Se in Italia la recidiva è del 70% è ora di parlare di "pene inefficaci" Il Mattino di Padova, 9 maggio 2016 Il racconto di un detenuto sull’inefficacia delle pene, quando il carcere è "chiuso" e non c’è confronto con la società esterna, può darci fastidio, perché fuori, nel mondo "libero", siamo tutti abituati a illuderci che più le pene sono "cattive", più la società è sicura. Però gli studenti, che si confrontano con le persone detenute, incontrandole nelle scuole e in carcere, a volte dimostrano più prontezza, più attenzione, meno pregiudizi degli adulti nell’affrontare questi temi. Quelle che seguono sono le testimonianze di un detenuto e di uno studente, dalle quali emerge con chiarezza questo sguardo "libero" dello studente, che esprime un grande equilibrio e la consapevolezza piena di quello che è l’interesse della società: capire che è ora di smetterla di investire risorse umane ed economiche in pene lunghe e inefficaci. Un carcere chiuso fa solo aumentare la rabbia Sono entrato in carcere che avevo appena 22 anni per una scelta di vita che avevo fatto già da ragazzo e mi sembrava mi rendesse felice, ma non mi rendevo conto che mi potevo rovinare la vita. Ora è da 9 anni che sono recluso per una condanna a 15 anni. In tutti questi anni non è stato facile sviluppare la parte migliore di me ed in questo percorso così accidentato sicuramente ci ho messo del mio, ma anche le istituzioni ci hanno messo tanto del loro a lasciarmi l’etichetta del "cattivo". Riconosco che il mio carattere da ribelle non mi ha aiutato ed è anche per questo che in 9 anni ho cambiato 8 carceri dal Nord al Sud Italia, ma così facendo era ancor peggio e la rabbia in me cresceva. In tutti quegli anni non ho mai riflettuto sulla gravità dei miei reati e sulle mie responsabilità. La gente fuori pensa solo alla lunghezza delle pene, al fatto che una pena efficace deve essere lunga, non pensa che il detenuto deve essere messo nelle condizioni di capire, riflettere, avere un percorso di reinserimento ed essere accompagnato in questo percorso per far sì che quando esce sia una persona migliore. Invece questo non accade, perché io in tutti questi anni mi sono sentito solo dire cosa fare e cosa non fare, non ho mai potuto esprimere il mio parere e quelle poche volte che l’ho fatto ho preso un rapporto disciplinare. Sono convinto che alla gente bisogna far capire che le pene lunghe portano solo danni per tutti, che un carcere chiuso fa aumentare ancor di più la rabbia che c’è in noi. È ora di cambiare la cultura del carcere e delle pene, perché se ad una persona viene data la possibilità di confrontarsi con la società esterna, penso che sia più facile capire e riflettere sulle scelte fatte. Dico questo perché da quando sono a Padova ho rivisto un pò il film della mia vita e mi sono soffermato sulle mie scelte, ma tutto questo l’ho potuto fare perché ho trovato un ambiente diverso, persone che credono in me e con l’aiuto dei volontari di Ristretti Orizzonti, della squadra di calcio, i professori e specialmente gli studenti che entrano ad incontrarci nel progetto "Scuola-carcere", che con le loro domande ti mettono in difficoltà e ti fanno riflettere la notte prima di dormire. Tutto questo però dovrebbero farlo anche le istituzioni e non solo il volontariato ed è per questo che è venuta l’ora di riflettere e scegliere che pena vogliamo: una pena punitiva o riflessiva e riparativa? Le pene lunghe e le condizioni disumane di molte carcerazioni sono devastanti per noi detenuti e inutili per la società esterna. Io personalmente penso di essere arrivato al punto di potere ritornare in libertà, di potermi confrontare e riprendere in mano la mia vita. Spero che la mentalità con il passare del tempo cambi e che tutti capiscano che la pena punitiva porta solo del male, mentre quella riparativa e costruttiva è una risorsa sia per i detenuti sia per la gente per bene. Kasem Plaku Smettiamo di pensare alle "pene troppo corte" e cominciamo invece a dire "pene inefficaci" Dopo l’incontro con alcuni di voi detenuti in carcere, ciò che mi ha colpito maggiormente è stato scoprire la differenza tra come voi siete apparsi ai miei occhi e come, invece, i giornali di cronaca vi hanno dipinto al tempo. È vero che ci possono sempre essere punti di vista diversi, però un divario simile mi ha spinto a chiedermi se non sia effettivamente vero, come qualche detenuto ha suggerito, che la società all’esterno tende a creare l’immagine di un reo-mostro, cercando di marcare molto fortemente la differenza tra "noi" e "voi". Pensare che in qualche modo voi siate completamente diversi ci rassicura e fa sì che noi possiamo gioire ogni qualvolta un reo viene condannato. L’idea che sta invece prendendo forma da un pò di tempo in me è che quando una persona commette un furto, una rapina o un omicidio, il problema non è suo, ma di tutta la comunità, che deve cercare il modo più efficace per trovare una soluzione. Con questo non intendo assolutamente dire che ogni reato debba essere giustificato, però ogni reato deve diventare un’occasione per tutti per ricordarci di vigilare su noi stessi, sulla nostra condotta, sulle nostre scelte di vita. Il mio timore è che talvolta venga posto l’accento in modo sbagliato sulla sete di giustizia delle vittime, che reputano la pena sempre troppo corta, troppo lieve, e spesso commentano con: "… e tra x anni questo sarà già libero, di nuovo in strada…". Finché non ci convinceremo che il carcerato vada in qualche modo accudito, guidato, rieducato, come peraltro credo bisognerebbe agire con chiunque sbagli, gli istituti di detenzione continueranno ad essere la seconda casa di molti e ciò non porterà benefici a nessuno. Io non sono in grado di trovare una soluzione e forse qualcuno potrebbe tacciarmi di idealismo e utopismo. Comunque rimango convinto dell’inefficacia del sistema attuale e della necessità di dare maggiore importanza a questa problematica: dobbiamo smettere di pensare "pene troppo corte" e cominciare invece a dire "pene inefficaci". Quando ho saputo che in Italia c’è una recidiva del 70% ho capito che non stiamo risolvendo nulla, stiamo solo rimandando il problema, sprecando risorse economiche (il costo giornaliero di mantenimento di un detenuto è non indifferente) e umane (il carcerato stesso). Un altro aspetto che mi ha colpito molto è stato quello della rabbia: ora come ora, il carcere sembra essere un centro di educazione alla malvivenza, più che alla cittadinanza, e acuisce nel detenuto la volontà di contrapporsi ad una entità avversa, identificata usualmente nello Stato. Penso che una delle cause di questa situazione sia la mancanza di attività per i carcerati: solo una piccola percentuale di loro ha la possibilità di essere coinvolta in progetti di rieducazione, mentre gli altri passano giornate, mesi, anni interi in cella, senza avere alcuna opportunità di cambiare. Se qualcuno crede che "sbattere in cella qualcuno" sia sufficiente per risolvere le cose, non ha capito che quasi la metà dei carcerati sconta pene o residui pena inferiori ai cinque anni: non possiamo pensare di lasciare che sette su dieci di loro tornino a delinquere dopo poco tempo, né possiamo credere che una soluzione efficace e sostenibile sia quella di condannarli a cinquant’anni, invece che a cinque. Dunque ritengo che sia necessario "reinventare" in qualche modo gli istituti di detenzione, affinché possano diventare davvero una risorsa per tutti. Mattia M., Liceo Corradini di Thiene Troppi detenuti suicidi e il ministro Orlando scrive al Dap: interveniamo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2016 Sarà predisposto un piano per la riduzione del rischio autolesivo dei detenuti. Troppi atti di autolesionismo e suicidi nelle patrie galere. L’ultimo, al carcere calabrese di Paola, è una vicenda ancora tutta da chiarire come Il Dubbio ha già riportato Infatti la procura di Reggio Calabria il 5 maggio ha disposto l’autopsia nei confronti dell’ex detenuto Maurilio Pio Morabito. Entro 90 giorni si conosceranno i risultati delle analisi. Tutte queste morti in carcere hanno allertato il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha diffuso un comunicato stampa, dove annuncia di aver indirizzato una direttiva al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, per affrontare la delicata problematica dei suicidi e dei tentati suicidi in carcere. In particolare, il Guardasigilli ritiene necessario attuare un piano nazionale d’intervento per la prevenzione del suicidio e per il conseguente monitoraggio delle strategie adottate, attraverso la raccolta, l’elaborazione e la pubblicazione dei dati e delle esperienze condotte. "Si tratta di un fenomeno inquietante e intollerabile", denuncia Orlando nella direttiva, "rispetto al quale è necessario innalzare il livello di attenzione, accentuando allo stesso tempo le misure che nei singoli istituti vengono già poste in essere per prevenire fenomeni di autolesionismo". Fra gli elementi che maggiormente possono suscitare la tentazione suicida il Guardasigilli individua il rischio ambientale: da questo punto di vista, la sorveglianza o l’isolamento del detenuto che abbia tendenze suicide possono talvolta accentuarne il rischio; analogamente è troppo spesso sottovalutato il trattamento del disagio psicologico e mentale; così come l’ambiente detentivo indifferenziato può costituire un fattore di rischio nella tendenza al suicidio. Un sistema maggiormente flessibile - riporta sempre il comunicato - potrà essere in grado di attuare più efficaci forme di controllo e di conoscenza approfondita delle persone ristrette e di garantire la miglior comprensione e gestione delle situazioni di maggior disagio. In quest’ottica - Orlando ordina nella direttiva per il Dap - verranno fra l’altro sviluppate opportune misure di osservazione del detenuto, differenziate a seconda della fase trattamentale e con particolare attenzione ai soggetti tossico-alcool dipendenti; saranno adeguati gli spazi detentivi destinati all’accoglienza dei soggetti a rischio, secondo criteri moderni e rispettosi della dignità della persona; saranno organizzati programmi formativi specifici per tutti gli operatori, favorendo l’interazione anche con coloro che da esterni operano nell’Istituto. Secondo la direttiva emanata dal ministro Orlando, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria provvederà quindi a predisporre un Piano nazionale d’intervento, tenendo conto anche della giurisprudenza della Cedu in materia e in linea con quanto elaborato dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2010, ripreso successivamente dalla Conferenza Unificata per i rapporti tra Stato-Regioni nel 2012 nelle sue "Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale". Queste linee di guida in realtà dovevano essere state messe in atto già da diversi anni. La conferenza Stato-Regioni, con accordo sottoscritto in data 19/01/2012, aveva impegnato le rispettive amministrazioni, attraverso le proprie articolazioni territoriali, a costituire all’interno di ciascun osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria, un gruppo di lavoro tecnico-scientifico con lo specifico mandato di procedere a una ricognizione dell’esistente in termini di disposizioni normative e pratiche già in atto; la definizione di specifiche modalità operative e organizzative di intervento nei confronti del disagio e le relative responsabilità, sulla base della normativa vigente, delle amministrazioni coinvolte; l’adozione, in tempo utile, di tutte le iniziative necessarie all’avvio, entro un anno, di una sperimentazione in almeno una struttura penitenziaria per adulti e una per minori presente sul territorio della Regione, fermo restando che il successo e l’efficacia dell’intervento sono legati all’effettiva messa in atto delle azioni specifiche individuate per ciascuna amministrazione coinvolta. La conferenza Stato-Regioni aveva disposto in particolare che: "l’Amministrazione penitenziaria e la Giustizia minorile, tramite le proprie articolazioni territoriali, e le Regioni e la pubblica amministrazione si impegnano, entro tre mesi dalla data del presente Accordo, a costituire in ogni Regione e pubblica amministrazione, all’interno di ciascun Osservatorio Permanente sulla Sanità Penitenziaria, un gruppo di lavoro tecnico-scientifico, composto, senza oneri aggiuntivi, anche da operatori sanitari e da operatori penitenziari e minorili. Tale gruppo di lavoro avrà il compito di elaborare, sulla base delle linee guida esistenti e tenendo conto delle indicazioni degli organismi europei e dell’Oms, un programma operativo di prevenzione del rischio auto-lesivo e suicidario in carcere e nei servizi minorili". Ad oggi non è stato fatto nulla di quanto detto. Il ministro Orlando tramite questa direttiva indirizzata al Dap, ha semplicemente rinnovato i buoni propositi. Nel frattempo negli istituti penitenziari si continua a morire. Legnini (Csm): "magistrati, niente campagne politiche" di Dino Martirano Corriere della Sera, 9 maggio 2016 Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, invita i magistrati a una maggiore cautela sulle dichiarazioni riguardanti il referendum di ottobre: "No a campagne". "C’è un divieto" per i magistrati di "partecipare a campagne politiche e questo referendum costituzionale si è caricato di un significato politico. Quindi, ci sarebbero ragioni che suggerirebbero cautela perché il giudice deve sapere coniugare il suo diritto ad esprimere opinioni con la necessità di assicurare terzietà". Questa la formula usata dal "numero due" del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, intervistato da Maria Latella a Skytg24, per segnalare che un magistrato - e ancor di più un "togato" del Csm, come Piergiorgio Morosini, messo sotto accusa per l’intervista al Foglio poi smentita - potrebbe dire pubblicamente come la pensa sulla riforma del Senato ma non certo annunciare il suo impegno attivo per il comitato referendario del No. L’affaire Morosini, dunque, non è chiuso. Magistratura democratica (la corrente di sinistra del togato finito sotto accusa) rivendica "il pieno diritto, come magistrati associati, di intervenire nel dibattito pubblico tutte le volte in cui sono in gioco i principi fondamentali senza che ciò inquini la nostra indipendenza". La stessa linea è sostenuta dal procuratore di Torino, Armando Spataro, insieme al giudice Franco Ippolito: "Già nel 2006 (riforma Berlusconi, ndr) abbiamo partecipato a decine di iniziative per illustrare l’inaccettabilità delle modifiche costituzionali sottoposte a referendum... E non ricordiamo interventi di esponenti del centrosinistra che, nel 2006, misero in discussione il diritto costituzionale dei magistrati di partecipare al confronto". Spataro e Ippolito "auspicano" che la giunta dell’Anm (convocata per domani) "riaffermi l’intangibilità dei diritti costituzionali dei magistrati". Eppure i dibattito sulla libertà di opinione dei magistrati rischia di essere fuorviante. Sotto la cenere, infatti, arde altro: nell’intervista smentita da Morosini c’era pure un duro attacco al funzionamento del Csm, sottoposto a ogni sorta di "pressione", soprattutto per quanto riguarda le nomine. Ed è questo l’aspetto del caso Morosini che, secondo il ministro Orlando, ha assunto "una rilevanza istituzionale perché riguarda il rapporto con un organo fondamentale come il Csm". Con queste premesse, si apre una settimana piena di incognite per i rapporti tra politica e magistratura. Nel pomeriggio c’è la direzione del Pd (in cui Renzi partirà dal caso dell’ex assessore fiorentino Graziano Cioni, assolto dall’accusa di corruzione dalla Cassazione dopo 8 anni di processi). In serata, poi, Legnini (che oggi partecipa alla cerimonia per le vittime del terrorismo insieme al capo dello Stato) potrebbe salire al Quirinale per riferire a Mattarella (che presiede il Csm) gli sviluppi del caso Morosini. Domani, infine, Legnini dovrebbe essere convocato dal ministro Orlando in via Arenula. Le toghe e il referendum. Ardituro (Area): "libertà di esprimersi per tutti" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 maggio 2016 Le parole del consigliere del Csm per conto del gruppo di sinistra di Area: "Anche l’Anm potrebbe schierarsi. Il voto non è su Renzi". "Una cosa dev’essere chiara: si può parlare dell’inopportunità che un componente del Consiglio superiore della magistratura partecipi alla campagna referendaria sulla riforma costituzionale, ma non certo di un divieto; chi vuole ha comunque il diritto di farlo". Così dice Antonello Ardituro, consigliere dell’organo di autogoverno dei giudici per conto del gruppo di sinistra di Area (che riunisce il Movimento per la giustizia-Articolo 3, il suo, e Magistratura democratica, cui appartiene il collega Piergiorgio Morosini), dopo che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha invitato alla "cautela" rispetto all’impegno diretto nei comitati per il No (o per il Sì). Il problema di opportunità si pone solo per i consiglieri del Csm o per tutti i magistrati? "Riguarda noi rappresentanti del Consiglio, componenti di un organo collegiale di rilievo costituzionale; la partecipazione attiva alla campagna ci accomunerebbe a posizioni estremiste o radicali, oltre che politicizzate, poco opportune per la posizione istituzionale che ricopriamo. I magistrati invece sono liberi, l’hanno già fatto nel 2006 e nessuno mi pare che abbia mosso rilievi, perché oggi dovrebbe essere diverso?". Forse perché Renzi ha legato il destino del suo governo all’esito del referendum. "Ma questo è un problema del presidente del Consiglio, non dei magistrati. Stiamo parlando del legittimo esercizio di un diritto che non può essere conculcato o condizionato dal fatto che qualcun altro attribuisce valore politico all’esito del referendum. La consultazione riguarda l’architettura costituzionale, e i magistrati che intendono prendere posizioni ne valuteranno le conseguenze sull’equilibrio tra i poteri; non è un referendum sul governo in carica". Dunque, secondo lei, se il procuratore di Torino Spataro aderisce al comitato per il No non ci sono problemi, mentre per Morosini sarebbe inopportuno? "Questa è la mia opinione, fermo restando che anche i consiglieri hanno il pieno diritto di dire pubblicamente come la pensano. Ma la partecipazione diretta alla campagna è un’altra cosa". Lei come voterà? "Non ho ancora deciso". Il "caso Morosini", però, non si limita al referendum. Per il ministro della Giustizia ci sono questioni "di rilevanza istituzionale" ancora da chiarire. Lei che ne pensa? "Penso che dovremmo attenerci alla smentita, peraltro reiterata; un colloquio privato non può essere paragonato a un’intervista, e potremmo fermarci qui. Dopodiché, se il ministro ritiene necessari chiarimenti è giusto che ne parli col vicepresidente Legnini sebbene, come ha specificato proprio Legnini, non esiste alcun potere di convocazione da parte del Guardasigilli. Siamo nell’ambito della leale collaborazione tra poteri". Qualcuno ipotizza un’azione disciplinare a carico del suo collega. "L’eventuale avvio dell’azione disciplinare spetta al ministro o al procuratore generale della Cassazione, e io su questo non mi posso esprimere anche perché sono membro supplente della Sezione disciplinare che sarebbe chiamata, eventualmente, a giudicare". Perché la smentita di Morosini non è bastata? "Perché la presunta intervista è arrivata dopo quella di Davigo contro cui si sono levati i politici, e dopo l’uscita del consigliere Fanfani al Csm contro i giudici di Lodi: una mossa del tutto inopportuna, da non sottovalutare, alla quale noi abbiamo giustamente reagito in maniera molto ferma. La vicenda Morosini è stata l’occasione per un’ulteriore risposta che ha contribuito a far aumentare la tensione. Mi auguro che adesso il dibattito rientri nella sua fisiologia, con un abbassamento dei toni da parte di tutti". Tornando al referendum costituzionale, lei pensa che sarebbe legittimo se anche l’Associazione nazionale magistrati si schierasse da una parte o dall’altra? "Se ci fosse una posizione unitaria non vedo dove sarebbe il problema. Di solito si accusano le correnti della magistratura di essere diventate solo dei centri di potere per la spartizione dei posti, ma poi ci si meraviglia quando si discute di posizioni politico-culturali su questioni istituzionali di grande rilievo". Dentro Area si intravede una divisione tra voi del Movimento, meno conflittuali con il governo, e Md più decisamente contraria. È così? "A parte che nel Csm abbiamo votato quasi sempre compatti, credo che quel tipo di differenziazione sia trasversale all’interno dei gruppi e non così netta tra l’uno e l’altro. Anzi, sarebbe bene che l’esperienza di Area proseguisse fino al superamento definitivo dei gruppi d’origine". Politica e magistratura. L’intervento condiviso e l’incontro con Davigo di Marzio Breda Corriere della Sera, 9 maggio 2016 La prova di forza tra politica e toghe è come la fatica di Sisifo, per Sergio Mattarella: una pena infinita, alla quale non si sottrae per una questione di coscienza, per quanto magari sappia che è tutto inutile. Dieci giorni fa, sulla scia dello scontro tra il premier Renzi e il presidente dell’Anm Davigo, ha tentato di spegnere le tensioni con l’esortazione ai due poteri affinché trovino il modo di cooperare in "una grande alleanza", perché "il conflitto indebolisce tutti". E adesso - ecco il destino di Sisifo - dopo aver visto scivolare a valle quel carico di polemiche che aveva tentato di sterilizzare portandolo lontano, cioè sulla montagna del mito, si trova obbligato a caricarsi ancora una volta sulle spalle quel peso, nella speranza di separare i contendenti. Lo farà con il linguaggio sorvegliato, e attento a ogni ricaduta politica e istituzionale, che ormai conosciamo. Scegliendo dunque se, come e quando intervenire (in ogni caso mai a caldo, per non far entrare il Quirinale nel battibecco mediatico), con lo spirito di salvaguardare "l’interesse generale". Ci ragionerà sopra dopo il prossimo incontro con Davigo, previsto per i prossimi giorni. E Ne parlerà forse già nelle prossime ore con il suo vice al vertice del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini. Un incontro di routine, lo definiscono dallo staff. Non sembra una minimizzazione, dato che con lui, nei momenti critici, le consultazioni sono quotidiane. E spesso si traducono in appelli e ammonimenti nei quali si potrebbe dire che il presidente della Repubblica - a parte certi accenti personali e certe sfumature nei toni - parla "per interposta persona". Sul Colle, del resto, chiunque ne sia l’inquilino, tradizionalmente accade proprio questo. Ed è successo pure ieri, quando Legnini ha chiesto al corpo giudiziario un supplemento di "cautela" (espressione nelle corde di Mattarella) nel dibattito sul referendum d’autunno per le riforme costituzionali, perché quel dibattito si è ormai caricato di forti significati politici. Tali da mettere a rischio la "terzietà" del magistrato che si schierasse su un fronte o sull’altro. La questione, sollevata dal procuratore della Repubblica di Torino, Spataro, si sovrappone all’intervista attribuita (e smentita) al membro togato del Csm, Morosini, e apre un versante inedito nell’aspra partita in corso. Infatti ha a che fare con diritti e doveri delle toghe, con la loro autonomia e indipendenza e, appunto, con la loro "terzietà". E il preoccupato Mattarella, per la sua formazione di giurista ed ex giudice della Consulta, non può che affrontarla da un punto di vista strettamente istituzionale. Invitando i due fronti in lotta all’equilibrio e alla ragionevolezza. Giudici in politica puniti solo se parlano contro Renzi di Maurizio Belpietro Libero, 9 maggio 2016 Il gip Morosini si schiera contro il Rottamatore: "Va fermato". E subito scatta la ritorsione da parte dei colleghi. Ma da sempre i magistrati attaccano impunemente governi e premier. La sola differenza è che Matteo è di sinistra. Mai avrei immaginato di dover difendere un tipo come Piergiorgio Morosini, ossia un giudice che se non avessi paura di una querela - pericolo sempre in agguato anche quando si parla bene di un magistrato - non esiterei a definire una toga rossa. Lasciamo perdere se l’esponente del Consiglio superiore della magistratura quelle frasi riportate nell’intervista di Annalisa Chirico le abbia dette nei termini esatti in cui la collega del Foglio le ha riportate. Lui ha smentito il passaggio usato per fare il titolo, "Renzi va fermato", e lei ha confermato. Ma che Morosini abbia effettivamente pronunciato quelle parole oppure no, poco importa. Il senso del discorso dell’ex gip di Palermo, con o senza quell’espressione, risulta comunque chiaro: il referendum costituzionale deve essere bocciato, perché altrimenti ritroveremo con un sistema di governo autoritario, senza pesi e contrappesi. E per fermarlo il consigliere del Csm è pronto a mobilitarsi insieme a tanti suoi colleghi di Magistratura democratica. E allora, che ha detto Morosini di così sconvolgente da richiedere un’apposita seduta del Consiglio superiore della magistratura? Ha dichiarato ciò che sanno tutti ma tutti fingono di non sapere. Ossia che una parte della magistratura fa politica ed è pronta ad impegnarsi contro una riforma costituzionale voluta dal Parlamento (anche se votata a colpi di maggioranza e non con un voto unanime). C’è qualcuno disposto a sostenere di essere all’oscuro del ruolo politico di Magistratura democratica e di altre correnti delle toghe? Via, non facciamo i finti ingenui: sono vent’anni almeno che i giudici esondano dagli argini e straripano in politica e non lo fanno solo con le manette. Armando Spataro, procuratore capo di Torino e leader di una delle correnti di sinistra, ieri ha avuto almeno il coraggio di rivendicare il diritto di intervenire nel dibattito politico, sostenendo che i magistrati hanno il dovere di schierarsi al referendum. Con una lettera a Repubblica, il pm ha confessato di aver aderito subito al Comitato promotore per il No, precisando di aver fatto la stessa cosa nel 2006, quando partecipò attivamente alle iniziative per contribuire alla bocciatura di un’altra riforma costituzionale, quella voluta dal governo di centrodestra. Scherzosamente, Spataro si è dunque autoaccusato, ammettendo anche l’aggravante della recidiva specifica. Del resto, Morosini e Spataro non sono i primi a dire queste cose. Pensate che il 22 febbraio di 18 anni fa a mettersi di traverso per bloccare la riforma costituzionale dell’allora governo D’Alema fu un altro nome noto della magistratura, ossia Gherardo Colombo, il quale in un’intervista al Corriere della Sera definì la commissione bicamerale che aveva il compito di mettere a punto le modifiche alla Carta figlia di un ricatto politico. Un giudizio condiviso da molti suoi colleghi, Ilda Boccassini e Francesco Saverio Borrelli fra i primi. Naturalmente ci furono polemiche e anche un tentativo di censurare l’esponente del Pool di Mani pulite, già titolare dell’inchiesta sulla P2. Tuttavia a quelle parole non seguì alcun provvedimento concreto, cosa che immagino capiterà anche con Morosini. Con Colombo fu l’allora Guardasigilli Giovanni Maria Flick ad esercitare l’azione disciplinare, ora tocca ad Andrea Orlando. Ministri della Giustizia di governi di sinistra che fingono stupore perché al governo c’è la sinistra, ma - come dicevo - le esondazioni dei magistrati sono la regola, non l’eccezione. Inutile dunque fingere indignazione per ciò che ha detto Morosini. I magistrati quelle cose le dicono da anni e senza che nessuno abbia mai preso contro misure. Anzi, quando qualcuno ha provato a porre dei paletti che marcassero le differenze fra potere legislativo e potere giudiziario, a sinistra in molti si sono schierati al fianco dei magistrati, sperando forse di usarli contro gli avversari. Ancor più ingiustificata, se non comica, è la reazione avuta dalle alte cariche istituzionali di fronte alla denuncia del consigliere del Csm circa i maneggi che avvengono all’interno dello stesso Consiglio della magistratura. Dove sta la novità? Tutti sanno che le nomine, i provvedimenti di censura e perfino le autorizzazioni per gli incarichi extragiudiziali rispondono a strette logiche di corrente e dunque politiche. Perché fingere stupore? Ha ragione Morosini: le decisioni sono politiche, la giustizia non c’entra niente. L’autogoverno dei magistrati è semplicemente una spartizione fra gruppi, né più né meno di come succede in Parlamento. Tu dai una promozione a me e io do una promozione a te e alla fine tutti quanti siamo felici e contenti . Insomma, il consigliere del Csm ora sotto processo ha detto la verità, sia su quel che pensa a proposito della riforma costituzionale sia a proposito del funzionamento del consiglio superiore della magistratura. E allora dove sta lo scandalo? Ve lo dico io. Negli atteggiamenti tartufeschi di chi si indigna ora e avrebbe dovuto indignarsi vent’anni fa. come prevede anche il nostro codice deontologico. Qui si tratta, invece, di un diritto costituzionale di cui anche il magistrato - come ogni cittadino - è titolare e che viene oggi contestato". Le parole di Legnini sono anche una risposta indiretta a Magistratura democratica, la corrente del consigliere Morosini, che in una nota ha sostenuto: "Rivendichiamo il pieno diritto come magistrati associati, di intervenire nel dibattito pubblico tutte le volte in cui sono in gioco principi fondamentali, senza che ciò inquini in alcun modo la nostra indipendenza, l’autonomia e la terzietà nell’esercizio della giurisdizione. È ovvio che ciò vale per noi, come per i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura". Legnini ha confermato l’incontro previsto con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Con il ministro ci incontreremo per affrontare i temi delle rispettive competenze del ministro e del Csm, se non sarà proprio domani, martedì o mercoledì". Il vertice, in realtà, è in agenda proprio oggi. Imprese e legalità, la rissa continua nutre il malaffare di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2016 L’Italia deve difendersi da poche mele marce o da un sistema che va radicalmente bonificato? Per un’analisi credibile sull’incalzare dei fatti di malcostume - e specificamente di corruzione - conviene escludere dal quadro le manifestazioni estreme come il politico siciliano col trolley pieno di droga, il carabiniere che fa da vedetta informatica ai criminali, il giornalista simbolo antimafia che avrebbe estorto 466 euro, l’imprenditore che opera per arricchire le cosche. Trarre scenari generali a partire da casi simili è utile agli agitatori di professione, ma non a rappresentare la complessità del reale. Così delimitato il quadro, risulta ancora più evidente il reticolo delle mediane dell’illegalità, poco appariscente e assai più ramificato di quanto lascino intravvedere le cronache eclatanti, che polarizzano l’attenzione e offrono alibi a ogni altra condotta illegale, dalla minuscola evasione fiscale alla tangente per una concessione che ritarda. A fronteggiare questo palese degrado, ci sono volenterosi dispersi in diversi settori e perciò in minoranza rispetto alla (sub)cultura oggi prevalente, senza riferimenti certi dai tre Poteri, impegnati in polemiche roventi tra loro e al loro stesso interno, come si è visto nei momenti di peggior impotenza davanti alle stragi mafiose, al terrorismo politico, alle calamità naturali. Tra scambi di accuse senza riguardo per i cittadini, stiamo vivendo una surreale disunità d’intenti, sancita da una furia polemica che rischia di far perdere di vista l’obiettivo finale cui tutti dicono di tendere: un Paese pulito, efficiente, meno costoso. Sono giorni, questi, inaugurati dalle parole del presidente dell’Associazione magistrati e condivise dall’88% degli italiani: "I politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi". Se è vero che prima di "politici" ci sarebbe stato bene un "troppi", è anche vero che il "rubare" avrebbe potuto essere declinato in "occultare", "sprecare", "regalare" (agli amici), "spartirsi": gli italiani d’accordo sarebbero saliti al 95 per cento. Il tentativo del mondo politico di difendersi bollando le parole del leader dell’Anm come un assalto del Potere giudiziario a quello legislativo, è naufragato in una raffica di arresti e di vicende giudiziarie, vedremo quanto fondate. In un Paese pacificato e rispettoso di Montesquieu, ne sarebbe seguito un silenzio carico di riflessione. Invece, ad alimentare lo sgomento degli italiani è giunto lo sfogo con una giornalista ("informale" e "deformato", ma non negato) di un membro del Csm, stanco e amareggiato dei malfunzionamenti: "Pressioni da tutte le parti, persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Mi tocca assistere alla scelta di candidati [a capo di decine di Procure] che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto". Imprenditori, manager pubblici e privati, parlamentari, sindaci, sanno bene cosa accadrebbe loro se sorpresi a parlare così di un appalto o di un’assunzione. Passerebbero molti guai, a opera di un Pm senza macchie né paura. Altrettanto deprimente è la rissa da pollaio tra i partiti a ogni avviso di garanzia recapitato allo schieramento opposto. Un parapiglia mediatico che dimostra, al di là dei moniti e delle parole di circostanza, la drammatica assenza di strategie comuni anticorruzione, invece usata come arma di lotta politica. Questa difficoltà di muovere compatti contro il fenomeno da combattere è un déjà vu: negli anni 70, prima che destra, sinistra, magistratura e sindacati si unissero nell’antiterrorismo, si è perso un decennio tra accuse e controaccuse nel dilemma "compagni che sbagliano-burattini dei servizi?", cioè il "mele marce o sistema?" di oggi. Si sente anche spesso ripetere che, per arginare corruzione e dintorni, è inutile allestire un labirintico sistema di controlli, ma occorre articolare al meglio e consolidare la prevenzione. È una verità difficile da contraddire, ma la prevenzione funzionerà solo quando alle regole messe a punto dall’Authority e dal Parlamento, si sommerà la volontà di correzione espressa dal basso. Se manca uno dei due fattori, le somme continueranno a tirarle i Carabinieri. Cosa non dicono i professionisti della graticola quando parlano di corruzione e prescrizione di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 maggio 2016 C’è una frase vuota, inutile, senza senso e persino ipocrita che viene sbandierata ai quattro venti ogni volta che un grande o piccolo caso di corruzione finisce sui giornali e ogni volta che una qualche procura con particolare propensione alla visibilità mediatica si mette alla caccia di un possibile traffico di influenze. Quante volte lo avete sentito? "Adesso basta, bisogna fare di più per combattere la corruzione". Anche la pace nel mondo è molto bella, per non parlare dell’essenzialità delle mezze stagioni, ma una volta affermato a schiena dritta il principio che la corruzione, signora mia, è una cosa brutta, ma no?, resta da intendersi su cosa significhi quel benedetto "di più". Da molti anni, la classe politica (di ogni colore) ha scelto di assecondare le richieste della magistratura optando per la soluzione mediaticamente più efficace. La stessa che il governo si appresta a imboccare nei prossimi giorni: da una parte aumentare le pene, dall’altra ragionare sulla dilatazione dei tempi di prescrizione. L’idea di fondo è sempre la stessa: il corrotto va intimidito, spaventato, minacciato e ai magistrati, di conseguenza, è giusto dare più potere possibile per combattere un’emergenza planetaria. Si può essere d’accordo oppure no sulla scelta di puntare forte sul populismo penale ma, al di là del giudizio di valore su questo punto, c’è una questione che, oltre alle tensioni degli ultimi giorni tra politica e magistratura, risulta chiara e suona più o meno così: se da vent’anni, dai tempi di Tangentopoli, la classe politica, in combutta cordiale con la magistratura, prova a combattere la corruzione aumentando le pene ma senza ottenere risultati significa che c’è qualcosa che non va: significa che "quel di più", signora mia, non funziona, no? E la ragione per cui quel metodo non funziona riguarda uno dei grandi buchi neri del sistema giudiziario italiano: le modalità, spesso farlocche, con cui le procure portano avanti i loro filoni di indagine e le ragioni, spesso barbariche, per cui il circo mediatico giudiziario, quando parla di come combattere la corruzione, guarda solo il dito (la prescrizione) senza perdere un minuto a guardare la luna (la magistratura). Per arrivare ai nostri giorni, dunque, si potrebbe partire da una domanda elementare: perché è una sostanziale sciocchezza voler combattere la corruzione aumentando i tempi di prescrizione? Intanto, primo punto, perché l’Italia non ha un problema di processi che durano poco tempo ma semmai ha un problema di processi che durano troppo tempo - come è stato giustamente ricordato qualche settimana fa dal "Quadro di valutazione Ue della giustizia 2016" stilato dalla Commissione Europea, secondo il quale "la principale fonte di criticità e di scoraggiamento per gli investitori stranieri continua a essere costituita dalla lentezza dei processi". La seconda ragione per cui aumentare i tempi del processo rischia di essere solo un modo per dilatare la durata del processo, rendendolo non più "ragionevole" come previsto dall’articolo 111 della Costituzione, riguarda un dato che spesso viene ignorato da quei politici e da quei giornalisti che fanno molta fatica a rendere il proprio pensiero autonomo da quello delle procure. Il dato è questo: sui reati di corruzione, 1’80 per cento delle prescrizioni avviene durante la fase preliminare delle indagini, ovvero prima ancora che si arrivi al dibattimento processuale. Il dato è incredibile perché è una conferma che il problema della giustizia non dipende dai troppo ristretti tempi processuali ma dipende, semmai, anche dal modo in cui in Italia vengono svolte le indagini - e in particolare dipende da un fenomeno drammaticamente italiano che si lega, in qualche modo, anche all’abuso dell’utilizzo delle intercettazioni. Il punto è semplice: come può funzionare un sistema giudiziario in cui le intercettazioni vengono spacciate come prove, e non come semplici mezzi di ricerca della prova, e in cui i magistrati cadono spesso nel tranello di strutturare un’indagine partendo da un teorema, da un reato, e non dalle pistole fumanti? Non funziona, naturalmente. Perché una mezza prova, un mezzo indizio, può essere sufficiente per aprire un’indagine ma spesso non è sufficiente per arrivare al dibattimento, e dunque al processo, e così capita spesso che un’indagine che nasce facendo leva più su un teorema che su una prova si ritrovi impantanata in una lunga fase di indagini in cui i magistrati provano disperatamente, spesso con mille testimonianze, a trovare qualcosa di più. A voler fare un passo in avanti, ulteriore, si potrebbe dire che la corruzione, come giustamente ricorda spesso il grande Carlo Nordio, non la si combatte intimidendo il presunto corrotto ma la si combatte disarmandolo, togliendo gli strumenti che consentono di farsi corrompere, semplificando la legislazione, non appesantendola, e facendo quello che da vent’anni la classe politica, per piccoli interessi clientelari, si rifiuta di fare: sburocratizzare il paese, eliminare le sacche di inefficienza, diminuire le circostanze in cui si possono venire a creare fenomeni corruttivi. Sulle ragioni per cui un pezzo importante di classe dirigente italiana finge di non capire qual è la vera strada, non solo mediatica, per combattere la corruzione si potrebbe aprire un grande capitolo ma tra le tante pagine quella più interessante riguarda la motivazione per cui il circo mediatico giudiziario insiste così tanto con la storia di voler aumentare le pene, di voler allungare i tempi dei processi, di voler riformare la corruzione. Non c’entra soltanto l’idea, signora mia, che la corruzione è orrenda, fa male, ed è un dramma del paese. C’entra anche l’idea che, dando più potere ai magistrati e allungando i termini della prescrizione, sarà possibile dilatare i tempi del processo mediatico e sarà possibile tenere sotto scopa, magari, un pezzo di classe politica infangata non per aver commesso un reato ma solo per essere accusata di averlo fatto. Più prescrizione e più pene per tutti non significa avere un’Italia con più giustizia, significa semplicemente avere un’Italia consegnata ai professionisti della graticola. Se i magistrati parlanti ora non piacciono più di Arturo Diaconale Il Giornale, 9 maggio 2016 Il caso Morosini ha un rilievo istituzionale né più e né meno del rilievo istituzionale che avevano gli innumerevoli casi di pronunciamenti politici di esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura avvenuti nel corso degli ultimi trent’anni. La differenza tra il caso Morosini e quelli precedenti è solo che mentre le esternazioni di natura politica del passato si rivolgevano contro i governi e gli esponenti delle forze contrarie alla sinistra, quella del consigliere di Magistratura Democratica è stata indirizzata contro Matteo Renzi e la sua riforma costituzionale. E quella parte di sinistra che sostiene il premier, pur avendo difeso in passato tutte le sollevazioni avvenute nel Csm contro Berlusconi e il centrodestra, non accetta che identico trattamento possa essere rivolto all’attuale presidente del Consiglio. Oggi scopre strumentalmente un caso istituzionale dopo averne avallati sempre strumentalmente decine e decine nel passato. Questa considerazione non deve spingere a chiedere di applicare la legge del contrappasso e a pretendere con malcelata soddisfazione che chi ha ferito con l’arma della giustizia politica venga ferito oggi con la stessa arma. Il caso Morosini solleva un problema che era istituzionale in passato e che è istituzionale anche oggi. Ma che se ha questa caratteristica non può essere risolto, come vorrebbe il ministro Orlando, con un semplice documento di autoregolamentazione interna del Csm diretto ad impedire che i componenti dell’organo di autogoverno della magistratura partecipino in prima persona alla campagna referendaria sulla riforma costituzionale sventolando la bandiera del "No". Se la questione è istituzionale, la soluzione deve essere non l’atto di autoregolamentazione ad personam per ridurre il danno che Renzi potrebbe subire dall’opposizione dichiarata di una parte della magistratura, ma deve essere necessariamente di natura istituzionale. Cioè niente circolare interna del Csm, ma una legge che fissi una volta per tutte i limiti entro cui i magistrati possano usufruire dell’art. 21 della Costituzione e da cui non debbano uscire invadendo il terreno della politica, pena sanzioni automatiche alle loro carriere. È in grado il governo con la sua maggioranza di realizzare un provvedimento del genere? Cioè di definire una volta per tutte quando e come si configura una invasione di campo da parte della magistratura nei confronti della politica e quali sanzioni una trasgressione del genere dovrebbe comportare? Se è in grado, lo faccia. Ma se non ha la forza di farlo si metta l’animo in pace e si prepari alla guerra a Renzi della magistratura politicizzata che non la pensa come lui! Il caso Bossetti tra colpa d’autore e voyeurismo mediatico di Natale Fusaro (Docente di Criminologia nell’Università di Roma "La Sapienza") Il Dubbio, 9 maggio 2016 La notizia diffusa in prima pagina sul settimanale Giallo secondo la quale il cittadino Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio in danno di Yara Gambirasio, sarebbe "schiavo del sesso" per aver scritto lettere porno ad una detenuta, lettere che secondo l’accusa costituirebbero un’ulteriore prova della sua colpevolezza, rappresenta l’ennesima riprova della deriva mediatico-giudiziaria che sta finendo per sgretolare i principi di civiltà giuridica del nostro Paese. Tali affermazioni sono davvero raccapriccianti, ma ancora più raccapricciante è la notizia che le lettere in questione siano state addirittura acquisite agli atti processuali dalla Corte d’Assise di Bergamo, chiamata a giudicare in ordine alla colpevolezza o meno del Cittadino Massimo Bossetti, imputato in attesa di giudizio e dunque presuntivamente non colpevole ex art. 27 Costituzione. Il tutto, in spregio ai più elementari principi costituzionali, tra i quali rientra quello di cui all’art. 15 Cost., secondo il quale, la libertà e la segretezza della corrispondenza, così come di ogni altra forma di comunicazione, sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge, tenendo doverosamente presente, nel caso di specie, che non basta essere detenuti in attesa di giudizio per essere privati tout court di tale diritto. In ordine alla vicenda si fa davvero fatica a comprende quale valore probatorio possano rappresentare tali lettere, relative non già a dati utili ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, bensì inerenti argomenti costituenti dati "sensibili" ed inviolabili, quali sono quelli attinenti alle preferenze sessuali, sui quali è inibito ogni accertamento proprio in forza dei richiamati principi costituzionali, posti a base del nostro Codice della Privacy. Sull’onda dell’emozione e col totale torpore della ragione sono stati neutralizzati i canoni fondamentali su cui si fondano il nostro diritto penale e la nostra procedura penale, finendo per fare strame del principio in base al quale la responsabilità penale riguarda esclusivamente l’accertamento del fatto, essendo espressamente vietato dal nostro codice di procedura penale all’art. 220, di fondare l’accertamento della responsabilità penale sul carattere e la personalità dell’imputato e, in genere, sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche. In totale violazione di tale divieto si assiste sempre più sovente al ricorso ad un c. d. diritto penale d’autore, basato non sulla valutazione del fatto in contestazione, ma esclusivamente sul comportamento adottato dall’indagato e/o imputato. Tale tendenza, ha finito per giungere ad una deriva ancora più preoccupante, rappresentata dal ricorso ad una sorta di diritto penale dell’atteggiamento interiore, nel quale si finisce per riconoscere indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta ad indagini o imputata, non già dall’esame dei fatti e delle circostanze in contestazione, ma attraverso la mera osservazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di quest’ultima, con il ricorso ad un inammissibile scandaglio dei dati sensibili che conduce alla formulazione di ipotesi e congetture basati su inammissibili valutazioni del carattere e della personalità. Basare l’accertamento della responsabilità penale sulla personalità e sugli atteggiamento di colui al quale il fatto stesso viene contestato porta verso una pericolosa ed inammissibile valutazione del c. d. elemento "spirituale", che finisce per condurre ad una eccessiva esaltazione di quello che è considerato il c. d. "foro interno", che è e deve invece rimanere estraneo alla valutazione della responsabilità penale. Tale tipo di tipo di diritto, come condivisibilmente sostenuto da Federico Eramo, "nelle sue forme estreme, persegue i pensieri reconditi della persona, carpiti violentemente o fraudolentemente con la tortura, la narcoanalisi, la macchina della verità, l’autocritica, o altri strumenti più raffinati e moderni. Il fine ultimo è la repressione del dissenso intimo, senza alcun bisogno di prove concrete ed esterne all’uomo. In questo caso l’attenzione si concentra più sulla potenzialità che sull’attualità della condotta criminosa, con una lesione del principio, imperante nel diritto penale moderno, "nemo patitur cogitationis poenam", per il quale il semplice pensiero non può essere punito fino a quando non si traduce in un atteggiamento esteriore. Sotto l’impero della sanzione devono cadere le sole azioni esterne, che toccano la convivenza sociale, non anche il "foro interno", che deve essere escluso da ogni disciplina giuridica e deve rimanere riservato alla coscienza ed al giudizio morale". La valutazione del giudice deve pertanto riguardare solo ciò che è visibile e percepibile dall’uomo, e cioè le azioni o omissioni realmente poste in essere dal soggetto, ed esclusivamente quelle attinenti ai fatti in contestazione, senza spingersi oltre e non invadendo ambiti che riguardano esclusivamente il giudizio relativo alla sfera morale. Tale approccio è invece oggi favorito da un sempre più frequente ricorso alla colpa d’autore, alimentato da un voyerismo mediatico-giudiziario sovente sostenuto dalle opinioni di pseudo-esperti della psiche e del comportamento, mediante l’ingresso nel procedimento e nel processo di perizie e consulenze tecniche che, apparentemente vestite di scientificità, finiscono per favorire l’incursione del giudizio in ambiti che debbono invece rimanere fuori dall’accertamento della responsabilità penale, che è basato come è noto, sul principio del rimprovero e della punizione per ciò che si è fatto e non invece per "come si è" o addirittura per "come si appare" o ancor più pericolosamente per come si viene forzatamente e disinvoltamente "percepiti". La violazione dei principi costituzionali non può mai essere tollerata nel processo penale e non può mai costituire la base probatoria su cui il giudice può fondare il proprio convincimento oltre ogni ragionevole dubbio. La deriva in corso è molto preoccupante, sono in gioco i nostri principi fondamentali, è in gioco la nostra civiltà giuridica è in gioco il nostro stesso essere cittadini. Bolzano: carcere ad alto rischio, risse notturne e feriti Alto Adige, 9 maggio 2016 La situazione all’interno del carcere di Bolzano è sempre più tesa. Tra gli agenti della polizia penitenziaria, alle prese con turni sempre più pesanti e a rischio, si teme una rivolta. L’affollamento è sempre elevato e ben oltre i limiti previsti per una struttura vecchia e non più all’altezza delle esigenze. I detenuti, in larga parte stranieri, si rivelano ogni giorno di più insofferenti e violenti. Negli ultimi giorni per due volte in poche ore si è reso necessario l’intervento degli equipaggi del 118. L’altra notte un detenuto indiano è stato aggredito verso le 2 da un paio di magrebini con cui si trovava in cella. Lo hanno massacrato di botte ed è stato ricoverato all’ospedale di Bolzano con la mandibola fratturata. L’uomo è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico con applicazione di una placca al titanio. Ma gli episodi di violenza tra detenuti si susseguono. L’altro pomeriggio sono venuti alle mani due magrebini uno dei quali è stato colpito con violenza al capo utilizzando come arma una vecchia caffettiera. Secondo la denuncia che giunge dagli agenti della polizia penitenziaria, i litigi si verificano con estrema facilità anche per motivi molto futili e spesso gli agenti si trovano a dover affrontare in maniera inadeguata situazioni ad alto rischio. Basti pensare che per diverse ore durante la giornata spesso c’è un solo agente di polizia penitenziaria in servizio per ogni sezione. Un agente posto a controllare sino a 50 o 60 detenuti. Le intimidazioni dei carcerati più violenti e problematici non mancano. "Può accadere anche di essere accerchiati da decine di detenuti che si pongono in posizione di sfida. L’unica possibilità che abbiamo - racconta un agente - è chiedere l’intervento via radio di qualche collega. Ma la situazione è sempre tesa anche perché i carcerati sono esasperati da condizioni di convivenza all’interno delle celle sempre più problematiche". Insomma, lo spazio è poco. In quasi tutte le celle non è possibile rispettare le disposizioni europee sugli spazi minimi (tre metri) che devono essere garantiti ad ogni detenuto. E così si è pensato di risolvere parzialmente il problema lasciando le celle aperte per dieci ore al giorno permettendo ai detenuti di muoversi in tutta la sezione. Ma sono però aumentati i problemi di controllo in quanto attualmente nel carcere di via Dante vi sono 108 detenuti a fronte di una capienza massima che non dovrebbe superare le 90 unità. Nonostante ciò pare che il carcere di Bolzano sia considerato una preziosa valvola di sfogo per risolvere situazioni problematiche di altre carceri del nord Italia. E così sono sempre più frequente i trasferimenti improvvisi di detenuti da Verona, Torino, Venezia e anche Trento. Firenze: Opg, l’associazione Radicale Andrea Tamburi manifesta davanti alla Prefettura gonews.it, 9 maggio 2016 L’Opg di Montelupo Fiorentino (Firenze) "è ancora aperto e i circa 40 internati in esso reclusi sono in attesa di conoscere il proprio destino". Così, in un comunicato stampa, un gruppo di militanti radicali dell’Associazione "Andrea Tamburi" ha manifestato oggi a Firenze, in via Cavour, di fronte alle sedi della Regione Toscana e della Prefettura. "Sono passati 14 mesi dal 31 marzo 2015, la data che una legge della Stato - la 81/2014 - ha stabilito come termine ultimo per la chiusura degli Opg, ma l’Opg di Montelupo è ancora in funzione - scrivono -. Nel frattempo, il giudice di sorveglianza di Firenze ha emesso un’ordinanza, accogliendo i ricorsi degli internati per violazione dell’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale, dando tre mesi di tempo alla Regione Toscana per mettersi in regola. La Regione ha presentato ricorso bloccando così l’esecuzione dell’ordinanza in attesa del giudizio definitivo in Cassazione". La legge, proseguono i Radicali, "dispone, poi però i tempi di realizzazione così lunghi da sfociare nel fallimento. E questo, nonostante la legge 81 avesse anche una ottima copertura finanziaria. I problemi, infatti, non sono economici, ma squisitamente politici, cui si aggiungono anche i problemi di interpretazione della legge e di formazione dei soggetti coinvolti". A Volterra, dicono ancora i Radicali, "la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), la struttura sanitaria che sostituisce gli Opg, è provvisoria e già piena. Quella definitiva dovrebbe forse vedere la luce fra tre anni", mentre "intanto, nel carcere fiorentino di Sollicciano sono già una decina i detenuti-internati in lista di attesa per il trasferimento in Rems. Una restrizione impensabile. Il malato di mente in galera è a tutti gli effetti detenuto due volte: dal carcere e dalla malattia. Senza contare che gli operatori penitenziari non sono in grado di affrontare e aiutare un detenuto psichiatrico". "La legge riforma per il superamento degli Opg è quindi a serio rischio - concludono -. Per questa ragione la chiusura definitiva e immediata dell’Opg di Montelupo non è più procrastinabile. È necessario questo passaggio per tentare di salvare una riforma importante". Milano: carcere di Opera, i detenuti costruiscono illuminazioni led per "città intelligenti" di Stefano Pasta La Repubblica, 9 maggio 2016 Nel più grande carcere italiano, alle porte di Milano, parte il progetto "Luce per il futuro". Dieci detenuti saranno formati per due mesi e poi assunti a tempo indeterminato dall’azienda Invictor Led. All’interno del carcere, si prevede una produzione di 6-8mila illuminazioni a led l’anno. Nelle prigioni italiane lavora il 23,3% dei detenuti: per loro la recidiva cala drasticamente. Al carcere di Opera, il più grande d’Italia con i suoi 1300 detenuti, si produrranno led per smart cities. Tradotto, apparecchi d’illuminazione a risparmio energetico per "città intelligenti", come il vicino capoluogo Milano che, ad agosto 2015, è diventata la prima grande città con illuminazione pubblica completamente a led. Ma, nel caso del progetto "Luce per il futuro", l’intelligenza sta soprattutto nel consentire a dieci detenuti di specializzarsi nella produzione di questi apparecchi e di ottenere, dopo un corso di formazione di due mesi, l’assunzione a tempo indeterminato presso l’azienda Invictor Led con la qualifica di "operaio specializzato". Una scelta doppiamente "intelligente". Tutto questo farà risparmiare allo Stato e permetterà di abbassare la recidiva. Infatti, i detenuti otterranno uno stipendio pari a quello degli altri impiegati. Il costo di un detenuto per l’erario è di circa 220 euro al giorno: "Se gli diamo una retribuzione in linea e competitiva sul mercato - dice Vincenzo Lo Cascio, presidente di Invictor Led - una parte viene prelevata dall’amministrazione, che così contiene le spese". "Luce per il futuro" guarda giustamente al dopo le sbarre: la filiera di assemblaggio - dai 6 agli 8mila apparecchi a led per esterni all’anno - è interna al carcere, ma l’obiettivo è continuare a lavorare dopo la detenzione. Il direttore di Opera Giacinto Siciliano lo dice chiaramente: "Siamo onesti, fare laboratori di arte, spettacolo, corsi di sport, non basta. Se in carcere non porti lavoro, non c’è alternativa e il cambiamento rimane una favola scritta sui libri". Lavora il 23,3% di chi è dietro le sbarre. Anche i numeri lo confermano: quando viene avviato un percorso lavorativo, il tasso di recidiva scende infatti dal 70% al 30%. Continua Siciliano: "Impiegare il tempo da un lato, e percorsi normalizzati dall’altro, diventano questioni fondamentali. Il cambiamento, lo scatto, avviene quando a chi è dentro dai la possibilità di fare le cose normali, quelle che farebbe fuori". A Opera sono un centinaio i detenuti che lavorano presso aziende esterne. Qualche segnale positivo c’è: grazie alle procedure previste dalla Legge Smuraglia del 2000, avviare iniziative imprenditoriali è diventato più semplice. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2013 in Italia risultavano occupati in attività lavorative il 23,3% dei detenuti in carcere, in aumento del 13,6% rispetto al 2000. Si punta verso un mercato in espansione. Per la realizzazione degli inserimenti lavorativi, spesso la chiave è l’alleanza con il privato presente sul territorio. La cosiddetta "responsabilità sociale d’impresa". "Luce per il futuro", ad esempio, unisce l’amministrazione penitenziaria con l’azienda Invictor Led, di base a San Giuliano Milanese, non lontano dal carcere, una banca che ha finanziato il progetto con 100mila euro (Banca Prossima del Gruppo Intesa Sanpaolo) e la Fondazione Fits! (Fondazione per l’Innovazione del Terzo Settore). Così, per due mesi, un ingegnere e alcuni operai di Invictor saranno presenti a Opera per formare il gruppo di dieci detenuti. Non si esclude di estendere il progetto ad altre prigioni italiane, dal momento che il mercato è tutt’altro che residuale: da nord a sud, il 90% del paese è molto indietro nel passaggio dalle lampade ad alto consumo a quelle a led. Siena: detenuti e studenti insieme davanti ai fornelli di Gennaro Groppa Corriere di Siena, 9 maggio 2016 "Quello che abbiamo vissuto oggi è bellezza, virtù e verità". Nelle parole di uno dei detenuti della struttura carceraria di Ranza sta il senso della giornata vissuta martedì. "Oggi abbiamo fatto e abbiamo vissuto qualcosa - nelle parole dello stesso detenuto - che ci permette almeno per un momento di allontanare quella malinconia che qui dentro inevitabilmente ti prende, e che senti soprattutto quando il giorno fa posto alla notte e arriva la sera". È stata una giornata che ha permesso a queste persone di rimettersi in gioco e in discussione, di sentirsi utili, di sentirsi parte di un gruppo, di fare qualcosa di bello, virtuoso e positivo. È stata una gara di cucina. Una vera gara di cucina. Una manifestazione voluta dalla direzione dell’istituto carcerario e dai docenti che ogni giorno trascorrono ore ed ore a Ranza insieme ai detenuti. Lo fanno perché credono nella rieducazione e nella riabilitazione, lo fanno perché sono convinti che tutto questo, e quindi dare una ampia istruzione a quei detenuti che nella loro vita non hanno avuto modo di studiare, possa essere utile per aprire loro la mente, per far loro capire anche gli errori commessi in passato. E al tempo stesso per fornire loro una speranza, oltre che delle capacità e delle conoscenze e competenze che potranno essere utili quando da quelle mura carcerarie un giorno usciranno. Per questo motivo Gilda Penna, Sandra Bocci, Luca Versetti, Pasquale Napolitano e tutti gli altri docenti si prodigano tanto e si ingegnano ad organizzare giornate come quella di martedì. Per questo motivo vanno fatti i complimenti alla dottoressa Maria Bevilacqua, direttrice dell’area trattamentale, e al preside dell’istituto comprensivo Tiziano Neri. È stata una gara di cucina che ha visto opporsi e fronteggiarsi i detenuti, che all’interno della struttura carceraria frequentano un istituto superiore ad indirizzo enogastronomico e gli studenti dell’istituto enogastronomico di Colle val d’Elsa. È stata una gara vera. Per ore ragazzi e detenuti sono rimasti nella cucina del carcere, davanti ai fornelli, a tagliare e sminuzzare alimenti, e lì hanno preparato piatti e pietanze varie. Hanno preparato antipasti, primi, secondi, dolci. Lo hanno fatto con passione, con spirito di gruppo, con voglia di stupire, con il desiderio di far apprezzare il lavoro che stavano compiendo. A stupire erano anche i loro occhi, dei ragazzi ma soprattutto dei detenuti. Per chi vive in carcere, spesso da decenni, imparare qualcosa di nuovo dà un senso alla propria vita. E lo stesso avviene quando queste persone conoscono persone nuove e vedono che qualcuno si interessa alla loro vita, alla loro situazione e alla loro condizione. È stata una gara vera, con una giuria che ha giudicato tutti i piatti preparati. Sia i ragazzi che i detenuti attendevano con ansia il giudizio ed i voti espressi. Alla fine hanno vinto, di poco, i detenuti, che sono riusciti a preparare alcuni piatti veramente prelibati e che si sono così aggiudicati la targa realizzata dall’artigiano Loreno Grassini di Colle val d’Elsa. Ma i ragazzi non hanno sfigurato né demeritato. Molto bella la scena finale, quando sono stati letti i voti ed è stato quindi comunicato il responso dell’iniziativa. Era gara vera, ma ragazzi e detenuti in quel momento si sono sentiti tutti parte di qualcosa di comune, di qualcosa di bello che riusciva ad unirli e non li opponeva come avviene solitamente nelle gare. Non sembravano due squadre che si fronteggiavano, era un unico gruppo che ha voluto dar vita ad una iniziativa utile, bella, stimolante, importante. Questa sensazione si leggeva negli occhi degli uni come degli altri. E alla fine ci sono stati abbracci, sorrisi e una espressione, che è stata pronunciata più volte, che spiega tutto: "Alla prossima. Ci rivediamo presto". Genova: teatro in carcere, miracolo a Marassi… noi invitati che riflettiamo con i detenuti di Alessandra Ballerini La Repubblica, 9 maggio 2016 È strano ricevere un invito per fare ingresso in un luogo dove, tendenzialmente, mai nessuno vorrebbe entrare. Anche se, a dire il vero, l’entrata non è quella di sempre. Non ci sono sbarre questa volta. Nè i rituali controlli e le formalità dell’ingresso. Solo saluti cordiali. Si entra, quasi, in carcere, ma non sembra. È un invito, quello che abbiamo ricevuto noi duecento fortunati, frutto di un progetto visionario, generoso, ma soprattutto, come questa serata dimostra, realistico. Ci aveva creduto e investito moltissimo l’ex direttore Salvatore Mazzeo e, quando il testimone è passato alla dottoressa Milano, il progetto non si è di certo arrestato. La nuova direttrice è la stessa che nel carcere di Pontedecimo qualche anno fa diede avvio e linfa ad un’altra idea visionaria: creare insieme ai volontari di "Terra!" un orto sinergico nel carcere di Pontedecimo dove fare crescere insieme ortaggi, fiori, speranze e legami. Stasera a Marassi ci sono tutte le istituzioni ad assistere al compimento questo miracolo iniziato da oltre un decennio. L’associazione "Teatro Necessario Onlus" infatti, da anni, instancabilmente, all’interno del carcere di Marassi organizza con le persone ristrette laboratori teatrali in collaborazione con professionisti dello spettacolo, con l’obiettivo, realizzatissimo, di creare opportunità di integrazione e di riabilitazione attraverso percorsi didattici e artistici condivisi. Obiettivo che si è concretizzato con la messa in scena di ben otto spettacoli nei teatri genovesi. Ma non basta. Da qualche anno, grazie al contributo di fondi pubblici e privati, l’Associazione si è impegnata nell’edificazione di un teatro all’interno del carcere che giovedì sera per la prima volta si è aperto alla città. Un evento eccezionale, "unico", si legge nell’invito, "nella storia carceraria e culturale europea; un evento di livello nazionale che è destinato a rimanere unico perché appunto si tratta dell’edificazione di un vero e proprio teatro da 200 posti nato dentro la cinta muraria del carcere." Un teatro creato dal nulla, fuori dalle grate ma dentro il perimetro carcerario. Un luogo di cultura costruito col lavoro dei detenuti, che non è stato ricavato sfruttando spazi preesistenti, ma che è stato progettato e edificato come corpo a se stante, con l’evidente finalità di aprirsi anche all’esterno, come un vero teatro cittadino. Avevo già avuto la fortuna di vedere il teatro in fase di costruzione e poi nella fase conclusiva di "ritocco" degli ultimi lavori e quindi la meraviglia stasera è in parte attenuata. Cosi come l’emozione di assistere alla magia (e la presunzione di farne in qualche modo parte, seppure da spettatrice) della fierezza di uomini abituati a essere considerati esclusi che diventano protagonisti e riacquistano fiducia. Ma questa volta è diverso. Questa sera siamo "noi" da "loro". E molti di questi noi rappresentano enti, istituzioni, poteri in qualche modo responsabili della loro esclusione, al netto delle loro colpe. In queste ore siamo noi ad assistere al loro miracolo del quale ci fanno generosamente partecipi, e il nostro battere appassionato di mani ci fa sentire per qualche ora meno complici della loro sorte. Anche la scelta dello spettacolo che i registi hanno deciso di mettere in scena sembra provocatoria: si tratta di "Padiglione 40" ispirato al film di Forman "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Una rappresentazione degli orrori dell’oppressione, dell’ingiustizia, della violenza dei sistemi contenitivi e detentivi. L’amarezza si scioglie, in parte, leggendo negli sguardi la commozione degli attori sia professionisti che ristretti. Resta, uscendo da questo teatro che è testimonianza in sé della possibilità di realizzazione dei "buoni" progetti, il sollievo di aver assistito ad un prodigio ma anche una sorta di inquietudine. Mentre noi invitati rincasiamo, i creatori e protagonisti di quella magia torneranno in cella. E non riesco a togliermi dalla testa una strofa di De Andrè "per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti". Ecco, questo coinvolgimento mi sembra già uno straordinario risultato. C’è il mondo dietro alla sbarre nel nuovo libro di Annino Mele e Giulia Spada sardiniapost.it, 9 maggio 2016 Mercoledì 11 maggio, al Caffè Savoia, (piazzetta Savoia a Cagliari), la presentazione di "Quando si vuole. Boschi, banditi, progetti e carceri" (ed Sensibili alle foglie) il nuovo libro di Annino Mele e Giulia Spada. Alla presentazione interverranno anche Giulio Petrilli che firma la postfazion4 e Flavia Corda che ha scritto la prefazione. Come si legge nella scheda di presentazione si tratta di un libro scritto a quattro mani, che mescola ricordi ed esperienze personali degli autori con elementi analitici del contesto ambientale della Sardegna e della situazione carceraria attuale. Il testo è diviso in due parti. La prima concerne la tematica ambientale, la seconda il carcere. Entrambi sardi, sulle problematiche specifiche della loro terra - in particolare la salvaguardia del patrimonio boschivo e la tradizione di allevamento di suini allo stato brado - gli autori propongono anche indirizzi di orientamento, corredati da progetti dettagliati. Riguardo al carcere, presentano la situazione delle nuove strutture costruite in Sardegna sia dal punto di vista delle loro speculari esperienze dirette - l’uno dentro e l’altra in visita - sia le inchieste giornalistiche prodotte dall’Associazione Socialismo Diritti e Riforme. Attingendo alla loro fantasia, immaginano una riqualificazione del Buoncammino di Cagliari e, rifacendosi alla loro esperienza personale, portano dentro alle dinamiche istituzionali attuali delle moderne prigioni, chiedodo di mettere un poco della nostra volontà per portare cambiamenti che restituiscano dignità alla terra e agli esseri umani che la abitano. Annino Mele, in carcere dal 1987, ha pubblicato per queste edizioni Sos camminos della differenza, con Valdimar Andrade Silva (2001), Mai (2005), La sorgente dalle pietre rosse (2007), Strabismi (2009) e, per la GIA Editrice, Il passo del disprezzo (1996); per la Delfino Editore, Sa grutta de sos mortos (2009). Giulia Spada, laureata in Antropologia Culturale, si occupa di tematiche inerenti il fine vita e, grazie all’amicizia con Annino Mele, anche di carcere e retoriche del corpo recluso. L’Europa si chiude cresce la voglia di confini solo i giovani dicono no di Ilvo Diamanti La Repubblica, 9 maggio 2016 L’Italia è il paese più vecchio del continente: nel 2015 la popolazione è scesa di 100mila unità, nel 2013 sono partite 95mila persone, per lo più sotto i 30 anni. Papa Francesco, come sempre, è stato molto chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker, Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. "Per l’impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori ". Nell’occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l’Europa, oggi, sia in difficoltà nell’affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più, nell’affrontare il futuro. Perché l’Europa, oggi è una "nonna, vecchia e sterile". Senza più ricordi. Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L’associazione dei Medici con l’Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant’anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l’Italia e l’Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell’area subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e migliaia di "persone" - perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo - che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall’Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese. Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell’esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l’altro. L’Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l’Ungheria, la Slovenia - e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un esempio seguito, in parte anticipato, dall’Ungheria. Ma le "frontiere" stanno diventando "barriere" anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell’Europa. Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli "altri" che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle "barriere". Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli all’integrazione. Non solo degli "altri". Anzitutto, "fra noi". Perché frenano l’integrazione e la costruzione europea. D’altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici. Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se - come ha osservato Lucio Caracciolo - la frontiera del Brennero potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l’Austria (per andare altrove, peraltro). Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio 2016) per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov’è stata condotta l’indagine, coloro che "insistono" a rivendicare frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli. Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone anziane. Dovunque. Parallelamente, la fiducia nell’Ue è più alta presso i più giovani. In Italia, il sentimento verso gli "altri", gli immigrati che giungono da lontano, si traduce in paura. Fra tutti, ad esclusione dei più giovani (indagine Demos, aprile 2016). E produce distacco, sfiducia nelle istituzioni, richiesta di nuove e maggiori divisioni. Forse perché siamo il Paese più vecchio d’Europa. Insieme alla Germania. Che, tuttavia, per questo, mostra un atteggiamento verso gli immigrati ben diverso. Ispirato, cioè, all’apertura "selettiva". A favore di componenti demografiche (giovani) e "professionali" particolarmente utili al mercato del lavoro. In Italia, invece, di recente si assiste a un declino demografico inquietante. Nel 2015, ad esempio, la popolazione è calata di circa 100 mila persone. Come non avveniva dal 1917-18. Cioè, dalla Grande Guerra. Perché in Italia fanno meno figli perfino gli immigrati (come spiega l’Istat). Mentre i giovani sono una "razza" in declino. E quando possono se ne vanno. A studiare, lavorare e, infine, a vivere: altrove. Nel 2013, infatti, dal nostro Paese sono partiti quasi 95mila italiani (più degli stranieri arrivati nello stesso periodo). Soprattutto giovani in possesso di titolo di studio elevato. Così, diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli. Sempre più impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Intorno a noi. Metafora dell’Europa delineata da Papa Francesco. Ma ridursi a una terra attraversata da frontiere e da muri non coincide con il sogno di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Jean Monnet. Evoca, semmai, un incubo. Noi italiani, noi europei: chiusi in casa, in attesa dell’invasione, fra anziani in mezzo ad altri anziani, monitorati da sistemi di allarme sofisticati, sorvegliati da cani mostruosi, osservati da telecamere a ogni passo e a ogni movimento. Ma come possiamo illuderci di essere felici? L’Europa invia agenti antiterrorismo nei centri profughi in Italia e Grecia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 maggio 2016 L’obiettivo è identificare possibili jihadisti. Ma il Viminale teme sovrapposizioni e "interferenze". Negli hotspot saranno mandati ufficiali "ospiti" addestrati da Europol. Almeno 150 agenti specializzati di Europol per controllare l’identità dei migranti che si trovano negli "hotspot", i centri di identificazione e smistamento di Italia e Grecia. L’ipotesi ventilata nei giorni successivi agli attentati di Parigi del novembre scorso, trova conferma nelle dichiarazioni del colonnello Manuel Navarrete, il direttore del Centro antiterrorismo istituito dall’Unione Europea, al quotidiano spagnolo El País. E al Viminale si mettono a punto i piani operativi per evitare che la missione di trasformi in una sorta di "commissariamento". La cooperazione internazionale è sempre stata ritenuta una strategia vincente, soprattutto per quanto riguarda la lotta contro i fondamentalisti islamici. È di ieri la notizia dell’arresto in Slovenia di un foreign fighter scoperto grazie alla collaborazione tra polizia locale e carabinieri del Ros, annunciato dal ministro Angelino Alfano. Ma il rischio è che l’arrivo degli investigatori dell’agenzia europea possa interferire con l’attività che la polizia già svolge nelle strutture dove vengono trasferiti gli stranieri, una volta sbarcati in Italia, per essere "fotosegnalati", cioè identificati con il prelievo delle impronte digitali. Le identificazioni - Nei mesi scorsi, il nostro Paese era stato sottoposto a procedura d’infrazione da Bruxelles proprio con l’accusa di non aver correttamente identificato i migranti. Una contestazione respinta dal capo della polizia, il prefetto Alessandro Pansa, che aveva inviato i dati alle autorità europee per dimostrare la correttezza dell’operato delle forze dell’ordine. La pratica non è chiusa, ma da allora ci sono stati ulteriori miglioramenti, riconosciuti dagli stessi leader europei. Dunque, l’Italia non si opporrà all’arrivo dei team investigativi, anche se l’intenzione è di fissare alcuni "paletti" rispetto al loro lavoro all’interno delle strutture governative. Anche tenendo conto che le previsioni parlano di un’ondata di nuovi arrivi nelle prossime settimane e il Dipartimento guidato dal prefetto Mario Morcone si sta attrezzando per aver posti sufficienti a garantire l’accoglienza. Gli "ospiti" osservatori - Le squadre saranno composte da guest officers, che sono "ufficiali dei vari Paesi membri, addestrati per un certo periodo da Europol per svolgere questo preciso ruolo". Secondo Navarrete il loro compito è anche quello di "lottare contro le reti di immigrazione irregolare, partecipare alla guerra contro il traffico di esseri umani e tocchiamo anche il tema della sicurezza, così importante per tutti". Il problema è l’integrazione con il lavoro delle forze dell’ordine italiane. Per questo già nei prossimi giorni saranno convocate riunioni operative per evitare sovrapposizioni, ma soprattutto "interferenze". L’idea è che partecipino come "osservatori" alle procedure condotte dagli italiani e possano fornire un supporto per le verifiche sulle identità delle persone, proprio attraverso un accesso veloce alle banche dati, visto che il Centro europeo possiede "informazioni relative ad altri delitti, come il traffico di armi e i crimini finanziari, che possono essere associati al terrorismo". Ma senza interferire proprio per evitare che la presenza si trasformi in realtà in un "controllo". Il sociologo Marc Lazar: "troppe paure e individualismi, il futuro della Ue è a rischio" di Anna Lombardi La Repubblica, 9 maggio 2016 Parla il sociologo francese Marc Lazar: "L’Unione è oramai una sorta di capro espiatorio su cui tutti sparano a zero. Per evitare che si disgreghi occorre una vera battaglia culturale". "LA paura è senz’altro il tratto unificante dell’Europa in questo momento. Insieme, come mostrano i dati analizzati da Demos, a un grande senso di ripiegamento che non lascia molta speranza sul futuro del progetto europeo". Marc Lazar, professore di storia e sociologia politica all’Istituto di Studi Politici di Parigi Sciences Po e alla Luiss di Roma, non è particolarmente ottimista. "L’Europa è diventata una sorta di capro espiatorio su cui tutti sparano a zero. E anche se la sua storia è stata fatta anche da questi grandi momenti di crisi, che hanno spinto a trovare nuove soluzioni, ora, con i movimenti populisti scatenati, è sempre più complicato". Che cosa ha determinato una crisi così profonda? "Almeno tre elementi. Il primo è naturalmente legato alla complessità della situazione economica e politica che stiamo attraversando. Un altro è dovuto al fatto che i due principali modelli di integrazione europea, quello multiculturale britannico e quello dell’integrazione repubblicana francese, sono chiaramente in crisi. A questo va aggiunta la paura provocata dalla minaccia terroristica. Se davvero solo il 10 percento dei francesi è favorevole al mantenimento della libera circolazione delle persone, la spiegazione va cercata nel fatto che dopo gli attentati di Parigi i migranti sono associati all’idea che fra loro si insinuano i terroristi". I dati sembrano mostrarci un’Europa sempre più disgregata anche dal punto di vista generazionale. I giovani sembrano più aperti, mentre la voglia di innalzare barriere cresce con l’età… "Sarebbe interessante conoscere le differenze sociali all’interno delle diverse fasce di età analizzate, a maggior ragione fra i giovani. Mi sembra normale che chi ha un livello di istruzione più alto è più portato a vedere le barriere come un ostacolo. Mentre chi ha un livello di istruzione inferiore ed è magari in una situazione più difficile vede le cose diversamente. Ha più paura. Ovvio che la cosiddetta generazione Erasmus è potenzialmente più aperta. Per mettere le cose alla pari bisognerebbe inventare una qualche forma di Erasmus anche per chi non ha accesso agli studi universitari. Potrebbe essere un modo per non creare una generazione nella generazione di giovani declassificati, ancor più precari degli altri, che subiscono ingiustizia e forte ineguaglianza. C’è d’altronde un dato che mi colpisce molto proprio fra i giovani". Quale? "L’accettazione della sorveglianza generalizzata nei luoghi pubblici. L’85 percento dei giovani fra i 18 e i 24 anni è favorevole. Numero che scende al 23 per cento se invece si tratta di leggere la posta privata, le email senza consenso. Differenza che resta impressionante anche nelle altre fasce di età. Siamo ormai una società sempre più individualista. Nello spazio pubblico la restrizione della libertà è accettata. Nella vita privata, il rispetto della libertà personale resta un valore. Un cambiamento culturale importante, che non credo dipenda solo dall’effetto Snowden". Quale futuro si prospetta dai dati analizzati? "L’Europa non può continuare così. Serve una riforma delle istituzioni, oltre alla ripresa economica e alla riduzione delle ineguaglianze sociali, e una nuova narrazione. Per capire dove stiamo andando, decisivo sarà il risultato del referendum britannico. Per scongiurare il peggio servirebbe una grande battaglia culturale. Purtroppo, a fare discorsi coraggiosi è rimasto solo papa Francesco: è lui che ci ricorda l’importanza della dimensione etica dell’Europa. Ma che sia il solo a farlo, dimostra quanto oggi sia debole la politica in Europa". Il fragile equilibrio delle nostre banlieue di Lucio Caracciolo La Repubblica, 9 maggio 2016 Esiste il rischio jihadista nelle nostre città, nelle nostre periferie? Questa domanda serpeggia nella pancia degli italiani. La risposta più comune, da parte di studiosi e autorità pubbliche, oscilla tra il "no" rassicurante e il prudente "meno che altrove". Certo meno che a Londra, Parigi o Bruxelles. Soprattutto per due fenomeni tipicamente nostrani: non essere stati vero impero, non sentirsi vera nazione. La modesta e tardiva proiezione imperiale comporta che rispetto alle metropoli delle ex potenze coloniali europee le nostre città ospitino un minor numero di musulmani (il 4% nella provincia milanese, la metà in quella capitolina, contro le percentuali a due cifre di Londra o Parigi), in maggioranza ancora di prima generazione. La tipologia della banlieue come società parallela, ghetto per comunità allogene isolate dal centro dominato dai cittadini "di ceppo", non ha preso piede da noi. Il moderato sentimento nazionalistico e la tendenza a non enfatizzarlo nella vita quotidiana favoriscono poi la disposizione all’accoglienza del migrante, cui viene di fatto attribuito un ruolo economico e sociale decisivo, fosse solo per limitare l’altrimenti irreversibile declino demografico e per sobbarcarsi lavori cui i nativi sono ormai refrattari. Sicché un Paese che non si pretende paradigma identitario può costituire un caso di integrazione informale che culmina nella "mixité alla romana" o nel "multiculturalismo alla napoletana". Architetture sociali precarie, forse irriproducibili, eppure relativamente efficienti. Ma tali peculiari equilibri sono instabili. Le valvole di sicurezza potrebbero saltare. La paura dell’alieno potrebbe prevalere, istigando e legittimando la ghettizzazione. Così eccitando la stigmatizzazione dello straniero, a cominciare dall’islamico. E la diffusione di ghetti urbani a forte omogeneità etnica, monadi di sofferenza e rabbia. Terreno di coltura per potenziali jihadisti. L’ossessione securitaria minaccia però di farci perdere di vista i termini davvero decisivi della partita delle nostre periferie. Di quegli spazi che ci ostiniamo a definire periferici, identificandoli non in base alla geografia, che li renderebbe quasi indistinguibili dall’ipotetico centro, ma al disagio urbano. Perché è da qui che conviene muovere per identificare le "periferie" - le virgolette stanno a ricordare la vaghezza del termine - e per tentarne la riqualificazione. Stefano Boeri indica la polarità città-anticittà come più pertinente della coppia centro-periferia nel determinare le direttrici della battaglia per la riabilitazione del nostro frammentato tessuto urbano, che specie lungo la fascia adriatica non ha quasi soluzione di continuità. Dove per anticittà s’intende il degrado delle infrastrutture, dei servizi e degli edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali che segnano storia e spirito della civitas - pur sempre una specialità italiana - il predominio delle mafie. Mentre città significa luoghi di aggregazione - cominciando dalle piazze, dalle scuole, dai centri sportivi e artistici - dove gente diversa costruisce insieme, a partire dalle proprie radici, l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico. Ricucire e riabilitare il nostro territorio urbanizzato, dove grande capitale privato e "imprenditori in canottiera" hanno dettato ritmi e moduli della frammentazione urbana con un tasso parossistico di consumo del suolo, significa progettare una strategia a tenaglia, che tenga insieme "alto" e "basso", pubblico e privato, nazionale e locale, centri e periferie, italiani "di ceppo" e nuovi aspiranti italiani. Perché il Paese delle cento città non scada a terra delle mille periferie. La scuola apre le porte al volontariato di Elio Silva Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2016 A un quarto di secolo dalla legge 266/91, che ne ha promosso e disciplinato lo sviluppo, il volontariato vive quest’anno un profondo rinnovamento. I segnali di svolta sono diversi, ma tutti riconducibili alle grandi aspettative legate all’approvazione della riforma del Terzo settore, con conseguente emanazione dei decreti d’attuazione. La legge delega, che ha ottenuto il sì del Senato e attende ora alla Camera il via libera definitivo, dedica al volontariato un corposo articolo, il quinto, in cui prevede, tra l’altro, l’armonizzazione e il coordinamento delle diverse discipline vigenti, la promozione della cultura del volontariato tra i giovani, il riconoscimento delle competenze acquisite, l’estensione della composizione e delle funzioni dei Centri di servizio e, non ultimo per importanza, un necessario criterio di omogeneità per i registri regionali, che dovrebbero confluire nel futuro Registro unico nazionale. Fra tutti questi obiettivi, il primo in ordine di tempo sembra essere quello della promozione del volontariato all’interno dei percorsi scolastici. È di pochi giorni fa, infatti, un primo segnale di concreta applicazione dei nuovi impulsi, ovviamente in anticipo rispetto alla legge delega, ma in piena sintonia con i princìpi ivi enunciati. I ministeri dell’Istruzione e quello del Lavoro, in collaborazione con il dipartimento della Gioventù e del servizio civile nazionale, hanno messo a disposizione 470mila euro per promuovere il volontariato nelle scuole: il bando di partecipazione è stato già inviato agli uffici scolastici regionali e i progetti potranno essere presentati entro il prossimo 24 maggio compilando un modello sul portale ministeriale www.bandidgstudente.it. L’educazione al volontariato durante la formazione scolastica non rappresenta in sé una novità, anzi è uno dei fattori che maggiormente hanno contribuito a ingrossare negli anni più recenti le fila delle associazioni e, soprattutto, a garantire turnover e innovazione in contesti talvolta "ingessati" dall’aderenza a modelli organizzativi del passato. L’elemento di svolta è, semmai, costituito dal forte impulso che, come sottolinea il sottosegretario al Lavoro, politiche sociali e servizio civile, Luigi Bobba, è stato ora impresso all’operazione. Il piano dà seguito, infatti, a un accordo di collaborazione sottoscritto il 29 dicembre 2015 tra il ministro Stefania Giannini e lo stesso sottosegretario Bobba. Le amministrazioni si sono ripartite i costi nella misura di 270mila euro a carico della direzione generale per il Terzo settore del ministero del Lavoro, 100mila a carico del dipartimento della Gioventù e servizio civile della presidenza del Consiglio e altrettanti a carico del ministero dell’Istruzione. I progetti dovranno essere presentati dagli istituti scolastici - anche in rete - in partenariato con le organizzazioni di volontariato e di Terzo settore, oppure con i Centri di servizio per il volontariato (Csv), il che rafforza le caratteristiche di "arricchimento" di esperienze diverse nell’ambito educativo. Gli obiettivi vanno dalla promozione della cultura del volontariato a quella della legalità, dalla prevenzione delle dipendenze (inclusa la ludopatia, il gioco d’azzardo e il cyberbullismo) alla tutela e valorizzazione dei beni comuni, dalle pari opportunità al contrasto dei fenomeni di esclusione sociale. Un campo d’azione potenzialmente molto vasto, quindi, che metterà alla prova, oltre alla buona volontà di docenti e dirigenti scolastici, anche la capacità progettuale dello stesso mondo associativo. Si potrà obiettare che l’investimento pubblico è ancora troppo timido, oppure che, come al solito, il bando non brilla per marketing appeal, dato che a un corpo docente mezzo stremato da scadenze di fine anno, concorsoni, scioperi e malumori vari si rivolge pletoricamente proponendo "Laboratori di cittadinanza democratica condivisa e partecipata: educazione al volontariato sociale e alla legalità corresponsabile". Ma si sa, la semplificazione per la burocrazia è un obiettivo a lungo termine e nel frattempo vale la pena di prestare attenzione a questo segnale di innovazione educativa e sociale. Se poi, con l’attuazione della riforma del Terzo settore, all’esperienza di volontariato nelle scuole si potrà aggiungere un sistema di certificazione delle competenze acquisite, si potranno anche misurare concretamente gli effetti di questa progettualità sulle nuove generazioni e sulla collettività, il che aiuterebbe a comprendere quanto prezioso possa essere questo tipo di investimenti pubblici. Amnesty International al presidente austriaco: "Non firmi la legge sull’asilo" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 maggio 2016 Due giorni fa il nuovo ministro degli interni austriaco Wolfgang Sobotka ha detto che "al Brennero non ci sarà nessun muro e il confine non verrà chiuso". Sobotka ha poi ricordato il grande numero di richiedenti asilo accolti nel 2015 dall’Austria. Vero. Nel 2015 l’Austria ha accolto quasi 90.000 richiedenti asilo e ha permesso il passaggio attraverso il suo territorio di diverse centinaia di migliaia di persone. Va aggiunto anche che dall’8 marzo 2016, giorno della completa chiusura del confine lungo la rotta dei Balcani, tali cifre sono diminuite drasticamente. Muro, barriera, chiusure, controlli - Mentre si dibatte su come chiamare ciò che si va realizzando al Brennero, quello che è certo è che il 27 aprile il parlamento austriaco ha approvato una serie di modifiche alla legge sull’asilo che permetteranno di respingere al confine persone che fuggono da violenza e conflitti. Amnesty International ha lanciato un appello rivolto al presidente Heinz Fischer affinché non promulghi le modifiche. Le modifiche legislative approvate dal parlamento di Vienna comprendono "misure speciali per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna" e autorizzano il governo a considerare i richiedenti asilo una minaccia alla sicurezza nazionale e a respingerne le richieste già al confine. Qualora venissero approvate, le modifiche permetterebbero agli agenti di polizia e alle guardie di frontiera di impedire l’ingresso nel paese a qualsiasi persona, anche se avesse espresso l’intenzione di chiedere asilo, e di arrestare, trattenere, respingere rapidamente o espellere con la forza i richiedenti asilo, senza un provvedimento formale scritto. I richiedenti asilo non potrebbero contestare la decisione e perciò verrebbero privati del diritto a un rimedio efficace. Se il presidente Fischer approverà le modifiche alla legge sull’asilo, l’Austria avrà una delle più restrittive leggi sull’asilo d’Europa e priverà i richiedenti asilo dalla possibilità di accedere a una procedura equa ed efficace per il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale. Guido Menzio: "la mia equazione su quell’aereo accusata di jihad... una barzelletta" di Francesca De Benedetti La Repubblica, 9 maggio 2016 L’economista italiano che lavora negli Usa è dovuto scendere da un velivolo americano dopo la denuncia della vicina di posto. "MI sono sentito dentro a una barzelletta! Vede, il punto non sono io. Mi hanno trattato con garbo, mi hanno portato fuori dall’aereo giusto per un minuto, il tempo di farmi parlare con gli addetti alla sicurezza. Il punto è che sessanta passeggeri sono stati bloccati su quell’aereo per un’ora e mezza". Guido Menzio commenta con Repubblica l’episodio di cui è stato protagonista suo malgrado: "Divertente, sì, ma anche un simbolo della xenofobia e dell’avversione verso gli intellettuali tipica dei nostri tempi". Tutto comincia giovedì. Il professor Guido Menzio sta scrivendo equazioni su un aereo, ma alla sua vicina sembrano appunti "sospetti". "Terrorista io? Sarebbe bastato parlarmi o cercarmi su Google: avrebbero scoperto che non sono altro che un economista della Ivy League, un italiano gioviale e pacifico". Torinese, quarant’anni, ha un curriculum con nessuna macchia e molti onori: in Italia, dove è nato e ha studiato, Menzio ha vinto un anno fa la medaglia Carlo Alberto come miglior economista under 40. In America, dove vive e insegna, è passato per le migliori università del paese: Princeton, Stanford, Columbia, Pennsylvania. Ma per la passeggera seduta al suo fianco, a bordo del volo American Airlines 3950, il professore tutto concentrato a scrivere equazioni è "sospetto". Lo segnala al personale di bordo e Menzio viene fatto scendere dall’aereo. Lui ora sdrammatizza e a tutta la faccenda dà una spiegazione "da prof". "È una questione di protocollo. In tutti i sistemi di sicurezza esistono i falsi allarmi, i "falsi positivi" o "errori di tipo I". Il problema è un sistema che consente un falso allarme in un caso così limpido. Sarebbe bastato che qualcuno del personale mi parlasse, mi facesse qualche domanda, cercasse il mio nome su Google. Ci si è limitati alle poche informazioni date da un passeggero che mi sedeva accanto prima di riportare a terra l’aereo. Non conosco il protocollo, ma ho l’impressione che la decisione l’abbia presa il pilota, che è la persona meno informata in questo caso, dal momento che non poteva vedermi dalla cabina. Per me è solo una storia buffa e forse un pò emblematica dei tempi. Ma l’episodio rivela che c’è bisogno di rivedere alcuni aspetti nelle procedure di sicurezza aerea". "La lezione economica è: "Non dovresti prendere decisioni irreversibili, come fermare un aereo, basandoti su informazioni non pertinenti, come l’impressione di un passeggero. Dovresti impegnarti semmai nel raccogliere più informazioni. Ho cominciato un seminario in Canada con questo aneddoto, ci siamo fatti una risata. No, non mi sono sentito discriminato: i miei amici iraniani o indiani, loro sì che vengono discriminati!". Guido Menzio pensa che raccontare la sua storia sia stato un atto di civismo ma scrive via mail che non vede l’ora di tornare al lavoro. "Che poi, questa storia ha molto a che fare anche con il mio lavoro", ci spiega. "Io studio proprio questo, "search theory", la teoria economica delle informazioni: quante informazioni servono per prendere una decisione? Quando dovresti smettere di cercare tra le offerte di lavoro e accettarne uno? Quando dovresti smetterla di uscire con una ragazza e sposarla? Questi sono problemi da Nobel, l’ha vinto il mio mentore Dale Mortensen nel 2010 insieme a Chris Pissarides e Peter Diamond per il suo contributo nello studio di questo genere di problemi". Insomma, c’è un’equazione per tutto. Il prof scambiato per terrorista: "un errore che svela le falle nei protocolli sulla sicurezza di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 maggio 2016 Il docente torinese: io vittima di un clima xenofobo. "Se i sentimenti xenofobi crescono e diventano più forti, il sistema di sicurezza ha bisogno di essere ricalibrato". Questa è la morale sociale e scientifica che Guido Menzio, professore di Economia alla University of Pennsylvania, ha ricavato dalla disavventura che gli è capitata venerdì. Menzio, quarantenne torinese, insegna in una delle facoltà più prestigiose dell’Ivy League, e si era imbarcato sul volo 3950 dell’American Airlines da Philadelphia a Syracuse, per raggiungere poi la Queen’s University dell’Ontario dove era atteso per una conferenza. Una volta seduto, ha cominciato a scrivere alcune formule matematiche. La vicina lo ha interrotto facendo domande, a cui lui ha risposto in maniera educata ma evasiva, perché doveva lavorare. Lei allora lo ha denunciato, pensando che fosse un terrorista intento a scrivere messaggi cifrati per abbattere l’aereo. Il volo è rimasto bloccato per un paio di ore, finché alcuni agenti hanno interrogato Guido, scoprendo che in realtà era un professore italiano dell’Ivy League. "Questa storia - ci ha spiegato ieri Menzio - non riguarda me. Io sono stato trattato molto bene. Mi hanno fatto scendere dall’aereo per un minuto, giusto per parlare con gli incaricati della sicurezza. Non sono stato detenuto o forzato ad uscire". Allora qual è il problema? "La storia riguarda il protocollo. Ovviamente, ogni sistema di sicurezza ha i suoi falsi allarmi. È normale. Il problema è un sistema che permette un falso allarme, e un ritardo di un’ora e mezza per 60 passeggeri, in un caso che è così chiaro. Se si fossero preoccupati di parlarmi, pormi domande, cercare il mio nome su Google, avrebbero scoperto un economista italiano dell’Ivy League piuttosto gioviale e di buona natura. Questo è il problema. Non c’è stato un tentativo di ottenere altre informazioni, oltre al rapporto della passeggera seduta vicino a me, prima di fermare l’aereo. Io non conosco il protocollo, ma ho l’impressione che la decisione spettasse al pilota, che era la persona meno informata sul caso, dato che dalla cabina non poteva neanche vedermi". Cosa deduce da questo errore? "È stato un episodio ridicolo e simbolico dei tempi di xenofobia e anti intellettualismo. Tuttavia, allargando la visione, rivela la necessità di ridisegnare alcuni aspetti della sicurezza dei trasporti. È curioso che questa storia si lega al mio lavoro. Io studio la search theory, cioè il problema di quanta informazione raccogliere prima di prendere una decisione. Ad esempio, quando smettere di cercare lavoro e accettarne uno, o quando smettere di avere relazioni e sposarsi. Nel 2010 il mio mentor, Dale Mortensen, ha ricevuto il premio Nobel per il suo contributo a questi studi, insieme a Chris Pissarides and Peter Diamond". Al Washington Post lei ha detto che "è difficile non riconoscere in questo incidente l’ethos della base che vota Trump". Si sente vittima di un’isteria collettiva? "È difficile generalizzare un solo evento. Però, se i sentimenti xenofobi si rafforzano, il sistema di sicurezza va ricalibrato". Egitto: Regeni e la banda di poliziotti corrotti, l’ultimo depistaggio dal Cairo di Viviana Mazza Corriere della Sera, 9 maggio 2016 La notizia sul sito "Vetogate", vicino ai servizi egiziani. Intanto l’Italia riceve nuove carte di cui si deve valutare l’utilità e il consulente degli avvocati di Giulio resta in carcere. I funzionari italiani del Ros e dello Sco incontrano al Cairo gli investigatori locali e ricevono nuove "carte" in arabo che dovranno essere tradotte per valutarne concretamente l’utilità. Il consulente legale egiziano della famiglia Regeni, Ahmed Abdallah, viene processato dentro un gabbia con un foglietto in mano in cui denuncia le "sparizioni forzate". E intanto l’ennesima "pista" sul caso di Giulio fa capolino sul sito web egiziano "Vetogate", considerato vicino ai servizi. È solo l’ultima di una serie di versioni della verità e depistaggi apparsi sui media egiziani. Stavolta Regeni viene presentato prima come un ricercatore che studia la situazione economica egiziana, poi in fondo all’articolo viene insinuato il suo collegamento con il ministero degli Esteri italiano. Inoltre, sarebbe in qualche modo in combutta con una banda di poliziotti corrotti. La banda di poliziotti corrotti - Il portale sostiene che la procura egiziana starebbe indagando su una presunta banda di sette poliziotti corrotti, guidati da un colonnello. Le indagini sarebbero partite in seguito ad un esposto presentato da un avvocato, che si chiamerebbe Mustafa Olwani e sarebbe anche imparentato con il leader palestinese Mohammad Dahlan avendone sposato la cugina. L’avvocato sostiene che la banda avrebbe estorto capitali a società straniere per 76 milioni di dinari in prestiti e titoli, e spiega che durante un incontro con quei poliziotti corrotti in un ristorante del Cairo, per tentare di risolvere la questione, "con mia grande sorpresa ho visto Giulio Regeni, che mi è stato presentato come un esponente del ministero degli Esteri". In un altro incontro, secondo l’avvocato Olwani, Regeni e il gruppo gli avrebbero offerto 150 mila euro, disponibili su un conto Unicredit, in cambio dei nomi degli ufficiali di polizia che hanno assaltato le manifestazioni dei Fratelli Musulmani in piazza Rabia Al Adawia al Cairo e di informazioni sul gruppo Beit Al Maqdis che opera in Sinai e di suoi sospetti infiltrati all’interno della polizia. Secondo "Veto", l’avvocato accuserebbe quegli stessi membri della banda - che nel frattempo sarebbero stati arrestati - di aver ucciso Regeni. Ancora una volta, come spesso accaduto nelle "piste" presentate dai media locali, si mischiano informazioni forse vere con altre infanganti. L’impressione è che qualcuno voglia testare il terreno per individuare possibili capri espiatori. Egitto: sei condannati a morte per spionaggio, tre di loro sono giornalisti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 maggio 2016 I tre reporter, due di al Jazeera, sono imputati nel processo per spionaggio a favore del Qatar insieme all’ex presidente Morsi. Diplomatici espulsi dall’udienza per l’avvocato della famiglia Regeni che si presenta in aula con un origami "Verità per Giulio". Ieri la corte di assise del Cairo ha condannato alla pena di morte sei persone accusate di spionaggio a favore del Qatar. Tra loro tre giornalisti giudicati in contumacia: Asmaa Mohamed al-Khatib dell’agenzia Rassd legata alla Fratellanza Musulmana; e due dell’emittente qatariora al Jazeera, il produttore Alaa Omar Mohammed e il caporedattore Ibrahim Mohammed Hilal. Ora la palla passa al Gran Muftì, la più prestigiosa figura religiosa sunnita, che dovrà esprimere il proprio giudizio, non vincolante ma generalmente rispettato dalle corti penali. Una complessa rete di imputazioni che passa per la redazione di al Jazeera, dal luglio 2013 ampiamente perseguita dal regime militare: secondo il procuratore, documenti classificati riguardanti esercito e servizi segreti sarebbero stati fatti transitare attraverso i giornalisti dell’emittente di Doha nelle mani del Qatar (considerato il principale sponsor del movimento frerista), in cambio di denaro. I sei sono imputati nello stesso processo che vede al banco anche l’ex presidente Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana. Lui non è stato però giudicato: la sua sentenza è stata nuovamente rinviata, stavolta al 18 giugno, dopo il responso del Gran Muftì. L’ennesimo processo per Morsi: se l’ex dittatore Mubarak e il suo entourage vengono regolarmente prosciolti da tutte le accuse mosse nei loro confronti per 30 anni di regime, sulla testa dell’unico presidente democraticamente eletto in Egitto pesano già una condanna a morte, un ergastolo e 20 anni di prigione. Si intrecciano così i due oggetti principe della repressione manovrata dal burattinaio al-Sisi, i Fratelli Musulmani e la stampa. Se il ministro degli Interni Ghaffar, target della protesta dei giornalisti, non risponde alle pressioni mediatiche, i parlamentari si spaccano tra chi critica il comportamento del Ministero e chi lo sostiene. Ma la presa di posizione più dura è quella della Commissione parlamentare per i media e la cultura. Il suo presidente, Ghada Sakr, ha fatto appello al boicottaggio dei quotidiani egiziani schierati contro il governo. Intanto restano in prigione Malek Adly, responsabile del Network dei Legali dell’Egyptian Center for economic and social rights, e il membro del Movimento 6 Aprile Zizo Abdo, arrestati giovedì notte. Le prime notizie sulle loro condizioni sono giunte ieri: il collega di Adly, Mahmoud Bilal, e il suo avvocato, Sameh Samir, hanno detto all’agenzia indipendente Mada Masr che i due hanno sul corpo i segni inconfutabili di violenze. Samir li aveva incontrati nella stazione di polizia di Maadi, qualche ora dopo l’arresto. Durante l’interrogatorio, il giorno dopo, a Malek Ably è stato chiesto di esprimere un’opinione sul caso di Giulio Regeni e sull’abbattimento dell’aereo russo ad ottobre. Per discutere degli sviluppi nell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore si incontrano oggi al Cairo i due team investigativi italiano e egiziano. Il meeting segue alla consegna dei tabulati di 13 cittadini egiziani, un numero estremamente limitato rispetto alle richieste della Procura di Roma e che è prodotto di una selezione ad hoc operata dal procuratore generale egiziano. Tra i 13 egiziani spicca Mohammed Abdullah, segretario del sindacato degli ambulanti da tempo sotto osservazione. L’uomo era in contatto con Giulio per la ricerca sui sindacati indipendenti che il giovane stava realizzando. I due si erano incontrati anche alla riunione sindacale di metà dicembre, la stessa in cui Giulio - così riferì ad alcuni amici - era stato fotografato. Ma la misura della minaccia che il caso Regeni rappresenta per i vertici carioti l’ha data ieri il tribunale che sta giudicando Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e consigliere della famiglia del ricercatore: la corte d’appello del Cairo ha cacciato dall’aula diplomatici italiani e britannici che si erano presentati all’udienza per estendere l’ordine di detenzione di Abdallah, arrestato il 25 aprile con l’accusa di incitamento alle proteste anti-governative. Abdallah, ieri, ha voluto ricordare Regeni: davanti alla corte è arrivato tenendo in mano un origami con la scritta in arabo "Verità per Giulio". Libia: a Misurata, sul fronte della guerra che traccia il confine tra le due nazioni di Rolla Scolari La Stampa, 9 maggio 2016 La città sostiene Al Sarraj ed è minacciata dall’Isis: viviamo in stato d’emergenza. Ma si prepara a fermare le mosse del generale Haftar: "Vuole i nostri pozzi". Il tour era diviso in quattro tappe: Tripoli-al Khums (120 km), al-Khums-Misurata (100 km), Misurata-Zlinten (95 km), Zlinten-Tripoli (125 km). Dal primo al 4 maggio, ciclisti di club di tutta la Libia - Tripoli, Bengasi, Zwara, Zawiyya, Gheriane - hanno partecipato ad al-Muttaheda Cycling Tour, in arabo il Tour dell’Unità. Il fascicolo patinato della gara è ancora sui tavoli polverosi del comune di Misurata, tra le città protagoniste della competizione. Racconta un’altra Libia, non quella della frammentazione militare, della spaccatura geografica e politica tra Tripoli, all’Ovest, e Tobruk, all’Est. La città, simbolo della potenza d’armi del Paese, sta nel mezzo, lungo la costa, spartiacque di un conflitto all’interno del quale si inseriscono invadenti e pervasive bolle di combattenti dello Stato islamico. Sotto assedio - Misurata è il fronte più avanzato di una guerra destinata a definire gli equilibri del Paese, e che si combatte a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste. È una città in stato d’emergenza, anche se non lo fa vedere. "È una guerra globale, non è soltanto per noi", ci dice il generale Mohammed al-Gharsi, che sabato ha annunciato la formazione di un "Comando unificato" per la lotta allo Stato islamico nella regione tra Sirte e Misurata. Seduto in quello che è il quartier generale amministrativo di questo nuovo strumento del Consiglio presidenziale del premier di Tripoli, Fayez al-Sarraj - è da lui che i militari ricevono gli ordini - non nasconde di "temere" che, come accaduto nei giorni scorsi a Est di Misurata, lo Stato islamico possa "mettere mine dietro le nostre linee, circondandoci", o fare attacchi con autobomba in città. Isis giovedì ha conquistato il villaggio di Abu Grein, 120 km a Est di Misurata. "Inshallah", se Dio vuole, risponde quando gli si chiede se i misuratini siano abbastanza forti da affrontare Isis da soli: "Ci sono due vie: o Daesh entra a Misurata, o Misurata entra a Sirte", la roccaforte dello Stato islamico che il generale chiama con il suo acronimo arabo. Il coordinamento con Sarraj e i suoi uomini è continuo, e non mancano le comunicazioni "con i partner internazionali", dice. Posti di blocco e mitra - In città, ci sono posti di blocco mobili, soprattutto la notte, racconta il giovane colonnello Mohammed Abu Dabbous, tra i portavoce del Comando. La mobilitazione è discreta, a parte per i pick-up su cui sono montate le mitragliatrici. La via per il fronte è bloccata ai civili. La paura per Misurata, che porta ancora evidenti nei palazzi crivellati di colpi i segni dell’assedio delle forze gheddafiane nel 2011, non manca, ammette Dabbous, che sull’avambraccio ha il simbolo dello Stato maggiore dell’esercito libico. Un altro esercito, quello legato a Tripoli, e non all’Est di Tobruk, dove altre truppe guidate dal generale Khalifa Haftar e sostenute da Emirati ed Egitto utilizzano lo stesso aggettivo, "libico". E minacciano di muovere su Sirte. La corsa contro Isis - mossa che potrebbe dare a qualsiasi vincitore un potere negoziale maggiore in casa e all’estero - spacca una nazione già frammentata. Haftar, fermo 400 km a Sud di Sirte, è stato accusato dalle Guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran, nella Cirenaica, di puntare non agli estremisti ma ai pozzi di petrolio e ieri ha rifiutato un incontro "chiesto" dall’inviato Onu Martin Kobler. Il comando unificato non è affare soltanto di Misurata. Il suo leader, il generale Bashir al-Qadi, un omone di poche parole, è della città. Il numero due, Salam Jaha, è uomo di Bengasi trapiantato a Misurata. Il numero tre è di Khums, a pochi chilometri dalla città; il numero tre di Zlintan, sulla strada per Tripoli; il numero quattro di Jufra, nel Sud. È questo ufficiale ad assistere il fronte. "Non siamo ancora pronti ad attaccare", dice il generale al-Gharsi, benché le sue truppe soltanto pochi giorni fa abbiano subito uno scacco importante da parte dello Stato islamico, con la perdita di Abu Grein e altri sei villaggi della zona, così vicini alle porte della città: "Ci prepariamo perché questo è un nemico feroce". Ed è mobile. Dentro le carceri - La base dell’Accademia dell’Aviazione di Misurata si estende su 90 ettari, dove tra gli eucalipti sorgono brutte palazzine scrostate, di quell’architettura libica che il regime di Gheddafi ha sparpagliato nel Paese tra gli Anni 70 e 80. Per entrare nella prigione dell’Accademia, dove sono detenuti alcuni sospetti membri dello Stato islamico, si attraversano due cancelli di metallo, le mura spesse color della sabbia sono interrotte da 16 torrette di guardia. Spiega il capitano della polizia Kamal Zubi, un 24enne a capo della direzione del carcere, che nei mesi scorsi sono stati arrestati libici e stranieri - siriani, sudanesi, tunisini - sospettati di appartenere a Isis: alcuni in città, altri al fronte, altri in arrivo dal mare. La maggior parte sono spediti alla prigione di un altro aeroporto, quello di Mitiga, a Tripoli, attaccata pochi mesi fa proprio da un commando degli estremisti, intenzionati a liberare i propri compagni d’armi. Tra le basse palazzine quadrate, alcuni detenuti in tuta azzurra pregano in un container-moschea. Non quelli sospettati o accusati d’essere dello Stato islamico: loro sono rinchiusi in un’ala speciale, dietro pesanti porte di metallo grigio. Stati Uniti: la pena di morte raccontata a fumetti, l’incredibile progetto del Nyt di Federica Seneghini Corriere della Sera, 9 maggio 2016 Il reportage sulla vita dei condannati a morte pubblicato sul New York Times. Il vignettista Patrick Chappatte: "La maggior parte di loro ha commesso crimini orrendi, ma il nostro obiettivo non era raccontare cosa hanno fatto, ma quello che succede dopo". Per due anni il vignettista Patrick Chappatte e la reporter Anne-Frédérique Widmann, sua moglie, hanno intervistato i detenuti rinchiusi nel braccio della morte di alcune carceri degli Stati Uniti. Prima di iniziare, li hanno contattati tutti, mandando a circa 3 mila persone una newsletter per informarli della loro progetto: un fumetto per spiegare cosa significa essere condannati a morte. "Abbiamo ricevuto la risposta di una trentina di persone, quelli ancora stavano in piedi", ha spiegato Chappatte. "Perché la stragrande maggioranza di loro si trova in stato vegetativo o è diventato pazzo. La maggior parte di loro è distrutta". Il risultato dell’inchiesta è una mostra allestita a Los Angeles l’anno scorso, ma soprattutto uno straordinario reportage pubblicato giovedì sul New York Times. Un racconto toccante e profondo, sviluppato in cinque puntate. "La maggior parte di loro ha commesso crimini orrendi", ha detto Chappatte. "Ma il nostro obiettivo non era raccontare cosa hanno fatto, ma quello che succede dopo". "Resilienti grazie all’arte" - Chi non impazzisce, ci riesce grazie a "un’eccezionale capacità di resilienza", ha spiegato ancora Chappatte. "In carcere tutti hanno imparato a disegnare e a dipingere. L’arte li ha aiutati a rimanere sani di mente, così come la speranza che il loro caso sia rivisto. Un detenuto mi ha detto un giorno: "Voi dite che fino a quando c’è vita c’è speranza; per me vale il contrario, fino a quando c’è speranza c’è vita". "Giornalismo in prima persona" - Il reportage ha fatto il suo debutto online giovedì ed è disponibile in versione mobile. Domenica la prima puntata è stata pubblicata anche sull’edizione cartacea del quotidiano. "Mi sono reso conto molto presto che questo tipo di giornalismo "in prima persona" è molto efficace per fornire il proprio punto di vista", ha spiegato Chappatte alla giornalista di Poynter Kristen Hare. "È un modo per portare con te il lettore. Che riesce così a provare le stesse cose che hai provato tu". Stati Uniti: dallo specchio un detenuto suggerisce di non guidare in stato di ebbrezza di Eleonora Giovinazzo huffingtonpost.it, 9 maggio 2016 Ciò che ha commesso lo perseguiterà per tutta la vita. Il suo grave errore è stato mettersi alla guida dopo aver consumato alcolici. In quella notte che non dimenticherà mai, il carcerato protagonista di questo spot ha ucciso un uomo. Ora sta passando parte della sua vita dietro le sbarre. Le immagini di quello che ha fatto, il pensiero della persona che ha ucciso e degli amici e familiari ai quali la ha sottratta, sono una costante nella sua esistenza. E tutto questo perché ha guidato l’auto in stato di ebbrezza. Lo spot "Reflections From Inside" (Riflessioni da dentro), realizzato dall’agenzia Bravo Miami per l’associazione no profit We Save Lives (Noi salviamo vite), mostra alcuni frequentatori di un pub recarsi in bagno. Mentre si lavano le mani o si guardano allo specchio il riflesso cambia davanti ai loro occhi. Di fronte a loro c’è un altro uomo: è un detenuto. Il suo nome è Kris Caudilla, è stato condannato a 15 anni di prigione per omicidio colposo. Sta scontando la sua pena in un carcere della Florida. L’uomo che ha ucciso era un ufficiale di Polizia che ha lasciato una moglie e quattro figli. Caudilla suggerisce alle persone che entrano in bagno di farsi un esame di coscienza ed evitare di mettersi alla guida se hanno bevuto qualche bevanda alcolica di troppo. "La nostra speranza è che il messaggio funzioni e che dia alle persone anche il coraggio di intervenire quando vedono qualcuno pronto a guidare dopo aver bevuto alcolici - commenta la fondatrice dell’associazione, Candace Lightner - Spesso le nostre storie arrivano dalle famiglie delle vittime; a nostra memoria questa è la prima volta che un criminale dal carcere collabora per mandare un messaggio chiaro e forte contro chi si mette alla guida in stato di ebbrezza e sulle conseguenze di guidare dopo aver bevuto. Noi crediamo che il messaggio di Kris possa salvare delle vite".