l’ unica inquietante soluzione. Un generale riassetto di tutto il sistema penitenziario è quindi obbligatorio. Quando molto spesso invochiamo la certezza della pena per chi compie dei crimini efferati, dobbiamo comprendere anche bene che tutto questo sarà concretamente possibile quando avremo debellato il problema del sovraffollamento nei nostri penitenziari. Senza aspettare il prossimo suicidio. Riforma della legittima difesa: bagarre alla Camera, salta l’ok alla legge di Simona Ciaramitaro Il Messaggero, 11 marzo 2016 Il Pd chiede e ottiene il rinvio della discussione in aula alla Camera della proposta di legge sulla legittima difesa. "Vogliamo discutere seriamente" l’argomento "e non dare spazio alla propaganda e spettacoli da circo", ha detto Walter Verini nel suo intervento davanti all’assemblea dei deputati suscitando l’ira del centrodestra e in particolare della Lega che, dopo l’approvazione del rinvio, ha esposto in Aula cartelli recanti la scritta "la difesa è sempre legittima". Cartelli fatti poi rimuovere dal vicepresidente di turno Simone Baldelli (Fi). Hanno votato a favore del rinvio, oltre al Pd, anche Sel e Area popolare. Contrari invece Ala, Lega Nord, Fratelli d’Italia, Forza Italia e Movimento 5 stelle. Il testo, approdato nell’aula di Montecitorio lo scorso 7marzo, estende le ipotesi in cui è riconosciuta la legittima difesa domiciliare modificando l’articolo 52 del codice penale. Due proposte - La commissione Giustizia ha lavorato su due proposte di legge una della Lega, quindi dell’opposizione, e una di Ap, quindi di un partito della maggioranza, apportando una serie di modifiche che discostano il testo approdato in aula soprattutto dalla pdl leghista che tendeva ad estendere la legittima difesa a un’ampia fattispecie di casi che hanno origine da reati al patrimonio. L’articolo unico del testo all’esame dell’Assemblea è infatti relativo alle circostanze del reato, non conosciute o erroneamente supposte. In particolare, con le norme in discussione, viene aggiunto un comma all’articolo 52 del codice penale in base al quale, nella legittima difesa è sempre esclusa la colpa della persona legittimamente presente nel domicilio che usa un’arma legittimamente detenuta contro l’aggressore. Questo però solamente se sussiste la simultanea presenza di due condizioni: se l’errore riferito alla situazione di pericolo e ai limiti imposti è conseguenza di un grave turbamento psichico e se detto errore è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto. Le modifiche che hanno portato a questo testo sono state contrastate dalla Lega come da Fratelli d’Italia, decisi a dare battaglia in aula. Il rinvio della discussione ottenuto ieri dal Pd serve quindi a cercare una mediazione affinché dal centrodestra non venga messo in campo un "ostruzionismo propagandistico", come lo ha definito David Ermini, responsabile Giustizia del Partito Democratico. Dal partito di Salvini sono arrivate le accuse al governo, definito codardo e dittatore, e anche alla maggioranza, incolpata di difendere "ladri e criminali e non i cittadini onesti". Da Fdi, la presidente del partito, Giorgia Meloni, ha dichiarato con un tweet che "la difesa è sempre legittima. Illegittimo è questo governo sempre schierato coi ladri e i delinquenti", mentre il deputato Ignazio La Russa ha sottolineato che "la proposta di legge arriva in aula con un testo completamente stravolto" e che smentisce categoricamente lo stesso concetto di legittima difesa. Da Forza Italia Francesco Paolo Sisto sostiene che il rinvio a data da destinarsi del testo è "l’ennesima dimostrazione della difficoltà del Pd, che dovrà ora spiegare agli italiani perché non vuole difenderli", concludendo che "il testo arrivato in aula è un obbrobrio giuridico di indeterminatezza e inefficacia". Ora toccherà alla Conferenza dei capigruppo di Montecitorio stabilire una nuova calendarizzazione. Riforma della legittima difesa: la proposta Ncd "se rischiano i bimbi, sparare si può" di Francesca Schianchi La Stampa, 11 marzo 2016 Il tentativo di mediazione arriverà dal ministro Enrico Costa. Domani, in un convegno nella sua città, a Cuneo, farà la sua proposta sulla legittima difesa. Una legge in discussione in Parlamento tra urla e strepiti dell’opposizione (nella fattispecie la Lega, convinta che "la difesa è sempre legittima" e il testo del Pd pessimo) e anche nei bar di tutta Italia, ogni qualvolta un caso di cronaca racconta di qualcuno che impugna la pistola contro un malintenzionato entrato in casa propria, e rischia un’imputazione per omicidio colposo. "Bisogna individuare dati oggettivi e soggettivi", suggerisce Costa, da inserire nella legge per evitare la discrezionalità dei magistrati: una lista di condizioni che rendano la difesa legittima, e bypassino il principio della "proporzionalità" della reazione. E ne propone anche un elenco, il ministro dell’Ncd oggi alla guida degli Affari regionali, ma avvocato di formazione e già viceministro della Giustizia: prima di tutto, la presenza di minori in casa. "Bisogna dire che se ci sono bambini e si teme per la loro incolumità, la difesa è sempre legittima, non si può sindacare". Ma individua altre tre condizioni: il fatto che chi si intrufola in casa sia mascherato, la circostanza per cui il fatto avvenga di notte, e il fatto che la vittima abbia già subito ripetute effrazioni e furti. Condizioni che andrebbero scritte nero su bianco all’articolo 52 del codice penale: se si verificano, chi si è difeso - anche sparando - poteva farlo, e non rischia un’imputazione. Senza nessuna valutazione discrezionale del giudice. Una via di mezzo tra la proposta iniziale della Lega, da cui la discussione è partita, e quella arrivata ieri in Aula e subito rinviata, messa a punto dal Pd, che Costa giudica "timida e un po’ parziale, una sfumatura rispetto al cuore del problema". La proposta del Carroccio allargava moltissimo le maglie della difesa legittima, partendo da un principio di presunzione assoluta e togliendo ai magistrati la possibilità di valutare in quali casi ci sia stata proporzionalità nella reazione e in quali no. Quella del Pd introduce il principio di "grave turbamento psichico" della vittima che reagisce come condizione da verificare da parte del magistrato per capire se la difesa sia stata appropriata o meno. Una soluzione che "peggiora la situazione attuale, aumentando i vincoli della difesa e lasciando grande discrezionalità ai magistrati", secondo il capogruppo leghista Massimiliano Fedriga. Ma chissà se la proposta del ministro cuneese potrà trovare cittadinanza nella maggioranza. "Siamo disponibilissimi a valutare altre proposte, purché si mantengano i principi fondamentali dell’art. 52 e si possa dare ai cittadini maggiore sicurezza", risponde il responsabile giustizia del Pd, David Ermini. Apre, ma con cautela. Perché il tema della legittima difesa è delicato. E il ministro della giustizia Orlando non la toccherebbe nemmeno la legge attuale, cambiata dieci anni fa: non a caso il governo non ha espresso pareri e si è rimesso all’Aula. "Di certo non possiamo accettare il Far West", ricorda Ermini. "Ma neanche che uno mi entri in casa e io devo starmene tremolante e passivo perché se reagisco rischio la galera", replica il ministro Costa: "Lo Stato fa un patto col cittadino per difenderlo: se non ci riesce e il cittadino è obbligato a farlo da solo, lo Stato poi non può punirlo". Argomento scivoloso da declinare in legge. "Sono convinto che ci si possa confrontare tra sensibilità diverse e arrivare a un testo equilibrato", è però ottimista Costa. L’importante è fare velocemente: per la Lega, si tratta di un tema perfetto da campagna elettorale. Costa: "non voglio il Far West, ma servono più tutele per chi difende i propri cari" di Dino Martirano Corriere della Sera, 11 marzo 2016 Enrico Costa, Ministro della Famiglia: "Non voglio il Far West, ma servono più tutele per chi difende i propri cari all’interno dell’abitazione: diminuiscono furti, aumentano le rapine". Il dibattito alla Camera e le posizioni contrastanti dalla Lega al Pd. "Io non voglio mica il Far West. Non ho neanche il porto d’armi. E per nulla al mondo diventerei un guerrafondaio, al massimo posso agitare l’ombrello contro chi mi attacca... Ma sono un papà. E capisco bene come in questi anni la percezione del pericolo sia cambiata per un capo famiglia che, suo malgrado, si trovi in stato di forte emotività a dover difendere i propri cari da un’aggressione, in casa. Per questo dico che la legge in discussione alla Camera va migliorata, circoscrivendo le condizioni soggettive in cui va sempre riconosciuta la legitima difesa. E tra queste, certamente, c’è la "minorata difesa" dovuta alla presenza in casa dei bambini". Il ministro per la Famiglia e per gli Affari regionali, Enrico Costa (Ap), non ha perso la passione per le statistiche criminali ereditata dal suo precedente incarico di viceministro della Giustizia. Ha studiato i dati pilota della Criminalpol, per ora quelli relativi al suo Piemonte, e ha avuto la conferma che cercava: "I furti in appartamento diminuiscono, ma aumentano le rapine in casa ai danni delle famiglie". Dunque, ministro, lei non condivide l’impostazione soft di David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, nel riscrivere il testo della Lega che, invece, dava sempre per presunta la legittima difesa quando qualcuno viola armato le proprietà altrui? "Il dibattito alla Camera è stato rinviato e credo che, dopo Pasqua, ci siano le condizioni per migliorare il testo. Lasciamo pure l’intervento, fatto con il parere favorevole del governo, sull’errore al quale la persona aggredita è eventualmente indotta nel reagire. Ma oltre all’articolo 59 del codice penale, sull’errore, dobbiamo toccare anche il 52 sulla legittima difesa, circoscrivendo e tipizzando le condizioni soggettive e oggettive che sono portatrici di legittima difesa se l’aggressione avviene nell’intimità della casa". Un po’ quello che va sostenendola Lega e che il Pd sta tentando di stoppare... "Un momento. La Lega sostiene la presunzione assoluta di legittima difesa se l’aggressione è in casa. La mia proposta, invece, tende proprio ad arginare le derive demagogiche che teorizzano di poter sparare anche a chi scavalca il muro di un giardino". Oltre alla presenza dei minori, quali sono le altre condizioni soggettive che farebbero scattare sempre la legittima difesa in casa? "Se la famiglia colpita ha già subito altre aggressioni in casa. Chi è già passato per una brutta esperienza ha una percezione diversa del pericolo. E reagisce di conseguenza". Scusi ministro, ma lei, che è anche papà da poco, non teme i tranquilli capi famiglia pronti ad armarsi perché una nuova norma fa scattare la legittima difesa se ci sono bambini in casa al momento dell’aggressione? In Florida un’attivista pro armi è stata ferita dal figlio di 4 anni che aveva messo le mani sulla pistola lasciata incustodita. "Io vivo in centro a Roma ma penso a chi abita con la famiglia nei borghi isolati, nelle case di campagna, nelle zone più esposte alle rapine dei tanti hinterland italiani". La legge sulla legittima difesa non potrebbe essere lasciata così come è stata modificata nel 2006? "Quello schema, ed è la Cassazione a dirlo, ha generato un’interpretazione restrittiva da parte dei giudici. E poi c’è anche il problema dell’interpretazione difforme nelle diverse aree del Paese". Non sarebbe più saggio che lo Stato, titolare del monopolio della forza, migliorasse l’offerta di sicurezza? "Rispondo citando il procuratore Carlo Nordio: "Qual è il limite della legittima difesa? No, la domanda non è questa. È un’altra: fino a che punto lo Stato ha diritto di punire un cittadino che si è difeso da un’aggressione che lo Stato non ha saputo impedire?" Dalla Camera primo via libera alla delega sul nuovo processo civile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2016 Esulta il ministro della Giustizia Andrea Orlando, al termine di una mattinata nella quale ha portato a casa il sì del Parlamento, sia pure in prima lettura, a due deleghe importanti: quella sulla riforma del Codice di procedura civile e quella sulla revisione della magistratura onoraria. Dalla Camera è arrivato il voto alla prima, mentre il Senato ha approvato la seconda. Fa due conti il ministro e sottolinea come ormai "siamo a 30 provvedimenti che riguardano la giustizia: il mosaico comincia a prendere forma. Siamo passati da 6 milioni di procedimenti arretrati del 2010 ai poco più di 4 milioni attuali". Orlando tiene anche a sottolineare che la legge delega sul Codice di procedura mette in campo "elementi in grado di tutelare meglio i diritti del cittadino e anche di fornire una giustizia che supporti la competitività del Paese". Nella delega, infine, a giudizio del ministro, ci sono anche misure che vengono incontro alle preoccupazioni espresse dal primo presidente della cassazione sui carichi di lavoro della Corte, "un tema comunque che andrà affrontato anche nell’ambito della delega sul nuovo Codice di procedura penale (in discussione al Senato dopo il via libera della camera, ndr) e della riforma della giustizia tributaria". Fanno muro nel sottolineare l’importanza del voto sulla delega di riforma del Codice anche tutti i big del Pd in commissione Giustizia. Dalla presidente Donatella Ferranti, al responsabile giustizia David Ermini, al capogruppo Walter Verini, ai relatori, Giuseppe Berretta e Franco Vazio. L’accento è messo in particolare sulla garanzia che la delega è in grado di offrire per processi dai tempi certi e prevedibili, sulla semplificazione delle forme processuali, sulla specializzazione dei giudici. Nel dettaglio, nella legge delega sulla procedura civile, a misure di natura organizzativa se ne affiancano altre processuali. Tra le prime, le più significative sono senza dubbio rappresentate dall’estensione delle competenze delle sezioni specializzate in materia d’impresa: verranno assegnate loro anche le controversie in materia di concorrenza sleale, di class action, di pubblicità ingannevole, e quelle societarie anche quando riguardano società di persone e non più solo di capitali. Riorganizzati poi i tribunali dei minori. Nascono, a livello distrettuale e sulla falsariga di quanto previsto per le sezioni lavoro, le sezioni specializzate in materia di persone, famiglia e minori, nelle quali saranno concentrati tutti i procedimenti su adozioni, revoca e sospensione della responsabilità genitoriale e penale minorile. Viene espressamente conservata la specializzazione del giudice e del pm minorile, e la composizione mista (togati ed esperti in psicologia) in sede distrettuale del collegio. Andranno poi più risorse ai tribunali che si saranno dimostrati in grado di smaltire quote significative di arretrato, concentrando gli sforzi secondo il piano impostato al ministero sulle cause più vecchie. Nell’ambito dei fondi per l’incentivazione del personale, infatti, il 40% sarà destinato agli uffici senza più pendenze vecchie di oltre un decennio, il 35% agli uffici dalle pendenze ultra-triennali in primo grado e ultra-biennali in appello inferiori a un quinto dei procedimenti iscritti. Sul piano più tipicamente processuale, la delega istituisce una sorta di doppio binario, affidando le cause meno complesse alla competenza del giudice unico che dovrà procedere nella forma del rito semplificato di cognizione (prima udienza entro 3 mesi, termini perentori da rispettare per eccezioni, conclusioni e mezzi di prova, sentenza in forma concisa). Le altre saranno di competenza del collegio, che procederà nelle forme del rito ordinario; collegio che potrà però essere chiamato direttamente a decidere dopo la prima udienza se il giudice istruttore ritiene che la causa è matura per la decisione. La complessità farà poi la differenza anche in appello, dove le cause più semplici e di minore rilevanza economico sociale saranno affidate alla decisione del giudice unico. Nei casi di competenza del collegio il giudice relatore potrà anche procedere all’ammissione di nuovi mezzi di prova. In Cassazione si punta tra altro a ridurre le udienza pubbliche attraverso un allargamento del giudizio camerale. Valorizzata ancora la proposta di conciliazione del giudice: il rifiuto delle parti, ma anche la loro mancata comparizione, potrà essere valutato ai fini del giudizio sulla lite. Parti poi che verranno sanzionate anche quando avviano o resistono nel processo con mala fede: in caso di soccombenza è prevista la condanna aggiuntiva di una somma alla controparte dal doppio al quintuplo delle spese legali. La negoziazione assistita si estenderà poi alle cause di lavoro, senza però che diventi, come adesso previsto per alcune materia, condizione di procedibilità. E, per le controversie sui licenziamenti, è destinato a sparire il rito Fornero e le relative complicazioni che lo avevano condotto sino alla Corte costituzionale. Giudici tributari alla riforma di Valerio Stroppa Italia Oggi, 11 marzo 2016 Lo scandalo delle commissioni tributarie a Roma innesca la riforma della giustizia tributaria. Mentre i professionisti sono pronti a costituirsi parte civile e i magistrati spiegano che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. "Oggi (ieri, ndr) ho intenzione di scrivere una lettera al ministro dell’economia e delle finanze Pier Carlo Padoan per costruire un tavolo di confronto sulla giustizia tributaria", ha annunciato ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Come è noto la giustizia tributaria è di competenza del ministero dell’economia e delle finanze ma ha una forte ricaduta negativa sul funzionamento della Cassazione perché in ultima istanza tutti i provvedimenti vengono impugnati davanti ad essa: è proprio questa una delle cause della fatica che fanno le sezioni civili della Cassazione a smaltire i contenziosi". Il ministro Orlando ha spiegato che "gli obiettivi sono quelli di dare una qualificazione alla magistratura tributaria e una stabilità che ricalchi un po’ l’impianto che abbiamo cercato di dare alla magistratura ordinaria, quello per noi può essere un modello. Questo è il nostro punto di vista, poi sentiremo il ministero dell’economia". Quanto ai contenuti, il ministro non si sbilancia, rispettoso delle competenze del collega Padoan: "Io non mi permetto di dire quali sono le linee guida, ma mentre abbiamo dato un ordine alla magistratura onoraria, penso che forse è il caso di agganciare un ragionamento analogo anche per la magistratura tributaria". Sempre ieri il Consiglio nazionale dei commercialisti ha reso noto che si costituirà parte civile nei processi per le sentenze "pilotate" contro i propri iscritti coinvolti nell’inchiesta di Roma (si veda ItaliaOggi di ieri). Ad annunciarlo è stato il presidente del Cndcec, Gerardo Longobardi, secondo cui "gli oltre 116 mila professionisti qualificati e competenti iscritti ai nostri albi, tutti i giorni al servizio di cittadini, imprese e istituzioni, non meritano di veder sfregiata la loro credibilità umana e professionale dai comportamenti sbagliati di poche mese marce". E dopo la presa di distanza dell’Agenzia delle entrate nei confronti dei tre ex funzionari raggiunti dalle misure cautelari nell’operazione "Pactum sceleris", anche dal mondo della giustizia tributaria arrivano i distinguo. Il Cpgt, organo di autogoverno della giustizia fiscale, fa sapere che per il giudice della Ctp Roma ancora in servizio (gli altri due magistrati coinvolti si erano dimessi dal 2014) il procedimento disciplinare di sospensione sarà avviato non appena la procura di Roma trasmetterà il fascicolo. Anche l’Associazione magistrati tributari chiede di non fare di tutta l’erba un fascio. "Il susseguirsi di tali fatti è suscettibile di far insorgere nella pubblica opinione la convinzione dell’esistenza di una vera e propria emergenza morale nella giustizia tributaria", aggiunte Ennio Attilio Sepe, presidente Amt, "la nostra preoccupazione è che vengano assunte iniziative legislative di urgenza che possano penalizzare soprattutto la componente laica della magistratura tributaria, assolutamente insostituibile". "In una struttura giudiziaria, la vigilanza non può essere disgiunta dalla partecipazione e dalla presenza nelle camere di consiglio", affermano Mario Cicala e Antonio Genise, presidente e segretario generale dell’Unione giudici tributari, "perciò il potenziamento del controllo richiede presidenti di sezione e di commissione a tempo pieno che costituiscano una garanzia ed un sostegno per i molti giudici tributari che svolgono con professionalità e impegno un faticoso lavoro e un deterrente per casi di opacità o peggio di vero e proprio favoritismo corruttivo". Enrico Zanetti, viceministro dell’economia e segretario politico di Scelta civica, ricorda che "ogni volta che si riforma il fisco si pensa sempre e soltanto all’accertamento e alla riscossione. Noi di Sc abbiamo già consegnato al governo nei mesi scorsi un disegno di legge di vera e radicale riforma della giustizia tributaria". Chiedono una riorganizzazione del sistema anche i deputati del Movimento 5 Stelle: "Cricche, conflitti di interessi, relazioni professionali incestuose. È facile in Italia mettersi d’accordo alle spalle dei cittadini onesti e del fisco", evidenzia una nota del M5S, "serve subito una riforma delle commissioni tributarie con l’istituzione di magistrati di ruolo specializzati". Il sistema della giustizia tributaria? da rivedere di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 11 marzo 2016 Qualche migliaia di euro di tangente a uno dei tre componenti il collegio e zac, ecco "aggiustato" un contenzioso fiscale anche da milioni di euro. A cadenza quantomeno semestrale, in qualche angolo d’Italia - da ultimo in questi giorni a Milano in una indagine della Procura di Milano scaturita dalla denuncia di uno studio legale straniero - viene indagato o arrestato qualche giudice tributario: cioè uno dei componenti misti (2.635 magistrati, 375 avvocati, 202 commercialisti, 243 ex funzionari pubblici, con 1.415 posti scoperti in organico) delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali che l’anno scorso hanno esaminato - rispettivamente con 247.000 decisioni in primo grado a fronte di 393.000 cause pendenti, e con 56.000 decisioni in secondo grado a fronte di 144.000 cause pendenti - le liti fiscali (cresciute del 6% nel 2015) tra i contribuenti e l’Erario per un valore di ben 34 miliardi di euro. Ovvio che la patologia criminosa, di qualunque fenomeno, non possa essere, da sola, pretesto per rivoltare da cima a fondo questa forma di giurisdizione speciale. Ma la commistione di ruoli certo non lenita dalle autodichiarazioni di legge sulle non incompatibilità - con l’osmosi di fatto tra il professionista che a giorni alterni un po’ fa il giudice delle tasse tra cittadino e Fisco, e un po’ fa (o lavora in studio gomito a gomito con) il commercialista o l’avvocato o il consulente - è oggettivamente l’humus nel quale prolifera poi il mercimonio di contenziosi fiscali. Tanto più in un sistema di giustizia tributaria che già di per sé non brilla in Italia per indipendenza, autonomia e imparzialità nelle modalità di risoluzione dei contenziosi tra Fisco e cittadini contribuenti. Anche se ormai metabolizzata come fosse condizione del tutto normale, infatti, i dipendenti amministrativi della giustizia tributaria dipendono in tutto (selezione, status giuridico, valutazione della produttività, promozioni e sanzioni disciplinari) da quel ministero dell’Economia le cui Agenzie emanano proprio gli atti sottoposti al controllo dei giudici tributari. I quali non hanno un budget autonomo, di nuovo interamente rimesso al ministero dell’Economia, e ricevono un compenso determinato dal vertice dell’amministrazione controllata. Proposta di riforma. Se si aggiunge che un terzo di tutto l’arretrato della Cassazione civile (105.000 procedimenti) è fatto proprio da un diluvio di ricorsi tributari, peraltro spesso seriali, forse è maturo il momento di prendere in considerazione l’invito, avanzato dal primo presidente della Suprema corte Giovanni Canzio, a "ripensare all’intero sistema della giustizia tributaria di merito come giurisdizione speciale. E a chiedersi se, nel perverso intreccio fra il proliferare delle fonti normative e le variegate letture giurisprudenziali, non sia preferibile" tornare alla giurisdizione ordinaria e "istituire presso i Tribunali e le Corti d’appello sezioni specializzate in materia di tributi". Uno spunto che potrebbe essere raccolto dalla "commissione di altissimo profilo" annunciata a fine febbraio dal viceministro dell’Economia Luigi Casero, con il compito di elaborare una proposta di riforma della giustizia tributaria all’insegna della "cancellazione dei rapporti tra lavoro privato e attività giudicante". Associazione Nazionale Magistrati, Davigo vuole la presidenza di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 11 marzo 2016 Pronto il nuovo parlamentino delle toghe. La sinistra esce ridimensionata. Unicost, la corrente moderata, ha vinto. Ma l’ex del pool Mani pulite è il più votato. Per lui l’ostilità del gruppo legato al sottosegretario Ferri. Raccolti i voti, si dividono i seggi per il parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati e la vittoria di Unicost risulta ancora più evidente. Tredici seggi (su 36) per la corrente moderata delle toghe, uno in più del 2012. I centristi non pagano gli ultimi quattro anni di governo del sindacato unico. Al contrario di quello che accade alla sinistra. Area, l’altra corrente del ticket alla guida dell’Anm, perde tre seggi e si ferma a nove, come conseguenza di una flessione di oltre 400 voti (-18,7%). Stessa diminuzione per la destra-centro di Magistratura indipendente, che scende a otto seggi. Assorbiti con gli interessi dalla debuttante lista Autonomia e indipendenza, che ha conquistato sei seggi e sfiorato il settimo. Sulla base di questi numeri il comitato direttivo centrale dell’Anm dovrà costituire la nuova giunta che, stando alle dichiarazioni di partenza, potrebbe tornare a essere unitaria, come nei primi anni 2000. Cioè con tutte le correnti al governo. Ma già qualche problema si annuncia per la scelta del presidente, carica alla quale ambisce Piercamillo Davigo, "inventore" di Autonomia e indipendenza e della scissione da Mi, nelle urne unico candidato ad aver superato le mille preferenze. Unicost mette le mani avanti: "Siamo gli unici a non aver subito l’effetto Davigo, la nostra lista è la più votata". Il pm della Dda di Roma Francesco Minisci con quasi 900 preferenze ha superato il più quotato collega di corrente Giuliano Caputo (pm a Santa Maria Capua Vetere). Anche Mi prova a frenare lo slancio dell’ex magistrato del pool Mani Pulite: "Non è il momento di rivendicare presidenze. Noi non poniamo veti, anche se ricordiamo quelli che furono posti a Ferri nonostante avesse ottenuto 1.200 preferenze". Cosimo Ferri, leader ombra delle toghe conservatrici, è adesso sottosegretario alla giustizia (lo indicò Berlusconi nel governo Letta ed è rimasto nel governo Renzi). La rimembranza è rivolta soprattutto a Davigo, che proprio contro Ferri ha mosso la sua scissione, assieme all’ex pg di Torino Maddalena e al giudice di Napoli Alessandro Pepe. A questo punto, però, la prima mossa toccherà a Unicost, che il voto ha collocato in posizione centrale: nessuna giunta è fattibile senza i suoi 13 eletti. L’unica alternativa immaginabile alla più probabile giunta unitaria, è la riedizione della giunta Palamara del 2008: tutti dentro tranne Mi, che pure il mese scorso ha sostenuto con Ai su una linea di sindacalismo spinto il referendum per lo sciopero e per il tetto ai carichi di lavoro. "Lavoreremo per l’unità - dice la corrente di Davigo - che però non è un valore in sé ma dev’essere basata su un programma di tutela effettiva della magistratura sulla base delle indicazioni arrivate con il referendum". Area intanto si lecca le ferite: "Abbiamo pagato noi il prezzo di una giunta non unitaria - dice il portavoce della corrente Glauco Zaccardi - abbiamo subito una perdita secca perché non siamo stati capaci di renderci interpreti del disagio per le condizioni di lavoro". Magistratura democratica (che con il Movimento per la giustizia è una delle due anime di Area) comincia oggi una riflessione su "Terrorismo internazionale, politiche della sicurezza e diritti fondamentali" in una due giorni organizzata a Pisa in ricordo del costituzionalista ed ex magistrato (tra i fondatori di Md) Alessandro Pizzorusso. Previsto tra i tanti l’intervento del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti. E qui casca l’asino, anzi casca la Cassazione di Gian Antonio Stella Sette - Corriere della Sera, 11 marzo 2016 Quasi 11 mila processi in 5 anni per liti su cifre inferiori a 1.100 euro. Per tutti, il caso dell’equino che brucava "fuori casa". Così la Corte suprema rischia il collasso. L’asina da soma più famosa d’Italia presso i cultori della demenza giudiziaria, ammesso che sia ancora viva e non sia stata insaccata nel frattempo in qualche salame misto suino, è ormai prescritta. E il suo fascicolo (che col passare degli anni era diventato così voluminoso da non poter essere caricato manco in groppa a una bestia da soma) è finito in archivio. Ricordate? La povera bestia aveva dato una brucatina all’erba del vicino, che com’è noto è sempre la più buona, senza sapere che il suo padrone e il suddetto vicino si odiavano a morte. Tanto da far nascere una causa giudiziaria che per anni e anni aveva impegnato un mucchio di giudici e avvocati. La Cassazione, infatti, ricevuta la prima volta l’incartamento dopo un lungo processo di primo e un altro lungo processo di secondo grado, aveva deciso che, per quel tipo di reato, la brucatina, l’asina (benché solitaria come il passero di Giacomo Leopardi) non andava considerata singola ma mandria. Con la conseguenza che era ricominciato tutto da capo: processo di primo grado, processo di secondo grado, processo in Cassazione... Fino, appunto, alla prescrizione. Della quale non sappiamo neppure se il proprietario della povera bestia imputata abbia potuto gioire o se nel frattempo abbia pure lui raggiunto i celesti pascoli del cielo. Fatto sta che, smaltito quello e altri fascicoli, la Cassazione ha comunque accumulato, negli ultimi due anni, settemila processi arretrati in più rispetto a quelli denunciati solo due anni fa. Erano 98mila e sono diventati, stando alla allarmata denuncia fatta qualche giorno fa dal primo presidente, Giovanni Canzio, 105mila. Un carico insopportabile: "La Cassazione versa in una seria crisi, assediata da un numero mostruoso di ricorsi, con 80mila nuovi ogni anno. Questo flusso è patologico: il carico della Corte rispetto ad altri Paesi del mondo ha assunto dimensioni strabilianti che mettono in forse i valori della democrazia". Rileggiamo l’aggettivo scelto: mostruoso. Causa che pende... Ancora più mostruosa, se possibile, è però l’indifferenza della politica davanti a questi allarmi. Sono anni, infatti, che i giudici del Palazzaccio denunciano l’insostenibilità dell’andazzo. Nel 2014 la Suprema Corte aveva già ammonito sulla litigiosità eccessiva anche per cause di poco conto: 10.980 processi in cinque anni, dal 2009 al 2013, per liti su cifre inferiori ai millecento euro. Un’assurdità. Ma la denuncia, entrata da un orecchio, era uscita dall’altro. "Causa che pende, causa che rende", dice un antico adagio degli avvocati. Sarà pure una battuta di spirito, ma Alfano diceva nel 2009 che in Cassazione arrivavano 30mila nuovi processi l’anno e adesso Canzio parla di 80mila. Sarà un caso, aveva denunciato nel 2012 l’allora presidente Ernesto Lupo, ma gli avvocati cassazionisti nella sola provincia di Rieti sono 125 e in tutta la Francia 103. Ventidue in più! Allarmi inutili. Come si è sempre rivelato inutile ricordare ai governi la lezione di Eleonora d’Arborea che, sei secoli fa, nella revisione della celeberrima Carta de Logu, il codice del Giudicato sardo, stabiliva: "Vogliamo e ordiniamo che al fine di limitare le spese ai sudditi ed ai litiganti circa vertenze o liti che non superano i 100 soldi sia vietato appellarsi a Noi o ad altri funzionari regi...". E se qualche testone insisteva a tutti i costi? "L’appello inoltrato non deve essere accettato, e la sentenza pronunciata dai nostri funzionari deve considerarsi definitiva e mandata ad esecuzione come stabilito dai giudicanti". Insomma, sulle cretinate non si fanno processi infiniti. Basti ricordare la sentenza 5.772 della Cassazione sullo sgocciolio del panni stesi: "Nell’ipotesi in cui i panni sciorinati invadono materialmente con la loro parte pendente o con l’acqua gocciolante il terrazzo alieno ci si trova indubbiamente di fronte ad una compressione del godimento del proprietario sottostante e alla reciproca aggiunta, alle facoltà inerenti al godimento dell’appartamento sovrastante, di una parte di godimento che non è compresa nel relativo diritto...". Ma per piacere! La buona magistratura che si auto-regolamenta di Luciano Violante (Ex presidente della Camera dei Deputati) La Stampa, 11 marzo 2016 Caro direttore, nella magistratura sta maturando un nuovo spirito civile che può aprire una stagione di ripensamento positivo sui rapporti tra giustizia e società. È un atteggiamento che mette alle spalle le recriminazioni e i pianti del recente passato. Giovanni Canzio, presidente della Cassazione, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, ha espressamente indicato l’autoriforma della giustizia come linea non sostitutiva, ma integrativa rispetto agli interventi del Parlamento e del governo. Alessandro Pajno, presidente del Consiglio di Stato, nel recente discorso di insediamento, si è impegnato per una "efficiente auto-organizzazione" e per il superamento del rischio dell’autoreferenzialità. Entrambi hanno posto, con un’autorevolezza che deriva non dal ruolo ma dalla personalità, il problema della certezza delle regole e del valore del precedente come garanzia dei diritti dei cittadini, della pubblica amministrazione e delle imprese. Non si tratta di buone intenzioni destinate ad astratti dibattiti. Gli indirizzi proposti, infatti, stanno dando vita ad una concreta positiva riorganizzazione tanto presso la Corte di Cassazione quanto presso il Consiglio di Stato. Ancora più interessante è quanto sta avvenendo in alcune procure della Repubblica. Un problema, che il Parlamento non è sinora riuscito a risolvere, come quello della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, è stato oggetto di precise e positive regole interne da parte dei Procuratori di Torino, Napoli e Roma. Gli stessi Procuratori hanno emanato nuovi principi per regolare i rapporti con i mezzi di comunicazione, raccogliendo il messaggio del Procuratore generale presso la Cassazione, che ha segnalato la necessità di evitare la spettacolarizzazione dei processi penali. Il procuratore di Roma ha disposto che gli anonimi siano trasmessi direttamente in archivio per "deflazionare le attività di indagine superflua, evitare dispendio di energie investigative ed atti inutilmente lesivi di situazioni personali". La motivazione è forse più importante della nuova regola perché pone, con una chiarezza forse priva di precedenti, il principio della economicità delle indagini e l’ esigenza di evitare sprechi di risorse. Questi principi e questa esigenza dovrebbero costituire alcuni dei criteri guida per tutte le indagini penali. Egualmente interessanti ed ispirate ai valori della rapidità, della correttezza e della trasparenza sono le disposizioni emanate dal Procuratore di Torino sulla riorganizzazione dell’ufficio, preventivamente discusse con l’ordine degli avvocati e con la camera penale, segno di una nuova attenzione al bilanciamento tra le esigenze organizzative e i diritti della difesa dei cittadini. Sono solo alcuni casi, che trascurano altre importanti esperienze. Non è necessario fare l’elenco delle buone pratiche. È invece necessario cogliere il nuovo spirito del tempo. La vecchia magistratura, salvo rare e pregevoli eccezioni, si limitava a fare l’elenco delle cose che non andavano e a chiedere l’intervento del legislatore. Una nuova magistratura sta scegliendo una strada nuova, cercando di fare tutto quanto è possibile senza ricorrere alla legge. Questa civile assunzione di responsabilità è frutto di una innovativa riflessione sul ruolo del giudice come produttore di principi organizzativi, oltre che di sentenze. Occorrerà prestare maggiore attenzione a questo fenomeno perché segna una importante svolta e può aiutare a superare gli annosi conflitti tra giustizia, cittadini e politica. Un rimedio ai riti inadeguati dei tribunali di Carlo Rimini (Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano) La Stampa, 11 marzo 2016 Da alcuni decenni si parla di riforma della giustizia civile e da tempo si succedono interventi che dovrebbero migliorare l’efficienza del processo. La prima significativa modifica del codice di procedura civile risale addirittura al 1990 e da allora sono state approvate un gran numero di riforme, ogni volta definite epocali. Dopo ogni intervento, gli operatori (giudici, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari) hanno dovuto abituarsi alle nuove norme, per poi vederle subito sostituite o affiancate da altre ancora più nuove. Qualche effetto vi è stato, ma non tale da incidere in modo decisivo sulla durata dei giudizi, allineandola agli standard europei di efficienza. Di fronte al testo approvato ieri alla Camera viene quindi spontanea una domanda: sarà la volta buona? Per tentare una risposta si deve partire dal difetto che tutti gli interventi precedenti hanno dimostrato di avere: essi non hanno inciso sull’essenza, sulla natura, del nostro processo civile il cui impianto fondamentale è ancora quello delineato nel codice del 1940. Per intenderci, sul tavolo di tutti i magistrati c’è ancora il codice firmato "Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e d’Albania, Imperatore d’Etiopia". È proprio l’impianto di quel codice che deve essere cambiato, perché da allora è cambiato il mondo. La legge del 1940, nonostante le molte modifiche, prevede ancora un rito sempre uguale, indipendentemente dalla complessità della lite. Un processo che si articola in una serie di udienze, imposte dal codice ma spesso inutili e in una serie di memorie scritte, spesso ripetitive. Intanto passano gli anni. All’inizio del giudizio, il giudice sa che, nella maggior parte dei casi, non dovrà prendere alcuna decisione per molto tempo e ciò rappresenta un notevole disincentivo allo studio della causa e alla lettura degli atti, talora inutilmente prolissi. Il processo galleggia quindi per mesi, per anni, sopra un mare di carta. Quando si arriva alla sentenza, il giudice - spesso un magistrato diverso da quello a cui il fascicolo era stato assegnato all’inizio - si rende conto che la decisione poteva essere presa già sulla base dei fatti noti all’inizio della causa, alcuni anni prima. Il testo approvato ieri alla Camera mostra consapevolezza di questo problema prevedendo che, nella maggior parte dei giudizi di primo grado, il giudice segua un processo "semplificato". Sarà il giudice a governare il processo dal primo istante "omessa ogni formalità non essenziale". Sin dalla prima udienza dovrà indicare quali attività sono essenziali prima di decidere, ma potrà anche decidere subito accogliendo o rigettando le domande. Anche gli atti delle parti dovranno essere sintetici. Il principio cardine sembra essere quello della concentrazione. Ci sono novità importanti anche per il diritto di famiglia. Vengono introdotte, presso i tribunali ordinari, le sezioni specializzate per la famiglia seguendo l’esperienza, certamente positiva, del cosiddetto tribunale delle imprese. Vengono invece aboliti i tribunali per i minorenni. Anche il processo che regola la crisi della famiglia viene riformato seguendo la logica della concentrazione: è un processo che potrebbe durare una sola udienza. Sembra fantascienza. Siamo solo al primo passaggio parlamentare. Il disegno di legge dovrà essere approvato dal Senato, probabilmente tornerà alla Camera se il Senato lo modificherà. Poi il governo dovrà scrivere il testo della riforma nel rispetto dei principi guida fissati dal Parlamento. Ma se la riforma arriverà in porto, forse sarà la volta buona. Como: il Dap raccoglie l’allarme dell’Ucpi, ma resta la vergogna dei bambini in carcere camerepenali.it, 11 marzo 2016 Dopo la visita alla casa circondariale di Como e la denuncia dell’Ucpi, sui bambini-detenuti, il Dap assicura immediati interventi strutturali. Il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Dott. Santi Consolo, con una nota dell’ 8 marzo 2016 indirizzata al Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Avv. Beniamino Migliucci, riscontra i rilievi sollevati in occasione della visita dell’ Osservatorio Carcere alla Casa Circondariale di Como, in merito alla presenza di quattro madri detenute con i loro bambini in tenera età, ospitate in ambienti solo definiti "area nido", ma che presentavano condizioni lontanissime da quelle richieste per adempiere a tale funzione. Apprendiamo con soddisfazione che il Provveditorato Regionale della Lombardia ha assicurato l’effettuazione degli interventi strutturali necessari alla riqualificazione degli spazi destinati alla sezione nido dell’Istituto. Avremmo tuttavia preferito ricevere la notizia della ricollocazione in strutture alternative e più appropriate di quelle madri e dei loro bambini, piuttosto che la mera adozione di interventi di adeguamento strutturale del luogo di detenzione, che certamente contribuiranno a migliorare la situazione di criticità segnalata, ma non risolvono il problema di fondo, rappresentato dall’inaccettabile perpetuarsi della condizione di detenzione in istituto penitenziario che i bambini sono costretti a condividere con le proprie madri. Ricordiamo che il Ministro della Giustizia, in occasione di una visita alle detenute madri del complesso penitenziario di Rebibbia del 21 luglio 2015, aveva espresso l’impegno, entro l’anno, di porre fine alla detenzione di bambini al seguito delle proprie madri, un fenomeno che egli stesso definiva giustamente una vergogna per il nostro sistema penale. Occorre dunque che si proceda senza ulteriori indugi al trasferimento di tutte le detenute madri e dei loro bambini nelle apposite strutture a custodia attenuata già da tempo allestite su tutto il territorio nazionale, rimuovendo, nei casi specifici, gli ostacoli normativi che fino ad oggi lo hanno impedito. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere Napoli: i detenuti imparano a raccontarsi grazie ai laboratori con poeti e filosofi Redattore Sociale, 11 marzo 2016 L’iniziativa è "Napoli Dentro & Fuori" e si svolge nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale. Appello alle istituzioni per rendere permanente l’esperienza. Fondazione Premio Napoli: "In pochi mesi abbiamo avuto risultati sorprendenti". L’hanno presentato in corso d’opera, per lanciare un appello alle istituzioni: rendere permanente il laboratorio sperimentale collettivo che si tiene nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale, per mettere in contatto la Napoli di fuori con la Napoli di dentro in un dialogo costruttivo e di crescita reciproca. L’iniziativa è "Napoli Dentro & Fuori" ed è stata promossa a inizio anno dalla Fondazione Premio Napoli in collaborazione con il portale Napoliclick che ospita on line gli aggiornamenti sugli incontri e i laboratori condotti nei due istituti penitenziari da poeti, scrittori e filosofi fino a maggio 2016, con l’obiettivo di coltivare il pensiero critico e stimolare la creatività delle persone recluse. "In pochi mesi abbiamo avuto risultati sorprendenti testimoniati dai feedback dei partner coinvolti, dalla partecipazione e dalla voglia di conoscenza dei reclusi di Poggioreale e Secondigliano - dichiara Gabriele Frasca presidente della Fondazione Premio Napoli - La sfida è rendere queste attività permanenti in un’ottica di conservazione delle relazioni instaurate e dei percorsi avviati ma soprattutto di produrne dei nuovi, aprendoci a tutte le realtà che vorranno prendere parte a questo processo virtuoso". "Attraverso queste attività riusciamo a portare ai nostri detenuti delle opportunità che spesso gli sono negate sia dentro che fuori i penitenziari. Riuscire a fare leva su attività di volontariato come quelle coinvolte in Napoli Dentro & Fuori è una cosa che fa bene a chi le fa e chi le riceve ma avere dei programmi a lungo termine è ben altra cosa ecco perché chiediamo alle istituzioni di affiancarci in questi percorsi" - dichiara Liberato Guerriero, direttore del carcere di Secondigliano. "Nel momento in cui entrano in contatto con la cultura molti dei nostri detenuti - ha detto Anna Farina responsabile delle attività culturali del carcere di Poggioreale - rimangono talmente avvinti che ritrovano emozioni, sentimenti, pezzi di storia che sono pezzi di vita in cui si riflettono in cui trovano a volte delle risposte. Non facciamo altro che offrire un po’ di conoscenza facendo in modo di strutturare il loro tempo in modo positivo". Gli incontri attraversano le discipline più varie: con l’associazione "A Voce Alta", diretta da Marinella Pomarici si stanno svolgendo due laboratori uno di lettura di testi e l’altro di lettura espressiva a cura di Marcella Vitiello. "Siamo seguiti da un gruppo di venti persone, all’inizio è stato difficile carpire i gusti e gli interessi; oggi possiamo affermare che sono tutti colpiti da racconti di storie vere per cui dirottiamo sui loro gusti ciascun appuntamento", racconta Pomarici. Proseguirà fino a maggio il corso di narrazione promosso da Napoliclick, ora sotto la guida di Raffaella R. Ferrè per la scrittura autobiografica cui in primavera subentreranno Alessandra del Giudice e Giovanni Salzano per quella giornalistica e sui social. L’obiettivo è scoprire le varie forme di narrazione a partire dal racconto di sé e delle parti nascoste e poco conosciute della propria personalità: una sorta di autoanalisi, "perché per dire agli altri bisogna necessariamente dirsi", afferma Ferrè. Un gruppo di poeti e di dottori di ricerca dell’università Federico II, tra cui il poeta Ferdinando Tricarico, sta realizzando invece a Secondigliano un laboratorio di poesia. "Gli incontri mettono al centro la possibilità di dare con la poesia forma alle passioni anche le più traumatiche ed estreme, di fare della propria esperienza un patrimonio per gli altri", spiega Tricarico. A fine percorso sarà inoltre pubblicata da "Ad Est dell’Equatore" una raccolta dei testi prodotti dai "poeti di Secondigliano". Una rassegna cinematografica, a cura di Arci Movie, è in programma sia a Secondigliano che a Poggioreale, da febbraio a maggio, con la proiezione di film di Roberto Faenza e Stefano Incerti. "La partecipazione di circa un centinaio di detenuti è sempre stata attenta, nel corso degli appuntamenti le osservazioni, le domande, le curiosità ci hanno sorpresi, il dibattito a volte si è fatto emozionante e coinvolgente", racconta Imma Colonna presidente del consiglio direttivo di Arci Movie. La Fondazione Premio Napoli organizzerà, inoltre, anche degli incontri mensili con alcuni scrittori sia a Secondigliano che a Poggioreale che saranno pungolati da Piero Sorrentino sulle "ragioni del romanzo". Infine in entrambi i penitenziari il filosofo Gennaro Carillo affronterà con i detenuti la figura di Socrate e il suo rapporto con il concetto di legge. "Il tentativo - spiega il professor Carillo - è quello di una drammatizzazione che veda Socrate conteso tra due prospettive opposte oggetto di discussione tra i partecipanti dell’esperimento". Terni: Sappe; l’azienda incaricata della mensa non viene pagata, disagi per i lavoratori umbriaon.it, 11 marzo 2016 La denuncia del Sappe arriva alla Procura della Repubblica. Pagamenti bloccati che causano disagi, oltre all’associazione di imprese che ha in appalto il servizio mensa nelle quattro carceri umbre - Perugia, Spoleto, Terni e Orvieto - anche e soprattutto agli agenti della polizia penitenziaria. Gli ultimi disagi, emersi nel territorio ternano, sono stati denunciati dal sindacato Sappe che ha portato la questione all’attenzione della Procura della Repubblica. Il segretario locale del Sappe, Romina Raggi, in una nota inviata mercoledì al segretario regionale Fabrizio Bonino, lamenta "le condizioni inaccettabili della mensa ordinaria di servizio. Negli ultimi giorni - spiega il segretario Sappe di Terni - il personale in servizio si è trovato sempre più spesso a doversi accontentare dei menù offerti, diversi da quelli previsti e scarsi nei contenuti, fino ad arrivare a questa sera (mercoledì. ndR) quando il personale del turno serale si è sentito dire che non avrebbe avuto il primo in quanto terminato e il secondo non era sufficiente per tutti. Ed erano solo le ore 19. È una situazione ormai insostenibile - afferma Romina Raggi - per la quale questa segreteria, dando voce ai colleghi, chiede un intervento urgente". Il motivo A fine febbraio l’associazione temporanea di imprese Slem-Rica Scarl, che ha in appalto il servizio, ha inviato una nota al provveditorato per l’amministrazione penitenziaria dell’Umbria, alle direzioni delle quattro carceri regionali e ai Sindacati Umbria della Polizia penitenziaria, facendo presente la situazione di stallo totale nei pagamenti - da parte dei provveditorati - fermi al 31 ottobre 2015. Le aziende non hanno potuto procedere all’emissione delle fatture di dicembre, gennaio e febbraio - con conseguenze sul pagamento dei lavoratori - perché l’accorpamento dei dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria non sarebbe stato seguito da indicazioni chiare da parte del ministero. La segnalazione Da qui l’allarme che riguarda l’intera attività, e quindi le risorse, gli stipendi - fermi a dicembre - i rapporti con i fornitori. D’altronde senza la possibilità di emettere fatture, vengono meno gli anticipi da parte delle banche a cui l’ati si è rivolta per ottenere dei prestiti. Tutto ciò finisce per riflettersi, secondo il sindacato, sul servizio reso agli agenti e l’ultimo episodio - quello registrato mercoledì a Terni - non fa altro che aggravare una situazione pesante. Il tutto è stato già segnalato dal Sappe alla Procura di Terni così come al provveditorato regionale e alle direzioni delle singole case circondariali. Obiettivo: ripristinare una situazione di normalità e dignitosa per tutti. Prato: Uil-Pa "nel carcere della Dogaia due agenti picchiati da un detenuto tunisino" Il Tirreno, 11 marzo 2016 Due agenti di polizia penitenziaria sono stati aggrediti da altrettanti detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Prato. A dare la notizia il sindacato Uil-pa del carcere. "Il 7 marzo scorso, un detenuto di origini magrebine condannato per violazione dei reati sugli stupefacenti - riferisce il sindacato - nel primo pomeriggio ha aggredito l’agente di Polizia Penitenziaria di servizio per futili motivi. L’aggressione ha costretto il collega a farsi medicare al pronto soccorso dove riportava cinque giorni di prognosi. L’8 marzo un altro detenuto di nazionalità tunisina, condannato per violazione dei reati sugli stupefacenti, ha aggredito un secondo agente di polizia penitenziaria, scagliandosi contro per incomprensibili motivi, costringendo il collega a ricorrere alla cure del pronto soccorso, 7 giorni di prognosi". "L’ignobile aggressione - commenta l’Uil-Pa - fa seguito a precedenti analoghi fatti accaduti nell’ultimo anno all’interno della Casa Circondariale di Prato che insiste su una presenza di 650 detenuti in costante aumento negli ultimi mesi di circa 100 soggetti e nonostante la legge "svuota carcere", ormai i numeri sono già ritornati come qualche anno fa alla soglia dei 750 detenuti, rispetto a una capienza "tollerabile" di 613, con una forte presenza in termini percentuali del 60% di extracomunitari". Ormai siamo di nuovo a livelli di insostenibilità - commenta Massimo Lavermicocca segretario territoriale della Uil-Pa - per il continuo aumento di detenuti nell’Istituto pratese, complice anche la chiusura da quasi un anno dell’Istituto di Pistoia per inagibilità per il forte vento del 5 marzo 2015 che ne ha scoperchiato i tetti costringendo le forze dell’ordine a consegnare tutti gli arrestati alla Casa circondariale di Prato. Il personale di polizia penitenziaria risulta carente con una forza di circa 220 agenti a fronte dei 345 agenti previsti con una carenza di 125 uomini". Milano: il fax (segretissimo) sull’inchiesta spedito per sbaglio all’indagato di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 marzo 2016 L’errore alle Poste: inviato nel 2015 a Giuseppe Strangio, direttore dell’ufficio di Siderno (Reggio Calabria) ora agli arresti domiciliari perché accusato di aver reimpiegato denaro proveniente dal narcotraffico. Per essere collaborativi, come vantato dall’azienda e dato atto anche dai pm nella conferenza stampa, in Poste Italiane sono stati collaborativi persino troppo, nell’indagine di ‘ndrangheta sfociata 10 giorni fa nell’arresto del direttore delle Poste di Siderno (Reggio Calabria) per impiego di denaro proveniente dal narcotraffico di una cosca "piemontese" di ‘ndrangheta e usato in parte nell’acquisto di una farmacia. Oltre a collaborare consapevolmente con i pm, infatti, Poste Italiane ha "collaborato" involontariamente anche con il futuro arrestato: al quale un anno fa, agli albori dell’indagine, improvvidamente inoltrò la prima richiesta di notizie che il capo dell’Antimafia Ilda Boccassini rivolgeva all’ufficio legale delle Poste. I due fax - Questo fax del 2015, recante l’avvertenza "segreto investigativo" e la raccomandazione di non trasmetterlo alla filiale postale del direttore sotto indagine, è stato trovato nelle carte proprio di Giuseppe Strangio quando l’1 marzo (giorno dell’arresto) è stato perquisito. Aveva anche un secondo fax del 2015, con il quale i pm chiedevano altri lumi sempre allo staff di Poste Italiane ad Ancona, deputato a gestire le migliaia di richieste giudiziarie convogliate qui da tutta Italia per le più varie ragioni. Dunque, già un anno prima dell’arresto l’indagato sapeva di essere nel mirino di un’inchiesta che l’Antimafia milanese credeva segreta. Un pizzico di fascino del male nobiliterebbe quasi quasi lo scenario di una "talpa" postale, ma la realtà degli accertamenti interni è meno romanzesca e più prosaica: è stato "solo" un errore di burocrazia interna di due dipendenti, forse indotto dal fatto che "filiale" per loro è non il singolo ufficio postale, ma la sede dalla quale dipendono più uffici. La difesa - Strangio, difeso dagli avvocati Leone Fonte e Mario Zangari, nell’interrogatorio ha prodotto copiosa documentazione sull’origine del denaro contestatogli: ha prospettato che parte dei soldi indicati come "contanti" fossero in realtà assegni cambiati (in una cassa del suo ufficio postale) in contanti subito riversati in un’altra cassa; e ha indicato affari immobiliari con due persone di cui avrebbe ignorato il rango ‘ndranghetista. I pm Boccassini-Storari-Vassena, valutando garantisticamente che le verifiche contabili di queste asserzioni necessitino di tempi non brevi (anche perché Poste Italiane ha comunicato che molte vecchie carte sono state trovate ma in sacchi danneggiati da un’alluvione), hanno ritenuto che intanto non fosse corretto tenere in custodia cautelare l’arrestato e hanno dato parere favorevole alla libertà. Il gip Cristina Mannocci, pur concordando sul venir meno del pericolo di un inquinamento probatorio potenzialmente già avvenuto un anno fa, ha però ritenuto permanga ancora il pericolo di reiterazione del reato, e ha disposto non la scarcerazione ma i domiciliari. Salerno: il Premio nazionale "Persona e Comunità" all’Icatt di Eboli Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2016 La Casa di Reclusione - Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli incassa il premio nazionale "Persona e Comunità" per la valorizzazione dei migliori progetti finalizzati allo sviluppo, al benessere ed alla cura della persona in collaborazione con l’associazione "Le Amiche Buongustaie" ed i partners Anna Palo e "In Tavola". Formalmente è un premio assegnato ad un progetto con una motivazione che, comunque, sintetizza lo spirito dell’iniziativa dedicata alla "centralità della persona nei migliori progetti della Pubblica Amministrazione e del Volontariato"; in realtà è un riconoscimento che va all’impegno, alla dedizione, al sacrificio ed alla collaborazione che hanno caratterizzato l’attività di istituzioni, associazioni e singoli di Eboli. L’assegnazione del "Premio Persone e Comunità", che per il terzo anno consecutivo viene riconosciuto all’Istituto a Custodia Attenuata (Icatt) di Eboli, nell’edizione 2016, sul versante ebolitano, ha caratteristiche particolari. Innanzitutto, si tratta di un premio che, a differenza dei due precedenti, non riguarda solo l’attività teatrale, con la quale la dirigenza dell’istituto e gli ospiti sono risultati vincitori del premio nazionale nei due anni precedenti. Per l’ultima assegnazione, infatti, l’Icatt di Eboli ha vinto con un progetto denominato "Notti galeotte". Si è trattato di un programma di riscoperta delle tradizioni gastronomiche locali presentate nel corso di serate presso i saloni dell’istituto ebolitano trasformati in un vero e proprio palcoscenico, con tanto di attori ad accompagnare le diverse portate. Un progetto che ha comportato anche una gara di solidarietà per strutture interne all’istituto. Il progetto è stato reso possibile attraverso la sinergia tra la dirigenza dell’istituto e l’associazione "Le Amiche Buongustaie", uno dei sodalizi ebolitani più presenti in ogni occasione di recupero delle tradizioni e rilancio dell’immagine del territorio. Un progetto importante, tanto da avere incassato anche collaborazioni di eccellenza, come quelle di Anna Palo, la wedding planner ebolitana che costituisce un fiore all’occhiello per la città, e l’azienda "In Tavola", anch’essa ebolitana e con riconoscimenti internazionali. "È un progetto, così come il premio, che ci inorgoglisce è ha esordito la presidente di "Le Amiche Buongustaie", Carmen Autuori. Un’iniziativa che è stata resa possibile dal rapporto con la direttrice dell’Icatt, Rita Romano, che ogni giorno, con il suo impegno, ci dimostra come un riscatto sia possibile per tutti". La stessa direttrice, che è il segreto dello straordinario modello Icatt di Eboli, ha voluto sottolineare: "Avevamo già ricevuto premi per l’attività teatrale, che costituisce un grande esempio di inclusione, ma la somma tra teatro e recupero delle tradizioni culinarie ha dato una marcia in più. Posso con orgoglio dire che siamo l’unico istituto del Meridione ad ottenere questo riconoscimento ed anche per questo la collaborazione con "Le Amiche Buongustaie" e con quanti partecipano a questo progetto proseguirà". Alla presentazione del premio ricevuto ha partecipato anche il sindaco di Eboli, Massimo Cariello: "Il grande merito di questo progetto e delle attività che porta avanti l’istituto guidato dalla direttrice Rita Romano è la capacità di coinvolgere l’intera città, in modo da far sentire l’istituto parte del tessuto sociale di Eboli. L’Icatt ormai non è più semplicemente un modello, perché è uscito dalla fase sperimentale ed i casi di ospiti che lasciano la struttura tra le lacrime indicano quale peso abbia nella rieducazione e nel reinserimento". Radio Carcere: la Cedu "nelle carceri italiane non c’è più sovraffollamento". Sarà vero? Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2016 Dall’analisi delle statistiche fornite dal Ministero della Giustizia risulta il contrario. Ovvero che su 195 carceri, ben 91 hanno un sovraffollamento che va dal 110% al 192%. LINK: http://www.radioradicale.it/scheda/468898/radio-carcere-la-cedu-nelle-carceri-italiane-non-ce-piu-sovraffollamento-sara-vero Migranti: Ankara pone nuove condizioni "ne riprendiamo migliaia, non milioni" di Carlo Lania Il Manifesto, 11 marzo 2016 Atene pronta a riconoscere la Turchia come Paese sicuro. Nuovo naufragio nell’Egeo: 5 morti. Per l’Europa potrebbe essere più difficile del previsto arrivare a un accordo sui profughi con Ankara. Ieri il ministro turco per i rapporti con l’Ue, Volkan Bozkir, ha messo all’intera operazione una serie di paletti che difficilmente piaceranno ai leader dei 28. Come prima cosa ha chiarito che la Turchia intende riprendere "decine di migliaia" di profughi nel proprio territorio e "non milioni". Inoltre i siriani che si trovano sulle isole greche non fanno parte del pacchetto e agli europei non sarà permesso scegliere i migranti in base al loro grado di istruzione, preferendo magari medici e ingegneri lasciando gli altri in Turchia. Ma soprattutto il ministro ha tenuto a precisare che il processo di riammissione dei rifugiati prenderà il via solo nel momento in cui quelli che già si trovano nell’area Schengen saranno stati ripartiti tra gli Stati dell’Unione. Visto come stanno andando i ricollocamenti, che praticamente non sono neanche cominciati, i tempi potrebbero allungarsi all’infinito. Dopo il vertice del 7 marzo scorso, quando è stato annunciato il possibile accordo con Ankara, i 28 si sono dati appuntamento al prossimo 17 marzo per un summit che dovrebbe sancire il via libera al piano. Un modo per permettere alla cancelliera Merkel di superare le elezioni di domenica prossima in alcuni lander con in tasca una mezza promessa di soluzione alla crisi dei migranti. Le nuove condizioni poste ora da Ankara potrebbero essere un modo per convincere gli Stati europei più restii all’accordo, ma anche per alzare il prezzo ulteriormente. In cambio dell’impegno a non far partire i profughi, la Turchia ha chiesto infatti la liberalizzazione dei visti per i propri cittadini a partire da giugno, insieme all’apertura di altri capitoli del processo di adesione all’Unione europea e a 6 miliardi di euro invece dei 3 già stanziati. Concessioni che non trovano d’accordo i paesi dell’est, primo fra tutti l’Ungheria di Orban. Le precisazioni del ministro turco rischiano adesso di far precipitare ulteriormente la situazione in Grecia. Nel paese ellenico si trovano già 41.973 migranti, stando ai dati forniti ieri dal coordinamento per la gestione della crisi dei profughi. Di questi 9.428 s trovano sulle isole di Lesbo, Samos, Chios, Kastellorizo, Kos, Leros e Kalymnos. Altri 9.623 sono alloggiati nell’area di Atene e 12 mila a Idomeni, al confine con la Macedonia. Stando al ministro per l’Immigrazione Ioannis Mouzals la Grecia è in grado accoglierne al massimo 70 mila, una cifra che, a ritmo di almeno 2.000 arrivi giornalieri, potrebbe essere raggiunta nel giro di poche settimane. Una situazione che rischia di diventare esplosiva non solo sotto l’aspetto umanitario, ma anche economico come ha sottolineato ieri il segretario generale dell’Ocse, Angek Gurria, secondo il quale "la crisi dei rifugiati crea notevoli problemi per l’economia e la crescita greca". Un aiuto ad Atene potrebbe però arrivare da Bruxelles. Dopo aver proposto lo stanziamento di 700 milioni di euro in tre anni per quei pesi che si trovano in prima linea nell’affrontare la crisi dei migranti - primo fra tutti la Greca - ieri la Commissione Ue ha chiesto il finanziamento di ulteriori 300 milioni da destinare in aiuti umanitari. Quella per arrivare a una possibile soluzione è e resta comunque una strada in salita. E non solo per le richieste sempre maggiori della Turchia. L’accordo Ue-Turchia dei migranti è già finito nel mirino dell’Onu che ha giudicato illegali le espulsioni in massa dei profughi e ieri il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker non ha escluso che alcune parti dell’accordo possano essere sottoposte al voto dei parlamenti nazionali. Dubbi di violazione del diritto internazionale che non sembra però avere il governo greco, che ieri si è detto pronto a riconoscere la Turchia come "paese terzo sicuro" aprendo così la via legale al rimpatrio dei migranti. Mouzalas ha spiegato la decisione con il fatto che in Turchia ci sono già 2,8 milioni di rifugiati e che sia l’Ue che l’Unhcr intervengono per controllare la condizioni di vita nei campi profughi. Atene si prepara quindi ad abbandonare decine di migliaia di profughi al loro destino proprio mentre nell’Egeo si continua a morire. Ieri, nell’ennesimo naufragio, hanno perso la vita cinque migranti, tra i quali un neonato di tre mesi. Sequestro degli italiani in Libia, le bugie e i depistaggi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 marzo 2016 Le raffiche, le finte telefonate, il gioco di Tripoli. Così i servizi italiani hanno dovuto affrontare versioni sempre diverse. E interlocutori inaffidabili. L’autopsia sui corpi di Salvatore Failla e Fausto Piano conferma che nella vicenda degli ostaggi i servizi di sicurezza italiani hanno dovuto giocare partite diverse con interlocutori diversi. Quasi mai affidabili. In primo luogo i rapitori, che avevano tutto l’interesse a trattare ma anche a depistare per non essere individuati; le autorità di Sabratha, che hanno riferito fatti rivelatisi non veri; il cosiddetto "governo di Tripoli", che ha contribuito a confondere le acque. A sequestro concluso, entrambe queste due "entità" hanno provato a tenere sotto scacco il governo di Roma; trattenendo, finché hanno potuto, prima i sopravvissuti e poi i morti. Per ragioni politico-diplomatiche che nulla avevano a che vedere con la vicenda specifica, dettate dall’occasione di acquisire credito e riconoscimento sul piano internazionale. Le false informazioni dei rapitori - I "criminali filo-islamisti" che hanno gestito la prigionia dei quattro impiegati della ditta Bonatti hanno trasmesso informazioni false e fuorvianti durante il negoziato. Nell’interpretazione di investigatori e inquirenti, le telefonate con la voce registrata di Failla fatta ascoltare l’altro ieri dalla moglie servivano a drammatizzare la situazione, con l’obiettivo di alzare il prezzo del riscatto. Tuttavia, che l’ostaggio fosse stato separato dagli altri tre non era vero, come hanno confermato i due superstiti nelle loro testimonianze. Gli stessi Pollicardo e Calcagno hanno pure negato che Failla avesse problemi di salute e necessità impellenti di cure mediche, come invece gli fu fatto dire nel messaggio registrato. Inoltre la richiesta alla famiglia di mobilitare giornali e tv, di far deflagrare il caso sui mass-media, doveva avere l’obiettivo di mettere pressione sulla controparte, cioè le autorità italiane. Per questo dalla Farnesina, con l’accordo dell’intelligence, ai familiari è stato suggerito di non aderire all’invito e, anzi, di non rispondere più alle telefonate dalla Libia. L’assalto dei miliziani - Che cosa abbia spinto i carcerieri a trasferire gli ostaggi il 2 marzo (dopo un fallito tentativo il giorno precedente) probabilmente non si saprà mai, né se era loro intenzione tenerli divisi o no. E resta un mistero la dinamica dell’agguato in cui sono morti i rapitori e due prigionieri. La versione subito offerta dal capo del Consiglio municipale di Sabratha (un assalto dei miliziani contro una fattoria che ospitava soldati dell’Isis) sembra smentita dalle fotografie dei cadaveri intorno a una macchina, in aperta campagna. Poi gli stessi ricompaiono, in altre istantanee, all’interno di un casolare, insieme ad altri morti. Chi li ha spostati, e perché? Italia e Libia: un secolo di difficile vicinato - Anche l’attribuzione del sequestro all’Isis, ribadita ancora ieri dal sindaco di Sabratha, ha ricevuto solo sconfessioni. A cominciare dagli ostaggi liberati. I servizi segreti avevano già questa indicazione, tanto che alla vigilia del 19 febbraio, quando gli Usa hanno comunicato l’imminente raid "chirurgico" contro una base dello Stato islamico in quella zona, la preoccupazione che potessero rimanerne vittime pure gli ostaggi italiani era stemperata da quella consapevolezza. Ad attacco avvenuto funzionari italiani sono comunque andati sul luogo dei bombardamenti per verificare l’accaduto, e sono stati loro a riconoscere tra i morti i due diplomatici serbi sequestrati tre mesi prima. La presunta esecuzione - Dopo l’agguato dei miliziani è stata diffusa la tesi del colpo alla nuca sparato contro gli ostaggi italiani. Rilanciata appena tre giorni fa dal ministro degli Esteri del "governo di Tripoli", che pur additando altri responsabili rispetto all’Isis ("criminali tunisini che nulla hanno a che fare con l’Islam", è l’ultima versione) ribadiva che contro Failla e Piano c’era stata una "esecuzione a sangue freddo" da parte dei rapitori. Gli accertamenti sui cadaveri svolti ieri hanno escluso il colpo alla nuca, e confermato le raffiche. Chissà se questo dato potrà essere comparato con le autopsie sui banditi uccisi, se mai qualcuno le farà e ne comunicherà l’esito ai magistrati italiani. I referti degli esami eseguiti in Libia sui resti di Failla e Piano sono stati promessi, e il medico italiano che ha assistito alle operazioni consegnerà una relazione. Sarà uno dei pochi punti fermi in mezzo a tante incertezze che bugie e reticenze accumulate sin qui (per esempio sulla sorte dell’autista dei tecnici, che assisté al sequestro) hanno alimentato. Caso Regeni: l’Egitto contesta l’autopsia italiana, ma invita gli inquirenti al Cairo di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 marzo 2016 Per la procura di Giza, Giulio non sarebbe morto per una frattura al collo, come sostengono i medici italiani. La notizia diffusa dall’Agenzia Nova mentre il procuratore generale egiziano invita i magistrati romani al Cairo. E il parlamento Ue vota una risoluzione di condanna. Per i medici legali egiziani Giulio Regeni non sarebbe spirato per una frattura del collo. Piuttosto sarebbe stato colpito con un "violento colpo alla testa", dalle 10 alle 18 ore prima della morte. A riportarlo è l’"Agenzia Nova" che pubblica un’intervista esclusiva al capo della procura di Giza, Ahmed Nagy. Una dichiarazione che conferma la dissonanza con la seconda analisi autoptica eseguita a Roma dal team di esperti coordinati dal professor Vittorio Fineschi. E non è un caso che il titolare delle indagini egiziane sull’omicidio (forse non lo chiamerebbero così i pm cairoti) del giovane dottorando friulano riveli un particolare così importante proprio mentre gli inquirenti italiani vengono invitati formalmente al Cairo dal procuratore generale d’Egitto, Nabil Ahmed Sadek, per dimostrare la massima disponibilità nel campo investigativo. Come d’altronde sollecitato dalla risoluzione d’urgenza votata ieri quasi all’unanimità dal Parlamento europeo. "Non c’è alcuna frattura del collo nel referto autoptico egiziano", riferisce all’agenzia di stampa internazionale il cancelliere Ahmed Nagy, che precisa anche di non essere stato neppure informato dell’invito al Cairo formalizzato ieri al capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, tramite l’ambasciatore egiziano Amr Helmy, per ragguagliare gli inquirenti italiani sugli "ultimi sviluppi investigativi" e "individuare ulteriori modalità di collaborazione tra le due autorità giudiziarie nell’interesse dei rispettivi Paesi". Pignatone ha annunciato che l’incontro con il procuratore generale d’Egitto "sarà organizzato a breve", ma non è chiaro se la procura di Giza sarà parte attiva del confronto, almeno stando a quando riportato dall’"Agenzia Nova". E non è chiaro nemmeno su quali basi oggettive i medici forensi egiziani possano escludere la frattura della vertebra cervicale, visto che "il collo non è stato sezionato durante la prima autopsia", come riferisce al manifesto una fonte altamente qualificata vicina alla procura di Roma. Difficile anche capire come abbiano potuto definire esattamente quante ore prima della morte Regeni avrebbe ricevuto "un violento colpo alla testa". "Hanno riscontrato una frattura del cranio? Analizzato un ematoma interno al cervello?", sono le domande che ancora non trovano risposta, a Roma. Anche perché il cadavere di Giulio è giunto in Italia privato del cervello. Interrogativi non di poco conto per confutare o supportare le ipotesi, accreditate al Cairo, di una morte compatibile con l’incidente o con l’aggressione "spontanea". È chiaro invece che, con l’invito "distensivo", le autorità egiziane hanno voluto attenuare l’eco della risoluzione d’urgenza "bipartisan" approvata ieri con 588 sì, 10 no e 59 astenuti dal Parlamento europeo in seduta plenaria mentre i deputati del M5S innalzavano cartelli con su scritto "Verità per Giulio Regeni". Un testo presentato da tutti i gruppi (tranne l’Efn di Le Pen e Salvini) che "condanna con forza la tortura e l’assassinio in circostanze sospette del cittadino europeo" e esorta il Cairo a fornire alle autorità italiane tutti i documenti per "consentire lo svolgimento di indagini congiunte rapide". Non solo: l’organo legislativo europeo sottolinea che il caso Regeni "non è un incidente isolato" nel paese mediorientale. E esprime "grande preoccupazione" per il "contesto di torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto l’Egitto negli ultimi anni", come pure per "l’imminente minaccia di chiusura forzata del Centro El Nadim per la riabilitazione delle vittime di violenza e tortura", e per "le continue vessazioni subite dalla Commissione egiziana per i diritti e le libertà a causa del ruolo che avrebbe svolto nella campagna "Stop alle Sparizioni Forzate"". Al "Paese vicino", "partner importante" nel "garantire la stabilità della regione", il Parlamento europeo offre la "condanna" degli "attacchi terroristici perpetrati contro civili e militari egiziani" ma poi ricorda l’obbligo "alla protezione e alla promozione dei diritti umani", invita a "rivedere con urgenza" una serie di leggi "repressive", e "chiede ancora una volta la liberazione immediata e incondizionata di tutte le persone detenute e condannate unicamente per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica". Ma anche l’Unione europea deve fare di più: i deputati di Bruxelles invitano Mrs Pesc, Federica Mogherini, a "intrattenere scambi regolari con i difensori dei diritti umani", "a sostenere i soggetti a rischio o detenuti" in Egitto e "ad assicurare un monitoraggio complessivo dei processi a loro carico". Al servizio diplomatico dell’Ue è rivolto invece l’invito a "riferire sullo stato attuale della cooperazione militare e di sicurezza degli Stati membri con l’Egitto" e "a definire, in stretta consultazione con il Parlamento europeo, una tabella di marcia sulle misure concrete che le autorità egiziane dovranno adottare per migliorare la situazione dei diritti umani nel Paese". Infine, ai Paesi Ue viene richiesto di sospendere "l’esportazione di apparecchiature di sorveglianza" utilizzate per violare i diritti umani. Non una parola sulla vendita delle armi italiane al regime di Al Sisi. Guerra in Libia, il presidente americano rovescia il copione di Guido Moltedo Il Manifesto, 11 marzo 2016 C’è una dottrina Obama? C’è, ed è il rovesciamento del "copione che a Washington si presume i presidenti debbano seguire". E "il copione prescrive risposte a eventi diversi, e queste risposte tendono a essere risposte di tipo militare". È un copione che può portare a "bad decisions". E a errori. Come in Libia. Che "ora è nel caos". Perché fu "un errore" il sostegno dato dalla Casa Bianca all’intervento militare della Nato nel 2011, uno sbaglio gravido di conseguenze nefaste. Sono le parole di Barack Obama. "The Obama Doctrine" è il titolo di un lungo colloquio a tutto campo con Jeffrey Goldberg, il giornalista di The Atlantic che ha una relazione personale con il primo presidente africano americano. E da tempo ne raccoglie i punti di vista, senza i veli dell’ufficialità, sui temi più delicati della politica internazionale. È un titolo semplice, quello dato all’intervista, ma pregnante. Perché a Obama è stato spesso, da più parti, rimproverato di non avere una visione organica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, una dottrina, appunto. La sua riluttanza, peraltro più volte illustrata e spiegata, a usare la forza militare non come estrema risorsa ma come mezzo principale è stata vista dall’establishment washingtoniano, dagli alleati europei e mediorientali (e dalle macchiette di certi nostri commentatori che fanno da cassa di risonanza) come incertezza e debolezza di leadership, inadeguatezza di pensiero strategico, e dunque assenza di dottrina. L’attacco alla Libia fu dunque "un errore". Non fu un errore, invece, la rinuncia all’intervento in Siria dopo che sembrava tutto predisposto per porlo in atto. Parla chiaro Obama, anche quando rammenta che c’era chi, nella sua stessa amministrazione, aveva un’idea opposta. I falchi, non cercateli però al Pentagono, ma al Dipartimento di stato, dove Hillary Clinton predicava l’uso della forza, in sintonia con leader come Sarkozy e Cameron (che Obama non esita a definire free riders, scrocconi, che - nel caso libico - si pavoneggiavano degli obiettivi colpiti… dalla forza aerea statunitense). Napolitano non è chiamato in causa, ma l’Italia allora si unì alla logica interventista. Retrospettivamente, data anche la vantata relazione personale con Obama, bene avrebbe fatto a offrire una sponda al presidente statunitense, e cercare di scongiurare il disastro alle porte di casa. Di questa intervista si discuterà molto e a lungo. Per i temi affrontati, dall’Ucraina alla Cina, dall’Arabia Saudita all’Iran. Per l’inusitata franchezza e durezza. Ma intanto colpisce la tempistica. Non è un’iniziativa che dà man forte a Hillary, confermata nel suo ruolo di falco. Lei, la responsabile del drammatico pasticcio di Bengasi, mai veramente chiarito e destinato a tornare in primo piano nel confronto diretto con il suo rivale repubblicano. Ma Clinton non gode del sostegno di Obama, anche se non ancora dichiarato ufficialmente? Già, ma probabilmente Obama pretende che chi si candida a succedergli dica parole chiare di continuità nella politica internazionale, per poter avere il suo endorsement esplicito. Troppo spesso Clinton lascia capire che volterebbe decisamente pagina. E a proposito di Libia, è ovvio che le parole del presidente statunitense sono un chiaro monito nei confronti di chi di nuovo si eccita all’idea di fare il bis dell’intervento del 2011. Un’idea che, a maggior ragione, dopo questa intervista, è pura follia. San Marino: "serve un nuovo carcere, ma anche una riforma della legge penitenziaria" Dire, 11 marzo 2016 Sul Titano serve un nuovo carcere ma anche una riforma della legge sull’Ordinamento penitenziario. Lo chiede il consigliere Marco Podeschi di Upr, a seguito della visita fatta nei giorni scorsi al carcere dei Cappuccini. Per un’ora Podeschi ha potuto constatare le reali condizioni delle persone in carcere, ma anche di chi ci lavora. Alla luce del report del Consiglio d’Europa sulle statistiche penali del 2014, in cui San Marino risulta lo stato che ha meno detenuti e con una spesa media giornaliera più alta- 685 euro al giorno per ospite. Podeschi sottolinea che il vero problema dell’istituto penitenziario sammarinese non è il costo. Piuttosto "non è più differibile- sostiene- un intervento definitivo per risolvere i tanti problemi che affliggono la struttura". Già dal 1994, il primo rapporto del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti" del Consiglio d’Europa evidenziava le criticità della struttura, sottolinea Podeschi. E da allora il Cpt resta in attesa di avere informazioni sullo stato di avanzamento del progetto di costruzione di una nuova prigione.Invece, "sono trascorsi 22 anni dal rapporto - lamenta il capogruppo Upr - e ancora del progetto del carcere non c’è traccia". Il problema quindi "non è il costo pro capite per detenuto - rimarca - il tapis roulant o il pranzo servito dal ristorante". Piuttosto, "il governo - prosegue - non può continuare a fare la politica dello struzzo lasciando la struttura, il personale e gli stessi detenuti in una sorta di limbo in cui si dice che si farà il regolamento, si penserà al personale, si costruirà la struttura, servono decisioni". Il timore del consigliere è che "l’aumento della popolazione carceraria con soggetti che dovranno scontare pene in via definitiva- continua- unitamente a soggetti oggetto di carcerazione preventiva possa acuire problemi e criticità". Gli spazi sono troppo "angusti" per far convivere sezione maschile, femminile e minorile, personale e "mantenere il tutto in un regime di massima sicurezza e dignità". Ma anche la Legge 1997/44 sull’Ordinamento penitenziario "va profondamente rivista - sostiene Podeschi - occorre dare forma definita all’amministrazione che cura la struttura penitenziaria, avere personale civile addestrato e specifico per il compito, definire con maggiore trasparenza nel regolamento, obblighi dei detenuti e per gli accessi nella struttura". Solo dopo avere pensato un modello organizzativo adeguato, idoneo e evoluto, esorta il consigliere, si potranno rivedere gli aspetti organizzativi. Podeschi infine si dice molto colpito dal punto di vista personale dalla visita: "Molte delle leggende metropolitane che circolano sulla condizione dei detenuti - conclude - sono decisamente diverse dalla reale situazione". Stati Uniti: Homan Square, la prigione di Chicago dove la polizia tortura i detenuti di Iacopo Luzi thepostinternational.it, 11 marzo 2016 Homan Square è un dipartimento della polizia di Chicago situato nel West Side della città. Sebbene dall’esterno possa sembrare un semplice ex magazzino della Sears, una catena di grande distribuzione, al suo interno si sospetta che siano state detenute illegalmente più di 7mila persone negli ultimi undici anni. Secondo un’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian, che ha portato alla luce la notizia nel gennaio 2015, e le numerose testimonianze di persone che hanno visitato la prigione, questa struttura di proprietà della polizia di Chicago teoricamente adibito a deposito per le prove e i materiali recuperati dagli agenti, sarebbe in realtà un centro di detenzione segreto e un posto dove spesso hanno luogo interrogatori non autorizzati. Una volta al suo interno, le persone in arresto non sarebbero autorizzate nemmeno a contattare i propri familiari o a chiamare un avvocato. Per chiunque arrivi di fronte a Homan Square, lo scenario appare fin da subito inquietante: non c’è una vera e propria entrata e l’unico accesso pubblico è una piccola porta su un lato dell’edificio. Molte pattuglie della polizia vanno e vengono durante tutto il giorno e in prossimità dello stabile i cellulari smettono immediatamente di avere campo. Secondo i dati pubblicati dal Guardian a settembre dell’anno scorso, l’82,2 per cento dei detenuti di Homan Square è di origine afroamericana, nonostante la minoranza nera a Chicago costituisca solo il 32,9 per cento della popolazione. A Homan Square sono stati registrati 7.185 arresti dall’agosto 2004 al giugno 2015, ma solo nello 0,94 per cento dei casi la polizia ha concesso a un avvocato di accedere al suo interno per assistere un proprio cliente. Questa percentuale rivelerebbe una pratica della polizia di Chicago mirata a ridurre al minimo l’accesso degli avvocati durante la prima e più fondamentale parte dell’interrogatorio, quella in cui i diritti costituzionali dell’arrestato sono spesso più vulnerabili e dove è più facile spingerlo all’autoincriminazione. Molte notizie sono trapelate a riguardo di Homan Square negli ultimi dodici mesi, mentre il 19 ottobre 2015 è stata intentata una causa civile contro sei agenti della Chicago Police Department (CPD) per difendere tre persone di colore che, secondo l’accusa, si suppone abbiano subito abusi fisici e psicologici all’interno di Homan Square. Questa è stata la prima azione legale contro Homan Square in cui si accusa la polizia di Chicago di utilizzare "tecniche di tortura coercitive incostituzionali" all’interno della struttura e mira a dimostrare come queste pratiche siano parte di una tendenza generale a discriminare la gente di colore da parte della polizia. Il tutto insabbiato e tenuto nascosto da un "codice del silenzio" tra agenti. Stando a quanto riportato nella causa, Jessie Patrick, Atheris Mann e Deanda Wilson, difesi dal Peoplès Law Office, sarebbero stati erroneamente arrestati dal sergente Frank Ramaglia, uno degli agenti imputati; i tre sarebbero poi stati incolpati e imprigionati per circa 15 mesi grazie a prove inesistenti e create dagli stessi agenti. Presumibilmente dallo stesso sergente Ramaglia, secondo quanto dichiarato nella causa. Ci siamo recati a Homan Square per ottenere alcune informazioni. Tuttavia, la polizia non ha voluto rilasciare dichiarazioni, come già successo in passato. Anzi, non appena abbiamo iniziato a scattare delle foto, subito un agente all’interno di una volante si è fermato e ci ha chiesto: "Cosa fate qui? Siete giornalisti? Andate via, non c’è niente da vedere". In effetti, l’unica dichiarazione ufficiale della polizia per quanto riguarda Homan Square è un documento, rilasciato il primo marzo 2015, che attesta: "Le accuse di utilizzo di violenza fisica durante gli interrogatori sono inequivocabilmente false, sono offensive e non sono supportate da alcuna prova". Secondo lo stesso documento, "Homan Square è uno stabile di proprietà del dipartimento di polizia di Chicago che ne fa uso dal 1999. Il dipartimento svolge svariate funzioni, alcune delle quali sono molto complesse e delicate mentre altre no. A ogni modo, non è una struttura segreta". La causa descrive gli eventi avvenuti il 21 ottobre 2013: Mann e Patrick stavano sbrigando delle commissioni quando la loro macchina è stata fermata da una pattuglia, entrambi sono stati perquisiti senza alcun motivo e arrestati da due agenti di polizia, per l’esattezza il sergente Ramaglia e l’agente Kevin Connoly, per possesso di droga, nonostante non avessero niente. Successivamente sono stati condotti a Homan Square. Qualche ora dopo, Deanda Wilson era in un negozio vicino St. Louis Avenue per comprare una bibita, quando l’agente di polizia Alejandro Miranda lo ha arrestato per la stessa ragione. Nella loro causa, Mann, Patrick e Wilson dichiarano di essere stati vittime di una serie di abusi compiuti dalla polizia, come insulti razziali, minacce verbali e fisiche, perquisizioni integrali e una detenzione ai limiti della decenza. Secondo i tre, durante la loro detenzione a Homan Square non gli sarebbe stato fornito cibo, acqua né la possibilità di usare il bagno. Tanto da obbligare Wilson a farsela addosso per quanto non ce la facesse più. Secondo gli avvocati dei tre arrestati, la polizia avrebbe provato a convincerli a collaborare, fornendo finte accuse e producendo prove ad hoc per giustificare i loro arresti. "I tre clienti del Peoplès Law Office sono innocenti. Patrick e Mann sono stati illegalmente detenuti per 15 mesi nel carcere della Contea Cook e solo il 14 gennaio 2015, un giudice li ha assolti da tutte le accuse. Wilson è ancora dentro in attesa del processo", ha dichiarato l’avvocato di Wilson, Shubra Ohri. Ohri dichiara: "Questa causa civile è stata intentata perché quello che è successo ai nostri clienti ha violato il Quarto Emendamento. Il nostro asso nella manica per provare la loro innocenza è il fatto che il dipartimento di polizia deve fornire obbligatoriamente prove per dimostrare la colpevolezza di un arrestato, quindi se veramente hanno trovato della droga addosso ai nostri clienti vogliamo fisicamente vedere cos’hanno trovato. Se hanno inventato tutto, non sarà semplice per loro fornirci delle prove". Nella causa si parla di condotta anticostituzionale della polizia a Homan Square. Fra le varie accuse, un agente avrebbe puntato un coltello alla gola di Wilson, tagliando i lacci della sua felpa dopo la richiesta di Wilson di parlare con il suo avvocato e il rifiuto di fornire informazioni sullo spaccio di droga nel suo quartiere, in quanto totalmente ignaro della cosa. Un altro agente, invece, avrebbe preso Mann per il collo, minacciandolo di arrestare "il culo nero" di sua moglie e dicendogli che non avrebbe visto crescere il suo giovane figlio, se non avesse fornito qualche informazione utile su uno spacciatore di eroina di sua conoscenza. La moglie di Mann, contattata telefonicamente, ha dichiarato: "Mio marito non vuole parlare più con nessuno. Non vogliamo pubblicità perché lui non vuole rivivere cosa è successo lì. È stata una vera tortura. Un vero e proprio inferno". Nonostante la causa civile sia stata depositata quasi tre mesi fa, il dipartimento di polizia di Chicago non ha ancora risposto all’accusa del Peoplès Law Office e resta difficile da ipotizzare una data per un possibile primo processo. Cile: il sovraffollamento nelle carceri non aiuta la reintegrazione fides.org, 11 marzo 2016 Circa 60 detenute della sezione "Cortile Mandela" della prigione femminile di San Joaquin hanno condiviso con il Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santiago de Chile, Sua Ecc. Mons. Jorge Concha Cayuqueo, Ofm un momento di dialogo prima di partecipare alla Messa e quindi alla colazione, in occasione della Giornata della donna, l’8 marzo. Il Vescovo ha visitato anche i locali della prigione dove le detenute sono impegnate in attività per il reinserimento, per l’imprenditorialità, il workshop, l’alfabetizzazione, l’istruzione di recupero, terapie psicologiche. Per Mons. Concha "il sostegno psicologico e formativo mira alle qualità umane delle persone, è fondamentale per il reinserimento. Ciò che ci proponiamo come Chiesa di Santiago, è prima di tutto ricostruire le persone dall’interno, in modo che poi loro stesse siano consapevoli di volersi redimere" ha detto nella nota inviata a Fides. Riguardo al sovraffollamento nelle carceri del Paese, il Vescovo ha detto: "è una situazione complessa che può avere a che fare con le risorse. Ma il sovraffollamento impedisce lo scopo principale che è il reinserimento è la riabilitazione". Secondo dati raccolti da Fides la situazione carceraria in Cile si è trasformato in pochi anni. Dal 1864 al 1996 il luogo di detenzione era simile ad una fattoria che poteva accogliere quasi 300 detenute. Custodito e guidato dalle guardie e dalle religiose della Congregazione delle suore del Buon Pastore. Le detenute avevano commesso piccoli furti o delitti non gravi. Oggi con l’aumento del traffico di droga e la crescita della violenza, le detenute sono accusate di gravi delitti anche violenti. Se negli anni 80 le donne erano solo il 3% della popolazione carceraria, dopo il 2000 erano più del 7.7% e dopo il 2008 il 10.3%. Il carcere di Santiago accoglie il 45% delle prigioniere di tutto il Cile: sono più di 1.400 in un carcere che può accogliere solo 850 persone. Brasile chiesto l’arresto dell’ex Presidente Lula per riciclaggio e occultamento di immobili di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 11 marzo 2016 Sei giorni fa l’ex Presidente era stato interrogato per tangenti nell’ambito dello scandalo Petrobras. Una misura che ne aveva scatenato l’ira: "vendetta dei giudici contro di me". E la presidente Rousseff gli offre un posto nella squadra di governo. E adesso per Lula, l’ex popolarissimo presidente del Brasile, c’è anche una richiesta di arresto. L’ha presentata la procura di San Paolo, in un procedimento parallelo alle inchieste sulla corruzione che nei giorni scorsi già avevano costretto Lula ad essere condotto davanti alla polizia contro la sua volontà e a subire varie perquisizioni. In questo caso l’indagine riguarda un super attico sull’oceano al centro di una truffa, del quale l’ex operaio nega la proprietà. Contro Mani Pulite - La richiesta di arresto dovrà essere convalidata da un giudice, e non è affatto scontato che verrà accolta. Numerose le voci che si stanno alzando contro l’eccesso di protagonismo dei giudici della cosiddetta Mani Pulite brasiliana. In questo caso anche da politici e commentatori non proprio allineati con il governo e il partito di Lula: ieri in molti hanno definito esagerata la richiesta di arresto. Le accuse sono riciclaggio e falso ideologico. Lula e i suoi familiari (sono indagati anche la moglie Marisa e un figlio) avrebbero nascosto la proprietà dell’attico e omesso di dichiararlo al fisco. L’attico - L’immobile è al centro di una vicenda complessa: costruito da una cooperativa di sinistra, poi fallita, è stato ultimato e arredato apposta per Lula da un’altra società di costruzioni, la Oas. Si tratta di una delle aziende protagoniste del giro di mazzette sotto indagine della procura di Curitiba, quella che ha svelato il grande scandalo Petrobras. Anche in quelle carte c’è scritto che Lula non avrebbe mai sganciato un soldo per l’attico, il quale sarebbe stato un gentile omaggio della Oas, insieme a tutto l’arredamento. Quando è scoppiato il caso, l’ex presidente ha sostenuto invece che l’appartamento gli era stato offerto, ne aveva valutato il regolare acquisto, ma poi aveva desistito perché la località non gli garantiva la necessaria privacy. Pericolo di fuga - I giudici di San Paolo, nella richiesta di arresto, parlano addirittura di pericolo di fuga, inquinamento delle prove e stigmatizzano l’atteggiamento arrogante tenuto da Lula dopo le perquisizioni e il fermo dei giorni scorsi. In quell’occasione aveva attaccato i giudici e chiamato i militanti a rispondere nelle piazze, sottintendendo che si sarebbe ripresentato alle prossime presidenziali. Ieri ha rafforzato la dose. Una nota del suo istituto paragona le decisioni dei giudici ad "atti di banditismo e immotivata militanza politica". Il possibile colpo di scena - C’è poi il possibile colpo di scena politico. Per congelare le inchieste contro Lula, nel governo di Dilma Rousseff si sta meditando di offrire un posto da ministro all’ex leader. Secondo la legge brasiliana chi detiene cariche pubbliche elevate, parlamentare o ministro, non è giudicabile dalle corti ordinarie ma soltanto dal Supremo tribunale federale. Lula avrebbe respinto l’offerta, una sorta di salvacondotto, ma il rischio di arresto adesso potrebbe fargli cambiare idea. Domenica intanto si misurerà la reazione dell’opinione pubblica. L’opposizione ha convocato marce in tutte le città del Brasile in appoggio ai giudici e per le dimissioni (o l’impeachment) della presidente Dilma Rousseff.