"Paese reale" e "Paese legale", i cittadini e il diritto di contare di Sabino Cassese Corriere della Sera, 10 marzo 2016 Accanto all’aumento di offerta di democrazia, all’apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. I votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono afoni. Ha ragione Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 5 marzo 2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni. Il divario tra "Paese reale" e "Paese legale" - come si diceva nell’Ottocento - è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di ampiezza del suffragio. Conquistato il suffragio universale, è divenuto problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro). Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale. Contemporaneamente, nelle istituzioni, c’è dovunque la necessità di un accentramento dei poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi. Questo malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel quale, paradossalmente, l’offerta di istituzioni democratiche aumenta, gli stessi partiti si aprono, il "capitale sociale" cresce. Basti pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un’altra voce ai cittadini. Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie, sull’esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi stessi obiettivi della democrazia) e all’aumento del "capitale sociale", costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto comunitario e danno occasione ai cittadini di "svolgere la propria personalità", come dice la Costituzione. L’apparente contraddizione si spiega in un solo modo: accanto all’aumento di offerta di democrazia, all’apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o semisecolare - a seconda degli Stati - di vita del suffragio universale, i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il potere (democrazia delegata o indiretta). Di qui la ricerca di rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa, cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie correnti del socialismo nell’Ottocento e all’inizio del Novecento). Il ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta. In Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole, ospedali, università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto forze dell’ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria Elena Boschi (Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su "un Paese più semplice e più giusto", perché il malfunzionamento dei rami bassi produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi. Carceri: diminuisce il sovraffollamento, non spariscono i problemi di Gabriella Meroni Vita, 10 marzo 2016 Il Consiglio d’Europa archivia le accuse di violazione dei diritti umani nei confronti dell’Italia dopo aver constatato la diminuzione record del numero dei detenuti. Per il neo Commissario alla chiusura degli Opg Franco Corleone "si è aperta una fase nuova", tuttavia "i problemi dei detenuti non sono solo i metri quadri, ma i diritti. Avanti con la riforma penitenziaria". Buone notizie dall’Europa per le carceri italiane. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha infatti lodato le misure adottate dall’Italia, i risultati ottenuti e gli impegni assunti dal governo nella lotta "contro il sovraffollamento carcerario in modo da ottenere una soluzione definitiva del problema". L’esecutivo dell’organizzazione europea ha quindi deciso di chiudere il fascicolo aperto nei confronti del nostro paese dopo le condanne da parte della Corte europea dei diritti umani per lo spazio inadeguato in cui erano costretti una parte dei detenuti - meno di tre metri quadrati a testa. Il rapporto Space, in cui viene fotografata ogni anno la situazione del sistema penitenziario dei paesi membri del Consiglio d’Europa, ha confermato i traguardi raggiunti. Si è evidenziato infatti che tra il 2013 e il 2014 la popolazione carceraria italiana ha avuto un calo record del 17,8%, e che questa diminuzione è la più grande registrata nei 47 paesi monitorati. Questo non toglie che l’esecutivo dell’organizzazione ricordi al governo che c’è ancora della strada da fare (le celle strapiene rimangono un problema in circa 90 istituti su 185) e esprime la propria fiducia nel fatto che le autorità "continueranno gli sforzi per assicurare condizioni di detenzione in conformità con quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani e dal Comitato per la prevenzione per la tortura". E se il ministro della Giustizia Andrea Orlando parla di "una buona notizia per il nostro Paese, che mi riempie di orgoglio e soddisfazione, ma non di appagamento" e rimarca che "c’è tanto lavoro ancora da fare per rendere la pena aderente al dettato costituzionale", pur dicendosi "fiero di aver contribuito di evitare un’onta al nostro Paese", Franco Corleone, Garante dei diritti dei denuti della regione Toscana nonché neo Commissario del governo per la chiusura degli Opg, parla di "uscita da una situazione pesantissima, anche se la vera partita inizia ora". "In Italia abbiamo avuto punte di 67-68mila detenuti", dice ancora Corleone a Vita. "E se oggi siamo a 52-53mila sicuramente dobbiamo registrare un notevole miglioramento, dovuto a una serie di provvedimenti del governo. Penso in particolare al diffondersi delle misure alternative, alla messa alla prova, alle sentenze della Corte Costituzionale sulla Fini Giovanardi che hanno permesso di rilasciare almeno 5500 detenuti per violazione delle norme sulla detenzione di sostanze stupefacenti. Sono poi diminuiti gli arresti", analizza Corleone, "praticamente dimezzati dal 2008 a oggi. Siamo entrati una fase nuova, non c’è dubbio, anche se questo non vuol dire che la qualità di vita dei detenuti sia automaticamente migliorata". La vera partita, secondo il Commissario, si giocherà infatti nella prossima discussione di una più ampia riforma carceraria, i cui lavori preparatori si stanno svolgendo in seno agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, un Comitato di esperti nominati dal Ministero della Giustizia, articolato in 18 tavoli tematici composti da operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile - tra cui lo stesso Corleone. "Il problema non si riduce a una questione di metri quadri", conclude, "ma occorre che vengano applicate le norme del regolamento penitenziario e che siano rivisitate le tante questioni aperte, dal diritto all’affettività, al lavoro, all’integrazione". Diritti dei detenuti: tanti garanti e poche garanzie di Laura Arconti (Partito Radicale) L’Opinione, 10 marzo 2016 In Svezia, patria del welfare, esiste fin dal 1809 un organo fiduciario del Parlamento che vigila sul funzionamento dell’amministrazione statale, tutelando i cittadini contro eventuali abusi da parte di pubblici funzionari. È chiamato "Ombudsman", letteralmente "uomo che fa da tramite". A questa data viene solitamente fatta risalire la più recente figura del difensore civico, mentre altri studiosi ricordano che nella Roma dei primi tempi repubblicani era codificato lo "jus intercessionis" affidato ai Tribuni della plebe, con funzioni di mediazione e garanzia. In tempi recentissimi diverse risoluzioni delle Nazioni Unite raccomandano l’istituzione dell’Ombudsman, e più tardi l’Unione europea codifica il "mediatore europeo" col compito di tutelare il diritto dei cittadini ad una buona amministrazione. In Italia, un primo istituto di garanzia è nato nel 1993 per tutelare i diritti dei clienti di Banche ed Istituti finanziari: l’Ombudsman bancario. Dieci anni dopo tutta la normativa a tutela del consumatore è stata raccolta nel Codice del Consumo e tuttavia non è stata istituita la figura del difensore dei consumatori. Sempre nei primi anni duemila è stata codificata la figura del difensore civico, che ha il compito di accogliere i reclami non accettati in prima istanza dall’Ufficio Reclami del soggetto commerciale che eroga un servizio. Sia pure in ritardo, l’Italia dunque si è dotata di chi ha il compito di difendere i diritti dei cittadini risparmiatori o consumatori. Ma per le persone private della libertà personale e trattenute in custodia dello Stato per motivi di sicurezza non esisteva alcuna tutela. Secondo la Costituzione italiana e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questi cittadini, siano essi in attesa di giudizio oppure già condannati, hanno comunque il diritto di esser trattati in modo umano ed aiutati per il recupero e la reintroduzione nel mondo del lavoro e del viver civile. La figura del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale (detto anche difensore civico dei detenuti) è prevista anche dalla convenzione Onu contro la tortura, risalente al 1987, che l’Italia ha sottoscritto. Tuttavia la figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti è stata istituita 27 anni dopo, con la Legge 21.02.2014 n. 10; e poi si è dovuto attendere ancora fino al Decreto 11.03.2015 n. 36 che contiene il Regolamento per la composizione dell’Ufficio del Garante Nazionale. L’entrata in vigore era prevista per il 15.04.2015, ma solo dieci mesi dopo, il 6 febbraio 2016, il ministero della Giustizia ha comunicato: "Il professor Mauro Palma è il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La sua nomina, insieme a quella dell’avvocato Emilia Rossi come membro, è stata formalizzata in un decreto del Presidente della Repubblica". L’Italia, si sa, è il Paese dell’improvvisazione individuale: ancor prima che ci fosse un Garante nazionale dei diritti dei detenuti, esistevano qua e là Garanti comunali, provinciali, regionali, ciascuno di loro nominato in base ad una legge o ad un regolamento deliberato dai relativi Consigli comunali, provinciali o regionali secondo testi diversi, che raramente hanno qualche consonanza normativa. Con l’intento di capire quanto sia stato fatto, e soprattutto quanto ancora ci sia da fare per assicurare un minimo di legalità all’esecuzione della pena detentiva, si è provato a costruire una mappa dei Garanti regionali. Infatti parrebbe logico cominciare dalle Regioni, che sono in tutto venti, sicché non dovrebbe esser difficile stabilire per ciascuna di esse in che data è stata approvata la legge istitutiva, chi è stato nominato Garante e in che data, quale durata lo statuto prevede per il mandato. Prima mossa, l’esame, nel sito del ministero della Giustizia, dell’elenco dei Garanti regionali in carica. L’elenco esiste, ma è incompleto: mancano indicazioni per alcune regioni, e in alcune altre è indicato il nome di un Garante che - con riferimento alla data in cui è stato nominato e alla durata del mandato stabilita dall’atto istitutivo - decadrà ben presto oppure è addirittura già decaduto. Per scoprire in che data ciò sia accaduto o stia per accadere, bisogna trovare il testo della legge regionale istitutiva, perché le leggi sono diverse da Regione a Regione: in alcune Regioni il mandato del Garante dura cinque anni, in altre Regioni sei o sette anni e altrove il Garante decade con la decadenza della consiliatura regionale. Non basta: in alcune Regioni il Garante può essere rieletto al termine del mandato, in altre non può essere nuovamente incaricato. È presumibile che il primo lavoro che dovrà fare il Garante nazionale appena nominato riguarderà proprio l’aggiornamento dell’elenco ufficiale presso il ministero della Giustizia; poi verranno le decisioni per mettere ordine in tutto il sistema. Per esempio, sarà interessante vedere come verrà impostato il coordinamento dei Garanti, poiché il 29 gennaio 2016 alcuni di essi si sono riuniti a Torino come libera Associazione dei Garanti e hanno eletto un coordinatore nella persona del Garante della Toscana Franco Corleone (che peraltro da poco è stato nominato commissario del Governo in sei Regioni commissariate per non aver chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari e che pertanto decadrà da ogni altro incarico), e due vicecoordinatori nelle persone di Bruno Mellano, Garante del Piemonte, e di Adriana Tocco, Garante della Campania "in attesa di seconda nomina". Il ministero della Giustizia, nel comunicare la nomina del Garante nazionale, ha precisato che egli coordinerà il lavoro dei Garanti regionali: ci si trova dunque in presenza di quattro coordinatori, di cui tre non nominati dal Presidente della Repubblica ma eletti in seno ad una riunione fraterna, e si vedrà come questa situazione sarà gestito dal professor Palma o dall’avvocato Emilia Rossi. La costruzione di una mappa dei Garanti è lavoro arduo perché tutti gli elenchi disponibili nel web sono carenti, disordinati e spesso inattendibili ed i siti delle varie Regioni sono incompleti. Alla fine, non è rimasto che darsi da fare col telefono, chiamando gli "Urp" delle Regioni oppure chiedendo ad amici, compagni, colleghi, di andare negli uffici regionali ad informarsi. Mentre il completamento di questo lavoro è in corso, la notizia della nomina del Garante nazionale suggerisce di mettere urgentemente a disposizione i dati finora raccolti: ci si risolve pertanto a pubblicare questa sintetica presentazione, continuando nel lavoro di ricerca su tutte le Regioni. Qual è il motivo dell’urgenza? Ecco un esempio per tutti (ma situazioni altrettanto grottesche si trovano in altre Regioni, mentre in alcune non è stata ancora neppure approvata una legge istitutiva): in Sicilia la figura del Garante è stata istituita nel 2005 (art. 33 della legge regionale n.5 del 19 maggio 2005); il mandato, affidato dal presidente della Regione con proprio decreto, ha una durata di sette anni. Nel 2006 è stato nominato Garante il senatore Salvo Fleres, che ha svolto la funzione fino alla scadenza del mandato, il 16 settembre 2013, e da allora il presidente della Regione non ha ritenuto opportuno procedere ad una nuova nomina. Non c’è il Garante, ma l’Ufficio del Garante (che ha ben due sedi, a Palermo ed a Catania) tuttora esiste con una decina di funzionari ed impiegati che percepiscono stipendi ma non possono operare: non sono neppure autorizzati ad aprire la corrispondenza che arriva dalle carceri agli uffici, all’indirizzo del Garante che non c’è. I Radicali che vivono e operano in Sicilia hanno più volte sollecitato il presidente della Regione a nominare il Garante, e nel gennaio del 2015 hanno presentato un esposto alla Procura regionale della Corte dei conti per il danno conseguente alla mancata nomina del Garante. Il costo delle due sedi e del personale (in stipendi e contributi) è stato stimato in circa 500mila euro all’anno. È un motivo sufficiente per informare con urgenza l’opinione pubblica ed il Garante nazionale sul disordine dannoso in cui versa la situazione dei Garanti e di cui la Sicilia è soltanto un esempio? Il paradosso del proibizionismo di Patrizio Gonnella (Presidente Antigone e Cild) Il Manifesto, 10 marzo 2016 Coltivare cannabis per uso personale resta un reato. A confermarlo ieri è stata la Corte Costituzionale, nel non ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Brescia sul trattamento sanzionatorio della coltivazione di piante di cannabis per uso personale. La questione era nata per la disparità attualmente in essere tra due tipi di condotte, entrambe relative all’uso personale. Da una parte, appunto, la coltivazione fai-da-te, dall’altra l’acquisto di marijuana sul mercato nero ed illegale. La prima fattispecie riconosciuta di gravità penale, la seconda perseguita con una sanzione amministrativa. Fu proprio questo a spingere la Corte di appello di Brescia a sollevare la questione dinanzi alla Consulta rispetto alle "disposizioni dell’art. 75 D.P.R. n. 309/90, nella parte in cui escludono tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, qualora finalizzate al solo uso personale dello stupefacente, la condotta di coltivazione di piante di cannabis, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli artt. 3, 13, comma secondo, 25, comma secondo e 27, comma terzo, Carta Cost.". La Corte, rigettando la "questione", non ha aiutato a superare questa incomprensibile divergenza che, a ben vedere, rappresenta anche un paradosso. Per chiunque voglia fare uso di cannabis converrebbe (da un punto di vista sanzionatorio) infatti più acquistarla sul mercato illegale, controllato dalle organizzazioni criminali, piuttosto che coltivarla a casa propria. Già nel 1995 la Corte si pronunciò su questo argomento e, anche in quel caso, ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale che gli fu posta. In quel caso la motivazione fu che la coltivazione comunque avrebbe apportato un aumento della quantità di stupefacente disponibile sul nostro territorio nazionale, da cui la punibilità penale della condotta. Nell’attesa di leggere le motivazioni della bocciatura di ieri una cosa possiamo già dirla: la via maestra da seguire è quella legislativa. Il Parlamento e il Governo debbono farsi carico della questione droghe e, sulla scia di altri paesi, compresi gli Stati Uniti, andare verso la decriminalizzazione, la depenalizzazione e la legalizzazione, cambiando completamente strada rispetto alle politiche messe in campo fino ad oggi e che possiamo sintetizzare in poche parole: proibire, punire, sanzionare, arrestare, processare, incarcerare. La questione relativa alle droghe non va trattata con demagogia e paternalismo populista, ma ancorandosi ai dati e alle evidenze. Noi lo stiamo facendo con la campagna "Non me la spacci giusta". La guerra alle droghe è fallita. Lo dicono esperti non accusabili di empatia o militanza movimentista. Ce lo dicono i numeri. Le 250.000 persone arrestate tra il 2006 e il 2014. Il miliardo di euro l’anno che spendiamo per tenere in carcere persone accusate di reati di droga. I miliardi di euro incassati dalle mafie e che potrebbero finire allo Stato sotto forma di tassazione. I 180 milioni che utilizziamo affinché le forze di polizia facciano rispettare la normativa anti-droga e che potremo invece utilizzare per reprimere il crimine organizzato. C’è bisogno di una rivoluzione pragmatica che lasci la morale fuori dal diritto. Su questo la politica oggi deve impegnarsi e di occasioni ce ne sono due: la proposta di legge presentata dall’integruppo parlamentare Cannabis Legale e la Sessione Straordinaria dell’Assemblea delle Nazioni Unite sul tema delle droghe che si terrà nel mese di aprile a New York, e a cui l’Italia parteciperà con una propria delegazione guidata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Così come buona parte della comunità internazionale anche il nostro paese è di fronte a un crocevia: può decidere di perseverare in una politica proibizionista che ha prodotto morti e disastri sociali; può continuare in quel solco ma moderandone l’impatto repressivo; può cambiare nettamente rotta. Noi crediamo che la strada da percorrere sia quest’ultima. Nei reati economici troppo facile evitare il carcere di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 10 marzo 2016 Mentre in tutta l’Europa la quota di detenuti condannati con sentenza definitiva per reati economici e finanziari saliva nel 2014 dal 6% al 7,4%, da noi è rimasta inchiodata allo 0,6%. Siamo dodicesimi in Europa. Bancarottieri fraudolenti, banchieri truffatori, sindaci corrotti, funzionari mazzettari e delinquenti fiscali possono tirare un sospiro di sollievo: la #svoltabuona della galera invocata dai cittadini è ancora lontana. Anzi, mentre in tutta l’Europa la quota di detenuti condannati con sentenza definitiva per reati economici e finanziari saliva nel 2014 dal 6% al 7,4%, da noi è rimasta inchiodata allo 0,6%. Nel 2013 avevamo un decimo dei carcerati "colletti bianchi" rispetto alla media Ue e adesso ne abbiamo un dodicesimo. Una figuraccia. Anzi, il numero assoluto dei detenuti di questo tipo è addirittura sceso: da 230 a 228. Contro i 12.455 in cella per droga. Dice tutto il paragone con la Germania dove non a caso l’economia funziona: bancarottieri, concussori e truffatori finanziari chiusi nei penitenziari tedeschi sono 6.271 (28 volte di più) contro 7.144 dentro per spaccio. In pratica: mentre da noi c’è un colletto bianco in galera ogni 55 spacciatori, da loro sono quasi alla pari, uno a uno. Segno che Angela Merkel e il governo tedesco la pensano in modo assai diverso dall’ex ministro Franco Frattini che un giorno si spinse a dire: "I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada "Oddio, c’è il falso in bilancio!". E certo non era l’unico a pensarlo. Ma se da noi va così è davvero colpa dei "tempi brevi" (sette anni e mezzo) della prescrizione per i reati di questo tipo? Rod Blagojevich, il governatore dell’Illinois che aveva cercato di vendere il seggio senatoriale lasciato libero da Obama, fu arrestato il 19 febbraio 2008 e dal 15 marzo 2012 è in galera col pigiama arancione a Englewood (Colorado) per scontare 14 anni. Se si comporterà bene potrà uscire con lo sconto nel 2024. Così funziona, dove non mettono dentro solo ladruncoli e spacciatori. E non è solo una questione di giustizia. Ma anche di economia. E tutti i truffati delle banche l’hanno capito. A loro spese. Truffe e sprechi nella spesa pubblica, nel 2015 danni per 4 miliardi di euro di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 10 marzo 2016 I dati della Guardia di Finanza: illegale un appalto su tre (un miliardo su 3,5), crescono gli evasori fiscali totali (8.485), irregolare il 30% delle sale giochi e centri scommesse. Sequestrati oltre 390 milioni di prodotti contraffatti e beni per 2,9 miliardi alla mafia. Tra sprechi nella Pubblica Amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Lo evidenzia il Rapporto annuale della Guardia di Finanza. Illegale un appalto su tre - In particolare, appalti pubblici per oltre un miliardo, quasi un terzo del totale (3,5 miliardi il valore degli appalti controllati e monitorati), sono stati assegnati in maniera illegale nel 2015. I finanzieri, inoltre, hanno denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate. Evasori in crescita - Aumentano anche gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi 8mila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 nel 2015. Dal Rapporto annuale delle Fiamme Gialle, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi. Irregolari il 30% delle sale giochi - Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi. Dal Rapporto annuale emerge inoltre che sono stati sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. I finanzieri, inoltre, hanno scoperto oltre 36 milioni di giocate nascoste al fisco. Contraffatti 390 milioni di prodotti - Nello scorso anno le Fiamme Gialle hanno sequestrato oltre 390 milioni di prodotti contraffatti e pericolosi, per un valore stimato di circa 3 miliardi. Complessivamente, dice inoltre il Rapporto annuale, sono state tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione della normativa sul made in Italy e sequestrati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti. Sequestrati alla mafia 2,9 miliardi - Beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di 2,9 miliardi sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza nel 2015. Il dato è contenuto nel Rapporto Annuale dal quale emerge che sono stati eseguiti accertamenti patrimoniali a carico di 9.180 soggetti condannati o indiziati di appartenere ad associazioni mafiose e prestanome, e 2.182 società. Le confische hanno invece riguardato 1.819 beni mobili e immobili, 93 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per 747 milioni. Associazione Nazionale Magistrati, sconfitte le toghe di sinistra di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 marzo 2016 Nelle elezioni per il sindacato unico, giudizio pesante sui primi anni senza l’assillo di Berlusconi al governo. Area perde quasi il 20% e paga le accuse di collateralismo con il governo Renzi, vince ancora Unicost. Molto bene la novità D’Avigo, meno bene la sua lista. Alla prova del voto dopo quattro anni di governo del sindacato unico dei magistrati - i primi quattro anni senza l’antagonista storico, Berlusconi, a palazzo Chigi - le toghe di sinistra risultano sconfitte. Riunite nella lista di Area come quattro anni fa, le "toghe rosse" perdono nel complesso tra il 18 e il 20 per cento dei voti - le elezioni per il rinnovo del parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati si sono chiuse martedì ma mancano ancora i risultati definitivi di Cagliari e Perugia. Il risultato per la sinistra è doppiamente amaro perché Unicost, la corrente moderata dei magistrati che ha condiviso il governo dell’Anm con Area in questi anni, suo il presidente uscente Rodolfo Sabelli, ha aumentto i voti ed è uscita vincitrice dalle elezioni, alle quali hanno partecipato (in leggera crescita) circa settemila magistrati italiani; l’Anm ne rappresenta poco più di ottomila sui novemila totali. Novità di questa consultazione, la lista Autonomia e indipendenza nata dalla scissione di Magistratura indipendente, la corrente di destra-centro, non è riuscita nel sorpasso alla lista di provenienza: insieme però le due fazioni hanno aumentato del 50% i voti di centrodestra rispetto a quattro anni fa e assorbito i consensi di Proposta B, uno schieramento che nel 2012 era contro tutte le correnti. Il leader di Autonomia e indipendenza, il giudice ex componente del pool Mani pulite Piercamillo Davigo, ha raccolto su di sé un buon consenso, anche se non eccezionale come molti prevedevano - curiosamente è andato meno bene proprio a Milano e in Cassazione, dove è consigliere da oltre dieci anni. Tra i 36 componenti del nuovo comitato direttivo centrale dell’Anm, Area ha eletto il sostituto procuratore di Roma Eugenio Albamonte, il giudice della sezione famiglia di Napoli Stefano Celentano, il sostituto procuratore di Milano Luca Paniz, il pg di Cassazione Luigi Orsi (che ha da poco lasciato la procura di Milano dov’era in polemica con l’ex procuratore Bruti Liberati), il capo dell’ufficio gip di Lecce Alcide Maritati (figlio dell’ex senatore e sottosegretario Alberto), Titti Potito, giudice del tribunale di Bari. Nelle altre liste, premiati Corrado Cartoni, giudice civile a Roma per Mi, Giuliano Caputo, sostituto procuratore di Santa Maria Capua Vetere per Unicost e - assieme a Davigo, unico tra tutti i candidati a superare quota mille preferenze, con un boom a Napoli - Alessandro Pepe, giudice del tribunale di Napoli, per Autonomia e indipendenza. In piena campagna elettorale, la lista di Davigo, all’opposizione con Magistratura indipendente, ha promosso per la prima volta un referendum consultivo all’interno dell’Anm, chiedendo la definizione di carichi massimi di lavoro per i magistrati e sette giorni di sciopero di protesta contro la scopertura degli organici. Battaglie marcatamente sindacali che hanno gonfiato il malcontento verso la giunta Unicost-Area, assieme all’accusa di collateralismo con il governo Renzi e il ministro Orlando. Magistratura democratica e gli ex "verdi" del Movimento per la giustizia, riuniti in Area, hanno pagato questa situazione più di Unicost: il risultato delle urne rende improbabile la riproposizione della stessa alleanza. "Paghiamo difficoltà di lavoro sul territorio e lo spostamento della magistratura verso richieste schiettamente sindacali", è la prima analisi di Titti Potito, secondo la quale "le ferie non sono tutto, nel senso che noi non siamo lavoratori come gli altri visto che maneggiamo i diritti dei cittadini, una migliore organizzazione ha senso se è funzionale a una migliore giustizia". Ma Area sconta anche qualche errore tattico, secondo Luca Paniz: "Sbagliando ci siamo schierati contro i referendum definendoli demagocici, mentre Unicost ha lasciato libertà di voto ai suoi iscritti, riuscendo così a gestire il malcontento da una posizione di governo. Area non è stata appiattita sull’esecutivo, tutt’altro, ma è possibile che in certi passaggi abbia rischiato di dare questa impressione". La riforma bipartisan: l’avvocato di chi viene assolto dovrà pagarlo lo Stato di Mariateresa Conti Il Giornale, 10 marzo 2016 La campagna di Panorama sbarca al Senato: ddl per risarcire gli innocenti In 176 hanno firmato il testo. Finora l’indennizzo solo per ingiusta detenzione. Sei stato messo sotto accusa ingiustamente? Hai dovuto affrontare un processo e magari dopo anni ti sei sì ritrovato assolto, ma nel frattempo hai speso migliaia e migliaia di euro per far valere la tua innocenza in un’aula di giustizia? Finora la legge prevede un indennizzo - e pure quello è difficile ottenerlo - solo per chi è finito in galera. Ma adesso un ddl, promosso dal senatore di Ap Gabriele Albertini, potrebbe sanare questo vuoto normativo, che fa dell’Italia un’anomalia visto che ben 32 Paesi europei, e anche gli Stati uniti, prevedono forme di risarcimento in caso di ingiusta imputazione. E l’iter potrebbe anche essere non troppo accidentato, visto che il testo di riforma, elaborato dall’ex sindaco di Milano, in un sol giorno ha raccolto ben 175 firme di altrettanti senatori. Un successo, e per di più bipartisan visto che la battaglia, trasversale, unisce tutto il panorama politico, da Forza Italia a Sel. Il ddl che, modificando l’articolo 530 del codice di procedura penale, vuol introdurre il pagamento delle spese legali da parte dello Stato per chi, accusato ingiustamente, si ritrovi assolto con formula piena, trae la sua origine da un’inchiesta del settimanale Panorama firmata da Maurizio Tortorella. È dei primi di febbraio la copertina del settimanale Sei innocente? Lo Stato deve pagarti l’avvocato. All’interno, un’articolata analisi di quello che indubbiamente è un vulnus della già malata giustizia italiana, visto che su circa 1,2 milioni di nuovi processi penali che vengono istruiti ogni anno oltre metà si chiude con un’assoluzione. Nell’articolo Tortorella cita un caso emblematico, quello di Raffaele Sollecito, imputato dell’omicidio di Meredith Kercher e alla fine assolto: spese legali monstre, 1,3 milioni. E anche casi meno noti, come quello del professionista accusato di bancarotta fraudolenta e assolto, che si è visto bocciare nel 2008, dalla Cassazione, la richiesta di essere risarcito: perché, appunto, la legge non prevede indennizzi per chi non va in galera, anche se l’inchiesta aveva rovinato la sua carriera professionale. A raccogliere la sfida lanciata da Panorama, il senatore Albertini. E il giornale in edicola oggi esulta: il ddl nato dalla campagna del settimanale ha avuto, in un sol giorno - lo scorso 3 marzo - ben 175 adesioni, 176 se si tiene conto anche del primo firmatario Albertini. Un’alleanza trasversale che va dal Pd alla Lega Nord, da Forza Italia a Sel. Un’adesione molto larga e assolutamente bipartisan. Unici assenti i Cinque stelle, che hanno chiesto di consultarsi tra loro prima di aderire. Un consenso larghissimo, ha firmato persino il senatore a vita Carlo Rubbia. Cosa prevede il ddl sull’ingiusta imputazione? In pratica si interviene sull’articolo 530 del codice di procedura penale, quello che regolamenta l’assoluzione dell’imputato. Al testo attuale il ddl propone di aggiungere: "Se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate. Se ricorrono giusti motivi il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti. Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale". Nel dettaglio, hanno firmato il testo 56 senatori del Pd, 31 di Forza Italia, 23 di Ap, otto del Carroccio. E poi Sel, Fratelli d’Italia, insomma, tutti. Un buon inizio per una riforma necessaria e attesa da tanti innocenti ingiustamente processati. Caso Cucchi, la Cassazione: "L’inerzia dei medici fu ingiustificabile" di Biagio Chiariello fanpage.it, 10 marzo 2016 Sono state pubblicate le motivazioni ufficiali che lo scorso 15 dicembre hanno portato la Corte Suprema ad annullare l’assoluzione di cinque medici, disposto un appello-bis per omicidio colposo e confermato l’assoluzione di tre agenti dell’ospedale Pertini, dove Stefano fu ricoverato dopo l’arresto per droga. Sulla morte di Stefano Cucchi non sono state fornite "spiegazioni esaustive e convincenti". È quanto si legge nella sentenza depositata oggi dalla quinta sezione penale della Cassazione, che fornisce le motivazioni ufficiali che lo scorso 15 dicembre ha portato ad annullare l’assoluzione di cinque medici dell’ospedale Pertini, quello dove era stato ricoverato il geometra romano fermato per droga e deceduto dopo una settimana. In quell’occasione la Suprema Corte ha decise di confermare l’assoluzione di tre agenti della penitenziaria e di disporre un processo d’appello bis nei confronti di 5 specialisti del nosocomio capitolino coinvolti nel caso Cucchi: il primario Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. Perché i medici dovranno affrontare un nuovo processo - In particolare, i giudici della Cassazione evidenziano che i medici del Pertini avevano una "posizione di garanzia" a tutela della salute di Stefano Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare "con precisione" la sua patologia anche in presenza di una "situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico". A questo punto, nel nuovo processo dovrà stabilire se vi siano state condotte omissive da parte dei medici per impedire il decesso del ragazzo. Più nello specifico, si legge nelle motivazioni della Cassazione, dovrà essere chiarita "la concreata organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza e ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella vicenda". "Senza dimenticare - prosegue la sentenza dei giudici di piazza Cavour - che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti". Le testimonianze di chi vide Cucchi in Tribunale - La Suprema Corte riporta poi le dichiarazioni di due assistenti della polizia penitenziaria, che si occuparono di Cucchi nel carcere di Regina Coeli, e di un’infermiera del Pertini, "i quali tutti hanno riferito - si legge nella sentenza - di avere appreso da Cucchi di essere stato picchiato dai Carabinieri". I giudici della Cassazione riportano anche la testimonianza di una donna, che, nelle celle occupate dagli arrestati in attesa di partecipare all’udienza di convalida, avrebbe parlato con Cucchi, sottolineando che il giovane presentava lividi sul viso, dal quale aveva appreso di essere stato picchiato dagli ‘agenti che lo avevano arrestatò". Ma ci sarebbero anche le testimonianze di alcuni carabinieri che entrarono in contatto con Stefano prima che fosse trasferito in tribunale: "tutti hanno concordemente riferito - si legge nella sentenza - che il ragazzo presentava sul volto dei segni (occhiaie, rossori, rigonfiamenti) compatibili con possibili percosse ricevute", come affermato "con disarmante sicurezza e semplicità" da uno dei testi (uno dei carabinieri della stazione Casilina, che portarono Cucchi dalla stazione di Tor Sapienza in tribunale) che disse "era chiaro che era stato menato". La Cassazione accusa anche i giudici di merito - Ma la Cassazione punta il dito anche contro i giudici di merito per "avere giustificato l’impossibilità di giungere ad una decisione in termini di responsabilità, anche per l’assenza di precise linee guida nel trattamento della sindrome da inanizione per la complessità e oscurità e atipicità delle condizioni di salute di Cucchi". Le linee guida, infatti, osserva la Suprema Corte "non eliminano l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche, giacché questi è sempre tenuto a prescegliere la migliore soluzione curativa, considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici". La Cassazione sul caso Cucchi "Inascoltati i testi contro i Carabinieri" di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 10 marzo 2016 C’erano testimonianze che portavano ai Carabinieri, ma non si sono ascoltate. C’era superficialità nella perizia medica che, "parcellizzando" le lesioni, ne ridimensionava il valore "probatorio", ma nessuno ci fece caso. E c’erano testimoni delle lesioni e della sofferenza di Stefano Cucchi durante la convalida dell’arresto, ma, nella prima inchiesta, nessuno le considerò. Nel bocciare la prima inchiesta sulla vicenda Cucchi, i giudici della Cassazione osservano che furono trascurate diverse testimonianze. Versioni che smentivano le parole di Samura Yaya, il testimone "uditivo" al quale i pm della prima inchiesta si erano affidati completamente e che accusava la penitenziaria del pestaggio nei confronti di Cucchi. La Cassazione li elenca. C’era il carabiniere Mario Cirillo che, vigilando sul corridoio davanti alle celle, non vide nessun movimento attorno a quella di Cucchi. E che dunque portava ad escludere la tesi del pestaggio in cella. C’era la donna in attesa della convalida del proprio arresto, Anna Maria Costanzo, che parlando con Cucchi apprese che era stato picchiato "dagli agenti che l’avevano arrestato". E c’erano altri due detenuti, Stefano Colangeli e Vilbert Lamaj, che, nelle stesse celle, "non hanno riferito di alcuna aggressione ma solo di aver sentito Cucchi lamentarsi e accusare dolori già prima dell’ora in cui sarebbero avvenuti i fatti descritti da Samura Yaya". Infine, come sottolineato dal pg Nello Rossi nella sua requisizione di dicembre scorso, c’era la testimonianza di altri carabinieri. In particolare quella di Pietro Schirone che "con disarmante sicurezza e semplicità" testimoniò: "Era chiaro che era stato menato". Infine c’erano le parole degli assistenti di polizia penitenziaria Bruno Mastrogiacomo e Mauro Cantone che essendosi occupati di Cucchi durante la detenzione iniziale a Regina Coeli riferirono di aver appreso dallo stesso Cucchi di essere stato picchiato dai carabinieri. Versione confermata anche dall’infermiera del Pertini Silvia Porcelli. Alla luce di tutto ciò anche "il battibecco non consono all’aula" condito da insulti rivolti da Cucchi ai carabinieri in divisa nell’aula del gip si spiega meglio: è la rabbia di chi sentiva di aver subito un’ingiustizia. Resta reato la coltivazione di cannabis di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2016 La coltivazione di cannabis per uso personale resta un reato. A confermarlo è la Corte costituzionale, dalla quale ieri è arrivata, attraverso un comunicato, la notizia della infondatezza della questione di legittimità posta dalla Corte di appello di Brescia sul trattamento sanzionatorio. Il comunicato puntualizza anche che la decisione, le cui motivazioni saranno depositate tra qualche tempo, è stata presa nel solco delle precedenti pronunce in materia. La Corte d’appello di Brescia era tornata a sollecitare l’esame di costituzionalità alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza e della legislazione sugli stupefacenti. L’ordinanza di rinvio, vecchia di un anno (era il 10 marzo del 2015), metteva in evidenza così l’irragionevolezza e la violazione del principio di uguaglianza determinata dall’applicazione degli articoli 73 e 75 del Testo unico sulle droghe (Dpr 309/90). Da una parte infatti è penalmente irrilevante la condotta di chi detiene stupefacenti in precedenza coltivati o altrimenti prodotti a condizione che la sostanza sia destinata al consumo personale; dall’altra, invece, si prevede la sanzione penale per chi è sorpreso a coltivare e produrre stupefacenti da destinare al proprio consumo personale. Non solo, per i giudici bresciani la previsione di una sanzione penale detentiva e pecuniaria a carico del coltivatore a uso personale è in contrasto anche con il principio di offensività. Infatti, l’incriminazione della di una condotta che non ha come obiettivo la cessione a terzi dello stupefacente coltivato è, nella lettura della Corte d’appello, del tuto estranea alla lesione o messa in pericolo dei valori che la norma intende tutelare (la salute e l’ordine pubblico). Del resto, ricordava ancora l’ordinanza, la tutela della salute o dell’incolumità personale da atti autolesivi, come nel caso del consumo di tabacchi o alcolici, è estranea all’intero ordinamento penale. Argomenti che però non hanno fatto breccia nella Corte costituzionale. Il richiamo ai precedenti non può allora che riferirsi innanzitutto alla sentenza, la n. 360, con la quale nel 1995 la Consulta respinse la questione di legittimità nella stessa materia. Allora, la Corte costituzionale sostenne, tra l’altro, la difficoltà di collegamento tra coltivazione e consumo personale. Soprattutto a confronto con altre condotte come quelle di detenzione, acquisto e importazione, nelle quali il quantitativo di sostanza è certo e determinato, agevolando il giudizio sulla destinazione a consumo personale. Non si può invece dire lo stesso per quanto riguarda la coltivazione: la quantità di prodotto ricavabile dalla coltura in atto non è certa "sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili". Inoltre la Consulta ricordava che, in termini di offensività, la coltivazione può potenzialmente arricchire il mercato delle sostanze stupefacenti e le occasioni di spaccio. Si possono concedere le attenuanti generiche allo spacciatore con un reato alle spalle di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 9 marzo 2016 n. 9839. Al soggetto condannato per spaccio non può essere disconosciuta l’applicazione dell’attenuante generica in funzione di reati (reali e presunti) commessi in passato. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 9839/2016. La Corte, non potendo entrare nel merito, si è limitata a giustificare il capo di imputazione di spaccio di droga. Questo era basato su una serie di elementi che conducevano a ritenere che lo stupefacente non fosse destinato a uso personale. Circostanze per lo spaccio - Il soggetto, infatti, era stato fermato su una strada con dosi già pronte per essere vendute, si trovava in un punto conosciuto per lo smercio di stupefacenti e nel marsupio era stata ritrovato anche del denaro di dubbia provenienza. Queste circostanze analizzate nel loro insieme avevano portato a una condanna prossima a un anno e mezzo. Contro la sentenza è stato proposto appello. Le circostanze che hanno convinto i giudici a decretare la colpevolezza del giovane, non sono state messe in discussione perché come affermato dalla stessa Corte non sarebbe stato possibile riesaminare la vicenda nel merito. Certo è che i Supremi giudici hanno accolto la richiesta presente nel quarto motivo di ricorso e relativa alla mancata concessione delle attenuanti ex articolo 62 del cp. Elementi da valutare per le attenuanti - Nella sentenza si legge, infatti, che se da un lato è vero che il giudice può prendere in esame, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche, anche uno solo tra gli elementi previsti dall’articolo 133 del codice penale, dall’altro è necessario che di tale elemento deve essere indicata la idoneità a escludere la valutazione favorevole alla base del giudizio di cui all’articolo 62 cp. La decisione di merito, tuttavia, oltre a un generico riferimento alla personalità dell’imputato ha fatto riferimento altrettanto superficialmente ai "precedenti penali" (pur a fronte della reclamata sussistenza di un solo precedente attinente reato di altra natura quale il furto). Il ricorso - per concludere - è stato rigettato per la contestazione della pena comminata ma la sentenza è stata annullata con riguardo al giudizio di concedibilità delle circostanze attenuanti generiche. Lo stato di ebbrezza non esclude il dolo di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2016 Corte d’appello di Cagliari - Sentenza 9 novembre 2015, n. 1304. La condotta di chi danneggia il cancello di un’abitazione di proprietà altrui e oppone resistenza agli agenti di polizia deve ritenersi sorretta da dolo anche se chi agisce è ubriaco. L’essersi volontariamente ubriacato è una circostanza del tutto irrilevante e non incide sull’elemento psicologico del reato, per la cui esistenza non serve una lucida analisi della realtà, ma solo l’attivarsi in maniera razionale per realizzare l’evento. I giudici non hanno accolto la tesi opposta sostenuta dell’imputato. L’amministratore di sostegno assiste la persona negli interessi patrimoniali ma non la "cura" Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2016 Corte di Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 26 febbraio 2016 n. 7974. L’amministratore di sostegno, in mancanza di previsioni specifiche nel decreto di nomina, "non assume una posizione di garanzia rispetto al beni della vita e dell’incolumità individuale del soggetto incapace". Lo la precisato la corte di Cassazione, quinta sezione penale, con la sentenza 26 febbraio 2016 n. 7974. Il caso - Tutto parte dall’incriminazione di un amministratore di sostegno "colpevole" di aver abbandonato la persona incapace per un fine settimana, anziana che era stata poi soccorsa dal 118 e trovata in pessime condizioni igieniche, senza cibo e bevande, totalmente disidratata e disorientata nello spazio e nel tempo. L’amministratore di sostegno si era difeso ricordando che nello svolgimento del suo compito deve tener conto delle richieste del beneficiario. Nel caso specifico il soggetto incapace aveva più volte richiesto di rimanere a vivere a casa propria con l’aiuto di una badante e del figlio sia pure non convivente. Uno soluzione accettata anche Unità di valutazione distrettuale. La decisione - Una difesa accettata dai giudici di legittimità che hanno annullato la sentenza di condanna dell’amministratore di sostegno perché il fatto non sussiste. I magistrati hanno ricordato che nello svolgimento dei propri compiti l’amministratore di sostegno deve sempre tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario e a questo dovere di ascolto si accompagna l’obbligo di informare il beneficiario degli atti da compiere e in caso di dissenso di informare il giudice tutelare. Quindi, spiega la sentenza, "che pur avendo un dovere di relazionare periodicamente (secondo la scadenza temporale stabilita dal giudice) sull’attività svolta e sulle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, il compito dell’amministratore di sostegno resta fondamentalmente quello di assistere la persona nella gestione dei propri interessi patrimoniali e non anche la "cura della persona". Limiti di tempo per l’accesso ai tabulati telefonici per finalità di investigazioni difensive di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2016 Corte di cassazione - Sezione I civile -Sentenza 28 gennaio 2016 n. 1625. Una volta trascorsi 24 mesi, è precluso ai privati l’accesso e il conseguente utilizzo dei dati del traffico telefonico per finalità di investigazioni difensive, in relazione a procedimenti penali per reati diversi da quelli indicati dall’articolo 407 comma 2 lettera a) del Cpp. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 1625/2016 applicando l’articolo 132 del Codice della privacy (Dlgs 196/2003) nella versione risultante dalle modifiche apportate dal Dl 144/2005 utilizzabile ratione teporis alla fattispecie. Il caso - Protagonista della vicenda è un signore imputato in un procedimento penale per il reato di cui all’articolo 416 del codice penale, che a fine 2006 aveva chiesto ad una società operante nel settore telefonico di accedere ai tabulati di una utenza mobile relativi al periodo 2001-2004. L’istanza di accesso era motivata dalla esigenza di procedere ad investigazioni difensive in relazione al processo penale a suo carico. La società, tuttavia, rigettava tale istanza in quanto tardiva e il diniego di accesso ai tabulati telefonici veniva confermato prima dal Garante per la protezione dei dati personali ed in seguito dal Tribunale di Milano. In sostanza, alla base del rigetto vi era l’applicazione dell’articolo 132 del Codice della privacy (Dlgs 196/2003) - nel testo applicabile ratione temporis - che prevedeva un termine di 24 mesi, a disposizione dei privati, per l’accesso ai dati delle conversazioni telefoniche in relazione alla finalità di accertamento e repressione dei reati. L’uomo riteneva, invece, che la società avrebbe dovuto conservare i dati telefonici per 48 mesi, in quanto per il reato di associazione a delinquere - e per tutti i reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, a norma dell’articolo 270 Cpp - doveva applicarsi l’articolo 132 comma 2 del Codice della privacy, che prevedeva l’ulteriore termine di 24 mesi. Inoltre, la mancata conservazione dei dati da parte della società avrebbe violato il diritto di difesa dell’imputato. La decisione - La questione arriva in Cassazione dove i giudici di legittimità confermano la bontà della decisione di merito. La Corte spiega, infatti, che l’ulteriore termine di 24 mesi richiesto dal ricorrente - "entro il quale il difensore dell’imputato o della persona indagata poteva chiedere direttamente al fornitore i dati relativi al proprio assistito" - era in realtà previsto solo per l’accertamento e la repressione dei reati di cui all’articolo 407 comma 2 lettera a) del Cpp e di quelli in danno dei sistemi informatici o telematici, non essendo, dunque, pertinente il richiamo all’articolo 270 Cpp fatto dal ricorrente. Ciò posto, la Corte ritiene che la mancata conservazione dei dati da parte della società non abbia leso il diritto di difesa del ricorrente. Difatti, il bilanciamento del "diritto dei terzi coinvolti nei dati di traffico telefonico alla segretezza delle comunicazioni e il diritto di difesa al quale è funzionale l’esigenza investigativa dei privati richiedenti l’accesso" è stata effettuata direttamente e discrezionalmente dal legislatore, il quale ha individuato un lasso di tempo distinto a seconda della tipologia di reato interessato, trascorso il quale il diritto di accesso finalizzato alle esigenze investigative non può più essere esercitato. Riforma del processo civile, la montagna e il solito topolino di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2016 La commissione Giustizia ha detto sì al ddl per la riforma del processo civile. La relazione che lo accompagna contiene le critiche e le proposte che sono apparse su questo giornale a far data dal 2014, in una serie di articoli che ho scritto sull’argomento. Il che è una bella soddisfazione: che il processo civile sia "un rito farraginoso", che lo scambio di memorie tra gli avvocati prima di iniziare l’istruttoria sia una inutile perdita di tempo (tra 9 mesi e un anno), che chi si imbarca in una causa sapendo di avere torto deve essere sanzionato con multe pesantissime; tutto ciò non è più solo il parere di un ex magistrato che ce l’ha con gli avvocati, lo dice il governo della Repubblica. E tuttavia non mi aspetto molto di buono. Al contrario della relazione, il testo del futuro ddl è misero. Risolvere i problemi del processo civile in primo grado delegando il governo a "garantire la ragionevole durata del processo, in particolare mediante la revisione della disciplina delle fasi di trattazione e di rimessione in decisione nonché la rimodulazione dei termini processuali" dà tanto l’idea di una montagna che ha partorito un topolino. Risultato probabilmente non casuale poiché tutti sanno benissimo che abolire il carosello delle memorie pre e post istruttoria è ipotesi che farà insorgere l’avvocatura; sicché una delega sostanzialmente priva di contenuto è proprio quello che ci vuole per evitare rogne: la legge vera - vedrete - sarà un’altra cosa. E poi il solito problema: "All’attuazione delle disposizioni della presente legge si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica". Ora, accorciare i tempi dei processi è un’ottima cosa: però questo significa che il numero di sentenze da scrivere in un anno aumenterà; anche di molto, se i tempi si accorciano di molto. E chi le scriverà? Oggi la media è sulle 200 sentenze all’anno per magistrato. In un anno ci sono circa 270 giornate lavorative, compresi i sabati e al netto delle ferie (30 gg anche per i magistrati, adesso). Dunque, già nella situazione attuale, si scrivono 1,... sentenze al giorno, lavoro cui vanno aggiunte le udienze. Quando i processi maturi per la sentenza saranno 400 o più invece di 200, chi le scriverà tante sentenze? Dunque, è ovvio, serviranno più giudici; che non ci saranno per via della clausola di invarianza finanziaria. Ancora. Non ha nessun senso sproloquiare sulla istituzione presso i Tribunali di Sezioni specializzate per la famiglia che dovrebbero comprendere anche gli attuali Tribunali per i minorenni: è solo un cambio di etichetta. Le Sezioni famiglia ci sono già; i Tribunali per i minorenni diventeranno anche loro Sezione specializzata, a competenza invariata. Una riforma di facciata, priva di contenuto concreto: stessi giudici, stesso lavoro. Infine, un pessimo segnale: i Tribunali delle Imprese passano da 9 a 21, anche in questo caso utilizzando i giudici già esistenti. Erano nati per concentrare professionalità e competenze specifiche in un settore molto difficile e complesso. Guarda caso aumentano. Dunque più magistrati presidenti e più avvocati con studio nel territorio dove hanno sede questi Tribunali, il che vuol dire più occasioni di lavoro. Comunque è solo un disegno di legge delega; magari sono critiche premature. Però a pensar male... Servono meno avvocati, ma più bravi di Mario Napoli* La Stampa, 10 marzo 2016 Nel dibattito sulla riforma della Giustizia, lodevolmente promosso da "La Stampa", una voce non secondaria riguarda l’Avvocatura: una Avvocatura "alta", cioè corretta e preparata, è garanzia di una giurisdizione altrettanto virtuosa e facilita l’opera del magistrato. L’opera di chi difende (all’avvocato la legge assegna la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti) e quella di chi giudica rappresentano vasi comunicanti: inevitabilmente pregi e difetti possono tracimare dall’uno all’altro. Il nodo centrale è uno solo e cioè che il livello qualitativo, professionale ed etico, dell’Avvocatura è inevitabilmente diminuito nel tempo con l’aumentare della quantità degli iscritti: negli ultimi trent’anni gli avvocati sono passati dai 37.495 iscritti alla Cassa forense del 1985 agli oltre 235.000 alla fine dell’anno scorso, una crescita del tutto sproporzionata rispetto a quella dell’utenza se vero è che il rapporto con la popolazione residente è passato da 0,7 avvocati ogni mille abitanti del 1985 all’attuale dato di 3,9 (si tratta di un riferimento medio nazionale, ancora differenziato tra il 2,2 della nostra regione ed il 6,6 di una regione del Sud). Se, dunque, si vogliono tracciare i binari lungo i quali fare correre nuove norme disciplinanti la professione di avvocato, la prima (se non l’unica) preoccupazione dovrebbe riguardare l’accesso, con l’obiettivo di incidere sull’attuale patologico livello quantitativo, perché così facendo migliorerebbe anche la qualità della prestazione: una Avvocatura contenuta e migliore (il rapporto italiano avvocati/giudici mediamente è tre volte quello europeo) abbasserebbe i toni del contenzioso e potrebbe rappresentare, come per tanti anni è avvenuto, il principale filtro alla giurisdizione evitandone l’intasamento (l’avvocato deve essere il pubblico ministero più rigoroso nel consigliare il suo assistito). Naturalmente, perché ciò non costituisca un abbassamento nella tutela dei diritti dei cittadini, si dovrà potenziare il patrocinio a spese dello Stato ed il suo effettivo controllo, affinché sia assicurata una adeguata difesa a chi è nel giusto e non dispone di mezzi sufficienti. Come sarà possibile calmierare l’offerta degli avvocati senza ricorrere al numero chiuso? Occorrerà riservare l’accesso alla pratica ed all’esame per avvocato ad un corso di laurea al quale possano mantenere la frequentazione solo gli studenti che abbiano ottenuto una media molto alta nei primi anni: la selezione, dunque, sarà solo meritocratica, ogni anno potrà variare e non dipenderà da un numero chiuso di dubbia legittimità e certamente ingiusto. Mi sia consentita, inoltre, una breve parentesi che si stacca dai binari del futuro per ricadere pesantemente ai giorni nostri, sul ddl "concorrenza" in discussione in questi giorni in Parlamento e sul previsto ingresso di soci di puro capitale (cioè non avvocati) nelle nostre società professionali. La previsione del ddl, non solo annienterà l’indipendenza ed il segreto professionale, ma andrà palesemente contro gli stessi obiettivi che il legislatore parrebbe essersi posto: da un lato diminuirà e non aumenterà la concorrenza perché ci saranno grosse concentrazioni e molti studi scompariranno; e dall’altro crescerà enormemente il contenzioso perché sarà impossibile spiegare ad un socio di capitale le ragioni che ogni giorno portano gli avvocati a prodigarsi per una conciliazione (sconveniente sotto l’aspetto parcellare) prima di ricorrere al Giudice. E così aumenteranno le cause perché saranno più redditizie e costituiranno l’unico riferimento interessante per un socio investitore. Tornando alle prospettive di riforma, molti altri aspetti potrebbero essere toccati anche se è parere di chi scrive che questi inciderebbero in maniera ben più contenuta sulla professione di avvocato di quanto possano fare nuove regole di accesso. Quel che certo non possiamo permetterci è non pensare ad un intervento forte e totale, anche scomodo e difficile ma che eviti la lenta eutanasia dei valori istituzionali dell’Avvocatura: chi vive alla giornata, nel mondo delle istituzioni, muore al crepuscolo. *Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino Puglia: dal Consiglio regionale "molta attenzione alle condizioni delle carceri" Ansa, 10 marzo 2016 Le pene detentive non carcerarie e la riforma del sistema sanzionatorio saranno al centro del convegno "La nuova esecuzione penale nella Legge delega n. 67/2014", organizzato dal Consiglio regionale della Puglia, in collaborazione con l’ufficio del garante e la casa circondariale di Bari, ed in programma venerdì prossimo 11 marzo, alle 15, nell’Aula consiliare. L’incontro è stato presentato oggi in conferenza stampa dal presidente dell’assemblea legislativa pugliese, Mario Loizzo, dal garante regionale dei diritti dei detenuti, Pietro Rossi, dal direttore della casa circondariale di Bari, Lidia De Leonardis, e il responsabile pedagogico Tommaso Minervini. "Il Consiglio ha a cuore il tema del miglioramento della condizione carceraria ed in prima persona - ha spiegato Loizzo - sto cercando di impegnarmi fino in fondo, con la costante attenzione che merita un settore da seguire quotidianamente, non solo in seguito ad episodi o casi drammatici di cronaca. C’è ad esempio la questione della sanità carceraria, delicatissima e sottovalutata. Stiamo provando - ha aggiunto - a qualificare l’azione del governo regionale e nella nuova riorganizzazione del Consiglio arriveremo a strutturare una sezione dedicata al garante dei minori e dei detenuti". "Una centralità che - secondo Rossi - fa onore all’Assemblea ed è una vera scelta culturale". "D’altronde la Puglia è la prima Regione ad indicare come riempire di contenuti lo svuotamento delle carceri - ha sottolineato Minervini - per garantire il recupero di chi ha sbagliato ma anche la sicurezza della comunità civile". "C’è la possibilità, anche grazie alla legge delega la 67 del 2014, di realizzare un vero cambiamento e la Puglia - ha concluso De Leonardis - sarà la prima che sperimenterà un progetto di inclusione sociale attraverso l’affidamento al terzo settore di una fascia di detenuti che non hanno commesso reati di allarme sociale". Al convegno è prevista la partecipazione dei capi di Gabinetto dei ministri della Giustizia e del Tesoro, consiglieri Giovanni Melillo e Roberto Garofoli, del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, degli assessori regionali al lavoro e al Welfare, Sebastiano Leo e Salvatore Negro, del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone e di altre personalità del mondo giuridico, penitenziario e dell’associazionismo sociale. Firenze: accordo Comune-Tribunale per l’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità Ansa, 10 marzo 2016 Dieci tra detenuti, ex detenuti e sottoposti ad esecuzione penale esterna e di messa alla prova potranno svolgere lavori di pubblica utilità in modo non retribuito e a favore della collettività in uffici, servizi e strutture comunali per favorire il loro reinserimento sociale: lo ha deciso la Giunta nella seduta di ieri, approvando la delibera presentata dall’assessore al welfare Sara Funaro, in collaborazione con gli assessorati all’Ambiente e allo Sport, nella quale vengono indicati alla direzione servizi sociali gli indirizzi per redigere la convenzione da stipulare con il Tribunale di Firenze per realizzare percorsi di risarcimento del danno. I lavori di pubblica utilità potranno svolgersi presso biblioteche e impianti sportivi (palestre piscine campi di atletica), ma anche presso le Direzioni Servizi sociali (ad esempio, le persone coinvolte potranno accompagnare anziani e disabili nei centri diurni e residenziali) e Ambiente (nello specifico, svolgendo servizi presso il Parco degli animali e per la cura del verde). Con la messa alla prova viene sospeso il giudizio e nel caso abbia esito positivo, la persona non va a giudizio e la pena viene cancellata. "La convenzione che a breve firmeremo con il Tribunale dimostra l’importanza che attribuiamo ai percorsi di reinserimento sociale che puntano alla rieducazione - ha detto l’assessore Funaro. Vogliamo dare la possibilità a detenuti, ex detenuti e sottoposti ad esecuzione penale esterna e di messa alla prova la possibilità di intraprendere percorsi riparativi o sostitutivi della pena perché crediamo con convinzione che possono essere un buon esempio per far vivere alle persone un percorso temporaneo lavorativo che può servire come rieducazione e reinserimento". Le persone che si impegneranno nei lavori di pubblica utilità, che non potranno svolgersi per più di 300 giornate l’anno, saranno tutte assicurate contro gli infortuni, le malattie professionali e la responsabilità civile verso terzi. Porto Azzurro (Li): dopo la rissa gruppo di carcerati trasferito dalla Casa di reclusione quinewselba.it, 10 marzo 2016 Un folto gruppo di carcerati è stato trasferito dalla Casa di reclusione elbana presso altri istituti dopo i fatti violenti del fine settimana. Non poteva certo passare inosservato il trasferimento in massa dei detenuti dal carcere elbano. L’esodo è infatti avvenuto sul lungomare di Porto Azzurro bloccando il traffico in via Adami e impiegando un notevole dispiegamento di forze fra Polizia Penitenziaria, Carabinieri e agenti di Polizia Municipale. Nonostante le dichiarazioni di prammatica pare evidente come questa sia la risposta ai fatti violenti avvenuti in carcere nelle giornate di sabato e domenica quando un detenuto campano ha aggredito altri due carcerati ferendoli in maniera grave e lo stesso è poi stato vittima di un pestaggio all’interno delle mura del forte elbano. I due gruppi oggetto del trasferimento rispecchiavano infatti le nazionalità dei soggetti coinvolti nella rissa prima e nel regolamento di conti poi: un gruppo era composto da reclusi di nazionalità albanese e un gruppo di italiani, di origine campana. I detenuti sono stati trasferiti con la nave delle 16 da Portoferraio e destinati a diversi istituti carcerari così da separare gli elementi uni dagli altri. Vicenza: intimidazioni ed esposti, medici subiscono i metodi polizieschi degli agenti di Maria Grazia Lucchiari (Nessuno tocchi Caino) vicenzapiù.com, 10 marzo 2016 Agenti di Polizia penitenziaria che contestano i medici del carcere sulla opportunità dei ricoveri dei detenuti in ospedale e che vengono accettati ed eseguiti solo dopo tensioni e mediazioni. Abuso dello screening tossicologico: in assenza dell’autorizzazione del magistrato gli agenti scelgono la persona da sottoporre alle analisi dell’urina imponendo ai medici di eseguire i test, pratica cessata da un anno solo quando è stato preannunciato agli agenti l’addebito dei costi. Accesso indiscriminato degli agenti alle cartelle cliniche dei detenuti, consuetudine cessata solo qualche anno fa dopo il fermo diniego del responsabile del servizio sanitario. Pressioni, minacce, intimidazioni sino ad esposti pretestuosi in procura impegnano gli agenti del carcere di Vicenza nei confronti dei medici dell’istituto. È il racconto che ci ha fatto il responsabile della sanità penitenziaria del carcere di Vicenza, Stefano Tolio, nel corso del lungo incontro insieme al direttore dell’istituto, Fabrizio Cacciabue, con la delegazione del Partito Radicale, coordinata dall’ex On. Rita Bernardini e composta da Maria Grazia Lucchiari, Fiorenzo Donadello e Rosalba Trivellin. Dal 2008 la tutela della salute in prigione è transitata dal Ministero della giustizia al Servizio sanitario nazionale per assicurare alle persone detenute servizi efficaci ed appropriati al pari delle persone in stato di liberta`. Certo, i medici e gli operatori sanitari che già lavoravano all’interno degli istituti di pena avevano comunque il mandato della tutela della salute, ma rispondevano al direttore del carcere. Oggi, invece, la sanità è quella del Servizio sanitario regionale, con la stessa organizzazione dei dipartimenti dell’esterno del carcere, e allo stesso modo all’interno del carcere i professionisti fanno riferimento a questi dipartimenti e sono coordinati da un programma aziendale di sanità penitenziaria. Nell’istituto di Vicenza sono presenti 216 persone su una capienza regolamentare di 156 posti con un indice di sovraffollamento del 138,4%. Le persone affette da una o più patologie sono l’80%. Il 72% ha problematiche di tipo psichico (nevrotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi mentali alcol-correlati e disturbi affettivi psicotici). Il 42% sono tossicodipendenti. Il 65% sono stranieri con accentuato deficit cognitivo (deprivazione culturale, abusi in età precoce, uso prolungato di sostanze stupefacenti). Per i malati di epatite Ce B si rende necessaria una continuità terapeutica anche quando vengono dimessi dal carcere, ma la presa in carico diventa pressoché impossibile perché la maggior parte dei detenuti non ottiene dal Comune di Vicenza la residenza anagrafica, il che comporta l’esclusione da una forma necessaria di protezione sanitaria. Nel 2011 su 300 detenuti del carcere di Vicenza solo 30 erano iscritti nell’anagrafe comunale. La mancata registrazione anagrafica comporta, inoltre, l’insufficiente ripartizione dei fondi regionali verso l’istituto vicentino che subirà un ulteriore grave disagio a causa della riduzione di 6 milioni di euro dei fondi regionali destinati alla sanità penitenziaria. E in questo quadro di gravi criticità il servizio di sanità penitenziaria del carcere di Vicenza si regge sul precariato: dal 2008 c’è stato un ricambio di 20 medici, il che vuol dire una difficile organizzazione e gestione del lavoro perché la sanità penitenziaria necessita di progettazione e programmazione fondate su precise competenze professionali che non si realizzano con un continuo avvicendamento degli operatori. In un’area del complesso penitenziario sta sorgendo un nuovo padiglione per altri 200 posti di detenzione. La gran parte della vita in carcere passa dal servizio sanitario dell’istituto, ma l’opera è stata realizzata senza il parere e l’apporto degli operatori sanitari. E presenta un grave difetto: è una struttura a se stante che non ha un collegamento funzionale con il reparto sanitario dell’istituto centrale. Il responsabile della sanità penitenziaria ha previsto situazioni drammatiche soprattutto in caso di urgenza, considerato che l’accesso dei medici al nuovo padiglione, tra cancelli e passaggi richiede 20 minuti di tempo per arrivare nelle celle. La mancanza di dialogo tra i medici e il comandante degli agenti e il direttore dell’istituto genera conflitti che si trasferiscono puntualmente sulla vita dei detenuti che abbiamo incontrato. Costel ci racconta che suo padre è morto di recente e che da giorni chiede inutilmente alla direzione di telefonare alla famiglia. Mariano ha inviato una decina di domande per incontrare l’educatore. Kumar ha fatto domanda all’educatore cinque mesi fa per andare in comunità e attende. Sarebbero quattro gli educatori in servizio, ma uno è in distacco presso un altro ufficio, un altro ha un impegno part-time, e un altro ancora è responsabile dell’area pedagogica. Antonio, cardiopatico, da sette mesi chiede di parlare col direttore per poter utilizzare la sigaretta elettronica. Ivo lavorava come barbiere in istituto ma ha perso il posto a seguito di un rapporto e denuncia degli agenti ed è in attesa di chiarire i fatti col direttore o gli agenti. Zakaria lavorava in biblioteca, ma a seguito di un rapporto e denuncia degli agenti dallo scorso agosto ha cessato l’attività e non conosce le motivazioni della sanzione e ha chiesto inutilmente di parlare col direttore o con gli agenti. I detenuti della seconda sezione hanno inviato una petizione al magistrato di sorveglianza e sono in attesa di risposta da tre mesi. Una situazione al carcere di Vicenza che va senz’altro chiarita con una interrogazione al ministro della Giustizia. Gorizia: la Uil-Pa penitenziari chiede controlli dell’Asl nella cucina del carcere di Emanuela Masseria Messaggero Veneto, 10 marzo 2016 La Uil penitenziaria del Triveneto manderà una lettera all’Azienda sanitaria affinché venga controllata la salubrità della cucina del carcere goriziano. Questa è soltanto o una delle criticità riscontrate ieri nella struttura in via Barzellini da Leonardo Angiulli, segretario regionale Uil per le carceri del Triveneto, Umberto Carrano, (Uil penitenziaria Fvg) e Patrizia Di Fiore (Uil penitenziaria mandamentale Gorizia). I tre hanno visitato vari ambienti, con particolare riferimento agli spazi in cui operano gli addetti alla sicurezza, nell’ambito del progetto nazionale della Uil "Lo scatto dentro". I problemi più stringenti riguarderebbero il personale. Risulterebbero in attività 31 persone, anche se dovrebbero essere, sulla carta, 40. Gli assenti, per diverse motivazioni, secondo il sindacato evidenziano il fatto che la pianta organica è decisamente carente. "Chiederemo che venga assegnato più personale, anche in vista dei prossimi pensionamenti. Dovrebbero esserci almeno cinque persone per ogni turno e oggi non è sempre così - ha spiegato Angiulli. Ci sono poi le inadeguatezze strutturali del carcere, alcune delle quali già note". "I lavori di ristrutturazione iniziati due anni fa già cominciano a dare problemi e a oggi non c’è una copertura per far partire il secondo lotto degli interventi. Se lo Stato non farà partire la seconda parte del progetto, verrà messa a rischio anche la prima - ha aggiunto il segretario per le carceri del Triveneto. Più in generale gli ambienti in cui operano gli addetti non sono in molti casi in buono stato. Si possono vedere macchie di umidità, porte rovinate e segni di fatiscenza in molte stanze, considerate anche qui poco salubri". Ieri è stato rimarcato anche che mancano parcheggi interni per i dipendenti. Guardando al numero dei carcerati, oggi sono 37, ovvero una quantità considerata adatta alla capienza del penitenziario in via Barzellini. Il rapporto dei sindacalisti ora sarà inviato al ministero della giustizia, alla presidente della Regione Fvg, all’ufficio del personale che si occupa della struttura e al capo del dipartimento della giustizia. Sarà chiesto anche aiuto al sindaco di Gorizia, Ettore Romoli. Spoleto (Pg): progetto per celle singole nel carcere di Maiano, si aspetta l’ok del ministero di Rosella Solfaroli rgunotizie.it, 10 marzo 2016 Potrebbe essere questione di ore per quella che sarebbe un’autentica "svolta" per la gestione dei detenuti del Carcere di Maiano. Sì, perché la direzione del carcere è in trepida attesa di una risposta che dovrebbe arrivare a ore dal Ministero della Giustizia, e che dovrebbe concedere il permesso per l’utilizzo di alcuni spazi all’interno dell’istituto di pena spoletino, dove realizzare 50 nuove stanze, che permetterebbero a ogni singolo detenuto di averne una tutta per se. Celle singole, insomma, che ai detenuti darebbero sicuramente più dignità nel lungo percorso detentivo che gran parte di loro dovranno affrontare, basti pensare che l’8 per cento della popolazione carceraria detenuta a Spoleto rappresenta tutti gli ergastolani d’Italia e che una buona fetta della percentuale rimasta ha condanne trentennali, e ai 327 poliziotti penitenziari una gestione degli stessi decisamente più agevole. "Parametri su cui anche la Magistratura di sorveglianza è d’accordo e che rispettano la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Torreggiani) - spiega il comandante Marco Piersigilli. Noi la nostra proposta l’abbiamo fatta al Ministero, e siamo in attesa di una risposta che potrebbe arrivare a giorni". E l’auspicio, nemmeno a dirlo, è che la risposta possa essere positiva. Così com’è la speranza, a dirla tutta, che i 15 agenti che andranno in pensione entro quest’anno e gli altrettanti che lo faranno nel 2017, possano essere integrati così da poter mantenere un servizio altamente qualificato per una casa di reclusione dove predominano detenuti di alta e media sicurezza qual è quella di Maiano di Spoleto. Risposta positiva o meno da parte del Ministero della Giustizia, anche se la direzione auspica ovviamente che arrivi un "si", certo è che già da qualche tempo, all’interno del Carcere di Maiano di Spoleto, si vive meglio. Su entrambe i fronti. Già, perché il numero dei detenuti si è notevolmente assottigliato, e ciò ha decisamente aumentato la qualità della vita sia per i reclusi che per chi ha l’onere di vigilare su di loro. Nel giro di due anni la popolazione carceraria è infatti diminuita di circa il 34 per cento. Da 680, oggi i detenuti ospitati all’interno dell’istituto di pena di Maiano, sono scesi a 450. Qualcuno ha finito di scontare la propria pena e altri sono stati trasferiti. Milano: "Libertà nei libri", la rete solidale che fa leggere dentro al carcere di Zita Dazzi La Repubblica, 10 marzo 2016 La lettura come forma di evasione, almeno mentale, dal carcere e dalle sue pene. C’è una "rete" di associazioni, biblioteche, librerie e volontari impegnate a portare i libri in carcere e a far leggere i detenuti, a raccogliere i romanzi regalati dai cittadini e a insegnare ai detenuti a diventare bibliotecari. Il Comune venerdì firma un accordo per portare avanti il lavoro avviato due anni fa con un finanziamento della Fondazione Cariplo. Primo passo è la sistemazione dei volumi che già sono a San Vittore, messi in circolo nei "raggi" e distribuiti come i pasti, col carrello, che va porta a porta, fra una cella e l’altra, nel penitenziario dove 1.600 persone vivono negli spazi costruiti per 700. È molte cose assieme il progetto "Biblioteche in rete a San Vittore". È un progetto di lavoro e di cultura, di chi crede che la fine della pena sia la rieducazione e non la perdita della dignità delle persone "ristrette". Obiettivi importanti di cui si parla anche in un documentario che verrà presentato venerdì, alle 10.30, al cinema Mexico di via Savona 57, prima della firma dell’accordo col Comune. "Un momento di libertà" è il titolo del cortometraggio firmato dal regista Giovanni Giommi, che ha girato interviste e immagini toccanti, che per un anno e mezzo a San Vittore è stato in mezzo ai detenuti, nei loro spazi angusti, parlando con gli operatori e i volontari delle associazioni che si sono messe nell’impresa, dalla Casa della carità alla Caritas ambrosiana, dall’associazione Gruppo carcere, intitolata al teologo Mario Cuminetti, a Bibliolavoro. Il programma di lavoro è senza fine, teoricamente, e per questo l’ingresso del Comune fra i finanziatori assicura l’ossigeno economico necessario per arrivare alla meta. La bella avventura è riassunta nel documentario di Giovanni Giommi, che porta gli spettatori nelle celle e nei raggi, con le voci dei detenuti e dei volontari che spiegano perché è importante leggere, quando manca la libertà. "Chi là fuori compra un libro da donare al carcere fa un gesto che si oppone all’esclusione sociale ed è utile al reinserimento dei detenuti", spiegano i promotori del progetto #Zanzaunlibro promosso da Bibliorete. "Il carcere è un ambiente carico di difficoltà, ma può inaspettatamente essere anche un luogo dove si crea e si diffonde cultura, rompendo facili pregiudizi e preconcetti", aggiungono dalla Casa della carità. Molto frequentati anche i corsi per insegnare ai reclusi a gestire le biblioteche interne a via Filangieri, dove c’è sempre un lavoro di archiviazione da fare e di sistemazione dei volumi nuovi che vengono donati, in una catena di solidarietà che supera i cancelli e le sbarre. "Il libro è un momento di evasione, di libertà", dice un detenuto nel film. "In carcere sai quando entri, non quando esci. E io ho sempre pensato che quello che leggi non ti deve servire per la carriera - aggiunge un altro - ma per la tua vita". Venerdì, al Mexico, ne parleranno anche Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore, Stefano Parise, direttore delle Biblioteche comunali, e don Virginio Colmegna. Livorno: apre ai turisti la Gorgona, ultima isola-carcere Adnkronos, 10 marzo 2016 L’ufficio informazioni turistiche del Comune di Livorno gestirà le prenotazioni. Apre ai turisti la Gorgona, l’ultima isola-carcere, con opportunità di visite fin dalla prossima primavera. Finora chi voleva visitare il gioiello naturalistico dell’Arcipelago toscano, doveva contattare la cooperativa del parco naturale del posto, dopo un’autorizzazione del ministero della Giustizia, e prenotare una visita su appuntamento. Tra poche settimane l’isola sarà accessibile ai turisti. L’ufficio informazioni turistiche del Comune di Livorno gestirà le prenotazioni. Il Comune di Livorno, l’Ente parco nazionale dell’Arcipelago Toscano e la direzione del carcere di Livorno hanno firmato questa mattina a palazzo comunale un protocollo d’intesa relativo alla fruizione turistico-naturalistica della Gorgona. L’accordo segue e completa quello già sottoscritto tre anni fa, nel quale per la prima volta sono state definite linee guida per l’attivazione in forma regolare di un servizio di fruizione dell’isola, con l’impegno, da parte del Comune, a procedere all’individuazione di un unico vettore a garanzia del collegamento tra l’isola e il porto di Livorno. I bandi di gara indetti fino a questo momento per l’individuazione del vettore, nel 2013 e nel 2014, hanno dato però esito infruttuoso, motivo che ha spinto l’Amministrazione comunale a garantire un contributo economico di 10mila euro al vettore aggiudicatario della gara in cambio di un servizio di trasporto a tariffa agevolata da e per l’isola per personale e familiari dell’amministrazione penitenziaria, detenuti e residenti. Il servizio di trasporto marittimo turistico nel 2015 è stato affidato a Toscana Mini Crociere Srl ed è grazie ad esso che, a partire dai prossimi giorni, entrerà a regime la fruizione regolare dell’isola di Gorgona, vero e proprio patrimonio di natura incontaminata del Parco nazionale Arcipelago Toscano. Una delle principali novità previste dall’accordo riguarda la gestione delle prenotazione delle visite: sarà infatti l’Ufficio Informazioni Turistiche comunale, competenza passata dalla Provincia al Comune, a ricevere le prenotazioni e a organizzare i gruppi di visitatori. Il protocollo firmato oggi elenca nel dettaglio le limitazioni che regoleranno le visite: accesso per 75 turisti adulti (oltre i 12 anni) per un massimo di 4 giornate la settimana, oltre le quali potranno avere accesso solo visite di educazione calendarizzate nel periodo scolastico, per le quali non è richiesto il pagamento del ticket; pagamento di un biglietto d’ingresso di 6 euro al Parco Nazionale (a esclusione di bambini sotto i 12 anni, portatori di handicap, guide, scolaresche, docenti e residenti), divieto di balneazione, modalità di pranzo (al sacco e con ritiro in barca dei rifiuti), escursioni su percorsi aperti con guide esperte messe a disposizione dal parco. Le novità per l’isola non finiscono qui. Nell’ottica di valorizzare a pieno la bellezza del suo mare, sul quale vige il divieto di balneazione, per la prima volta è stato anche avviato un percorso insieme ad Arpat e Regione Toscana per l’inserimento di alcune spiagge della Gorgona nell’elenco nazionale delle spiagge autorizzate alla balneazione. "Siamo orgogliosi e soddisfatti per l’accordo siglato oggi. Da qui passa il rilancio della Gorgona nel quale questa Amministrazione crede e vuole investire - ha dichiarato il sindaco Filippo Nogarin, firmatario del protocollo. Come avevo annunciato anche in occasione della prima vista fatta sull’isola l’anno scorso, vogliamo puntare al rilancio del territorio sotto tutti i punti di vista: riscoperta turistico naturalistica, produzioni agricole e animali, cura del carcere e della sua unicità nell’esecuzione della pena. Attività impensabili senza collegamenti regolari come quelli che oggi vengono finalmente assicurati e che vanno a sanare una situazione che, oltre agli abitanti dell’isola, penalizzava il territorio stesso che da paradiso naturale, visitabile da appassionati di trekking e scolaresche, si era trasformato in un’oasi irraggiungibile. La ricchezza della Gorgona invece non deve andare perduta". Firmatari del protocollo d’intesa sono, oltre al sindaco Filippo Nogarin, Giampiero Sammuri (presidente dell’Ente nazionale dell’Arcipelago Toscano) e Santina Savoca (direttrice della casa circondariale di Livorno). Presente alla sottoscrizione del documento l’assessore al turismo Nicola Perullo che ha seguito tutto il percorso per arrivare al Protocollo e il consigliere dell’Ente Parco Stefano Feri. L’Isola di Gorgona - Nel mare di fronte a Livorno, a 37 chilometri dalla costa, ma ancora parte del territorio comunale, si trova l’Isola di Gorgona, che con i suoi 220 ettari è la più piccola dell’Arcipelago Toscano. Insieme alle isole di Capraia, Pianosa, Elba, Giglio, Giannutri e Montecristo costituisce il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, nato per tutelarne i loro ambienti naturali di grande valore culturale e scientifico. Prevalentemente montuosa e ricca di vegetazione tipica della macchia mediterranea, è attualmente sede di una colonia penale, realizzata come succursale di quella di Pianosa nel 1869. Percorrendo la linea della costa, si incontrano suggestive insenature e baie come la Costa dei Gabbiani o la Cala Scirocco dove si apre la Grotta del Bue Marino, un tempo rifugio di foche monache. Sull’isola, ancora incontaminata, si trovano due belle fortezze: la Medicea e la Pisana. Più in alto è situata Villa Margherita, costruita sui resti di antichissimi insediamenti etruschi e romani. Napoli: filosofi e scrittori in carcere, laboratori e incontri di lettura con i detenuti di Cristiana Conte Roma, 10 marzo 2016 La Fondazione Premio Napoli promuove laboratori e incontri di lettura con i detenuti di Poggioreale e Secondigliano. Unire la città di dentro e quella di fuori attraverso la formazione umana e culturale dei detenuti. E l’ambizioso progetto dell’iniziativa "Napoli Dentro&Fuori" che vede insieme la Fondazione Premio Napoli e il portale Napoliclick: un ciclo di incontri e laboratori che si terranno nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano fino a maggio con l’alternarsi giornalisti, scrittori, poeti e ricercatori, allo scopo di coltivare il pensiero critico e stimolare la creatività delle persone recluse. "Attraverso queste attività riusciamo a portare ai nostri detenuti delle opportunità che spesso gli sono negate sia dentro che fuori i penitenziari" ha dichiarato ieri alla presentazione a Palazzo Reale Liberato Guerriero, direttore del carcere di Secondigliano. Dello stesso avviso Gabriele Frasca, presidente della Fondazione Premio Napoli: "L’arte è una cosa che si dona, siamo dunque contenti di fare questo dono alla città di Napoli ma oggi siamo qui per dichiarare apertamente la necessità d’intervento da parte delle istituzioni comunali e regionali per far sì che questa iniziativa vada avanti". Gli organizzatori, infatti, proprio dalla sede della Fondazione Premio Napoli, hanno lanciato un appello alle istituzioni perché siano più presenti negli istituti di pena e affinché queste attività possano far parte di una programmazione costante per chi vive la detenzione. Positivi i primi risultati dei laboratori, iniziati a gennaio, come ha sottolineato Anna Farina, responsabile delle attività culturali del carcere di Poggioreale: "Nel momento in cui entrano in contatto con la cultura, molti detenuti rimangono talmente avvinti e ritrovano emozioni, sentimenti, pezzi di storia". Con l’associazione A Voce Alta, si stanno ora svolgendo un corso di lettura di testi e un altro di lettura espressiva a cura di Marcella Vitiello, mentre proseguiranno fino a maggio le lezioni di narrazione promosse da Napoliclick a Poggioreale, ora sotto la guida di Raffaella R. Ferré per la scrittura autobiografica cui in primavera subentreranno Alessandra del Giudi ce e Giovanni Salzano per quella giornalistica e sui Social. "Perché per dire agli altri bisogna necessariamente "dirsi" - ha affermato la Ferré. Rendere un posto virtuale come Napoliclick qualcosa di concreto e tangibile è un’opportunità prima di tutto per noi". Un gruppo di poeti e di dottori di ricerca delle università Federico II e L’Orientale, tra cui il poeta Ferdinando Tricarico, sta realizzando invece a Secondigliano un laboratorio di poesia che, a fine percorso, confluirà in una raccolta dei "poeti di Secondigliano" pubblicata dall’editore Ad Est dell’Equatore. E ancora in programma, incontri mensili con scrittori come Maurizio de Giovanni, Francesco Pinto e Wanda Marasco, e lezioni di filosofia "socratica" con Gennaro Carillo. Ad essere utilizzato è anche un altro potente mezzo, quello cinematografico, grazie alla collaborazione con Arci Movie che porterà in carcere alcune pellicole di Incerti e Faenza, che sarà anche presente in uno degli incontri previsti. Pisa: pet therapy per i detenuti, in mostra gli scatti di "Cani dentro" pisatoday.it, 10 marzo 2016 Giovedì l’inaugurazione al Don Bosco delle fotografie scattate durante il progetto realizzato nella struttura, l’unico in Italia dove i ristretti possono incontrare i propri animali. "Cani dentro" è il nome della mostra fotografica che sarà inaugurata domani alle 12.30 all’interno della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa. Si tratta di una trentina di scatti della fotografa Maria Cristina Germani che raccolgono le immagini del progetto di pet therapy svoltosi all’interno dell’Istituto. L’esposizione resterà in allestimento per una settimana. Il progetto ha permesso ai detenuti di interagire con i cani dell’associazione "Do Re Miao!", ma anche di far incontrare "a colloquio" i propri animali. Gli operatori dell’associazione, grazie ad uno speciale permesso, hanno potuto accompagnare all’interno del carcere i cani di proprietà, favorendo così il ricongiungimento con un ‘membro della famiglià altrimenti escluso dalle visite. Una pratica che la Casa Circondariale Don Bosco, unico caso in Italia, dopo questa esperienza ha istituzionalizzato. Le osservazioni delle educatrici e delle psicologhe coinvolte confermano che la relazione con il cane ha permesso a molte persone di far emergere aspetti della propria personalità altrimenti difficilmente evocabili, e ha favorito l’instaurarsi di un clima positivo e facilitante per i processi di recupero e integrazione dei soggetti coinvolti. Le immagini della mostra sono state raccolte e corredate dagli estratti delle riflessioni scritte dai detenuti durante il progetto in un catalogo edito da Haqihana, disponibile online, cui seguirà a breve la pubblicazione di un libro fotografico con l’integrale dei testi raccolti. Inaugurata lo scorso 7 febbraio presso la Stazione Leopolda di Pisa, la mostra, visto il successo di affluenza, è già in programma per il 20 marzo a Pontedera e verrà presto allestita anche a Milano presso la prestigiosa sede della Libreria Hoepli. Vertice al Quirinale sui migranti. Il governo: rischio ondata in Italia di Ugo Magri La Stampa, 10 marzo 2016 Macedonia e Croazia chiudono i confini, bloccata la rotta dei Balcani. Previsti 140 mila arrivi in Puglia. Il timore: centri di accoglienza inadeguati. Ma Alfano: non c’è evidenza di un flusso enorme, è solo un’ipotesi. Ai piani alti del governo e delle istituzioni si prende in considerazione molto seria l’eventualità che l’onda dei migranti possa riversarsi da noi. L’allarme è conseguenza del blocco della "rotta balcanica", lungo la quale per mesi i profughi sono risaliti dalla Grecia fino alla Germania e alla Svezia. Ma prima l’Austria, poi la Slovenia hanno sbarrato la via, seguite dalla Serbia. Ieri si sono aggiunte Croazia e Macedonia, mentre l’Ungheria (che già aveva alzato un contestatissimo muro di confine) dichiara col premier Orban lo stato di emergenza dislocando altre migliaia di poliziotti alla frontiera meridionale. Cosicché in Grecia restano imbottigliati circa 40 mila migranti che crescono (secondo la Croce Rossa) al ritmo di 1300 al giorno. Solo nel campo di Idomeni, sono ammassati in 16 mila tra uomini, donne e bambini, sotto la pioggia nel fango. Di qui la facile previsione: il tappo presto salterà. E la "rotta balcanica" verrà sostituita da quella adriatica: dalla Grecia o dall’Albania via mare verso l’Italia. Il sottosegretario Manzione, ieri nel "question time" alla Camera, è stato esplicito al riguardo. Ma questa mattina il ministro dell’Interno Alfano ha rassicurato: "Fino a questo momento non abbiamo evidenza di questo flusso enorme" di migranti in arrivo sulla rotta adriatica. "Siamo abituati a fare le previsioni ma anche ad osservare la realtà - spiega Alfano. La logica ci suggerisce" che con la chiusura della rotta balcanica "si potrebbe aprire una rotta. Questo però ce lo fa dire la logica, ma oggi non i fatti". Summit al Colle - Logico che se ne sia ragionato nel pranzo al Quirinale tra Mattarella, Renzi più alcuni ministri (Gentiloni, Alfano, Padoan, Boschi) e sottosegretari (Calenda, de Vincenti, Gozi). Si tratta dell’incontro che precede tutti i Consigli europei, nel caso specifico quello del 17 marzo dedicato proprio all’immigrazione. Ciò che vi viene detto non filtra mai all’esterno, e la colazione di ieri non fa eccezione alla regola. Tuttavia è certo che dal governo sia stato dipinto un quadro solo in parte rassicurante. Da un lato il ministro dell’Interno Alfano è convinto di poter contare sulla collaborazione piena del Montenegro e anche dell’Albania, con cui l’Italia cercherà di stipulare in fretta un Memorandum (sostegno operativo in cambio di controlli ferrei contro gli "scafisti" e i trafficanti di esseri umani). Il ministro assicura che tutte le procedure di identificazione richieste dall’Europa, gli "hot spot", sono operative: per cui Bruxelles non può più sollevare contestazioni. Dall’altro lato, però, il governo si interroga su come fronteggiare un eventuale sbarco in massa sulle coste pugliesi. Perché allora potrebbero presentarsi problemi piuttosto complicati. Quadro incerto - Tra i tecnici governativi c’è chi ipotizza addirittura 120-140 mila possibili arrivi dalla Grecia (per raffronto, in Italia nel 2015 sono entrati 80 mila migranti secondo le stime ufficiali). Si tratterebbe a quel punto di accogliere i profughi e di rispedire indietro chi non avrà titolo per l’asilo. Ma le procedure di rimpatrio sono lunghe e costose, l’Europa non dà assistenza, e soprattutto il quadro giuridico di riferimento europeo è parecchio opaco circa lo status di rifugiato, specie per chi arriva da Paesi lambiti dai conflitti. La Bossi-Fini tra l’altro non aiuta perché un conto è gestire un rivolo di clandestini, altra cosa sarebbe affrontarne una marea. Tutta quella gente dalla qualifica incerta (esuli? rifugiati? migranti per motivi economici?) non potrà venire rinchiusa nei centri di accoglienza oppure nei Cie. Creare immensi campi tendati con i cavalli di frisia intorno sarebbe non solo inumano, ma cozzerebbe contro il buon senso. Non sembra affatto che il governo intenda infilarsi in quel vicolo cieco. E se qualcuno in Europa lo pensa, nel vertice Ue dovrà prendere atto della realtà. Ungheria anti-migranti: "Stato d’emergenza" di Massimo Congiu Il Manifesto, 10 marzo 2016 Rotta balcanica. Il governo Orbán schiera polizia e militari alle frontiere, invoca poteri speciali e annuncia un referendum contro le quote europee di accoglienza. Il governo ungherese ha dichiarato lo stato di emergenza in tutto il paese in relazione alla crisi migranti. La decisione, ha precisato il ministro degli Interni Sándor Pintér, si è resa necessaria in seguito alle misure straordinarie introdotte da diversi paesi della rotta balcanica - Slovenia, Croazia e Serbia - che hanno chiuso i loro confini ai migranti, nella notte tra martedì e mercoledì, bloccando l’ingresso a chiunque sia sprovvisto di passaporto e visto validi. L’esecutivo di Budapest sottolinea di sentirsi toccato direttamente da queste misure, "non sappiamo di preciso quali potranno essere le reazioni dei migranti presenti nei paesi interessati di fronte all’introduzione di queste regole", ha dichiarato Pintér. Per questo motivo le autorità ungheresi hanno deciso di rinforzare i controlli alle frontiere e di ricorrere allo stato di emergenza. Più precisamente il governo prevede di aumentare il numero di agenti di polizia e di militari a guardia dei confini, di costruire una via di transito agevolata perché all’occorrenza le forze dell’ordine possano raggiungere le frontiere interessate nel più breve tempo possibile, di illuminare a giorno i punti di confine per facilitare le operazioni di pattugliamento e controllo. In precedenza, il primo ministro Viktor Orbán aveva dichiarato alla radio pubblica di temere la minaccia del terrorismo legata al fenomeno dell’immigrazione, invocando misure drastiche in presenza di informazioni su possibili attentati. Tra esse il coprifuoco, il divieto di trasmissioni radiotelevisive, l’oscuramento di Internet, il ricorso a perquisizioni domiciliari anche senza mandato e l’arresto dei sospetti in nome della sicurezza nazionale. Il Fidesz, il partito del premier, aveva già presentato in parlamento la proposta di legge per attribuire poteri eccezionali al governo, progetto osteggiato dall’opposizione di centro-sinistra. Così Orbán, privo ormai della maggioranza parlamentare di due terzi, ha dichiarato il mese scorso di voler indire un referendum popolare per superare gli ostacoli posti dai partiti dell’opposizione. Più di recente, un Orbán in vena di referendum ha annunciato un’altra consultazione nazionale sul sistema delle quote obbligatorie di accoglienza che il governo di Budapest respinge fermamente. "Condivide il fatto che, senza l’autorizzazione del Parlamento nazionale, l’Unione europea obblighi l’Ungheria ad accettare ricollocamenti di cittadini stranieri sul suo territorio?" è la domanda che le autorità ungheresi intendono rivolgere ai loro connazionali nell’ambito di un referendum voluto sostanzialmente per mostrare l’ostilità della popolazione verso il meccanismo delle quote. A questo proposito è già stata presentata la domanda all’Ufficio Elettorale Nazionale e da tempo il partito di governo è impegnato in una raccolta di firme. Ce ne vogliono in tutto 200mila. "Gli attivisti del Fidesz riusciranno senz’altro a raccoglierle" dicono diversi osservatori che aggiungono di prevedere una maggioranza di no ai ricollocamenti nel caso si andasse effettivamente al voto. Orbán fa notare che quello delle quote obbligatorie è un aspetto che tocca direttamente la popolazione ungherese e non lo si può imporre contro la volontà di quest’ultima, perciò bisogna dar luogo ad una consultazione nazionale. I costituzionalisti e gli esperti di diritto internazionale obiettano dicendo che la Legge Fondamentale ossia la Costituzione voluta dal governo del Fidesz ed entrata in vigore il primo gennaio del 2012, vieta in effetti i referendum sugli accordi e gli obblighi internazionali, quindi la proposta potrebbe essere contrastata dalla Corte Costituzionale. "In ogni caso - affermano gli esperti - il risultato del voto non avrebbe valore vincolante nei confronti degli organi dell’Ue", cioè non potrebbe in alcun modo influenzare le decisioni di questi ultimi. Quello del referendum è stato definito "un bluff" dal quotidiano di opposizione Népszabadság; appare chiaro che il capo del governo intende mostrare all’Unione che non è solo l’esecutivo di Budapest a respingere la politica delle quote, ma gli stessi ungheresi che, secondo Orbán, sono dalla sua parte e lo sostengono in questa lotta per la salvezza del paese e dell’intera Europa. All’interno del Gruppo di Visegrád (V4) l’Ungheria di Orbán occupa una posizione di punta nella critica alle politiche Ue sul fronte migranti e insieme alla Slovacchia di Robert Fico esprime una protesta particolarmente feroce verso Bruxelles e il suo modo di gestire questa emergenza. Per il primo ministro ungherese e per i suoi più diretti collaboratori l’unica soluzione è la difesa dei confini, e i veri responsabili di questa crisi sono i dirigenti dell’Unione europea colpevoli di "non fermare il flusso migratorio": "Non vogliamo importare terrorismo, criminalità, omofobia e antisemitismo" ha di recente affermato Orbán sentendo di interpretare il sentimento della stragrande maggioranza degli ungheresi in questa crisi. Il primo ministro ungherese ha fatto queste dichiarazioni in un periodo caratterizzato da proteste accorate da parte dei settori più progressisti della società civile che sono scesi in piazza diverse volte per manifestare contro la politica del governo, soprattutto nei settori dell’istruzione e della sanità. A febbraio gli insegnanti e i loro sindacati sono stati in prima linea nella contestazione che ha coinvolto tutto il paese con manifestazioni pubbliche definite da fonti locali tra le maggiori mai organizzate contro questo governo. Gli insegnanti e gli studenti criticano il sistema fortemente centralizzato dell’istruzione pubblica concentrato nelle mani del governo. Quest’ultimo controlla i programmi, la scelta dei libri e secondo la lettera scritta da un insegnante di Told, piccolo centro abitato con una nutrita popolazione rom, "il sistema scolastico ungherese crea sfiducia e incertezza e uccide la creatività". Per István Pukli, preside di un liceo di Budapest e, per diversi suoi colleghi, "il sistema voluto dal governo lascia poco spazio alla creatività del corpo docente e lo obbliga a pesanti obblighi amministrativi". A queste affermazioni si aggiunge quella di László Mendrey, presidente del Sindacato democratico degli insegnanti, secondo il quale l’esecutivo "ha fatto tornare indietro di cento anni la scuola ungherese". Le manifestazioni per la scuola sono state appoggiate da altre categorie lavorative a dimostrazione del fatto che nella società ungherese c’è un malcontento diffuso. Il problema è riuscire a concepire una rappresentanza politica ben definita che, a differenza dell’opposizione attuale, sia capace di proporre un progetto diverso da quello governativo, creare consenso e fare davvero breccia nella roccaforte costruita da Viktor Orbán. Nella "giungla" di Calais resta solo la scuola, senza bambini di Rita Chiara Mele Il Manifesto, 10 marzo 2016 Le lezioni per i profughi vanno avanti tra le ruspe. Ma la classe si svuota, gli studenti hanno paura della polizia. Nella scuola della "giungla" di Calais non ci sono campanelle che suonano per richiamare sui banchi gli studenti. Afghani, sudanesi, camerunensi ed eritrei si alternano in maniera sconnessa durante le ore di lezione. Se prima dell’inizio della settimana scorsa, il perimetro attorno alla scuola del Chemin des Dunes era circondato da tende e container, oggi - al nono giorno dall’inizio delle operazioni di smantellamento del campo profughi - una piana di fango e detriti si spiega di fronte al pannello trilingue che indica la scuola. Malgrado la decisione del prefetto di Lille di radere al suolo la parte sud della baraccopoli, le lezioni continuano. Anche se a fatica. "I bambini non vengono più. Prima gli studenti venivano spontaneamente, ora bisogna andare a cercarli. Hanno paura della polizia". Zimako, rifugiato nigeriano fondatore della scuola, non perde la speranza e fa prova di un incrollabile entusiasmo, nonostante la precarietà della situazione. "Noi continuiamo fino alla fine". Je m’appelle Hussein. Je vais en Angleterre. Je mange du riz. Gli studenti della classe degli adulti - di età compresa tra i 17 e i 35 anni - si riuniscono in gruppi di cinque o dieci per scrivere e ripetere la coniugazione dei verbi: tra i più frequenti camminare, lavorare, volere. Poi diventa tutto un’improvvisazione in base alle necessità. Quoi? Comment? Combien? Pourquoi? Un esempio su tutti: perché sei venuto in Europa? Una voce si leva dall’aula: guerre. Mael, ha 23 anni, ha attraversato l’Africa e poi l’Europa da solo. Ha gli occhi dello studente sveglio abituato a stare tra i banchi, ma provocatore: scrive diligentemente sul suo quaderno e poi provoca momenti di ilarità generale con le sue battute. Entra in aula Amir: è appena arrivato nella "giungla"; parla correttamente inglese, arabo, farsi, russo e, dopo sei mesi trascorsi a Roma, un po’ di italiano. È avido di sapere, la conoscenza della lingua francese gli sarà fondamentale per poter fare domanda d’asilo in Francia. Se gli zaini degli studenti in aula sono pressoché vuoti, il peso che si porta in spalla chi è fuori, è ben altro: il lavoro dei bulldozer avanza e c’è chi cerca di salvare la sua casa come può, anche trascinandola. Altri prendono misure ben più draconiane: danno fuoco a tutto per evitare che siano le macchine a raderle al suolo. Non resta più niente, se non la dignità di poter decidere autonomamente della sorte della propria dimora, nell’attesa di poter salire su qualche camion in direzione dell’Inghilterra. Confini in francese si dice frontières; le ore consacrate alla geografia diventano l’occasione per tracciare la mappa di quest’esodo collettivo: l’immancabile Lampedusa, ma anche Crotone, Serbia, Innsbruck, Parigi e infine Calais. Mahil, elettricista sudanese del Darfur parla un francese fluido e deciso. Scrive alla lavagna ma non riesce a tenere l’attenzione troppo a lungo; il vento a Calais è talmente forte da causare insopportabili mal di testa. Per il momento la sua casa è ancora in piedi ma non sa ancora per quanto; la parte sudanese è infatti la zona maggiormente interessata dalle operazioni di sgombero. Alle cinque le forze dell’ordine lasciano la "giungla", gli studenti sono ancora sui banchi. Fahrid arriva a fine lezione: parla otto lingue, ha lavorato come modello in Turchia e studia odontoiatria. Insieme a suo fratello di sedici anni aspetta di raggiungere la sua famiglia in Inghilterra con l’intenzione di proseguire gli studi. Il telefono squilla: un parente dall’Afghanistan, una moglie gelosa, i volontari del centro giuridico che ricordano l’appuntamento per la domanda d’asilo. L’assiduità delle lezioni, così come il loro svolgimento, è assolutamente precaria; tuttavia la classe non si svuota mai interamente. Questo agglomerato di baracche di legno colorate che è la scuola, rappresenta per la maggior parte delle persone che la frequentano un atto di resistenza estrema, un luogo di incontro e apprendimento avulso dalla tragedia che si svolge all’esterno. Secondo quanto stabilito nella decisione del prefetto "i luoghi di utilità sociale" come la scuola e i luoghi di culto sono esclusi dalla demolizione. Al ritmo con cui procedono i lavori, non resterà che una scuola senza studenti in una giungla sterile di vita e di conoscenza. Sulle spiagge di Aylan si muore ancora, da settembre annegati 340 bambini di Niccolò Zancan La Stampa, 10 marzo 2016 La tragedia del bimbo siriano emozionò il mondo e convinse i Grandi ad agire. Ma sei mesi dopo quella foto è solo ricordo e il dramma continua nel silenzio. L’hotel Woxxie, 4 stelle con spiaggia privata, è chiuso per bassa stagione. Le alghe ondeggiano sulla battigia avanti e indietro. Ogni tanto, dalla curva spunta un vecchio motorino scarburato, lo senti accelerare via, poi silenzio. Soltanto il rumore del mare. Sul promontorio, la luce del faro segna la rotta per i naviganti. E questa spiaggia, la spiaggia dove è morto Aylan Kurdi, è qui per dimostrare come il tempo sciacqui via tutte le cose. Era il 2 settembre, non doveva più succedere. Lo avevano giurato i grandi del mondo, con quelle frasi tipiche da telegiornali: "Che la tragedia di questo bambino annegato serva almeno a qualcosa. Non deve succedere mai più". Nel frattempo sono morti almeno altri 340 bambini, due al giorno. E continuano a morire, gli ultimi tre sabato notte. Sulla spiaggia torneranno i turisti. La tragedia non è servita. Perdonaci Aylan, era tutto sbagliato. Tutto impreciso. Retorico come certi castelli sulla sabbia. Innanzitutto, non era la spiaggia di Bodrum. Ma venti chilometri oltre, in cima al capo. In questo villaggio di villette a schiera ancora in vendita, dove c’è il McDonald’s, Pizza Dominos e un grande cinema. Dove i turisti olandesi e tedeschi vengono ad affollare i mesi caldi, e nelle giornate di mare buono puoi arrivare in Grecia a remi. Il ristorante del faro è gestito dal 1973 dal signor Adil Çürük: "All’inizio sono venuti giornalisti da tutto il mondo. Da Londra e dal Giappone. Poi, più nessuno. Non ho visto politici. E no, non mi hanno più chiesto di Aylan". Sono cinque chilometri. Cinque chilometri da questo punto esatto. Cinque chilometri per l’isola di Kos. Per la Grecia. Per l’Europa, almeno per come l’avevamo conosciuta prima dei muri e delle frontiere selettive. Cinque chilometri. Aylan Kurdi aveva 3 anni e scappava dalla guerra in Siria con la sua famiglia. Venivano da Aleppo. Avevano provato a chiedere un visto per il Canada, per poter raggiungere i parenti. Ma il visto gli era stato negato. Ecco perché erano qui, con la loro piccola storia esemplare. Ma quella notte il mare era agitato, non come adesso. C’era vento e nessuno sapeva portare la barca. Gli scafisti avevano bevuto. Era buio, le onde squassavano il piccolo scafo. Panico a bordo. Un testimone ha raccontato le ultime parole di Aylan, prima che la barca si ribaltasse: "Papà, ti prego, non morire". È stato il ragazzo delle sdraio dell’Hotel Woxxie il primo ad accorgersi di quello che era successo. Era la mattina dopo. Poi è arrivato un poliziotto, e con il poliziotto è arrivata la fotografa Nilufer Demir. "Non ho più voglia di raccontare di quella foto, non voglio più dire nemmeno una parola su questa storia" dice adesso con un tono molto triste nella voce. Era la foto che doveva cambiare il mondo. Tre giorni fa, il tribunale di Bodrum ha condannato gli scafisti che avevano organizzo il viaggio della famiglia Kurdi. Sono due siriani, si chiamano Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad. Sono stati condannati a quattro anni e due mesi di carcere. Una madre che era sulla stessa imbarcazione, But Zainte Abbas, in un’intervista alla televisione australiana Network Ten, ha accusato anche il padre di Aylan: "Era lui a portare la barca. Ho perso i miei figli in mare. Ho perso la mia vita. Come fa a mentire al mondo?". Ma Abdullah Kurdi, il padre che non doveva morire, e sventuratamente è sopravvissuto, ha risposto così: "Non è vero. Se fossi un trafficante non avrei pagato come tutti gli altri. Non avrei messo in pericolo la mia famiglia. Ho pensato di prendere il timone, è vero. Ma non l’ho fatto. Ho perso tutto anche io, non ho più nessuno. E adesso vogliono togliermi anche la reputazione". La mareggiate lavano la riva, buttano giù i castelli. E si ricomincia. "In questo tempo nessuno ha chiesto notizie di Aylan Kurdi" dice Yunus Yaris con la faccia stupita. Gestisce l’Hotel Hortan nel centro storico del paese. Nessuna preghiera. Nessuna commemorazione. "I turisti vengono qui per riposare, hanno il diritto di distrarsi". Sono passati sei mesi. La Grecia è sempre più tagliata fuori dall’Europa. Altri bambini stanno morendo in mare questa notte. Li ritroveremo domani con la faccia nella sabbia. Identici ad Aylan. Le tre sorelle yazidi: Dlkhos, Bassma e Shreen avevano 8, 12 e 15 anni. Stavano scappando dall’Isis. Erano partite con la madre Fareeda, dopo aver pagato 5 mila dollari ad altri trafficanti. Volevano raggiungere il padre, arrivato in Germania ad agosto. La barca si è capovolta. Solo la madre è sopravvissuta. Christina Psarra di Medici Senza Frontiere, all’ultimo sbarco sull’Isola di Lesbo, ha dovuto prendere un bambino in braccio. Lo ha raccontato al Mail on line: "È stato troppo straziante. Speravo dormisse. Non riesco a capacitarmi di una cosa del genere". Scappano. Vengono a cercare la pace. Hanno scarpe da ginnastica, magliette con le stelle. Papà non morire. Mamma dove sei? Le luci dell’Europa così vicine, il buio che inghiotte tutto. Nel mare delle Comore l’altro cimitero di migranti di Giordano Stabile La Stampa, 10 marzo 2016 In 20 anni dai 10mila ai 50mila comoriani sono morti annegati nel tentativo di raggiungere Mayotte, isola dipartimento francese e quindi a tutti gli effetti Ue. C’è un altro cimitero di migranti sotto il mare. Si trova in acque "europee", anche se a ottomila chilometri di distanza dall’Italia, e dalla Francia. È il tratto di Oceano indiano fra l’arcipelago delle Comore, uno degli Stati più poveri al mondo, e Mayotte, 101esimo dipartimento francese dal 2011, e quindi territorio a tutti gli effetti dell’Unione europea. Intrappolati nelle barchette affondate dei trafficanti di uomini, conosciute come kwasa-kwasa, ci sono sul fondale dai 10 mila ai 50 mila cadaveri. Una strage silenziosa che dura dal 1995. L’arcipelago delle Comore si trova fra la costa orientale dell’Africa e il Madagascar. Quasi ottocentomila abitanti stipati su poco più di duemila chilometri quadrati, con un reddito di 300 dollari all’anno e il 169esimo posto, su 195, nella classifica dello sviluppo umano dell’Onu. Islamizzate a partire dall’XI secolo, le Comore sono state rette da dinastie di sultani provenienti dall’attuale Tanzania. Le tre isole più occidentali dell’arcipelago (Grand Comore, Mohéli, Anjouan) nel 1886 sono diventate un protettorato francese, seguendo il destino della vicina Mayotte, che la Francia aveva annesso già nel 1841. Proprio queste due differenti fasi della colonizzazione hanno segnato il destino finale delle isole: in un referendum, nel 1974, gli abitanti delle tre isole occidentali hanno scelto l’indipendenza, quelli di Mayotte di restare con la Francia. Parigi prima si è rifiutata di riconosce l’indipendenza, poi l’ha fatto, ma nel 1976, con un’altra consultazione, ha definitivamente legato a sé Mayotte. Per il nuovo Stato della Comore sono iniziati vent’anni di golpe militari, contro-golpe di mercenari appoggiati dalla Francia, guidati dal famigerato Bob Denard, disordini, crisi economica. Mayotte si è integrata sempre di più con la lontana madrepatria. Oggi i suoi abitanti hanno un reddito medio di 9 mila euro all’anno, un terzo di quello francese, ma 30 volte quello comoriano. Dal 1995 i comoriani, identici per cultura, lingua, religione, devono chiedere il visto per andare a Mayotte. E da vent’anni l’immigrazione illegale domina i 70 chilometri che separano Mayotte dalla più vicina isola delle Comore, Anjouan. I marinai arabi che per un millennio hanno solcato quelle acque chiamavano Mayotte "l’isola della morte" per la barriera corallina invisibile che la circonda. Il nome è più attuale che mai. "Siamo uno dei più grandi cimiteri del mondo - denuncia il governatore di Anjouan, Anissi Chamsidine. In vent’anni sono affogati 50 mila comoriani. Nel silenzio assoluto della comunità internazionale e della Francia. È l’indifferenza di fronte alla sofferenza umana". Per Ahmed Mohammed Thabit, ex diplomatico comoriano e a capo di una Ong che lotta contro il traffico di esseri umani, la cifra più probabile è di "diecimila morti" ma ciò non toglie che il mare della Comore sia un cimitero "più grande del Mediterraneo" per quanto riguarda i migranti. E l’indifferenza della Francia, e dell’Europa, sta nei numeri. Nel 2015 le autorità francesi hanno espulso 20 mila immigrati comoriani. Le domande per permessi di soggiorno di lavoro sono state 100mila, ma solo 18mila sono state accettate. Ora che Mayotte, dal 2011, è dipartimento francese, la lotta all’immigrazione clandestina è una priorità. Parigi stima che "il 40% dei 226 mila abitanti di Mayotte sono immigrati illegali". Il visto turistico per Mayotte costa 100 euro, una traversata con i kwasa-kwasa, 200 euro. Per Ibrahim Aboubacar, parlamentare francese in rappresentanza di Mayotte "gli stranieri", cioè i comoriani, sono un "peso che grava sul nostro stato sociale, sulla scuola, sulla sanità". E anche per moltissimi abitanti di Mayotte il sogno è emigrare, in Francia, in Europa. Solo che loro possono farlo legalmente. Per Ahmed Thabit, tutto ciò è il frutto di una decolonizzazione guidata malissimo dalla Francia, con i referendum "organizzati, controllati e supervisionati" da Parigi. Anche le condizioni degli immigrati clandestini detenuti sull’isola francese sono pessime. Il Consiglio europeo per i diritti umani, nel 2008, ha definito le condizioni nei centri "inaccettabili". Alcuni immigrati, come Matar Yacoub, hanno addirittura accusato i francesi di aver affondato apposta alcune kwasa-kwasa, le piccole imbarcazioni degli "scafisti". La vita dei clandestini è durissima. Uno di loro, Taher, racconta che anche se i comoriani e gli abitanti di Mayotte "sono uno stesso popolo" a Mayotte non la pensano così e "festeggiano quando vengono a sapere che un kwasa-kwasa è affondato". I giovani comoriani arriva con l’illusione di buoni stipendi e una vita migliore ma sono poi costretti a vivere nascosti, nel terrore della deportazione. Lavoro "ce n’è poco per tutti". Le possibilità di raggiungere l’Europa da lì, praticamente nulle. Mayotte, "isola della morte, ed estrema frontiera europea, per loro è una trappola. Sulla Libia, la linea la detta Napolitano di Andrea Colombo Il Manifesto, 10 marzo 2016 L’ex presidente si prende la scena e predice il futuro: vasta coalizione internazionale contro l’Isis e supporto alla stabilizzazione libica. Oscurato Gentiloni che ha "frenato" rispetto al bellicismo di Renzi e Hollande. Ieri sera i corpi di Salvatore Failla e Fausto Piano non erano ancora arrivati in Italia. Forse nella notte: "Se Dio vuole", come dice la Procura generale di Tripoli. Dovrebbero partire "appena terminata l’autopsia", la quale invece è stata fatta davvero. Senza alcuna autorizzazione, anzi alla faccia delle proteste delle famiglie delle due vittime. La tragedia, dopo giorni e giorni di annunci puntualmente smentiti, si è colorata con le tinte della beffa. Per sua fortuna Renzi gode di un appoggio mediatico senza precedenti nella storia repubblicana. Qualsiasi altro governo, dopo una figura simile, sarebbe stato crocefisso, con l’assoluta mancanza di autorevolezza e rispetto internazionali a far da chiodi. Una realtà già dimostrata dalla nonchalance con cui gli americani, una volta scoperte le loro attività di spionaggio, neppure si sono peritati di porgere formali scuse, e soprattutto dalle continue prese in giro del governo egiziano dopo l’assassinio di Giulio Regeni. Ma Renzi è Renzi e così tutti fingono di non vedere e stringono il bavaglio. Tranne le famiglie delle vittime. La moglie di Failla ha rifiutato i funerali di Stato per suo marito: "Lo Stato non lo ha tutelato". Ieri, dopo giorni e giorni, il governo si è finalmente deciso a informare il Parlamento, senza scomodarlo a decidere con voti di sorta. Il ministro degli Esteri Gentiloni si è rivolto al Senato in mattinata, la responsabile della Difesa Pinotti al Copasir, nel pomeriggio. Alle prese con l’aula di palazzo Madama, Gentiloni ha escluso che sia stato pagato alcun riscatto, ma ha ammesso che la vicenda degli ostaggi italiani presenta ancora "molti punti oscuri". Quanto alla guerra, ha ripreso i toni e gli argomenti rassicuranti adoperati dal premier nelle interviste domenicali, glissando sul cambio di marcia dopo l’incontro con Hollande. Parole davvero ferme quelle del ministro degli Esteri: "Il governo non si farà trascinare in avventure davvero inutili e persino pericolose per la nostra sicurezza nazionale. Non è sensibile al rullar di tamburi e a radiose giornate interventiste, ma interverrà se e quando possibile su richiesta di un governo legittimo". Il richiamo alle "radiose giornate" del 1915, quando l’impeto di una minoranza guerrafondaia impose una guerra antiparlamentare, non è casuale: prepara il terreno all’immancabile promessa di lasciare al Parlamento l’ultima parola. Come Costituzione impone: "Lavoriamo per rispondere a eventuali richieste di sicurezza del governo libico, solo dopo il via libera del Parlamento". Gentiloni non spiega perché mai, meno di 24 ore prima, il capo del governo, a fianco del collega francese, avesse invece dichiarato che "i libici devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito". Nemmeno risponde ai molti che gli chiedono come sia possibile che il governo americano disserti nei particolari sulla quantità e qualità delle truppe italiane che entreranno in azione. Al suo posto lo fa Giorgio Napolitano, da par suo: "Forse gli americani hanno detto quella cifra, 5.000 uomini, perché più o meno tanti ne avevamo impiegati in Afghanistan". Senza vergogna. Non ha solo fornito la più ridicola tra le spiegazioni possibili il presidente emerito. Ha parlato come se fosse lui il capo dello Stato, e del resto persino nel cerimoniale del Colle gode di un trattamento pari a quello di Sergio Mattarella, rispetto al quale resta tuttavia ben più loquace. Il vero discorso del governo, ieri, lo ha fatto lui, e ha illustrato nel dettaglio cosa il "suo" Paese è disposto a fare e cosa invece è fuori discussione. Ci sarà una vasta coalizione internazionale contro l’Isis, ha ripetuto per la seconda volta in due giorni. L’Italia ne farà parte ma certo non col ruolo di guida: "Sarebbe grottesco". Altra cosa è la missione in Libia, quella sì capitanata dal belpaese, ma solo con funzioni "di supporto alla stabilizzazione istituzionale e politica e di supporto a un governo legittimo capace di preservare l’integrità territoriale della Libia". Il che non vuol dire escludere il ricorso alle armi in nome di "un pacifismo di vecchissimo stampo che non ha ragion d’essere nel mondo di oggi". La palla è poi passata alla ministra Pinotti, che, di fronte al Copasir, ha escluso interventi senza che un governo unitario chiami l’Italia, mentre ha difeso a spada tratta l’invio di forze speciali, di fatto sotto il diretto comando del primo ministro. Pinotti ha anche insistito sulla necessità di evitare quella tripartizione della Libia che era stata evocata in mattinata al Senato dall’ex ministro Mauro Mauro e alla quale aveva fatto cenno lo stesso Napolitano. Un passaggio che spiega molto sul reale stato delle cose, specie se sommato agli equilibrismi di un governo capace di volteggiare in 24 ore dalla presenza di un governo unitario come condizione imprescindibile per un intervento, alla minaccia implicita di muoversi comunque se quel governo non nascerà presto per tornare poi alle posizioni di partenza. L’intervento ci sarà, ma quando e con quanto impegno, sia militare che economico, resta oggetto di un braccio di ferro internazionale, che vede l’Italia da una parte, la Francia e gli Usa dall’altra. Così come il tema, persino più scottante anche se inconfessabile, della spartizione delle aree di egemonia e controllo. Qualcosa che somiglia molto da vicino a una forma di neocolonialismo. Russia: primato europeo per il numero di detenuti morti, 4.200 in un anno Il Messaggero, 10 marzo 2016 La Russia è in cima in Europa nella triste classifica dei detenuti morti con 4.200 casi registrati nel 2013. In 461 occasioni si è trattato di suicidio. Lo riporta il quotidiano economico Rbk citando un rapporto del Consiglio d’Europa sui sistemi penitenziari di 47 paesi. La Russia ha inoltre il più alto tasso di mortalità tra i detenuti dei maggiori paesi europei, con sei persone morte su 1.000 carcerati. Turchia: 49 anni di carcere al giornalista Sami Tunca, partecipo’ a proteste Parco Gezi Adnkronos, 10 marzo 2016 Il giornalista turco Sami Tunca, caporedattore della rivista Mucadele Birligi, è stato condannato a 49 anni di carcere con l’accusa di essere un militante di un’organizzazione terroristica. Il 27enne Tunca era stato arrestato il 17 settembre 2013 per aver preso parte alle manifestazioni antigovernative di Parco Gezi, a Istanbul, risalenti all’estate precedente. Era stato poi rinviato a giudizio con l’accusa di essere un membro del Partito laburista comunista di Turchia/Leninista (Tkep/L), di aver portato, durante le proteste, striscioni con la sigla del partito, di aver danneggiato beni pubblici, di essere in possesso di una Molotov e di aver partecipato a una cerimonia commemorativa di Deniz Gezmis, fondatore dell’Esercito popolare di liberazione della Turchia (Thko). Per i reati contestati rischiava una condanna fino a 185 anni di carcere. Ieri un altro giornalista turco, Baris Ince, del quotidiano BirGun, è stato condannato a 21 mesi di carcere per insulto al presidente Recep Tayyip Erdogan. Ince era finito sotto processo per alcuni articoli del 2013, quando Erdogan (all’epoca premier), suo figlio Bilal, alcuni ministri e i loro figli furono coinvolti in un grosso caso di corruzione. Quelli di Tunca e Ince sono gli ultimi di una serie di casi di giornalisti turchi finiti sotto processo negli ultimi anni, soprattutto per presunti insulti a Erdogan. Si aggiungono inoltre alla recente vicenda del quotidiano di opposizione Zaman, commissariato con una sentenza del tribunale di Istanbul.