Vi ricordate che esiste la Costituzione? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 maggio 2016 Quelle che seguono non sono parole mie. È semplice trascrizione di alcuni brani della Costituzione repubblicana. "La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili...". "La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento...". "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato...". "I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti". "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata...". Non serve un fine giurista per capire la lettera e lo spirito della Costituzione, sulla base della lettura di questo "estratto". Se ne deducono alcuni principi molto chiari. Il primo è che - di norma - le intercettazioni telefoniche non sono legittime. Possono essere una misura eccezionale. Due milioni di intercettazioni telefoniche in un anno sono una misura eccezionale? No. La pubblicazione di intercettazioni, a pioggia, e senza che abbiano alcun interesse penale, sono una misura eccezionale? No. Sono un atto che viola e sfregia la Costituzione. Il secondo principio è quello che stabilisce che accusa e difesa devono operare sullo stesso piano. Parità di diritti, parità di strumenti di indagine, pari dignità nelle proprie tesi. Oggi è così? No, chiunque lo vede. L’accusa è sacra, è sul piedistallo, è considerata verità e giustizia, ha mezzi potentissimi. La difesa è nel migliore dei casi indicata come una necessità, più spesso come un fastidio. Il terzo principio è che il giudice è terzo e imparziale. Ma se il Gip, ad esempio, è collega e amico del Pm, è terzo e imparziale? Poi c’è un quarto principio, importantissimo, quello che proclama l’innocenza dell’imputato fino a condanna definitiva. E c’è l’affermazione che la reclusione non deve comportare trattamenti disumani e deve servire alla rieducazione: il combinato disposto tra queste affermazioni mette in discussione in modo clamoroso l’uso della carcerazione preventiva a scopo di "acconto" di pena o come strumento al tempo stesso di punizione e di indagine. Infine c’è la questione della ragionevole durata del processo. Imposta in modo chiarissimo dall’articolo 111 e in modo chiarissimo messa in discussione, proprio in questi giorni, dalla richiesta dell’Anm (alla quale il governo sembra orientato a cedere) di allungamento ulteriore dei tempi della prescrizione e dunque dei processi. Con la nuova prescrizione si arriverebbe a tempi di attesa che potrebbero sfiorare o superare i 20 anni per reati non di sangue. Allora mi chiedo: siamo sicuri che la Costituzione sia da difendere solo quando viene messa in discussione la legge elettorale (la quale, tra l’altro, non fa parte della Costituzione) o l’esistenza e le funzioni del Senato? Siamo sicuri che cambiare le funzioni del Senato sfregi la democrazia più di tutte le offese che l’attuale funzionamento della giustizia porta ai diritti fondamentali della persona? Possibile che stuoli di costituzionalisti si mobilitino contro la riforma costituzionale della Boschi e nessuno alzi un dito per l’allungamento della prescrizione, o per gli arresti preventivi a capocchia, o per le intercettazioni a strascico? La giustizia, l’emergenza e le chiacchiere di Mariano Ragusa Il Mattino, 7 maggio 2016 Qual è il tempo della giustizia? Quello che, scandito clangore e ragionevolezza, produce risposte di legalità efficaci e rapide per i cittadini? O quello che, a volte accompagnato da una volontà di giudizio etico di culla magistratura si sente investita, scorre sine die solo per esibire il simulacro della legge, le sembianze del rigore e, di fatto, offrendo una risposta agli allarmi sociali solo di facciata? La giustizia italiana li contiene entrambi questi tempi generando, forse l’impressione di una schizofrenia, certamente di una distanza dalla concretezza della realtà. Due facce, la stessa medaglia. Roma e Napoli si incaricano di tratteggiarle e porle in stridente, insostenibile contrasto. Prendiamo la questione della prescrizione. È il tema nell’agenda politica romana e del Parlamento. Si discute sul prolungamento dei suoi tempi di durata. Si coltiva, ad uso e consumo del ventre populista dell’opinione pubblica, l’idea che, con tempi più lunghi per perseguirli, reati odiosi come la corruzione (perché questo il tema centrale dello scontro in atto) non avrebbero via di scampo. Ma una giustizia che arriva tardi, che sanziona un reato nel tempo della generazione successiva a quello in cui è stato commesso, è già una giustizia inefficace e inutile. Ininfluente persino su quell’aspettativa di stimo lare la crescita del senso di legalità attraverso i suoi atti. È certamente così. Sia sul piano dei risultati. Ma anche su quello della garanzia dei diritti individuali. Una prescrizione lunga un decennio è la smentita dei principi, a cui la legislazione è invece ancorata, del giusto processo, della ragionevolezza dei suoi tempi, dell’efficacia della pena. L’emergenza e le chiacchiere Ed è anche il sequestro sine die della vita e della libertà del presunto innocente inattesa di sentenza. Ma la prescrizione è ormai diventato il tema dominante. Tanto lo è diventato da suggerire l’idea che ad essa si riduca lo sforzo di riformare la giustizia, che invece ha nodi delicati e decisivi da sciogliere (giusto processo appunto, regole e limiti dell’esercizio dell’azione penale, separazione delle carriere) per decidere quale debba essere il profilo delle garanzie in questo Paese in equilibrio con le ragioni della sicurezza. Roma è lontana da Napoli. Nella metropoli partenopea, dove malgrado i colpi pesantissimi inferii da forze dell’ordine e magistratura alla criminalità organizzata, i clan rialzano la testa, si leva l’allarme preoccupato del presidente Mariano Ragusa del Tribunale Ettore Ferrara. L’alto magistrato rivela su questo giornale, nell’intervista rilasciata a Leandro del Gaudio, che la magistratura napoletana non è in grado di dar corso in tempo utile a ben mille richieste di arresto, la gran parte proprio per presunti affiliati a cosche di camorra. Carenza di personale e disfunzioni della macchina giudiziaria spiegano questa latente débâcle dello Stato di diritto. Non è una bandiera bianca, certo. Ma l’avvisaglia di un pericolo. Gravissima avvisaglia perché si leva dal fortino della legalità che ha combattuto senza risparmio di energie, capacità investigative e risultati tangibili contro i poteri criminali organizzati. Il simulacro della giustizia che scommette sulla sua inefficace "quasi eternità". E la giustizia vissuta e misurata nelle sue difficoltà organizzative e in debito con le aspettative di sicurezza e di legalità dei cittadini. Roma e Napoli, la doppia faccia della medaglia. L’una che suona come smentita dell’altra. Nel Paese dove i colpi di pistola e i cadaveri lasciati per strada rischiano di non smuovere una politica chiusa su se stessa ed impegnata, per via giudiziaria, in certi regolamenti di conti interni. Cattivissimi noi. La normalità dell’odio nella lotta politica di Luigi Manconi pagina99, 7 maggio 2016 Dipingere l’avversario come nemico assoluto non è una novità. Ma ora il disprezzo ha bisogno di spostarsi su interi gruppi e comunità. Premessa: è scontato che, sulla questione dell’immigrazione, o su altre problematiche non meno incandescenti, possano esservi opzioni culturali e politiche pubbliche totalmente diverse. I conflitti che ne derivano possono risultare assai aspri e fin dirompenti. E anche i vocabolari dei due schieramenti che si affrontano possono esserne condizionati e manifestarsi con particolare violenza, Ma, acquisito tutto questo, nel dibattito in corso si avverte qualcosa di terribilmente sgradevole. Un sapore di meschinità cattivista e di infamia dozzinale, che sembra perseguire più un effetto euforizzante che una argomentazione razionale a sostegno di una tesi o dì quella opposta. E quell’effetto euforizzante sì affida a fattori di colpevolizzazione e a procedure di persecuzione e di degradazione dell’altro. Si dirà che anche questi possono essere strumenti di lotta politica, quando questa diventa particolarmente cruenta. Ma c’è il rischio che, con ciò, si sottovalutino gli effetti perversi dell’avvelenarsi dello scontro politico. E di quanto può arrivare a produrre di malsano, fino all’odio. In altre parole, si può dire che, ormai da qualche tempo, l’odio è tornato a pieno titolo a manifestarsi nel conflitto politico e sociale. Negli ultimi decenni, mentre la criminalizzazione personalizzata del leader avversario e il suo character assassination raggiungevano il picco - con la ipostatizzazione di Silvio Berlusconi in trofeo di guerra - il dispositivo dell’odio tendeva a spostarsi verso gruppi, comunità e collettività. Tra i bersagli privilegiati, gli immigrati, i richiedenti asilo, i rom e i sinti. Tutti i provvedimenti relativi alle materie appena richiamate vengono promossi, accompagnati e incentivati da processi di mortificazione dell’oggetto stesso di quelle politiche. Quasi che misure di controllo, reclusione e di espulsione non possano realizzarsi che con il sostegno di un linguaggio e di una politica del disgusto. La spiegazione è semplice e, allo stesso tempo, corrisponde a una confessione: il contenuto di quelle misure esige, per essere motivato e ottenere consenso, di essere adottato nei confronti di chi si trovi, per le più diverse ragioni, nella sfera del "disprezzabile". Sotto questo profilo, quelle tre principali figure prima richiamate - l’immigrato, il profugo e il rom - presentano esattamente tutti i caratteri del "disgusto": non sono come noi, pretendono di essere come noi, risultano irriducibilmente altro da noi. E la fisiognomica esalta tutto ciò. Enfatizza, cioè tratti della personalità e connotati fisici, stili di vita e forme di relazione, parole e gesti, che non solo li rendono irreparabilmente diversi, ma finiscono con l’attribuire loro un carattere e un’immagine tali da suscitare ribrezzo. Il che sembra imporre presa di distanza e strategie di repulsione/espulsione. Ciò significa che, in qualche modo, l’odio è necessario. E soprattutto rischia di insediarsi stabilmente come fattore qualificante della lotta politica in tempi di crisi. Qui emerge una novità che va colta. Non c’è dubbio che in questo dopoguerra, ciò che ho chiamato avversione totale abbia percorso sentimenti e comportamenti di una parte significativa dei due principali schieramenti in conflitto, a partire da una categoria, quella del nemico assoluto, che univa i campi antagonisti. Mentre questa tensione estrema e radicale andava attenuandosi, smilitarizzandosi e politicizzandosi secondo regole condivise, il fuoco degli anni Settanta rilanciò quella categoria di nemicata che tuttavia coinvolse solo segmenti minori della società nazionale. Negli anni successivi, anche lo scontro politico più acre non vide contrapposti nemici, bensì avversari. Il berlusconismo, come si è detto, si avvicinò pericolosamente a quella dimensione di bersaglio totale, ma in realtà non ne assunse mai la valenza assoluta. Oggi, questo può accadere perché - in uno scenario connotato da lacerazioni economiche, sociali e istituzionali - il bisogno di un nemico-capro espiatorio si è fatto più urgente. Il vocabolario di quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive, leader politici e, soprattutto, la comunicazione online, sembrano non conoscere limiti, tabù, autocensure e autocontrollo. Questo investe solo in parte l’avversario politico, effettivamente ridotto a nemico in alcune circostanze, e coinvolge invece alcuni grappi e alcune minoranze. E in questo clima che monta ciò che ho chiamato cattivismo: il piacere efferato di non provare compassione, la soddisfazione acida per l’uso brutale della forza, la tonalità belligerante del linguaggio. Nulla di tutto ciò è richiesto, in teoria, per argomentare e sostenere determinate politiche. Ma il gusto di Matteo Salvini nel comunicare la sua voglia di "prendere a calci in culo i clandestini", la miserabile retorica della ruspa; e, poi, l’aggressività torva contro "i sorrisi" di Doina Matei; e l’assenza di pietà verso Bernardo Provenzano che, ridotto com’è in uno stato vegetale, non dovrebbe più essere considerato un nemico assoluto, ma un individuo in agonia. E nella sfera politica, il linguaggio feroce contro l’ex ministro Elsa Fornero, l’attuale premier Matteo Renzi e quelli precedenti, in particolare Silvio Berlusconi, ma anche contro Mario Monti, e le tortuose minacce indirizzate a Lucia Borsellino; e, nel passato di molti di noi, quante parole truci. Più in generale, il moto di rivalsa sociale che infallibilmente colpisce chiunque - tanto più se inizialmente vissuto come esempio di virtù - rivela una debolezza, palesa un cedimento, tradisce una crisi : tutto ciò, non va sottovalutato. La derisione del buonismo (atteggiamento quanto mai deprecabile) precipita rapidamente in esaltazione della spietatezza; la critica della solidarietà (virtù anch’essa assai discutibile) si fa in un batter d’occhio trionfo dell’egotismo più ottuso; l’enfasi sul realismo giustifica la prevaricazione più efferata. Tutto ciò, va da sé, è miseria. Priva di qualunque razionalità e mera espressione di conformismo atavico e di antiche feroci pulsioni. Purtroppo, non si tratta di secrezioni innocue. La legittima difesa "american style" è contro la Costituzione di Alberto Cisterna Il Dubbio, 7 maggio 2016 Chi mai non ha sospirato con un pizzico d’invidia alla vista di un film americano. I padroni di casa a tarda sera rientrano, mettono un minuscolo chiavistello alla porta e vanno a dormire sereni. Certo poi mani misteriose violeranno quell’intimità, ma saranno feroci rivali o spietati serial killer. Mai un ladro. Perché in America le case non sono blindate, le inferriate non oscurano finestre e balconi come in Italia. Panic room è l’eccezione non la regola. Tra le mura di casa, dall’altra parte dell’oceano, si ruba poco. Perché chi lo fa rischia di finire ammazzato. Le armi sono sempre nei comodini o in uno scrittoio e si può sparare senza alcun limite, non solo nelle pellicole di Hollywood. Negli stessi film le strade sono spesso una giungla spietata, le periferie luoghi di paura e di sangue in cui nessun wasp o nessuna donna si avventurerebbe. La violenza, è il caso di dirlo, uscita dalla porta scorre per le vie. Non esistono società perfette e il disagio sociale o, semplicemente, la malvagità trovano sempre luoghi e persone da depredare. È di qualche giorno fa un sondaggio dell’istituto Eumetra Monterosa secondo cui il 52% degli italiani ritiene giusto adoperare le armi contro un intruso, contro chi entri in casa per rubare anche se non armato. È tanto quel 52%, ma non moltissimo. C’era da temere peggio. Nella civile America si sarebbe sfiorato il 100%. Messe da parte complesse questioni tecniche su cui gli stessi specialisti sono spesso in disaccordo (proporzione, condizioni soggettive ed oggettive dell’aggressione ect.) occorre porsi e porre un’altra questione. La tesi che circola in alcuni ambienti è che si dovrebbe riconoscere sempre e comunque il diritto ad usare le armi a chi subisce un’intrusione nella propria abitazione. Si badi bene: non un’aggressione, qui il problema della legittima difesa neppure si pone, ma un’intrusione. Magari di notte e anche di un ladro disarmato come quasi sempre succede. Una martellante campagna di alcuni media invoca questa soluzione: se entri nella mia abitazione nel cuore della notte io ti sparo, senza stare a vedere se sei armato o meno. E questi secondo tanti dovrebbero essere i nuovi confini della legittima difesa american style. Più di un italiano su due la penserebbe così. A costoro, però, bisognerebbe anche dire che una riforma di questo genere della legittima difesa equivarrebbe a stabilire per il furto in appartamento la pena di morte. Punto e basta. La preventiva autorizzazione a sparare in presenza della sola intrusione - e senza aggressione - tecnicamente vale a punire con la morte chi viene sorpreso a rubare in casa, magari di notte. E questo è vietato dalla Costituzione italiana, a tacer d’altro. Vada per soluzioni ragionevoli che evitino clamore e perplessità in una pubblica opinione impaurita e disorientata, ma se la questione fosse posta (come dovrebbe essere posta) in questi termini quel 52% si assottiglierebbe e di molto. Toghe e governo, pace mimata di Andrea Colombo Il Manifesto, 7 maggio 2016 L’Anm bacchetta il giudice Morosini: "Se confermate, le sue parole inopportune e ingiustificate". Legnini: "Chiariremo che quella non è la posizione del Csm". Renzi si sente sotto assedio, ma vuole evitare a tutti i costi il conflitto plateale. A Potenza l’inchiesta Tempa Rossa sfiora il non indagato ministro Delrio. A Lodi l’inchiesta potrebbe allargarsi alla piscina voluta da Guerini. L’Anm, il sindacato dei magistrati, censura di fatto Piergiorgio Morosini, reo di aver parlato a ruota libera nel corso di un colloquio che secondo lui era "informale" e secondo Il Foglio era invece un’intervista a pieno titolo. Però la sensazione che lo scontro non sia affatto spento e prosegua sotto traccia rimane, tanto che il responsabile Giustizia del Pd Ermini non si accontenta e twitta: "La smentita non basta". Ma è uno scontro diverso da quelli dell’ultimo ventennio, perché stavolta entrambe le parte in causa hanno tutto l’interesse a negarlo. La nota dell’Anm è dura, tanto più che il suo presidente, Pier Camillo Davigo, aveva invece difeso il pieno diritto di Morosini a esprimere la propria opinione e si era invece scagliato contro Giuseppe Fanfani, per l’intervento minacciato e poi rientrato sull’arresto del sindaco di Lodi Simone Uggetti. Anche il comunicato dell’Associazione ribadisce "il diritto del singolo magistrato di esprimere le proprie opinioni". Nel caso specifico però, le dichiarazioni di Morosini, "se confermate", sarebbero "per alcuni aspetti inopportune e ingiustificate" e in più riguardano "temi e argomenti non di pertinenza di un rappresentante dei magistrati presso l’organo di governo autonomo". E neppure basta perché quelle frasi addirittura "incidono sul prestigio della magistratura e sul leale rapporto tra poteri dello Stato". Il vicepresidente del Csm Legnini, che in questo caso riflette nei particolari la posizione di Sergio Mattarella, sottoscrive: "Avremo modo di chiarire che la posizione del Csm non è affatto quella che emerge in questi giorni". Il magistrato sotto accusa, si sa, non conferma. Anzi di fronte al plenum del Csm, giovedì scorso, ha smentito con veemenza: "In quel pezzo ci sono frasi incomplete che travisano il senso di un colloquio informale, partito con la mia esclusione di rendere dichiarazioni pubbliche". Che si trattasse di una tipica intervista "rubata" era palese. Pace fatta dunque? Proprio no, perché Matteo Renzi, anche se mai lo ammetterebbe pubblicamente, si sentiva sotto assedio nei giorni scorsi e ancora di più ci si è sentito ieri. Le cronache giudiziarie sono un bollettino dal fronte, e le voci che corrono nello stato maggiore del capo prevedono anche di peggio. A Lodi il gip ha confermato l’arresto del sindaco Uggetti. Non era una decisione scontata. La custodia cautelare era sembrata subito a moltissimi una decisione sproporzionata e le motivazioni addotte dalle pm, per cui lo sviluppo tecnologico renderebbe ormai obbligatorio il carcere preventivo, un po’ assurde. L’inchiesta si starebbe allargando alla costruzione di un’altra piscina, questa volta voluta dall’allora sindaco Lorenzo Guerini, cioè dal vice di Renzi. A Potenza l’inchiesta su Tempa rossa sfiora il pur non indagato ministro Graziano Delrio. Secondo i magistrati, per ottenere la conferma di Alberto Cozzo come commissario del porto di Augusta, Giancarlo Gemelli, il fidanzatissimo, avrebbe sfruttato proprio l’amicizia con Graziano Delrio. Sarà paranoia dovuta alla pioggia di scandali e arresti, ma tra i renziani c’è chi si dice convinto che presto toccherà anche alla Regione Lazio. Con un quadro del genere si può capire perché a Ermini le smentite "non bastino". Però Renzi è fermamente deciso a evitare un conflitto che potrebbe costargli la vittoria al referendum di ottobre. I magistrati hanno tutto l’interesse a negare ogni tensione col potere politico, fatti salvi i casi criminali. Dunque mimano una concordia posticcia che finisce quasi per aumentare invece che per stemperare la tensione. In questo clima un po’ surreale si creano anche equivoci da commedia all’italiana. Il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone rilascia una dichiarazione nella quale sembra sposare la linea dei centristi della maggioranza in materia di prescrizione. Quelli esultano, e per ore va in scena lo spettacolo dell’intero Ncd che si spella le mani applaudendo il magistrato. Il quale a sera chiarisce: "Mai detto di essere contrario all’aumento della prescrizione. Anzi sono favorevole, in particolare per la corruzione. Però ci deve essere un termine ragionevole e bisogna fare rapidamente i processi". Meglio se con corsia preferenziale. Le toghe in trincea. L’Anm scarica il pm che voleva fermare Renzi di Rocco Vazzana Il Dubbio, 7 maggio 2016 L’Anm si dissocia dalle parole del consigliere Piergiorgio Morosini. "Ribadito il diritto del singolo magistrato di esprimere le proprie opinioni", recita la nota diramata dalla Giunta esecutiva centrale del sindacato togato, "l’Associazione ritiene che si tratti di dichiarazioni che, se confermate, risultano per alcuni aspetti inopportune e ingiustificate e per altri riguardanti temi e argomenti non di pertinenza di un rappresentante dei magistrati presso l’organo di governo autonomo e che incidono sul prestigio della magistratura e sul leale rapporto tra i poteri e gli organi dello Stato". In altre parole, l’Anm prende le distanze dal magistrato del Csm, finito al centro della polemica "politica-magistratura" per le dichiarazioni rilasciate al Foglio il 5 maggio. "Bisogna guardarsi bene dal rischio di una democrazia autoritaria. Un rapporto equilibrato tra Parlamento e organi di garanzia va preservato. Per questo occorre votare No ad ottobre". Sono queste le parole che il membro togato del Csm avrebbe pronunciato davanti a una cronista del quotidiano diretto da Claudio Cerasa. "Il testo pubblicato sul Foglio non rappresenta il mio pensiero, né su presunte opinioni politiche contro il governo, né su giudizi personali relativi a rappresentanti delle istituzioni o colleghi", si è difeso fin dal primo momento Piergiorgio Morosini. Ma smentire a volte non basta, soprattutto se il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dice di voler approfondire la vicenda davanti al Csm. "Mi sembra una richiesta condivisibile", risponde il vicepresidente del Consiglio superiore, Giovanni Legnini, a proposito delle istanze avanzate dall’inquilino di Via Arenula. "I rapporti istituzionali con il ministro Orlando sono stati sempre improntati alla massima e leale collaborazione. Avremo modo di colloquiare e chiarire che la posizione del Csm non è affatto quella che emerge in questi giorni ma è quella che emerge dal lavoro duro, importante, intenso di questo anno e mezzo". Legnini deve gettare acqua sul fuoco. Per l’Autogoverno non è stata una settimana facile. Prima delle parole attribuite a Morosini, infatti, era toccato a un altro componente del Consiglio, questa volta laico, riscaldare il clima. Giuseppe Fanfani, nipote di Amintore, al Csm in quota Scelta Civica, mercoledì scorso si era scagliato contro i magistrati di Lodi per l’arresto del sindaco Pd Simone Uggetti. "Non ho mai visto, in 40 e più anni di attività di penalista, incarcerare alcuno per un reato come la turbativa d’asta, soprattutto quando l’interesse dedotto è quello di una migliore gestione di una Piscina comunale", aveva detto Fanfani, parlando di una "non equilibrata valutazione del caso" e chiedendo "l’apertura di una pratica per verificare la legittimità dei comportamenti tenuti e dei provvedimenti adottati nel caso di specie". Parole di fuoco, liquidate dall’Anm come "indebita interferenza". È in questo contesto, tutt’altro che disteso, che si inseriscono le precisazioni di Legnini: "Questo clima deve assolutamente migliorare perché non serve al Paese". Ma, nonostante il vicepresidente del Csm provi a stemperare, non può fingere che le parole di Morosini non siano mai state pronunciate. Perché, a differenza delle esternazioni di Fanfani, le dichiarazioni del membro togato del Consiglio minano i rapporti con un altro potere dello Stato. "Non so se e quali dei contenuti di quella intervista siano riferibili al consigliere Morosini, ma sono comunque inaccettabili", dice Legnini a Radio Anch’io. "Le critiche agli altri poteri sono legittime e ammissibili, ce ne sono state e ce ne saranno. Altra cosa è l’attacco personale a un membro del governo o del Parlamento. Chiediamo rispetto per le prerogative dei consiglieri e per i magistrati ma analogo rispetto dobbiamo agli altri poteri". Alberti Casellati: "È un incendio acceso da Davigo non da Morosini" di Errico Novi Il Dubbio, 7 maggio 2016 Le tensioni tra politica e magistratura? Le hanno scatenate le dichiarazioni del nuovo leader dell’Anm. E il togato nella bufera per l’intervista al "Foglio" non va crocifisso, dice l’ex sottosegretaria alla Giustizia. Con una forte dose di perfidia si potrebbe dire che Berlusconi non era arrivato a tanto. Con il Cavaliere a Palazzo Chigi non si era mai avvertita tanta tensione al Csm. Le fibrillazioni per le parole del laico Fanfani sull’inchiesta di Lodi, e soprattutto la scossa dell’intervista di Morosini al Foglio, sono il punto più alto della polemica. "Eppure fino a pochi giorni fa non era questo il tono: tra politica e magistratura c’era confronto, non tensione incontrollata", dice Maria Elisabetta Alberti Casellati. La consigliera laica del Csm indicata dal centrodestra ha un nome per spiegare tutto: Davigo. "L’incendio viene da lì". Cosa c’entra Davigo con i casi Morosini e Fanfani? Sono due questioni distinte, da non semplificare, che però mi sembrano gli ultimi anelli di una catena di eventi. Sono le conseguenze della tensione creata dalle dichiarazioni del nuovo presidente dell’Anm. Nella polemica sulla giustizia sembra esserci più tensione al Csm che in Parlamento. Le parole di Davigo hanno riacceso il fuoco. Fino a due mesi fa le relazioni istituzionali tra politica e magistratura erano tranquille. Orlando è un ministro alla ricerca del dialogo, non dello scontro. Impossibile negarlo. È il principale merito da riconoscere all’attuale guardasigilli, del quale ho grandissima stima. Se siamo arrivati a polemiche così aspre nonostante Orlando, vuol dire che qualcosa ha alterato gli equilibri. Forse Davigo è talmente mediatico da attirare sui giudici, su Morosini ad esempio, un’attenzione mai vista prima. Non credo che alla magistratura si possa attribuire scarsa confidenza con i media. Sul rapporto tra magistrati e comunicazione pubblica c’è una proposta di legge all’esame del Parlamento. Ma un caso come quello di Morosini è un inedito. Morosini al plenum ha smentito i contenuti di quell’intervista. Ha detto di non pensarla in quel modo, di non sentirsi rappresentato da quelle parole. Inoltre quell’articolo è in contrasto con i fatti. A cosa si riferisce? Sono una componente della commissione del Csm preposta al conferimento degli incarichi direttivi. Posso dire che tutte queste ossessive pressioni sulle nomine non esistono. Abbiamo introdotto nuove regole sui criteri di scelta proprio per obiettivizzare il più possibile le decisioni. Il quadro descritto in quell’intervista è l’esatto opposto di questo percorso. In ogni caso a Morosini non si può buttare la croce addosso. Va sottoposto a procedimento disciplinare? Aprire un procedimento disciplinare mi sembra fuori luogo. C’è un indebolimento complessivo della magistratura? Sicuramente bisogna spegnere le polemiche. Proviamo a chiederci cosa pensa un comune cittadino di fronte a questi scontri. Anche la presa di posizione del consigliere Fanfani mi pare sia stata presentata con eccessiva enfasi. Non capita tutti i giorni che un componente del Csm deplori la decisione di un magistrato. Forse ha espresso un giudizio inopportuno. Però anche qui: Fanfani ha detto che si riservava di chiedere l’apertura di una pratica. Credo che il diritto di fare valutazioni, e di parlarne, non si possa negare a nessuno. Onorevole, lei ha indicato Melillo come Procuratore di Milano. E ha un po’ sparigliato i giochi, al Csm, soprattutto all’intrerno dei gruppi di "Area". Intanto, tutti e tre i candidati provengono da quella componente, anche Greco e Nobili. Io ho cercato di dare un’indicazione che potesse attrarre il maggior consenso possibile. E ho ritenuto che a Milano fosse necessario dare un segnale di discontinuità. Si deve mettere un punto dopo lo scontro Bruti-Robledo? Non è questo il punto: si deve guardare avanti in termini di metodo. È utile avere alla guida dell’ufficio una figura di grande spessore, come le altre indicate, e che in più interrompa una sequenza di responsabili tutti scelti all’interno dello stesso palazzo di Giustizia. Lei, parlamentare di Forza Italia che spiazza le toghe "di sinistra": cos’è, una nemesi? È il bello della dialettica democratica: confrontarsi a tutto campo. Non è un sabotaggio, è un’occasione. L’ex ministro Formica: in Italia garantismo inutile, la politica ha già perso con le toghe di Fabrizio Roncone Corriere della Sera, 7 maggio 2016 Con la sua celebre erre: "Le dirò: la politica, oggi, non è più sangue e merda. È molto peggio". (La troupe di Rai Storia ha salutato poco fa. Lo hanno intervistato su Turati, Nenni e Craxi. Rino Formica - 89 anni, più volte ministro socialista ma, al cospetto del capo, sempre capace di sfoggiare autonomia intellettuale: "Il convento è povero, i monaci sono ricchi" - parla del passato e osserva il presente). "Ho capito che lei preferirebbe partire dai plotoni dei nuovi garantisti, quelli che occupano le pagine di molti giornali e le piazze dei social network: ma temo sia inevitabile invece cominciare con Matteo Renzi...". A chi gli parla di complotto, Renzi risponde: "Complotto de che?". "Bleffa. È preoccupato. E molto. Ma non so fino a che punto comprenda di aver commesso un gigantesco errore strategico". Che sarebbe? "Non aver saputo governare e alimentare il dibattito politico all’interno del suo partito. Ha preferito soffocare, piegare, umiliare. Ha presente cosa accade durante le direzioni del Pd?". A volte, forse, sono un filo ruvide. "Macché ruvide! Peggio! Renzi parla ai suoi con un’ironia sfacciata che cela, in realtà, un disprezzo totale. Convinto d’essere diventato il capo assoluto, ha però finito per trascurare un terribile dettaglio: il dissenso, prima o poi, trova sempre altri canali di attacco". Continui. "Beh, è chiaro: a questo punto non c’è dubbio che un pezzo grande della minoranza del Pd, a lungo umiliata, veda nelle disgrazie giudiziarie del partito un ghiotto elemento di vendetta e dimostri quasi riconoscenza a certi giudici...". Però agguerriti plotoni di garantisti, come li definitiva lei prima, già sbarrano la strada ai magistrati. "Sì: vedo, leggo. Ma è un garantismo di élite. Sono le avanguardie del renzismo che pregustavano la spartizione del potere, la bambagia del comando, il successo politico ed economico e che invece, osservando il lavoro della magistratura, annusano il pericolo di dover rendere conto, prima del previsto, delle loro arroganze". Garantismo di élite, interessante. "O blocchi di potere, trovi lei la definizione più giusta. Comunque si tratta di difese disperate e inutili". Il garantismo non è mai inutile. "In Italia, purtroppo, sì. Perché la politica ha da tempo perso la partita con la magistratura. Vogliamo ricordare le parole pronunciate pochi giorni fa da Piercamillo Davigo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati?". Più o meno, ha detto così: "I politici continuano a rubare e senza vergognarsi nemmeno un po’". "Ecco, appunto: Davigo parla come un Ayatollah. Perché no, dico: secondo la Costituzione, il magistrato deve rispondere solo alla legge, e la legge non può essere soggetta a interpretazioni. Farlo, significa appunto comportarsi da leader religioso. Guardi che il crinale è pericolosissimo ma percorrerlo, per Davigo, è del tutto consequenziale, quasi inevitabile". Questa è un’affermazione grave. "Grave, però comprensibile. Sa da quali componenti è formato il Csm? Due terzi magistrati, un terzo laici. Questa è la radice del male. Uno squilibrio gigantesco che ha tenuto finché hanno tenuto i partiti. Poi, quando alla fine degli anni Ottanta i partiti hanno cominciato a frantumarsi, ecco che la politica si è indebolita e la magistratura è divenuta detentrice del potere delle manette. I giudici, da vent’anni, e ogni anno di più, si sentono investiti di un ruolo preciso: pensano d’essere i guardiani dell’onestà. Così, quando Davigo, ragionando da Ayatollah, dice d’essere convinto che il sistema politico è un sistema criminale, come quello mafioso o quello terroristico, che infetta e mina il Paese, io non escludo che, per bonificarlo, pensi anche di doverne assumere tutto il controllo". Scenario piuttosto azzardato. "Io direi tragicamente plausibile". Comunque è un dato oggettivo che dopo le dichiarazioni di Davigo, il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, è stato indagato, e il sindaco di Lodi, Simone Uggetti, è finito in carcere. "Le indagini erano avviate da tempo. Ma, certo, può esserci stata un’accelerazione. Detto questo, ciò che spiega plasticamente la debolezza della politica è che il Pd fosse all’oscuro di tutto". Già. Perché i partiti dovrebbero sapere che... "E certo! Di un’inchiesta sono a conoscenza decine di persone. Il Pd invece cade dal pero e dimostra che è un partito inesistente, che ha smarrito la capacità di ascolto, privo di sensori...". Prescrizione, Orlando: in 10 anni 1,5 milioni di processi in fumo di Cristiana Mangani Il Messaggero, 7 maggio 2016 Quasi un milione e mezzo di processi andati in fumo in dieci anni, dal 2005 al 2014: è intervenuta la prescrizione e la soddisfazione di un possibile diritto si è esaurita nelle lentezze della giustizia. Il ministro Andrea Orlando presenterà un quadro dettagliato della situazione prima che in Commissione al Senato parta la battaglia degli emendamenti sul ddl di riforma del processo penale, che ora contiene prescrizione e intercettazioni insieme. Proprio per dimostrare quando sia urgente un accordo politico sulla questione. Dati alla mano, infatti, il triste primato non accenna a diminuire: nel primo semestre 2015, oltre 68mila processi - 68.098, secondo i dati della Direzione generale statistiche del Ministero della giustizia - si sono conclusi con un nulla di fatto causa prescrizione. Nel 2014, erano 132.296. Un dato, dunque, che si mantiene costante. Ed è proprio da queste cifre così elevate che la politica dovrebbe partire per trovare una giusta soluzione. Infatti, nei primi sei mesi del 2015 sono state oltre 35 mila le cause sfociate in prescrizione di fronte al Gip. Se ne aggiungono più di 16 mila in tribunale, circa 12 mila in Corte d’appello, poco meno di 700 in Cassazione. Ma i numeri, si sa, dipende da come li leggi. Ncd, per esempio, che è su una linea distante da quella del Pd, probabilmente li userà per dire che quasi il 60 per cento dei processi si prescrive in fase preliminare, di fronte al Gip, e quindi che lì c’è qualcosa che non funziona. Enrico Costa, oggi ministro della Famiglia, fino a qualche tempo fa vice ministro della Giustizia, ha segnalato più volte il problema e non ha cambiato idea. Il Pd, invece, potrebbe usare quei numeri per sostenere che lo scorrere della prescrizione si deve fermare di due anni, in caso di condanna, dopo il primo grado, e di uno per arrivare a sentenza definitiva in Cassazione. Uno schema che ora a Ncd non dispiacerebbe capovolgere, così da anticipare la fase più breve di stop. Ma il vero versante di scontro è l’aumento dei termini di prescrizione per la corruzione, inserito alla Camera con un emendamento di Donatella Ferranti, Pd. Un terreno su cui ora, dopo il vertice di maggioranza al ministero con Orlando, si sono inseriti anche i verdiniani di Ala. Contesto politico nel quale sono state raccolte le dichiarazioni del presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone. Incontrando gli studenti ieri in Puglia, Cantone ha detto due cose: la prima, in sintonia con il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, e cioè che l’allungamento della prescrizione deve essere compatibile con una giusta durata del processo, e che lo "preoccupa" chi sostiene di bloccare la prescrizione dopo il rinvio a giudizio. La seconda, che sarebbero utili "misure organizzative negli uffici giudiziari per dare una corsia preferenziale ai processi per reati contro la Pa, per trattarli in tempi più rapidi, accertare i reati ed esporli meno al rischio prescrizione". Proposta valida e percorribile, ma non alternativa, osserva Ferranti. Ma il Cantone-pensiero fa breccia nel centro-destra. "Parole che confortano", dice Maurizio Lupi. Per Costa questa è "la chiave appropriata" per affrontare il tema. Tanto che Cantone si smarca e precisa: "Non ho mai detto no all’allungamento della prescrizione, anzi sono favorevole, ma il termine deve essere ragionevole: e la corsia rapida ai processi per reati contro la Pa non è in contraddizione". In questo clima, non sarà facile al Senato disincagliare un testo che è fermo da oltre un anno. Droghe: depenalizzato il mancato rispetto delle misure di prevenzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2016 Depenalizzato il mancato rispetto delle misure di prevenzione da parte del tossicodipendente. Per la Corte costituzionale è illegittima la norma che prevede la sanzione dell’arresto da tre a 18 mesi a carico di chi non osserva gli obblighi imposti in sede amministrativa. Tra questi ultimi, per esempio, il divieto di guida o l’obbligo di permanenza in casa durante la notte. La Consulta, sentenza 94, scritta da Marta Cartabia e depositata ieri, ha bocciato la disposizione introdotta in sede di conversione del decreto legge 272 del 2005 più per ragioni di metodo che di merito. In questo senso dando seguito al precedente rappresentato dalla sentenza 32/2914, con la quale venne giudicata incostituzionale un’altra norma introdotta al medesimo decreto, sempre al momento della conversione, e sempre in materia di trattamento dei tossicodipendenti: per effetto di quella pronuncia di due anni fa il Governo reintrodusse la distinzione sul piano sanzionatorio tra consumo di droghe leggere e pesanti. Ora la prassi disinvolta del legislatore conduce a un nuovo giudizio di illegittimità. La Corte, infatti, non manca di sottolineare come le norme originarie, contenute in un provvedimento titolato all’inizio "Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi", riguardano l’assunzione di personale della Polizia di Stato (articolo 1), misure per assicurare la funzionalità all’Amministrazione civile dell’Interno (articolo 2), finanziamenti per le Olimpiadi invernali (articolo 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (articolo 4) e il diritto di voto degli italiani residenti all’estero (articolo 5). Un po’ di tutto insomma. Ma che non autorizza comunque a inserirvi di tutto. Per la Consulta, infatti, l’unica norma cui potrebbe ricollegarsi la disposizione contestata è l’articolo 4 che però contiene norme di natura processuale che riguardano nel dettaglio le modalità di esecuzione della pena, il cui obiettivo è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. "Diversamente, la disposizione di cui all’articolo 4-quater, oggetto del presente giudizio e introdotta dalla legge di conversione, prevede anche norme a carattere sostanziale, del tutto svincolate da finalità di recupero del tossicodipendente, ma piuttosto orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica". Inoltre, a giudizio della Corte costituzionale, le norme che vennero introdotte nel decreto hanno una portata sistematica e interessano istituti di grande delicatezza come sono quelli delle misure di prevenzione e delle canzoni previste in caso di loro trasgressione. Allora, a venire violato è l’articolo 77 della Costituzione, secondo comma, per difetto del requisito necessario dell’omogeneità. La disposizione appare del tutto eterogenea rispetto agli altri contenuti del decreto e tanto basta perché venga cancellata. Busto Arsizio: c’era una volta il carcere più affollato di Italia, ora è un modello di Andrea Aliverti La Provincia di Varese, 7 maggio 2016 Carcere di Busto promosso dal Consiglio regionale: "Oggi è forse la struttura più evoluta dal punto di vista dell’umanizzazione del trattamento dei detenuti" il giudizio del presidente dell’assemblea del Pirellone Raffaele Cattaneo. "Il sovraffollamento è un problema superato" ha ribadito il direttore Orazio Sorrentini. Ieri pomeriggio la visita alla Casa circondariale di via per Cassano da parte della delegazione del Consiglio regionale della Lombardia, guidata dal presidente Raffaele Cattaneo e dal presidente della commissione speciale carceri Fabio Fanetti, con i consiglieri Michele Busi, Paola Macchi e Carolina Toia. La delegazione è stata accolta dal direttore Orazio Sorrentini e dal comandante della Polizia Penitenziaria Antonino Rizzo, insieme all’assessore ai servizi sociali del Comune di Busto Arsizio Mario Cislaghi e al direttore generale dell’azienda sociosanitaria territoriale Giuseppe Brazzoli. Ieri erano 373 gli ospiti della struttura. Cambiamento netto - "Abbiamo visitato una situazione di eccellenza - il commento del presidente Fanetti - un istituto pulito e curato. Struttura modello sotto tutti gli aspetti: l’unico neo alcune infiltrazioni d’acqua in alcune sezioni". Il presidente Cattaneo ha ricordato la sua ultima visita, un paio di anni fa: "Molti passi avanti sono stati fatti, a partire dall’apertura dell’area per la riabilitazione che allora era completata e arredata ma desolatamente chiusa e che oggi è a pieno regime. Oggi, tra quelli che ho visitato è forse il più evoluto dal punto di vista dell’umanizzazione degli spazi, e il contrasto con il carcere di Varese (visitato dalla stessa delegazione ieri mattina, ndr) è impressionante - sottolinea Cattaneo - non è un hotel ma è un luogo dove si può stare in condizioni più umane. Abbiamo ricevuto lezioni di civismo dai detenuti". Ormai già meglio di Bollate, secondo i consiglieri regionali. "La dimensione umana a Busto c’è - fa notare Paola Macchi - penso allo sportello amico, curato dai detenuti, che è un esempio di auto-mutuo aiuto, e un giornalino bellissimo ("Voce Libera"). Cose che si possono fare se in un carcere ci sono spazi adeguati per le attività". Soddisfatto il direttore Sorrentini: "La riduzione del sovraffollamento ha comportato la riduzione drastica di episodi di autolesionismo e violenza. Un lavoro avvenuto attraverso un gioco di squadra, come dimostra il supporto del Consiglio regionale. Speriamo di poter fare sempre meglio anche attraverso lo stanziamento di nuove risorse". Reggio Emilia: ora chiude davvero l’Opg, dimessi gli ultimi pazienti La Repubblica, 7 maggio 2016 L’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia: usciti gli ultimi tre pazienti, ora torna nella disponibilità della amministrazione penitenziaria. Adesso è davvero una storia finita. Una pagina che si gira per sempre. Chiude definitivamente l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia: sono stati dimessi infatti gli ultimi tre pazienti rimasti, due della Lombardia e uno del Veneto. È una legge del 2014 a stabilire l’abbandono di queste strutture, nate nell’Ottocento per ospitare i detenuti con disturbi mentali, a favore di percorsi alternativi, le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Non è solo un cambio di nome, è una diversa filosofia di approccio, con maggiori e più adeguati livelli di assistenza. Dove decisamente prevale appunto l’aspetto di cura a quello di detenzione. L’edificio che fino ad oggi ha ospitato l’Opg da oggi rientra totalmente nella disponibilità dell’amministrazione penitenziaria. Da un anno sono operative le Rems di Bologna e di Casale Mezzani (Parma), dove sono già stati accolti tutti i ricoverati emiliano-romagnoli. In tempi più recenti anche le altre regioni si sono dotate di soluzioni simili, ed ecco che finalmente gli ultimi pazienti possono fare le valigie. Le Rems sono strutture dotate di tutte le caratteristiche di sicurezza e inserite in un programma di riabilitazione sanitaria gestito dai Dipartimenti per salute mentale delle Aziende Usl di residenza, in stretto contatto con l’autorità giudiziaria per valutare caso per caso l’attivazione di percorsi sanitari individuali alternativi dalla detenzione. La struttura di Bologna ha 14 posti e accoglie chi proviene dalle Ausl di Bologna, Imola, Ferrara e dell’Azienda della Romagna; vi lavorano 30 operatori, fra infermieri, operatori socio-sanitari, psicologi e psichiatri. La Rems di Casale Mezzani, in provincia di Parma, con 10 posti, accoglie le persone seguite dalle Aziende Usl di Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, grazie all’impegno di 22 operatori. Dalla loro apertura le due residenze hanno accolto complessivamente 36 persone; 15 di queste, ricorda la Regione, "sulla base di programmi riabilitativi predisposti dai centri di salute mentale di residenza e approvati dalla Magistratura, sono stati dimessi e accolti nella rete ordinaria dei servizi di salute mentale". Napoli: Ciambriello a Poggioreale con Valente "i detenuti sono reclusi, non esclusi" Agenparl, 7 maggio 2016 "L’obiettivo finale di questa altra nostra iniziativa a Poggioreale non è solo di creare un’opera con le proprie mani e dei murales nel corridoio del padiglione, ma soprattutto di apprendere l’arte del disegno e della pittura e di imparare ad esprimersi e comunicare attraverso le immagini. Un modo per interrogarsi, porsi domande ed esprimersi attraverso l’arte. Queste persone, private giustamente della libertà, sono recluse, ma non escluse". Così Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, nel descrivere il progetto "I colori della pittura", nel corso della visita al Carcere di Poggioreale, svoltasi oggi insieme alla candidata a Sindaco di Napoli e parlamentare Pd, Valeria Valente Trento: presunti maltrattamenti, ispezione in carcere del Sottosegretario Ferri di R.C. Il Trentino, 7 maggio 2016 Spini, visita a sorpresa del Sottosegretario alla Giustizia Ferri: “ Accuse pesanti, le segnaleremo all'autorità giudiziaria” D direttore Pappalardo: “Nessun raid, ma trasparenza. Normali accertamenti per indicare eventuali responsabilità”. Tanto tuonò che piovve. Dopo le polemiche suscitate dalle parole del primario del pronto soccorso e responsabile dell'infermeria della Casa circondariale Claudio Ramponi e le dichiarazioni della politica (Lorenzo Dellai, sul Corriere del Trentino, è arrivato a proporre una delega per la gestione della struttura) ieri è avvenuta un'ispezione al carcere di Trento da parte del sottosegretario di Stato del Ministero della giustizia Cosimo Maria Ferri. Una visita annunciata con poco preavviso e volta ad accertare la situazione dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria che sarà sottosegretario, da un'indagine interna della struttura e da una segnalazione all'autorità giudiziaria. “Sono stato al carcere di Trento, lì ho fatto un giro, ho parlato con diverse persone, con la polizia penitenziaria, con gli operatori sanitari e con i detenuti - ha raccontato Cosimo Maria Ferri, intercettato proprio dopo la sua presenza a Spini di Gardolo. Ho girato e ho visto una realtà positiva della struttura, sia dal punto di vista dell'edilizia penitenziaria, sia da quello dell'area trattamentale. Negli scorsi giorni il dibattito si è concentrato sulle dichiarazioni di Ramponi che, parlando alla prima commissione del Consiglio provinciale alla fine di aprile, ha rivelato problemi relazionali tra detenuti e agenti parlando di maltrattamenti, faide tra detenuti e difficoltà nei rapporti con le persone in carcere per reati quali la pedofilia. In carcere il Sottosegretario avrebbe sentilo dalla viva voce di un detenuto il racconto di una situazione di presunti maltrattamenti. “Ho trovato una situazione positiva, una grande efficienza dal punto di vista dell'area trattamentale e delle attività - ripete a chi gli chieda lumi. Ho parlato con gli operatori e con i detenuti ed è chiaro che sono accuse pesanti che vanno verificale, sia a tutela della polizia penitenziaria, sia dei detenuti. Vanno segnalate all'autorità giudiziaria e la cosa va verificata da parte nostra, dall'amministrazione interna. Quindi chiederò una verifica del nostro dipartimento che valuti la fondatezza di queste dichiarazioni, cosi come penso sia opportuno segnalare all'autori là giudiziaria. Poi gli organi competenti interni, che dovranno fare una verifica attenta, e gli altri dovranno accertati; la verità, sia a tutela di chi è accusato, sia a tutela di chi si sente vittima. Noi dobbiamo garantire dignità sicurezza e rispetto di tutte te persone che stanno all'interno delia struttura e quindi va fatta presente agli organi competenti la situazione” A raccontare l'ispezione interviene anche il direttore del carcere di Spini Valerio Pappalardo che ieri, con il comandante del reparto di polizia penitenziaria Domenico Goria e il garante nazionale dei diritti delle persone detenute Mauro Palma è intervenuto nella seduta della prima commissione consiliare. Il Garante era presente anche durante l'ispezione, ricorda: “C'è stata una visita a sorpresa tesa a verificare la situazione - conferma Pappalardo. Pare che un detenuto abbia detto al sottosegretario di essere stato maltrattato, ma io non ero presente. Ha risposto che faremo delle verifiche per capire. È normale. Il carcere è un luogo contro natura perché limita la libertà delle persone. Io continuo a ribadire che, vista l'assoluta modernità tecnologica dell'istituto e le pene brevi che vi si scontano, è legittimo pensare a percorsi alternativi. Ma per farlo servono progetti e l’apporto del mondo esterno. Può capitare che si possa esagerare. Perciò - pare - sono stati violati dei doveri o se siamo di fronte a una sceneggiata è giusto che venga riscontrata la responsabilità”. La linea del direttore è ancora una volta quella “dell'assoluta trasparenza”. “Non è stato fatto nessun raid ispettivo - precisa. È giusto che il territorio sappia quel che avviene In carcere perché le persone vanno ritornate al territorio e l'obiettivo è recuperare le persone”. Il direttore del carcere: sì al garante A Spini 342 detenuti, 80 sono nordafricani. Mancano i mediatori. “Quello di Spini è un carcere unico in Italia e anche a livello europeo Una struttura bellissima, ma piuttosto fredda che impone di lavorare in solitudine: una difficoltà che si è trasmessa anche ai detenuti, saliti a 350 detenuti (su 120 stanze detentive) in un contesto di progressivo calo dell'organico di polizia, da oltre 300 unità previste alle attuali 130. A questo si è aggiunto nell'ultimo periodo l'affidamento di detenuti cosiddetti "protetti" (violentatori e persone che si sono macchiate di reati gravi)”. Cosi Domenico Gorla, comandante della polizia penitenziaria del carcere di Trento, è intervenuto ieri durante le audizioni della prima commissione del consiglio provinciale sul disegno di legge sul garante dei detenuti. “Se il Garante sarà una figura di supporto e analisi delle problematiche per intessere nuove opportunità sono stra-favorevole”, ha detto il direttore del carcere Valerio Pappalardo, “se il ruolo fosse pensato solo come rilevazione delle problematiche, sarebbe disfunzionale. A Spini mancano i mediatori culturali che aiutino a comprendere il percorso rieducativo da costruire”. Pappalardo ha anche fatto il punto sui numeri: su 342 detenuti attuali, 80 sono nordafricani, poco più di 20 rumeni, meno di 40 italiani (molti della categoria dei protetti). Ascoltato ieri anche il Garante nazionale Mauro Palma, per il quale è indispensabile che il mandato del garante sia scollegato da quello della legislatura e che sia sancita l'incompatibilità con qualunque altra attività di natura pubblica. Per Rodolfo Borga (Civica) alle carenze economiche dovrebbe supplire lo Stato: “Vorrei capire - ha aggiunto - la provenienza dei detenuti e la tipologia dei reati commessi dai detenuti perché non sarei per nulla favorevole a devolvere il denaro dei trentini a favore di violentatori e per di più non trentini”. Trento: riunione Consiglio provinciale, più vicina l’istituzione del Garante per i detenuti Askanews, 7 maggio 2016 "Un decisivo passo avanti per affiancare la provincia autonoma di Trento alle regioni italiane che si sono già dotate di una legge e di un Garante per i diritti dei detenuti". Lo ha dichiarato Mauro Palma, Presidente del collegio del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, alla riunione tenutasi stamattina presso il Consiglio Provinciale di Trento per l’istruttoria del disegno di legge n.13 "Modificazione della legge provinciale sul difensore civico: istituzione del garante diritti dei detenuti". Palma era stato invitato dall’Amministrazione provinciale per illustrare le sue osservazioni in merito alla proposta di disegno di legge. Al momento le regioni prive ancora di una legge sul Garante dei diritti dei detenuti sono la Calabria, la Liguria e la Basilicata anche se nelle prime due un disegno di legge è attualmente in discussione. Bologna: progetto "Semi di libertà", lavorare la terra per sentirsi più liberi di Simonetta Pagnotti Famiglia Cristiana, 7 maggio 2016 Progetto di impresa e di recupero allo stesso tempo: grazie a una bella iniziativa i detenuti della Dozza diventano bio-agricoltori. Si chiama "Semi di libertà", ossia lavorare la terra per sentirsi più liberi, ed è una vera e propria azienda vivaistica gestita dai detenuti del carcere della Dozza di Bologna. È già cominciato il recupero della grande serra del carcere e dello spazio verde dove verranno coltivate piante tradizionali con un particolare occhio di riguardo per le aromatiche con certificazione bio, oggi richiestissime sul mercato. Tutta la produzione sarà rivolta infatti alla commercializzazione oltre che al consumo interno. Il progetto d’impresa, che promuove la formazione professionale sull’agricoltura biologica allo scopo di "rompere il circolo di recidive dei detenuti", come si legge nel manifesto, è curato dal Cefal, l’ente di formazione professionale accreditato dalla Regione Emilia Romagna, in collaborazione con la Cooperativa Pictor e con la Facoltà di Agraria. Saranno infatti proprio i docenti dell’Alma mater a fare lezione ai detenuti del carcere per trasformarli in agricoltori e vivaisti. Dopo la formazione partirà un’impresa vera e propria con la commercializzazione della produzione. Tutte le coltivazioni avranno certificazione biologica. Verrà inoltre costruito un impianto fotovoltaico per garantire la massima autonomia dal punto di vista energetico dell’ambiente destinato a vivaio. La convenzione per il decollo del progetto è stata siglata tra Comune, Casa Circondiariale Dozza, Università di Bologna, associazione Il Poggeschi per il carcere, Cefal, cooperativa sociale Pictor e associazione Streccapogn. Si tratta di un percorso innovativo che terminerà nel dicembre 2018, che vede una collaborazione in rete tra pubblico e privato. C’è infatti anche il fondamentale contributo della Fondazione Del Monte. Semi di libertà consentirà ai detenuti coinvolti l’acquisizione di abilità professionali utilmente spendibili sia all’interno del carcere nella fase detentiva sia nella comunità locale dopo la scarcerazione. Varese: "carcere dei Miogni, prima di tutto occorre ristrutturare" La Prealpina, 7 maggio 2016 Perché un carcere svolga appieno la propria funzione di recupero e riabilitazione, deve avere spazi e strutture adeguati. Da questo principio parte il sopralluogo compiuto giovedì 5 al penitenziario varesino dei Miogni da una delegazione della Commissione Speciale carceri del Consiglio regionale. Una visita "trasversale", che ha affrontato la situazione sotto diversi aspetti, grazie alla presenza del sindaco di Varese Attilio Fontana, di Paola Lattuada dell’Ats Insubria e di Callisto Bravi, direttore generale dell’Asst Sette Laghi. Ebbene, al termine del sopralluogo è stata ribadita la necessità di intervenire al più presto per ristrutturare gli spazi di via Morandi, eventualmente ampliarli anche acquisendo strutture vicine, e renderli più funzionali alle necessità dei detenuti. Per questo motivo, a breve verrà presentata in Consiglio regionale una risoluzione in cui si chiede al Ministero della Giustizia di intervenire con la riqualificazione. "La città vuole avere un proprio carcere e le condizioni della struttura devono garantire dignità ai detenuti e spazi adeguati al reinserimento sociale - si legge in una nota diramata dal Consiglio regionale: il Ministero della Giustizia si pronunci in tempi brevi sul da farsi". Alla visita - la seconda di questa legislatura, dopo la prima risalente a giugno 2013 - hanno partecipato il presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo e il presidente della Commissione speciale Carceri, Fabio Fanetti, insieme con i consiglieri Michele Busi (Patto Civico) e Paola Macchi (Movimento Cinque Stelle), oltre appunto a Fontana, a Lattuada e a Bravi. Il sopralluogo - a cui era presente anche il direttore Gianfranco Mongelli - è durato quasi due ore e, dopo un primo passaggio nei vari spazi della struttura, i consiglieri regionali sono saliti al piano superiore per un incontro direttamente con i detenuti. Attualmente ai Miogni sono recluse 78 persone (a fronte di 49 posti teorici, ma comunque meno rispetto agli anni passati, in cui erano state superate le 120 presenze), per il 40 per cento di nazionalità straniera e per circa un terzo con problemi di dipendenza. "La nostra istituzione è interessata a conoscere le condizioni dei detenuti nelle carceri lombarde - ha detto Cattaneo -. Questi spazi non devono essere buchi neri, ma luoghi dove il fatto di scontare la giusta pena si accompagni a processi di formazione in vista del reinserimento. Il Consiglio regionale è molto attento a questi aspetti e lo ha dimostrato promuovendo presso Expo il musical dei detenuti di Opera. Quanto a Varese è urgente uscire dal limbo: il Ministero si pronunci in maniera definitiva sul futuro della struttura, in queste condizioni non si può andare avanti". Genova: inaugurato il Teatro dell’Arca nel carcere di Marassi regione.liguria.it, 7 maggio 2016 È il primo teatro carcerario in Europa aperto a tutti. La Regione sostiene i corsi di formazione e le attività di laboratorio. "Padiglione 40, l’ordine imperfetto", un emozionante adattamento del romanzo "Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Ken Kesey ha inaugurato ufficialmente il Teatro dell’Arca, struttura costruita all’interno del cortile della Casa Circondariale di Marassi a Genova. Non è la prima volta che il palco ospita le rappresentazioni degli Scatenati, la compagnia mista di attori professionisti e detenuti che da più di dieci anni svolge un’attività laboratoriale che dà grandi risultati e riscuote successo anche fuori dalle mura del carcere. L’Arca non è il primo teatro a nascere in un carcere, ma è il primo in Europa ad essere aperto a tutti. Dopo dieci anni di gestazione la struttura comincia la sua storia di sala cittadina a tutti gli effetti, con una stagione regolare a partire dal prossimo autunno. Il coordinamento dell’Associazione Teatro Necessario ha creato negli anni un’esperienza con pochi paragoni in Italia, come ha riconosciuto anche il Ministro della Giustizia Andrea Orlando che, non potendo presenziare, ha mandato un messaggio: "Oggi nel 50% degli istituti ci sono laboratori teatrali, ma quella genovese è un’esperienza all’avanguardia. Il teatro dell’Arca nella casa circondariale di Marassi è un esempio e uno stimolo a proseguire una profonda riforma del sistema detentivo". Oltre alla recitazione, i detenuti hanno avuto la possibilità di cimentarsi con la scenografia (avvalendosi anche del laboratorio di falegnameria attivo a Marassi già da tempo) e il mestiere dei tecnici delle luci e dei suoni. "Il successo che il Teatro dell’Arca ha già conseguito - ha detto l’assessore alla cultura e formazione Ilaria Cavo - è un punto di inizio che ci coinvolge tutti, compresa la Regione, che ha già sostenuto questo progetto con i corsi di formazione di falegnameria e recitazione. Il teatro diventa ora un punto di congiunzione e scambio tra il carcere e la città: qui potranno venire i cittadini che vorranno assistere agli spettacoli fatti anche dai detenuti. Avremo a breve un bando di inclusione sociale dal fondo sociale europeo. Non riesco a immaginare un esempio migliore di cosa possa significare inclusione sociale: usare la cultura per dare una prospettiva, per creare un collegamento tra il detenuto e il mondo in cui si dovrà reinserire". Bologna: Festival Cinevasioni. Catalin, detenuto giurato: "Siamo preparatissimi" Redattore Sociale, 7 maggio 2016 È uno dei detenuti che ha seguito il corso "CiakinCarcere" alla Dozza e diventerà giurato del primo Festival del cinema in carcere (9-14 maggio). A presiedere la giuria sarà l’attore Ivano Marescotti che lancia l’idea di trasformare Cinevasioni in un "festival viaggiante tra le carceri". "Siamo preparatissimi per il festival". A parlare è Catalin, romeno di 42 anni, uno dei 15 detenuti della Dozza che, dal 9 al 14 maggio, vestiranno i panni dei giurati per Cinevasioni, il primo Festival del cinema in carcere promosso da D.E-R Associazione Documentaristi Emilia-Romagna in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Dozza di Bologna, il contributo della Fondazione del Monte di Bolona e Ravenna e il sostegno di Rai Cinema. Dopo aver partecipato al laboratorio teatrale organizzato alla Dozza, Catalin - che è in carcere da 4 anni, prima a Opera (Milano) e poi a Bologna - ha partecipato al corso di cinema CiakinCarcere: "Il cinema mi è sempre piaciuto e sono sempre stato uno spettatore modello che stava fino alla fine, ad aspettare i titoli di coda", racconta. Poi lo scorso ottobre è iniziato il corso di cinema e Catalin è stato uno dei partecipanti. "Siamo stati tutti rapiti da questo progetto, è stata un’esperienza ricchissima - dice - Ci hanno insegnato a guardare i film con un altro sguardo, andare oltre le immagini per capire tutto quello che c’è dietro. Ne abbiamo visti tantissimi e ognuno ci ha lasciato qualcosa". Fuori dal carcere, in Romania, Catalin faceva l’imprenditore edile, in Dozza è diventato anche attore. Sì, perché lui e gli altri partecipanti al laboratorio sono i protagonisti di "La sfida", il video che fa da sigla al festival. Il motivo? Lo ha raccontato Angelita Fiore direttrice organizzativa di Cinevasioni: "Io e Filippo (Vendemmiati, ndr) abbiamo chiesto loro se erano sicuri di volerci mettere la faccia e loro ci hanno detto ‘noi siamo finiti sui giornali per i reati che abbiamo commesso, per gli sbagli che abbiamo fatto, oggi vogliamo metterci la faccia per qualcosa di cui siamo fieri e vogliamo che ci sia anche il nostro nome". Catalin non vede l’ora che arrivi lunedì, il 9 maggio, quando inizieranno le proiezioni del festival, due al giorno (una al mattino e una al pomeriggio con un pubblico di circa 150 spettatori, tra detenuti, studenti delle superiori e dell’università e cittadini) intervallate dalle conferenze stampa con registi, distributori, scrittori, sceneggiatori, critici). A Catalin manca un anno e qualche mese da scontare. E dopo? "Non lo so, non si sa mai cosa ti può riservare la vita", dice. Intanto, si prepara per vivere la settimana del festival e votare il film vincitore di Cinevasioni. A presiedere la giuria ci sarà l’attore Ivano Marescotti. "Ho accettato con entusiasmo la proposta - dice - perché credo che questo festival abbia un doppio valore, creare cultura e portare questa cultura dove ci sono persone che hanno perso alcuni diritti, come la libertà, ma non quello di sviluppare passioni e talenti". Per Marescotti, il corso CiakinCarcere e il Festival Cinevasioni che ne costituisce l’evento conclusivo rappresentano un’occasione per scoprire talenti, sviluppare passioni, "com’è accaduto per i detenuti che sono diventati attori nella Compagnia di teatro del carcere di Volterra o per me che fino a 35 anni mai pensavo di avere la vocazione di fare l’attore e poi, dopo aver lasciato il mio lavoro in Comune, ho avuto l’occasione di diventarlo". Tra pochi giorni è in programma la prima riunione della giuria in cui Marescotti incontrerà gli altri giurati: "So che si sono preparati molto - dice - Mi fa piacere perché tutte le volte che ho fatto parte di una giuria ho cercato di discutere con gli altri sui film, di confrontarsi, non dare un voto e basta e sarà così anche questa volta". E poi lancia una proposta: "Sarebbe bello se questo festival potesse diventare viaggiante, nomade, e andare ogni anno in un carcere diverso". Antonio Gramsci, i giorni del carcere di Lea Durante Alias - Il Manifesto, 7 maggio 2016 Conversazione con Cecilia Mangini, regista e sceneggiatrice che alla fine degli anni 60 lavorò con Lino Del Fra a tematiche politiche non allineate, con film che parlavano chiaro basati su documenti fino ad allora occultati. A settantanove anni dalla scomparsa, avvenuta il 27 aprile 1937, Antonio Gramsci non è solo il pensatore italiano contemporaneo più letto e conosciuto nel mondo, ma anche un personaggio capace di ispirare film, letteratura, teatro, luoghi in cui la potenza del pensiero e l’esperienza umana estrema si fondono. Per questo, fra le tante celebrazioni organizzate per il 27 aprile, in due luoghi simbolici come Roma e Turi vi sono anche la proiezione di Gramsci 44 di Emiliano Barbucci (2016) e la rappresentazione di Gramsci Antonio detto Nino, di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno, organizzate con la partecipazione della International Gramsci Society Italia. Ho conversato con Cecilia Mangini, sceneggiatrice, regista, documentarista, fotografa, nel suo book-bar preferito, a Ponte Milvio. Lei e suo marito Lino Del Fra sono stati fra i primi, alla metà degli anni Settanta, a pensare a Gramsci come personaggio, in un tempo molto ideologico che fu anche tra i momenti di maggiore diffusione della figura e dell’opera pensatore sardo. Il loro Antonio Gramsci - i giorni del carcere, con Riccardo Cucciolla e Lea Massari, vinse il festival di Locarno nel 1977, ed è un film di ragionamento e di corporeità insieme, concentrato sul tema del rapporto fra Gramsci e il partito, attraverso la vita e la relazione dei detenuti politici di Turi. Come nacque l’idea del film "Gramsci - i giorni del carcere"? Fummo molto colpiti dalla lettura, nei tardi anni Sessanta, delle testimonianze che pian piano ricostruivano il contesto della vita di Gramsci in carcere, e che in un certo senso illuminavano anche quelle omissioni o parziali censure dei testi gramsciani pubblicati fino ad allora. Poi, nel 1975, uscì l’edizione critica dei Quaderni del carcere di Valentino Gerratana, che non risultò immediatamente comprensibile come quella tematica togliattiana, ma che certo ne sanava le lacune. In quel periodo io e Lino presentammo all’Italnoleggio due diversi soggetti perché venissero valutati per un contributo. Uno era Se…, un mio film "utopistico", mai più realizzato, contro il dogmatismo di allora, del quale ero terribilmente insofferente, e l’altro era il Gramsci. Solo perché eravamo sposati, l’Italnoleggio non volle considerarci come due registi distinti, e ci chiese di scegliere, avrebbe finanziato un solo film: scegliemmo Gramsci perché ci sembrò più giusto, per una forma di impegno. E infatti è un film di impegno, direi di rovello. È film fatto di scelte molto precise: hanno spazio i personaggi di Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci, e della moglie Giulia, rispettivamente interpretate da Lea Massari e Mimsy Farmer, mentre non compaiono Piero Sraffa o l’episodio della "strana lettera" di Grieco del 1928. Vi è poi l’episodio della visita del fratello Gennaro nel carcere di Turi, mandato da Togliatti per conoscere i giudizi di Antonio sulla "svolta" del 1929. La presenza di Tatiana e di Giulia è fondamentale per ricostruire la complessità del personaggio Gramsci, e di Gramsci in carcere in particolare. Il mondo affettivo di Gramsci e le sue inquietudini, i sentimenti incrociati, la sensazione di sfaldamento dei rapporti. Erano persone molto appassionate, che testimoniavano anche che la storia del movimento operaio dei loro anni giovanili non era tutta politica, era anche fatta di grande umanità e di amore. L’uso dei flash back è servito proprio a questo, a restituire pezzi di vita. Per il resto, sì, abbiamo fatto scelte precise, Lino voleva concentrarsi su alcune cose specifiche e le ha selezionate, voleva un film molto compatto. Che rapporti ci furono con il Pci a proposito della realizzazione del film? Praticamente nessuno. Ci muovevamo autonomamente fra le nostre letture e i nostri incontri. Lavorammo molto in fase preparatoria, per non trascurare nessun documento. Lino, era un ferreo marxista antistalinista, e non voleva rapporti con il Pci, e io ero invece anarchica e libertaria, convinta che lo strappo fra Bakunin e Marx fosse una ferita mai rimarginata. Il film era a tutti gli effetti un’opera antistalinista. Proprio per questo lo facemmo, proprio per questo ci piacque tanto Gramsci. D’altra parte, non si smette mai di imparare. Solo recentemente, leggendo il bel libro di Luciana Castellina, Guardati dalla mia fame, sui fatti di Andria del 1946, ho compreso fino in fondo l’antistalinismo di Giuseppe Di Vittorio, un uomo di straordinaria potenza. E chi incontraste, chi furono i vostri riferimenti? Ricordo una grande partecipazione al lavoro da parte di Alfonso Leonetti, che aveva conosciuto Gramsci ai tempi di Torino e dell’Ordine Nuovo. Una volta Leonetti venne sul set e vide Cucciolla con la divisa carceraria e la gobba: fu impressionato, gli sembrò di vedere davvero Gramsci. Io e Lino ci dividevamo il lavoro, per esempio io incontrai gli anarchici compagni di carcere a Turi e lui vide Giuseppe Fiori, l’autore della famosa biografia che fu decisiva per alcuni passaggi, in particolare la visita del fratello Gennaro in carcere. Lavoravamo così, ognuno di noi due sceneggiava una sequenza e l’altro la verificava e poi le discutevamo insieme. Ma posso dire che questo film è prima di tutto di Lino, è davvero il suo film. Io ci ho lavorato molto, ma non quanto ad Allarmi siam fascisti!, un altro film che realizzammo insieme. E dopo l’uscita del film? Gerratana accolse il film con un doppio paginone su l’Unità, sottolineando l’aderenza e l’adesione del film al pensiero gramsciano. Callisto Cosulich su Abc sostenne che dopo il titolo "fine" si dovesse aggiungere come per i saggi critici - la sua era un’idea bella e impossibile -, la lunghissima bibliografia essenziale di cui ci eravamo avvalsi per la sceneggiatura. Tuttavia l’Unità non lo ha mai segnalato nella pagina dei cinema con le stellette del massimo gradimento, in altri termini con un incitamento a vederlo. Il nostro non è un film facile, si rivolge a chi vuole conoscere il pensiero di Gramsci, in antinomia con la linea stalinista e nello scontro anni ‘20 con Togliatti e con il Comintern: volevamo che fosse così, un film che si sceglie lucidamente di vedere e di rivedere. Gramsci non è un personaggio accattivante, il Gramsci di Lino è il dirigente di un proletariato sconfitto dal fascismo e che costruisce il suo riscatto: il "cazzotto nell’occhio", le sue conversazioni coi prigionieri del carcere di Turi dimostrano il suo talento pedagogico che si scontrava col credo stalinista dei compagni. In questi ultimi decenni, in America Latina, sottotitolato in spagnolo e portoghese, il film ha ottenuto un successo straordinario, proiettato nelle scuole-quadro e nelle università. Un segno sintomatico è che su YouTube il film è stato postato nella sua interezza. Recentemente la Casa del cinema ha dedicato una giornata a Lino Del Fra proiettando La Torta in cielo, Gramsci e All’armi siam fascisti!: nonostante gli applausi, sotterraneamente ma in modo percepibile è affiorato il distacco, meglio, per usare un termine alla moda, la non condivisione dell’impegno critico di Lino. Non per All’armi!: l’antifascismo è oggi un credo ossificato e circoscritto al duce, alle aquilazze e alle camicie nere. Intanto ti racconto che anche a Mosca c’è stato recentemente interesse nei confronti del film, da parte di una associazione di studiosi gramsciani. Ma il tuo Gramsci di oggi che figura è? Una figura senza confronti nel presente, un esempio di coerenza e di lucidità, da leggere e da studiare. Non mi sembra che vi sia nella politica di oggi un erede di Gramsci. Che ne pensi del recente film "Gramsci 44" di Emiliano Barbucci, sui 44 giorni trascorsi da Gramsci a Ustica? Con l’anticipo di un anno Gramsci 44 rappresenta un’apertura forte alle riflessioni, analisi e approfondimenti dei testi gramsciani che si snoderanno lungo l’ottantesimo della sua morte. Mi è piaciuto molto anche perché è invito alla speranza che non sia invaso dalla solennità delle celebrazioni inutili. Gramsci 44 è un testo cinematografico che porta alla luce il nostro passato occulto, storico, politico e sociale, e ci rende consapevoli della necessità urgente di affrontare il presente occulto odierno e il futuro occulto - occultati per le note volontà politiche. Ci riesce grazie anche alla riscoperta dell’inquadratura, vale a dire per l’importanza dell’immagine: 50.000 anni fa l’uomo preistorico ha raccontato la sua vita affrescando le caverne, molto prima dell’invenzione della scrittura, appena pentamillenaria. L’immagine lo ha accompagnato per tutti i millenni successivi, raggiungendo un potere iconico estremamente coinvolgente e significante: lo dimostra il senso di eternità che proviamo di fronte alla pittura, alla scultura e al mosaico. Il secondo coefficiente di Gramsci 44 è la scelta del regista Emiliano Barbucci e del cosceneggiatore Emanuele Milasi di dichiarare apertamente allo spettatore l’angolazione del loro sguardo critico, di non ostentarlo mai come quella verità oggettiva che per lo strapotere di coinvolgimento dell’immagine obbliga a un consenso indiscriminato. Barbucci e Milasi dichiarano costantemente sottotraccia la loro adesione al pensiero gramsciano, lasciando allo spettatore la capacità di acconsentire o di dissentire, di criticare, di pensare e soprattutto di convincersi della necessità di studiare Gramsci. Il lascito è confermato anche da Daniele Ciprì, direttore della fotografia. Prendiamo un caffè, le chiacchiere non finiscono mai, sul partito di allora, sul ruolo "duplice" di Togliatti nel far conoscere Gramsci all’Italia e al suo partito, sulla politica di oggi. La nostalgia non appartiene a Cecilia, lei guarda sempre in avanti: dice di voler prendere un "anno sabbatico", gira troppo. Non c’è da fidarsi, però, i suoi occhi hanno altri progetti Testimonianze dall’abisso di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 7 maggio 2016 Addio a Ugo Guarino che accanto a Basaglia lottò per la chiusura dei manicomi. All’età di 89 anni scompare una figura eclettica capace di coniugare arte e lotta per la libertà. Lo slogan più basagliano, la libertà è terapeutica, in realtà l’ aveva inventato lui, Ugo Guarino, disegnatore, pittore, scultore morto a Milano il 2 maggio a 89 anni. Era probabilmente il 1973, come abbiamo ricostruito l’ultima volta che l’ho visto, un anno e mezzo fa. All’epoca Ugo, che ritornava a Trieste dopo una vita a Milano, a Parigi e a New York, aveva già messo in piedi il Collettivo d’arte Arcobaleno nell’ospedale psichiatrico diretto da Franco Basaglia, e il "modulo aperto Arcobaleno", un giornale murale 100×70 con un grande spazio vuoto al centro, si vedeva un po’ dappertutto riempito di annunci, commenti, disegni. Il Collettivo Arcobaleno non era una struttura, era un gruppo variabile che Guarino attraeva di volta in volta e che animava situazioni e luoghi diversi. Quel pomeriggio di agosto, grigio e pesante come sa essere Trieste quando non c’è vento, avevo visto Ugo e un gruppo di ricoverati aggirarsi con barattoli di vernice e pennelli, e mi ero unita a loro. Iniziava la fase dei murales e la libertà è terapeutica fu il primo, dipinto in quel pomeriggio sul muretto del viale principale del manicomio e sulla facciata della palazzina della direzione, che già non era più tale dato che ospitava appartamenti per ex ricoverate. Facemmo anche il murale care donne obbedire non è più una virtù sulla facciata del reparto B, pieno di uomini difficili, ricoverati e infermieri, e file di gatti che erano presenze costanti nei lavori di Ugo e nel parco dell’ospedale. Questi e gli altri murales di quegli anni - la verità è rivoluzionaria, venga a prendere un elettrochoc da noi: firmato Pinochet per citarne alcuni - erano visibili fino a non molto tempo fa, ma quando la città ha definitivamente conquistato la collina dell’ex manicomio restaurando strade, segnaletica ed edifici, i murales sono quasi tutti scomparsi. Solo la libertà è terapeutica ha avuto altre vite sia nei disegni di Guarino che in diverse serie di tshirt che la accreditano come frase di Basaglia. Per Guarino quegli anni a Trieste sono stati molto felici dal punto di vista creativo. Nel clima confuso, accogliente e assai poco normativo del manicomio in via di smantellamento Ugo si muoveva a suo agio, silenzioso e quasi invisibile, eppure attento, presente e spesso pungente con i suoi manifesti, oggi in gran parte in un suo libro di disegni, Zitti e buoni! (Feltrinelli, 1979 con una prefazione di Franca Ongaro Basaglia). Era come se per lui non ci fosse soluzione di continuità tra il vivere, il lavoro di artista e l’essere compagno di una lotta in cui credeva. Certo, quello è stato, in questo senso, un momento felice per tutti noi che l’abbiamo condiviso, anche se non ne dimentichiamo la fatica, il dolore, i dubbi. A volte però erano possibili "sprazzi di utopia", per dirla con Basaglia, come quella volta della Gita Aerea (1975), un’idea a cui avevo lavorato con uno studente di Napoli che era steward all’Ati, un’azienda Alitalia dalla quale riuscimmo ad avere, gratuitamente, un aereo con equipaggio che portò cento ricoverati in volo su Trieste e Grado. Il manifesto lo immaginammo insieme con Guarino e Franco Basaglia che si divertì moltissimo a immaginare anche le sagome di cartapesta per la festa della sera, perché Ugo riusciva a farti sentire partecipe della creazione lontano com’era della retorica dell’artista, e questo per convinzione e senso dell’umorismo non certo per ingenuità. Intanto il lavoro di smantellamento del manicomio di Trieste andava avanti e Guarino lo rappresentò con un’opera che dice molto delle sue frequentazioni americane: i Testimoni (1976), sette grandi figure di legno costruite con vecchi mobili del manicomio, "decrepiti legni di uso quotidiano scrostati, macchiati di urine e feci, miseri oggetti consunti che rimangono oggi - così li descriveva Franca Ongaro Basaglia - quali muti fantasmi ad accusare, testimoniare, documentare la non vita degli internati nel vecchio manicomio". I Testimoni girarono l’Italia e stavano per essere acquisiti dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma quando furono distrutti da un incendio accidentale in una delle scuole in cui stavano per essere esposti.Ma la partecipazione alla liberazione dal manicomio è stata una delle dimensioni di Ugo Guarino. Lo scorso anno, tra giugno e ottobre, il Comune di Trieste e la Fondazione Rizzoli Corriere della Sera gli hanno dedicato una mostra al Museo Revoltella curata da Silvia Magistrali e Francesca Tramma che hanno anche curato il catalogo che è un vero e proprio libro a più voci, L’alfabeto essenziale di Ugo Guarino (Corraini). Da qui il percorso di Ugo Guarino si vede nella sua originalità e coerenza: dai disegni sospesi "fra il surrealismo, la satira e la favola" che hanno incantato Dino Buzzati nei primi anni cinquanta alle sculture-robot create con gli scarti della civiltà tecnologica alla selezione di disegni di altri suoi due libri: una cattivissima versione di Cuore di Edmondo De Amicis (Milano Libri, 1968, prefazione di Dino Buzzati) e La psicanalisi (Milano libri, 1974, prefazione di Cesare Musatti) una straordinaria rivisitazione ironica del mondo freudiano. Infine il suo ultimo lavoro: i disegni quotidiani che dal 1995 al 2014 hanno illustrato sul "Corriere della Sera" con pochissimi tratti essenziali la Stanza di Indro Montanelli e poi le rubriche di Paolo Mieli e Sergio Romano. Il Papa sferza la viltà della Fortezza Europa di Luca Kocci Il Manifesto, 7 maggio 2016 Utopico. Bergoglio riceve in Vaticano il premio Carlo Magno dalle mani dei leader europei e gli fa la predica: "Sogno che nella patria dei diritti umani essere un migrante non sia un delitto". In prima fila Merkel, Juncker, Draghi e Renzi. "Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto", invece quella che si vede oggi è un’Europa che costruisce attorno a sé "recinti" e "trincee". Papa Francesco ha salutato con queste parole i leader europei che ieri sono accorsi in Vaticano per presenziare al conferimento al pontefice del premio internazionale "Carlo Magno", il riconoscimento che ogni anno la città di Aquisgrana - dove venivano incoronati gli imperatori del Sacro romano impero e nella cui cattedrale sono tumulati i resti di Carlo Magno, il primo imperatore "europeo" - assegna a personalità che si siano contraddistinte per il loro ruolo in favore dei valori europei. La scelta di premiare Bergoglio, recitano le motivazioni del premio, è legata al suo "straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori"". Una "Europa nonna", "stanca e invecchiata", ha detto Francesco, rilanciando l’espressione che già aveva usato durante la sua visita al Parlamento di Strasburgo, nel novembre 2014. Un’Europa che ha smarrito i "grandi ideali" dei fondatori - ha citato Schuman e De Gasperi, ma non Altiero Spinelli -, "un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione", "che si va "trincerando" invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società". In prima fila c’erano tutti i leader della "fortezza Europa": il presidente del Parlamento europeo Schulz, il presidente della Commissione europea Juncker, il presidente del Consiglio europeo Tusk, l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Mogherini, poi la cancelliera tedesca Merkel, Filippo VI di Spagna, Renzi, Draghi. Soprattutto a loro il papa ha fatto notare che questa Europa "sembra sentire meno proprie le mura della casa comune", allontanandosi "dall’illuminato progetto architettato dai padri" e cedendo invece agli "egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari". "L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare", aveva detto Francesco il mese scorso, all’isola di Lesbo. Ieri lo ha ripetuto, in forma di domanda, senza risposta: "Cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?". Per capirlo servirebbe una "trasfusione di memoria", quella auspicata da Elie Wiesel, sopravvissuto ai lager nazisti. "La memoria - ha spiegato il papa - non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato, ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando" e ad "aggiornare l’idea di Europa", lungo tre direttrici: la capacità di "integrare", "dialogare" e "generare". Integrare popoli e persone perché, ha ricordato Francesco, "l’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale", mentre "i riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. Che lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità". Poi il "dialogo": il compito dell’Europa non è realizzare "coalizioni militari o economiche, ma culturali, educative, filosofiche, religiose", le quali "mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici". E la "capacità di generare", con lo sguardo rivolto ai giovani. "Come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro" e "gli indici di disoccupazione e sottoccupazione sono in aumento?", ha chiesto Bergoglio. "La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia, è un dovere morale". "Sogno un’Europa - ha concluso Francesco - che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia". L’alleanza del Papa per un’Europa nuova di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 7 maggio 2016 In un tempo di etno-nazionalismi, Francesco ha proposto nel suo discorso "coalizioni", non politico-militari, ma "culturali, educative, filosofiche, religiose" per il nostro continente e per la pace. È possibile liberarsi dagli incubi e riprendere a sognare. Nella cornice solenne della Sala Regia in Vaticano (dove sono affrescate memorie di tempi di violenza religiosa come i massacri degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo), Francesco ha ricevuto il prestigioso Premio Carlo Magno. Il papa non ama i premi. Ma ha colto l’occasione per parlare all’Europa e "auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso". Insieme a chi? Il parterre di leader europei era vasto, oltre la Merkel e Renzi. Nel discorso papale (più lungo del solito) due punti chiari: insieme e rilanciare. La cerimonia ha manifestato un’"alleanza" per un’Europa più larga e profonda. La dinamica ambasciatrice tedesca Schavan, amica della cancelliera, e l’autorevole card. Kasper hanno lavorato per un evento senza precedenti: il rilancio dell’Europa da parte del papa argentino (che ha parlato anche da europeo). In un tempo di etno-nazionalismi, Francesco ha proposto "coalizioni", non politico-militari, ma "culturali, educative, filosofiche, religiose" per l’Europa e la pace: "armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro", ha detto. La Merkel, all’ambasciata tedesca, ha raccolto la proposta, indicando il limite della politica. La Germania non vuole essere sola e ha bisogno di "coalizione" con Chiese e società. Il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha denunciato la frammentazione europea: "le forze centrifughe delle crisi tendono a dividerci…". Per Donald Tusk, presidente del consiglio europeo (dissonante dal governo di Varsavia), la Chiesa di Francesco, "di cui abbiamo bisogno tutti", offre una risposta alla crisi. Il papa era attento e grave in una cerimonia che - pure nei particolari - non esaltava lui, ma l’insieme. Nuova funzione del Vaticano: luogo d’incontro e coalizione spirituale. Francesco aveva già parlato dell’Europa come "nonna", incapace di generare e attrarre, per questo costruttrice di muri e trincee. L’argentino, figlio d’immigrati italiani, ha dato del tu al continente: "Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?". I politici hanno trovato nel papa un leader spirituale che crede all’Unione, purché sappia allargarsi e integrare. In lui non c’è la preoccupazione di Benedetto XVI per il secolarismo. Secondo il papa, l’Europa, "nata dall’incontro di civiltà e popoli", oggi declina per paura d’incontrare altre genti e religioni, nascondendosi dietro frontiere e identità cristallizzate. Chi ricorda la battaglia (perduta) della Chiesa per le "radici cristiane" nella Costituzione europea vede come Francesco abbia un’idea diversa: le radici europee (da irrigare con il Vangelo, secondo lui) sono state sempre sintesi tra culture, anche eterogenee. Per sostenere il valore di "un’identità dinamica e multiculturale" del continente, il papa ha evocato i padri fondatori: De Gasperi (che si fece seppellire con il Premio Carlo Magno), Schuman, Adenauer, ricordando pure il teologo gesuita, Eric Przywara, che difese in faccia al nazismo la transnazionalità del cristianesimo. Per realizzare una costante integrazione, il metodo è il dialogo, capace di "ricostruire il tessuto sociale". Il dialogo è contenuto e metodo per fare l’Europa del futuro: "armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione" - ha detto, forse anche rivolto ai cristiani "etnici" paurosi dell’invasione. Si è distaccato dai balbettii di vari episcopati europei e di altre Chiese sui rifugiati per parlare d’integrazione. Umberto Eco vedeva l’integrazione dei migranti come un processo di negoziazione continua. Francesco ha parlato di giovani e futuro. Ha chiesto un’economia sociale che investa sui giovani e sul lavoro, non un’economia liquida. Ha poi affermato con convinzione che Dio vuole abitare in Europa, ma ha bisogno di "testimoni" e di "grandi evangelizzatori". È il grande problema del (debole) cristianesimo europeo. Alla fine, con poesia, ha delineato un sogno europeo, il suo I have a dream. "Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre… che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo... che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto… dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà… non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia…". Bergoglio crede che gli europei, specie i giovani, non debbano essere prigionieri degli incubi, ma riprendere a sognare. Europa dei padri sì, ma anche dei figli. La dottrina sociale oltre la Chiesa di Alessandro Santagata Il Manifesto, 7 maggio 2016 Il discorso che Papa Francesco ha pronunciato ieri di fronte alle principali autorità europee non necessita di esegeti. Un discorso alto, chiaro e fortemente politico, niente a che spartire con la retorica cerimoniale. Parole che provengono da un’autorità religiosa, ma si rivolgono alle istituzioni e alle società nel loro complesso. Sembrano davvero lontani gli anni della campagna identitaria di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI perché nel progetto di costituzione europea (abbandonato dopo i referendum del 2005) entrasse il riferimento alle radici cristiane del continente. A cambiare (in peggio) non sono state solo le condizioni dell’Unione, ma anche la stessa Chiesa cattolica, travolta da una crisi profonda da cui Bergoglio sta cercando di farla uscire. Il discorso per il conferimento del premio Carlo Magno si inserisce quindi in una storia recente che ha visto salire al soglio pontificio un papa che parla una lingua completamente diversa da quella del cattolicesimo mainstream di inizio millennio. La campagna per la valorizzazione del cristianesimo come elemento "pesante" nel patrimonio culturale europeo non è scomparsa dalla dialettica pontificia, come dimostra il discorso al Parlamento di Strasburgo del dicembre 2014. Tuttavia l’ordine delle priorità sembra essersi sensibilmente modificato al punto da derubricare il contributo della Chiesa (di testimonianze e non confessionale o di opposizione al relativismo secolarizzante) a poche di righe di preambolo al "sogno" di un nuovo "umanesimo europeo". Al tempo della guerra mondiale non dichiarata, papa Francesco sceglie il registro della denuncia rimettendo al centro la dottrina sociale per dare una scossa a un’Europa "invecchiata" e ripiegata su sé stessa. In continuità con il discorso ai movimenti popolari in Bolivia (citato per ben due volte), tornano gli appelli alla giustizia, alla pace e alla difesa del lavoro, la cui assenza viene identificata come una delle cause principali dell’antieuropeismo dilagante. Come già avvenuto in altre occasioni, non si tratta di un appello generico alla solidarietà, ma di una denuncia precisa delle politiche tecnocratiche sul lavoro di un’Unione che ha perduto completamente la rotta indicata dai padri costituenti. Dopo la visita di Lesbo e nel pieno della svolta austriaca anti-migranti, il punto di rottura è indicato però nella chiusura delle frontiere e qui la riflessione sull’identità riemerge nella sua rilevanza e discontinuità rispetto al passato. Il papa fa riferimento al pantheon democratico-cristiano europeista (De Gasperi, Schuman, Adenauer), ma l’obiettivo è mobilitare una memoria condivisa, quella della Shoah e dell’Europa descritta da Erich Przywara come crocevia di culture diverse. "Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa - afferma Bergoglio - si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove culture senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale. L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile". In altre parole, le scelte politiche di Bruxelles e delle principali cancellerie vengono lette dal papa come la cartina di tornasole per verificare l’esistenza e le possibilità di sopravvivenza di un’Unione che, come aveva detto a Strasburgo, sappia andare oltre gli interessi dei singoli Stati e di un "potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti". Il discorso sulle radici si risolve in una riflessione sul multiculturalismo, la solidarietà e l’edificazione di una comunità di persone. E i diritti umani, che la Chiesa ha faticato a lungo a riconoscere come tali. Emergenza profughi: dalla Difesa 27 caserme per 8mila posti in più di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2016 I 2mila migranti sbarcati ieri saranno distribuiti a piccoli gruppi tra tutte le regioni. Problemi di accoglienza, per ora, non ci sono. La tattica del ministero dell’Interno, ripartire gli sbarchi continui in modo capillare tra tutte le province, regge ancora. Smussa i contrasti nei centri dove ci sono resistenze contro gli stranieri; riduce l’impatto numerico degli arrivi; limita al minimo indispensabile - quando possibile - le polemiche politiche in crescendo con l’avvicinarsi delle amministrative di giugno. Linea operativa ottimale finché dura, però. Ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha detto che "non c’è alcuna invasione in Italia se 28mila persone arrivano in più di quattro mesi". Notazione di natura politica incontestabile. Gli sbarchi in realtà hanno raggiunto quota 30mila. Ma non sono le cifre attuali a fare spavento. L’inquietudine nasce invece dall’ipotesi, finora fondata, di un esodo di migranti in massa con l’arrivo dell’estate. Come accade da anni. Per questo, circa un mese fa al dicastero guidato da Angelino Alfano si è svolta una riunione tra i vertici dell’Interno, del Demanio e della Difesa. L’obiettivo era semplice: definire una nuova lista di strutture militari, non più operative, utili per accogliere i rifugiati (si veda Il Sole 24Ore del 15 aprile). L’elenco è stato stilato e riguarda 13 regioni su 20: restano escluse la Puglia, l’Umbria, l’Emilia-Romagna, il Trentino Alto Adige, la Liguria e la Valle d’Aosta (si veda la tabella in basso). I posti stimati disponibili per ognuna delle 27 caserme proposte sono in media 300, per un totale di 8.100 unità. Dovranno essere fatte ricognizioni, lavori di adattamento, bonifiche. È, comunque, una boccata d’ossigeno per il sistema dell’accoglienza ormai alle corde. Ospita, secondo gli ultimi dati, circa 120mila stranieri: un record. Vede una fuoriuscita in tempi lentissimi di coloro che non hanno più diritto a essere alloggiati. Il rischio della saturazione è dietro l’angolo. Tanto che il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento Libertà civili, con una circolare a tutti i colleghi sul territorio ha chiesto un mese fa di fare una ricognizione, caso per caso, delle presenze indebite. Ci vorrà tempo, tuttavia, per esaurire le verifiche. Per trovare, poi, le modalità adeguate all’uscita di coloro che sta nei centri senza averne più diritto. Non può trattarsi di una retata: sarebbe una paradossale contraddizione con i principi dell’accoglienza. Di certo c’è che occorre prepararsi a un numero di rifugiati ospiti in Italia maggiore di quello presente. Il progetto sulla riforma del trattato di Dublino, presentato mercoledì dalla Commissione a Bruxelles, fa stimare agli addetti ai lavori che la quota di stranieri accolti in Italia sarà più alta, quantomeno di 150mila persone. E prevede una serie di oneri molto più pressanti di quelli attuali per far scattare il nuovo meccanismo di ricollocamento presso altri Stati - relocation - dei migranti oltre quota. Al ministero dell’Interno la questione non riguarda solo il dipartimento Libertà civili ma anche quello di Pubblica sicurezza, guidato da Alessandro Pansa. Gli hot spot - i centri post sbarco chiesti dall’Ue - sono ormai avviati. Ma nulla fa escludere la necessità di istituirne di nuovi oltre i quattro attuali: Taranto, Pozzallo, Lampedusa e Trapani. Gli sbarchi, infatti, non sempre approdano in quei porti. Solo sulle banchine del molo di Augusta, per esempio, sono arrivati dall’inizio dell’anno circa 5.800 stranieri. È noto che non tutti gli immigrati in arrivo hanno i titoli per presentare la domanda d’asilo. Non manca chi fa resistenza per i rilievi digitali e il foto-segnalamento. C’è poi chi non se lo fa dire due volte e una volta a terra fa soltanto una cosa: scappa. Se la data sarà confermata, il 19 maggio in una cerimonia ufficiale di insediamento Pansa cederà il testimone di direttore generale Ps a Franco Gabrielli, attuale prefetto di Roma, e sostituirà l’ambasciatore Giampiero Massolo al Dis (Dipartimento informazioni e sicurezza) come ha deciso il Consiglio dei ministri del 29 aprile. Per Gabrielli una delle priorità dell’agenda sarà, senza dubbio, la questione immigrazione. Turchia: cinque anni di carcere per l’inchiesta sulle armi all’Isis Il Dubbio, 7 maggio 2016 Condannato il direttore del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, scampato ad un attentato di fronte al tribunale. La libertà di stampa subisce un altro durissimo colpo in Turchia. Sono stati infatti condannati Can Dundar, il direttore del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, ed Erdem Gul, caporedattore della testata, accusati di aver "rivelato segreti di Stato", quando mostrarono le immagini della consegna di armi, di cui erano carichi alcuni tir, da parte dei servizi segreti di Ankara agli uomini dell’Isis, al confine con la Siria. La procura aveva chiesto 25 anni per Dundar e 10 per Gul. Entrambi i giornalisti sono stati condannati a 5 anni. A Dundar, in quanto direttore della testata, è stata inflitta un’aggravante di 10 mesi. L’attentato di fronte al tribunale - Poco prima della pronuncia di condanna Can Dundar è anche scampato ad un tentativo d’assassinio davanti il palazzo di giustizia. L’aggressore è stato identificato come Murat Sahin, 40enne di Sivas, nell’Anatolia centrale. La polizia lo sta interrogando per cercare di capire il movente dell’attacco ed eventuali legami con organizzazioni terroristiche. A bloccare l’attentatore, con la pistola ancora in mano, sono stati la moglie del giornalista, Dilek, e l’avvocato e deputato del partito di opposizione Chp, Muharram Erkek. "Stavamo uscendo dal tribunale per prendere un the" ha detto Dundar. "Camminavo con mia moglie quando un uomo si è avvicinato e ha gridato ‘Sei un traditorè, e ha sparato contro di me. Non mi ha colpito. Il proiettile ha colpito un collega. Prima mia moglie si è lanciata sull’uomo armato, poi un deputato lo ha afferrato da dietro". Dal carcere al divieto di espatrio - Gul e Dundar hanno trascorso 92 giorni in carcere, circa la metà dei quali in isolamento, ma poi in febbraio la Corte costituzionale ha stabilito che la detenzione prima del processo fosse infondata perché le accuse scaturivano dall’attività giornalistica, portando alla loro liberazione. Il presidente Recep Tayyp Erdogan aveva detto che non rispettava quella sentenza. Erdogan aveva accusato i due di minare la reputazione internazionale della Turchia e aveva promesso che Dundar avrebbe "pagato un prezzo pesante". Secondo quanto riferisce Ntv, il tribunale ha deciso che potranno restare a piede libero, in attesa del processo di appello, ma con un divieto di espatrio. L’allarme per la libertà di stampa - "Chiediamo alle istituzioni europee di porre il tema della libertà di informazione al centro del negoziato con la Turchia". Lo dicono in una nota il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, dopo il fallito attentato a colpi di pistola di cui a Istanbul è stato vittima Can Dundar. Un giornalista che si trovava vicino a Dundar è rimasto ferito, l’aggressore è stato fermato. "Non conosco il nome di chi ha tentato di ammazzarmi, ma conosco chi ha fatto di me un bersaglio". Queste parole di Dundar dopo l’attentato al quale è fortunosamente scampato "si riferiscono - dicono Lorusso e Giulietti - alla violenta campagna di odio scatenata dal presidente Erdogan che ha fatto trascinare in tribunale Can Dundar e il suo collega Erdem Gul, accusati di essere complici dei terroristi solo per aver fatto il loro mestiere di cronisti". Stati Uniti: Obama grazia altri 58 detenuti condannati per droga today.it, 7 maggio 2016 Per il presidente le condanne erano state "troppo severe": in libertà nei prossimi due anni chi si è macchiato di reati "non violenti" legati agli stupefacenti. L’amministrazione Obama ha graziato 58 persone condannate per reati federali - tra cui 18 condannati all’ergastolo - come parte del suo progetto di riforma del sistema di giustizia penale e riduzione delle pene eccessivamente severe nei casi meno gravi legati alle sostanze stupefacenti. La maggior parte dei 58 detenuti uscirà dal carcere il 2 settembre, mentre gli altri lo faranno nell’arco di due anni. L’ultima ondata, che include persone detenute per possesso di cocaina, crack e metanfetamine, porta a 306 il numero delle persone che hanno ricevuto un provvedimento di clemenza. Nei mesi scorsi, l’amministrazione aveva incoraggiato gli avvocati difensori a suggerire i detenuti meritevoli di un provvedimento di clemenza da parte del presidente Barack Obama. La politica della clemenza fa parte dello sforzo dell’amministrazione di porre fine alle discrepanze cominciate decenni fa con l’ampia diffusione del crack. I reati connessi alla sostanza stupefacente largamente diffusa tra gli afroamericani sono stati puniti con condanne più dure rispetto a quelli legati alla cocaina in polvere, solitamente consumata da bianchi e persone benestanti. Secondo il New York Times, in alcuni casi ci sarebbe stata una disparità di 100 a 1 tra le sentenze legate alle due sostanze; l’inasprimento delle condanne ha portato all’aumento dell’800% nel numero dei detenuti negli Stati Uniti. Il Congresso ha eliminato questa disparità nel 2010. Messico: torturata per confessare e in carcere da tre anni, lunedì si decide il suo destino di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 maggio 2016 "Dopo molte ore che ero lì, dopo che mi avevano violentata, ho detto che avrei firmato tutto quello che volevano. Ero nuda, appesa a una parete; mi hanno slegata e fatta scendere. Ho firmato la confessione ancora bendata. Non ho mai letto quello che ho firmato". Lunedì 9 potrebbe terminare l’incubo di Yecenia Armenta Graciano, iniziato nel luglio 2012 nello stato di Sinaloa, nel Messico settentrionale. Era in macchina con la sorella e la cognata, in direzione dell’aeroporto di Culiacán, quando l’automobile venne fermata da agenti di polizia in borghese, sostenendo che fosse stata rubata. Yecenia fu stata bendata e portata via, in un luogo sconosciuto. Volevano che confessasse il suo coinvolgimento nell’omicidio del marito, avvenuto una settimana prima. Venne stuprata, soffocata e appesa a testa in giù per 15 ore fino a quando non confessò. Da allora è in carcere. Esperti medici indipendenti hanno visitato Yecenia due volte, conducendo esami in linea con gli standard internazionali e concludendo di aver riscontrato segni fisici e psicologici compatibili con i racconti delle torture subite. Le dichiarazioni di Yecenia, estorte nel modo che ho raccontato, hanno costituito l’unica prova presentata a suo carico durante il processo, che si avvia alla fase finale. Dopodomani il capo della procura di Sinaloa deve trasmettere al giudice del processo la richiesta di condanna o di proscioglimento. Il problema è che si tratta della stessa autorità che ha permesso che Yecenia venisse torturata e che ha finora lasciato impuniti i responsabili di quelle torture. Yecenia è una delle migliaia di vittime di un sistema giudiziario che troppo spesso si basa su confessioni estorte con la tortura per emettere condanne. Dal 2015, nell’ambito della campagna "Stop alla tortura", Amnesty International Italia conduce una campagna di raccolta firme per il rilascio di Yecenia Armenta Graciano. Il 4 maggio, le oltre 45 mila firme raccolte in Italia, sono state inviate via email al capo della Procura di Sinaloa con la richiesta urgente di pronunciarsi per il proscioglimento di Yecenia e una copia delle stesse è stata fatta pervenire all’Ambasciata del Messico in Italia. Russia: la nuova vita dopo il carcere di Anastasia Semenovich rbth.com, 7 maggio 2016 Uscire di prigione e ricominciare tutto da capo. Riallacciare i rapporti con la famiglia. Trovare un lavoro. Tornare a un’esistenza normale. Per alcuni ex detenuti russi questa speranza è diventata realtà. Sono tanti gli ex detenuti che, dopo aver scontato la propria pena, trovano il coraggio di rifarsi nuova vita. Alcuni di loro avviano una piccola attività imprenditoriale o aiutano i vecchi compagni del carcere a trovare un lavoro. Nella colonia penale N. 5 della regione di Ivanovo, Evegnij Morozov ha da poco saldato il proprio debito con la giustizia. Dall’ottobre 2015 è diventato titolare di un laboratorio di falegnameria nella città di Noginsk, nei pressi di Mosca. E qui, insieme ai suoi ex compagni di detenzione, fabbrica mobili su ordinazione. Nel circondario tutti lo conoscono. E apprezzano la qualità e il prezzo accessibile dei suoi lavori. Secondo i dati del Servizio penitenziario federale della Federazione Russa, all’inizio di marzo 2016 erano detenute 650.613 persone, di cui la gran parte, 526.343, stavano scontando la propria pena in una delle 720 colonie penali del Paese Il lavoro dietro le sbarre - "L’idea di aprire un laboratorio di falegnameria mi è venuta in carcere, vedendo come molti miei compagni si erano affinati in questo mestiere e come erano belli gli oggetti che riuscivano a fabbricare. È stato allora che abbiamo cominciato a sognare che, una volta usciti, avremmo aperto una falegnameria tutta nostra", racconta Evgenij. Nella colonia penale i detenuti sono impegnati nel lavoro tutti i giorni dalle 8 alle 23.30: costruiscono mobili, oggetti in ferro, tessuti e cuciono biancheria da letto. Si tratta di un lavoro obbligatorio: "Se salti un turno ti mandano in una cella di punizione. Il salario più alto è di 1.500 rubli (circa 20 euro al cambio attuale), e quello medio di 600-700 (8 e 10 euro). Puoi scegliere cosa fare. E io ho imparato il mestiere di falegname". Dopo essere uscito dalla prigione, Evgenij ha lavorato per i primi tempi nel settore dell’edilizia. È riuscito a risparmiare un po’ di denaro che gli ha permesso di aprire il laboratorio. La ditta non è grande, occupa un’area di 300 metri quadri e, oltre al titolare, vi lavorano altre otto persone. La moglie di Evgenij si occupa della promozione delle vendite, cura il sito internet e aiuta alcune persone con precedenti penali a trovare un lavoro stabile. "Spesso dopo esser usciti dal carcere si resta un anno o due senza un’occupazione e molti si mettono a bere", spiega con amarezza il falegname. Fuori dal carcere - È così difficile, per i russi che hanno avuto precedenti penali, riuscire a tornare a una vita normale dopo il carcere? Nel Paese esiste un progetto della fondazione di beneficenza "Rus sidiashchaya" (La Russia dei carcerati) che offre aiuto alle persone che hanno avuto problemi con la giustizia e alle loro famiglie. A dirigerla è Olga Romanova. "Lo Stato di fatto non si occupa della loro riabilitazione", dice Olga. "Quanto al lavoro, non riescono a trovarlo solo quelli che non vogliono lavorare come camerieri o come operai trasportatori. Tutti gli altri, se lo desiderano, riescono facilmente a rifarsi una vita". Nel Paese sono attivi 634 centri di riabilitazione sociale con 20.061 posti, che ogni anno aiutano circa 7.400 persone con precedenti penali a recuperare i rapporti sociali e familiari. Anche lo Stato si occupa ogni anno delle procedure per il rifacimento di 62.800 passaporti. Nonostante tutto, Olga Romanova ritiene che si riesca ad aiutare solo un decimo dei detenuti che necessitano di un sostegno dopo la liberazione dal carcere. Rieducare senza filo spinato - Fra le questioni più delicate, c’è la rieducazione degli adolescenti. Alla fine del 2015 si contavano 32 colonie per minori, che ospitavano 1.654 giovani. Dieci anni fa questi istituti erano 62. Dall’inizio degli anni Duemila il numero di adolescenti nelle colonie rieducative si è notevolmente ridotto: se nel 2003, infatti, nelle colonie rieducative erano reclusi 16.491 giovani, nel 2015 il loro numero era arrivato a 1.683. Molti minori riescono a scontare la pena stabilita dalla legge entro i 18 anni e poi vengono rimessi in libertà a condizione di rispettare certi obblighi: devono rientrare entro una certa ora la sera, proseguire gli studi o lavorare. Dodici anni fa a San Pietroburgo, su iniziativa dell’abate della Chiesa di Santa Anastasia martire situata nella Vasilevskij Ostrov, è stato fondato un istituto straordinario: il Centro di San Basilio il Grande, l’unica istituzione non statale russa che si occupa gratuitamente dei minori. Il centro ospita e assiste adolescenti con un trascorso difficile. Il coordinatore del programma di riabilitazione è convinto che il fatto di "scontare" la pena a casa propria impedisca all’adolescente di viverla come un castigo inducendolo poi a commettere altri reati nella vita adulta. Negli ultimi 12 anni hanno vissuto qui 210 giovani e di questi solo il 20% ha commesso nuovi reati. "Conosciamo le colonie penali per minori e sappiamo bene che per un ragazzo è meglio non restarvi rinchiuso", dice Denis Nikitenko, collaboratore del centro. "L’attuale sistema penale non rieduca le persone, soprattutto i minori. Da noi non ci sono cancelli, né filo spinato. I ragazzi si dedicano ad attività sportive, praticano il parkour, ballano, modellano la creta. Tutto gratuitamente". In realtà esistono anche qui per così dire delle "punizioni" a cui sottostare, come andare al museo e a teatro, decorare le stoviglie di ceramica di produzione propria. Tuttavia gli adolescenti del Centro di San Basilio il Grande che escono col sogno di aprire un laboratorio proprio rappresentano per il momento solo un’eccezione positiva: secondo le stime del Servizio penitenziario federale della Federazione Russa, nel 2015 sono finiti per la prima volta dietro le sbarre 194.310 persone, 131.300 sono state recluse per la seconda volta e 199.472 per la terza, quarta e quinta volta.