La democrazia non si salva con le manette di Luigi La Spina La Stampa, 6 maggio 2016 Il confronto è utile se il passato insegna a non ripetere gli errori. È inutile e persino dannoso se cancella le distinzioni per fini di propaganda. È il caso dell’attuale escalation di inchieste giudiziarie contro esponenti del Pd e del governo renziano, nazionali e locali, e l’epoca di Tangentopoli, quando 20 anni fa, la magistratura mise fine al sistema dei partiti che aveva diretto la politica italiana dal dopoguerra in poi. Il paragone è certamente suggestivo per alcune somiglianze che evocano quei fatti, quelle parole, ma anche quel clima intossicato da un corrivo moralismo, da sospetti di un complotto dei giudici contro la classe politica al potere, dalle ipocrisie e dalle convenienze di chi sogna, a tanti anni di distanza, rivincite personali e rivalse partitiche. Non si è ancora arrivati alla gogna pubblica della foto in manette di Enzo Carra, ma la decisione di arrivare alla detenzione preventiva in carcere per il presunto "perturbatore di asta pubblica", Simone Uggetti, ha suscitato lo stesso clamore di polemiche e accuse. Il dubbio è il medesimo: la democrazia si difende con le manette o la manette sono uno strumento per alterare le regole della democrazia? Anche la reazione dei politici sembra la stessa. In pubblico, rispettosi inviti perché la magistratura possa liberamente esercitare le sue funzioni di controllo della legalità. In privato, le confidenze sull’ipotesi di un assedio, su un’operazione mirata alla cacciata di Renzi dal governo e dalla segreteria Pd per via giudiziaria, su un tentativo di influenzare pesantemente le imminenti elezioni amministrative, ma soprattutto la prova decisiva per il premier, il referendum sulla riforma costituzionale. Pure l’atteggiamento di alcuni giudici sembra rievocare quel clima di furore moralistico che consentì la clamorosa bocciatura del decreto Conso attraverso l’inconsueto "pronunciamento" del pool di "Mani pulite", a televisioni unite. Come quando si scrive dai magistrati di Lodi, con un curioso pronostico di futura sentenza, che non ci possano essere attenuanti a quel reato o che la personalità degli imputati sia tale da ritenere "che abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite". Una presunzione di colpevolezza che ribalta la garanzia, invece, di quella presunzione d’innocenza che la Costituzione assegna a ogni imputato. Soprattutto il giudizio, veramente avventato perché generalizza una condizione professionale, quella di politico e di avvocato, per la quale non si applicano i principi di una democrazia liberale, quando sostengono che gli arresti domiciliari rendano impossibile il controllo di indagati di tal genere. Eppure, le differenze ci sono e le distinzioni sono importanti, sia se vogliamo capire che cosa davvero stia succedendo e sia, soprattutto, per non ricalcare una strada di risanamento democratico e morale evidentemente sbagliata, visto che la corruzione politica in Italia, da quei tempi, non solo non è diminuita, ma appare dilagante dal centro del potere dei partiti ai più modesti e personali interessi degli amministratori locali in tutto il territorio nazionale. Oggi, fortunatamente, non possiamo più credere in un ingenuo manicheismo, qualche volta meno ingenuo perché sfruttato cinicamente, per cui davanti a una classe politica corrotta si erga una società civile onesta e vittima dell’arroganza del potere. Perché i confini, come si è visto, tra corrotti e complici dei corrotti si sono mischiati, tra pubblico e privato, tra ossessiva e spregiudicata ricerca del consenso da parte dei politici e affari di lobby potenti al punto tale, in alcuni casi, da soggiogare e intimidire burocrazie e ministri. Ma anche i magistrati non appaiono più i vendicatori intemerati di cittadini indignati e sconcertati. I sospetti di una gara delle procure all’emulazione mediatica e, magari, carrieristica dell’indagine clamorosa, emulazione venata da una mal dissimulata faziosità e, qualche volta, da uno scarsa competenza professionale, non paiono più solo comodi alibi di ignobili malfattori, ma si diffondono anche in ampi settori dell’opinione pubblica. Sono cadute, oggi, tutte le presunzioni di una onestà garantita dal marchio di fabbrica di un partito, di una categoria professionale, di una appartenenza geografica o sociale. È il Pd, per primo, a pagare, con una nemesi ultraventennale, le boriose distinzioni che lo volevano immune, per un supposto Dna più democratico di altri, dalle tentazioni del potere, così imprudentemente esibite all’epoca di "Mani pulite". E altrettanta imprudenza potrebbe dimostrare l’erede di oggi all’opposizione di chi governa, "il Movimento cinque stelle". Sono cadute anche le illusioni sul potere rigenerante dei magistrati che cambiano mestiere e diventano politici, meteore, a cominciare dal caso più famoso, quello di Di Pietro, destinate a una popolarità effimera e irriconoscente. Solo oggi, forse, possiamo capire l’errore più grande commesso dai protagonisti di quell’epoca: l’abbandono del loro ruolo. La politica si arrese non credendo più alla possibilità di esercitare, nel clima di allora, una funzione che sembrava aver perso ogni credibilità. La magistratura si illuse di poter supplire a un potere screditato e corrotto. Il risultato, a quasi 30 anni di distanza, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti, con una drammatica perdita collettiva di fiducia popolare nei confronti di entrambe le istituzioni. Alla politica spetta il compito di varare, in tempi brevi, quella troppo annunciata riforma dei procedimenti penali basata su un deciso "scambio dei tempi": un allungamento della prescrizione, per evitare la sostanziale impunità dei corrotti, in cambio di una forte riduzione delle infinite tappe di una indagine e, soprattutto, di un processo. Alla magistratura quello di rivendicare l’indipendenza nei confronti del potere politico attraverso un rigoroso rispetto dei limiti della sua azione, quella dell’accertamento e della repressione dei reati e non quella caratterizzata da generalizzate censure moralistiche. La corruzione della politica e l’elogio della galera di Francesco Barbagallo La Repubblica, 6 maggio 2016 Com’è che siamo diventati uno dei paesi più corrotti al mondo, secondo accreditate classifiche? Com’è che ogni giorno ci si accapiglia sugli intrecci tra società, politica e corruzione, sui conflitti tra magistratura e politica? Le ragioni sono antiche e note, da Guicciardini a Leopardi. Nel suo epistolario 1930-1943, titolato "Elogio della galera", Ernesto Rossi indicava le ragioni storiche della mancanza del senso di responsabilità individuale e collettivo e del conseguente trasformismo opportunistico degli italiani, "un popolo abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali, ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri a ogni dignità di vita sociale". C’erano volute una dittatura, una guerra mondiale, una disfatta nazionale e una guerra civile per produrre, finalmente nel 1945, una classe dirigente uscita dalle carceri, dagli esili e dalle guerre, che dimostrò nel suo insieme pur conflittuale di essere dotata di alto sentire morale e di efficace capacità di governo politico. Ne sortirono la repubblica democratica e l’Italia dello sviluppo. Poi vennero gli anni Ottanta della corruzione diffusa e del predominio mafioso, del mondo globale dominato dai mercati finanziari e della politica ridotta a triste spettacolo. In Italia fu il tempo della cosiddetta seconda Repubblica, della scomparsa dell’etica, del successo dei personaggi televisivi. Oggi la politica è ridotta a story-telling, al racconto di storie, di favole. Nella cultura post-moderna della "virtualità reale" trovano nuova vita le antiche fiabe, i miti perenni. I nuovi pifferai politici prodotti dalla cultura televisiva hanno avviato l’era post-moderna della comunicazione pop, che trasforma ogni evento politico in evento mediatico. Da una parte viene esaltata la grande riforma costituzionale che eliminerà il terribile bicameralismo, che ha preso il posto affibbiato nei primi anni 90 al sistema elettorale proporzionale, quale presunto responsabile dei guasti della politica italiana. Poi si sono visti i risultati del sistema uninominale nel nostro paese. Oggi si vuole trasformare il referendum su questioni essenziali e delicate in un plebiscito su un personaggio di modesto livello. Mentre ogni giorno ascoltiamo preoccupate denunce della dominante corruzione politica e sociale da parte dei più alti rappresentanti del paese, a partire dal presidente Mattarella. Contemporaneamente vengono di continuo alla luce gravi reati corruttivi, ad opera delle forze dell’ordine che ne forniscono prove alla magistratura. E qui esplodono le polemiche, le difese d’ufficio degli inquisiti. Proprio ieri, su queste cronache, dovevamo leggere le convinte dichiarazioni del senatore D’Anna, fedele amico dell’onorevole Cosentino, a difesa del suo mini-partito guidato dall’onorevole Verdini, attualmente imputato in 6 o 7 processi. "Certo, siamo contro gli abusi dei pm, lo scandalismo, l’uso dei reati di mafia per fermare i politici". Forse sarebbe il tempo di evitare che militino nello stesso partito o sostengano lo stesso governo personalità che sostengono la lotta alla mafia e alla corruzione e personaggi che identificano la magistratura come il nemico in agguato, o addirittura che vanno in galera per collusioni affaristiche con le mafie o, nei casi migliori, per reati contro l’amministrazione pubblica, truffe, eccetera, eccetera. La politica non può essere più l’aspirazione di migliaia di persone che, nella gran parte dei casi, cerca soprattutto laute retribuzioni e, nei casi peggiori, relazioni per meglio delinquere. Non si può continuare a far finta di non vedere che in Italia la crescente disaffezione dalla politica dipende dal baratro in cui da tempo la politica nazionale e locale è caduta. La gente non va più a votare perché non sa chi votare. Inventarsi un Senato fatto di sindaci e consiglieri regionali, che sono spesso protagonisti di miserabili comportamenti e di conseguenti coinvolgimenti giudiziari, sembra la ciliegina sulla torta preparata da un ceto politico che ha perso qualsiasi contatto col mondo reale delle persone che lavorano o che hanno perduto il lavoro o che un lavoro decente non l’hanno mai visto. Non è più il tempo delle chiacchiere e degli imbrogli. Il tempo della verità sta venendo per tutti. E il risveglio potrebbe essere drammatico. "Fermare Renzi", bufera sul consigliere Csm Morosini. Colloqui tra Legnini e Mattarella di Goffredo De Marchis La Repubblica, 6 maggio 2016 Il magistrato di Md, membro del Consiglio superiore, partecipa alla campagna del No al referendum: "Rischio democrazia autoritaria". Il Guardasigilli chiede un incontro "formale" al vicepresidente del Csm Legnini che dice: "Inaccettabili attacchi al governo" e sente più volte il Quirinale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al vice presidente del Csm Legnini "un incontro formale per un chiarimento" sulla vicenda dell’intervista del consigliere del Csm Piergiorgio Morosini pubblicata dal Foglio e smentita dal consigliere. Lo ha detto lo stesso Legnini durante il plenum del Consiglio superiore della magistratura che ha discusso la vicenda. "Sono inaccettabili gli attacchi a esponenti di governo e parlamento - dice Legnini. Noi pretendiamo rispetto per le nostre funzioni, ma per farlo dobbiamo prima di tutto assicurare rispetto ai rappresentanti dei poteri dello Stato". Parole che liquidano Morosini, ma soprattutto che vengono in ore nelle quali si è preoccupato molto il presidente della Repubblica e capo del Csm, Mattarella, che ha più volte parlato con il suo vice. Lo stesso vicepresidente del Csm prende atto della rettifica di Morosini, ma evidentemente, per lui, non basta. Parlando con il Foglio, Morosini, ex Gip a Palermo oggi consigliere del Csm in quota Magistratura democratica, la corrente di sinistra, annuncia che parteciperà attivamente alla campagna per il No al referendum costituzionale. Girerà per le città, ha già pronto un tour. "Bisogna guardarsi bene dal rischio di una democrazia autoritaria. Un rapporto equilibrato tra Parlamento e organi di garanzia va preservato. Per questo occorre votare No ad ottobre". Quindi, l’obiettivo è fermare Renzi, anche se Morosini precisa: "Non vedo l’ora di tornare in trincea", ovvero a fare il magistrato. "Al Csm è tutto politica. Correnti, membri laici...". Durante il plenum del Csm, Morosini si difende: "Mi sento ferito. Le mie parole sono state travisate". Giovanni Legnini però non molla. Critica anche la partecipazione del consigliere alla campagna referendaria. Definisce "inaccettabili" anche i suoi giudizi sui colleghi Gratteri e Cantone, che nell’intervista vengono definiti "uomini Mondadori". Annuncia che porterà il caso anche al presidente della Repubblica che guida anche il Consiglio superiore. Interviene pure il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio: "Delegittimare i poteri dello Stato, denigrare i magistrati anch’essi servitori dello Stato lede l’immagine del Csm e l’indipendenza della magistratura". Era già scoppiato il caso politico con la dura reazione del responsabile Giustizia del Pd David Ermini. Ma la presa di posizione di Orlando e Legnini sposta ora il terreno sul piano istituzionale. "Avrei terrore a farmi giudicare da uno così", è la replica di Ermini alle parole di Morosini. Ennesimo atto dello scontro tra i democratici e le toghe. Durante la trasmissione Omnibus, Ermini critica le dichiarazioni del magistrato e si preoccupa per il suo ritorno in Procura. "Avrei terrore a farmi giudicare da uno così". Così politicizzato, intende. L’intervista alimenta i sospetti che già serpeggiano a Palazzo Chigi da giorni, quelli di una manovra delle procure contro Renzi collegando l’inchiesta di Tempa Rossa, all’indagine sul presidente del Pd campano Stefano Graziano fino all’arresto di Simone Uggetti, sindaco di Lodi dem. Ma la linea non cambia. "Per noi garantismo non significa difendere i singoli indagati, anche quando pensiamo che siano puliti - spiega Ermini. Significa invece ricordare tutti i provvedimenti anticorruzione che abbiamo approvato. Strumenti utili ai magistrati per combattere il fenomeno e anche per procedere più velocemente. Questo è anche il modo per non essere simili a Berlusconi nel rapporto con la giustizia. I magistrati dovrebbero riconoscerlo al Pd, invece di dire che non è cambiato niente". Morosini conferma il "colloquio informale" con il Foglio, ma ne smentisce il contenuto: "Mi sono state attribuite delle affermazioni che non ho mai fatto e dalle quali prendo con nettezza le distanze. Prima fra tutte quella del titolo: non ho mai detto che Renzi va fermato". Smentita che non è bastata né a Orlando né a Legnini. Toghe, panico nel governo per un’intervista smentita di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 maggio 2016 Il ministro Orlando: "Chiarimenti" sulle parole del giudice Morosini. "Il Foglio" riporta il colloquio con il titolo "Renzi va fermato". Ma a preoccupare è il referendum di ottobre. E il consigliere ribadiva la posizione di Md. È ancora mattina quando il guardasigilli Orlando, previa consultazione con il capo del governo, si attacca al telefono e chiede al vicepresidente del Csm Legnini "un incontro formale" per discutere dell’intervista rilasciata dal consigliere togato di Md Piergiorgio Morosini, che campeggiava con titolo strillato sul quotidiano Il Foglio. Morosini, in quell’intervista, andava davvero giù a ruota libera, tanto da autorizzare il sospetto che le cose siano andate proprio come il consigliere stesso, smentendo l’intervista, afferma: cioè che una chiacchierata informale, camuffata da "inchiesta su Magistratura democratica" sia stata poi trasformata dal quotidiano, tanto renziano oggi quanto berlusconiano ieri, in intervista. Trattasi di una pratica decisamente scorretta ma adottata a volte dalle belle penne d’assalto. È difficile credere che altrimenti Morosini si sarebbe lasciato andare a commenti tanto duri su due colleghi come Cantone e Gratteri, magistrati di riferimento per Renzi, bollati come "uomini Mondadori". È invece probabile che in ogni caso avrebbe attaccato con le stesse parole, o con formula appena più leggera, la riforma istituzionale: "Bisogna guardarsi dal rischio di una democrazia autoritaria". È la posizione di Md. Come segnale diplomatico, la richiesta di incontro formale è il messaggio più duro che il governo potesse lanciare. Legnini se ne accorge e, di fronte al plenum del Csm, dopo un giro di telefonate tra lui e Mattarella e tra Renzi e lo stesso capo dello Stato, va giù con l’accetta: "Noi pretendiamo rispetto delle nostre prerogative e funzioni, ma allora dobbiamo innanzitutto assicurarlo noi". Va da sé che le critiche ai colleghi sono "inaccettabili" e come ulteriore segnale di severità il vice annuncia che metterà a parte della discussione anche il presidente del Csm, nonché della Repubblica. Di sfuggita Legnini definisce "non opportuno" che i membri del Csm si impegnino nella campagna referendaria e nessuno, nell’indignazione montata ad arte dal fronte renziano, gli chiede ragione di un’affermazione tanto abnorme. Perché mai i consiglieri non dovrebbero fare campagna, per il sì o per il no, a seconda delle loro sempre legittime convinzioni? L’accusato smentisce. Si dice "ferito". Assicura che il suo pensiero è stato snaturato. In effetti lo stesso direttore del Foglio, Claudio Cerasa, ammetterà che l’elemento più deflagrante, il titolo a effetto "Renzi va fermato", è farina del suo sacco. Magistratura democratica tenta di chiudere l’incidente: "La tempestiva smentita di Morosini" garantisce che quello non è il suo pensiero, tanto meno della corrente. Ma ormai l’onda è montata e non c’è modo di fermarla. Il primo presidente della Cassazione Canzio intravede una "delegittimazione generale dei rappresentanti di altri poteri dello Stato" che "lede l’immagine di indipendenza della magistratura e incrina la fiducia dei cittadini nella giustizia". Addirittura. Se questa è la reazione di un alto magistrato, figurarsi quella dei descamisados di Matteo. Il responsabile giustizia del Pd, Ermini, confessa che avrebbe "terrore a farmi giudicare da uno così". Appena più sobrio Walter Verini, voce del capo in commissione giustizia alla Camera: "Un infortunio serio. Parole da militante propagandista". La reazione forsennata, a volte sconfinante nella tentazione di vietare ai magistrati di assumere posizioni in merito a scelte politiche complessive, rivela quale sia il vero incubo di Renzi e del Pd in questi giorni. Lo stato maggiore renziano è convinto che quella del presidente dell’Anm Davigo, due settimane fa, sia stata una "chiamata alle armi" e che l’obiettivo sia il referendum di ottobre. Anche se mai lo ammetterebbero in pubblico, moltissimi Pd di confessione renziana sono certi che la moltiplicazione delle indagini e degli arresti a carico di amministratori dem siano la risposta a quell’implicito appello. Però si rendono conto che reagire e andare allo scontro diretto sarebbe, almeno fino a dopo il referendum, quanto di più controproducente. Di conseguenza l’ordine del capo è una clamorosa retromarcia. Lo scontro con la magistratura va evitato a tutti i costi. Persino a fronte di un’ordinanza che dire discutibile è poco, come quella che ha portato all’arresto del sindaco di Lodi, bisogna evitare ogni reazione e insistere nel confermare la propria piena solidarietà con le toghe. Per questo proprio Renzi, mercoledì, ha bloccato la campagna di Fanfani contro i pm di Lodi nel Csm. Al contrario è d’uopo porgere l’altra guancia, stringere i denti e rivendicare le leggi severe varate sin qui, come Renzi ha preso a fare quotidianamente. Ed è stato tentato di andare anche oltre, sino a ipotizzare un accordo con l’M5S sulla prescrizione, in omaggio non a Grillo, ma a Davigo. Peccato che con quegli "inaffidabili" dei pentastellati fosse troppo rischioso. La toga rossa garantista ostile al partito della Nazione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 maggio 2016 "Questa sentenza dimostra che si può avere fiducia nella giustizia, ci sono ancora giudici a Berlino", commentò l’ex presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, esponente di Forza Italia, dopo l’assoluzione in primo grado (poi confermata in appello e in cassazione) dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno di quei giudici era Piergiorgio Morosini, una "toga rossa" appartenente a Magistratura democratica come l’allora capo della Procura (che aveva fatto arrestare Musotto e chiesto la condanna) Gian Carlo Caselli. Lo stesso accadde con il magistrato Corrado Carnevale, "l’ammazza-sentenze" imputato dello stesso reato. Anni dopo Morosini prosciolse un imprenditore che aveva mentito negando le minacce e le estorsioni mafiose, giustificandolo per "lo stato di necessità" provocato dai timori di ritorsioni, attirandosi le critiche del procuratore dell’epoca, Pietro Grasso. Naturalmente ci sono state anche le condanne, ai mafiosi come ad altri politici accusati di complicità con Cosa nostra (il democristiano Francesco Gorgone), e i verdetti ribaltati nei gradi successivi: per esempio l’assoluzione della professoressa che fece scrivere allo studente "sono un deficiente" per cento volte sul suo quaderno. Ma questa è solo l’attività professionale del giudice Morosini, 52 anni, originario della riviera romagnola ma palermitano da oltre un ventennio: sbarcò in Sicilia durante la "riscossa giudiziaria" seguita alle stragi del 1992, dopo un periodo di uditorato alla Procura di Roma, e non se n’è più andato. Poi c’è l’attività "politica" di un magistrato che ha sempre militato in Md fino a diventarne segretario, carica che lasciò quando fu chiamato a decidere il destino degli imputati per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia (uno lo ricusò per un libro sui rapporti tra Cosa nostra e le istituzioni nel quale avrebbe anticipato il giudizio, ma senza successo: la Cassazione disse che non era vero). Morosini si dimise da segretario delle "toghe rosse" per la mole di lavoro che si trovò davanti, ma anche per non dare etichette alla scelta che avrebbe fatto. Optò per il rinvio a giudizio di tutti gli accusati, dopo un’integrazione d’indagine e stilando un puntiglioso elenco delle "fonti di prova" tralasciato dalla Procura. Al Foglio avrebbe detto che su quella vicenda "i pm non hanno osato abbastanza, certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi", ma lui smentisce. Quella frase come le altre. "Quando ho voluto prendere posizioni anche scomode - ha spiegato ieri ai colleghi del Csm -, attraverso interviste e interventi scritti, l’ho fatto con chiarezza e assumendomene tutte le responsabilità; ma stavolta non è andata così". Il "colloquio informale" con la giornalista s’è trasformato in una "presunta intervista" piena di "affermazioni mai fatte". Questo ha detto in plenum Morosini, per spiegare ai consiglieri ciò che era successo. In privato, a chi conoscendolo e stimandolo gli chiedeva chiarimenti, ha confessato di essere caduto in una trappola, ammettendo un po’ d’ingenuità. Confermando però che il suo pensiero e le sue parole, "mai pronunciate o riportate in parte, fuori contesto, sono state travisate". Le posizioni "scomode" rivendicate dal consigliere finito sulla graticola si riferiscono alla difesa del presidente dell’Anm Davigo, a dispetto delle prese di distanza di Area, il suo gruppo. E poi il "no" al referendum costituzionale, appoggiato espressamente da Md ma non da Area. Un raggruppamento nel quale Morosini sostiene posizioni distinte da altre, che dentro al Csm (e dentro la pattuglia di Area) rappresentano una minoranza. S’è visto quando, con il compagno di corrente Lucio Aschettino, non ha votato per la nomina del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, ritenendola non conforme alle regole che s’è dato il Csm; o quando ha redatto il parere sulla legge anticorruzione del governo Renzi con diversi accenti critici ("sporadici e frammentari interventi" che diventano "insufficienti per la loro disorganizzati", aveva scritto), che provocarono le ire del Partito democratico. Com’è accaduto ieri. In sintesi si potrebbe dire che Morosini rappresenta l’anima della sinistra giudiziaria contraria al "Partito della nazione", o al "patto del Nazareno"; e forse anche da qui è nata la "presunta intervista" al Foglio. Legnini (Csm): "ne ho parlato con Mattarella, ognuno deve tornare nei ranghi" di Fiorenza Saranini Corriere della Sera, 6 maggio 2016 "A questo punto sarebbe davvero opportuno che ognuno rimanesse nel proprio perimetro istituzionale. Noi stiamo facendo la nostra parte cercando di arginare e stigmatizzare iniziative personali che creano danni gravissimi. Mi auguro davvero che tutti comprendano la necessità di rispettare la propria funzione e quella degli altri". Al termine di una nuova complicata giornata, che si chiude con la partecipazione al vertice sulla sicurezza convocato a Napoli, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini non riesce a nascondere la propria amarezza. Non immaginava che una nuova grana scoppiasse a meno di 24 ore dallo scontro provocato dall’esternazione del consigliere laico Giuseppe Fanfani contro la giudice che ha ordinato l’arresto del sindaco di Lodi. E invece la polemica innescata dall’intervista al Foglio del giudice Piergiorgio Morosini, anche lui consigliere di Palazzo dei Marescialli, lo ha convinto sull’opportunità "di avviare subito il confronto con quelli che devono essere i miei interlocutori: il capo dello Stato, il plenum e il ministro della Giustizia". La scelta di convocare un dibattito urgente viene presa proprio in accordo con il presidente Sergio Mattarella, così come la decisione di usare toni severi. Il colloquio tra i due avviene in mattinata, le indiscrezioni assicurano che dal Quirinale sia stata manifestata la preoccupazione forte per una situazione di contrapposizione tra politici e giudici che fino al referendum sulle Riforme rischia di degenerare ulteriormente. Non a caso Legnini scandisce in maniera chiara il proprio pensiero: "Gli attacchi ad esponenti di governo e Parlamento sono inaccettabili: noi pretendiamo rispetto delle nostre funzioni e prerogative, ma nel momento in cui lo pretendiamo, dobbiamo innanzitutto assicurarlo noi, nonostante un diritto sacrosanto di critica, anche dura". Lo ribadisce nel colloquio riservato con il Guardasigilli Andrea Orlando che incontra alla riunione nel capoluogo campano. Perché, sottolinea, "quel che è successo è molto grave, anche tenendo conto che nel comunicato di smentita Morosini non dice mai di non riconoscersi in quello che gli viene attribuito". La richiesta di chiarimenti presentata da Orlando non sembra preludere, almeno per motivi di opportunità, all’apertura di un procedimento disciplinare visto che si tratta di un consigliere del Consiglio superiore della magistratura, ma la tensione è comunque altissima. E non è escluso che l’iniziativa possa essere presa dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Pasquale Ciccolo, con il quale Legnini ha avuto ieri un lungo colloquio. Il vicepresidente del Csm non si scoraggia, però sa che non sarà facile riportare il clima alla normalità. "Io sono una persona che guarda sempre a ciò che accade in maniera positiva, voglio credere che anche in questa occasione si riuscirà a rientrare nei ranghi, che i consiglieri tengano ben presente il proprio ruolo". A colpire Legnini, così come Orlando, sono state le dichiarazioni di Morosini sul referendum, ma soprattutto quelle sulle "pressioni" esercitate sul Csm e l’ammissione della "inutilità" dei pareri espressi dall’organo di autogoverno dei giudici rispetto alle decisioni del Parlamento. Per questo il vicepresidente conclude: "Il dibattito che si è svolto in plenum ha mostrato che la maggioranza ritiene inaccettabile quanto accaduto. Speriamo che adesso tutti si attengano davvero a una linea di rigore". I magistrati e la libertà di offendere di Mattia Feltri La Stampa, 6 maggio 2016 La disinvolta offensiva offerta al Foglio (poi smentita, ma senza pieno successo) da Piergiorgio Morosini, componente togato del Consiglio superiore della magistratura, dà il perfetto seguito alla disputa sull’esuberanza di giudici e pm, d’improvviso urgente dopo i giudizi morali e politici espressi sull’arrestato sindaco di Lodi, Simone Uggetti. Commentatori e parlamentari si sono domandati quali titoli diano diritto al gip di definire "abietto" l’indagato e per iscriverlo nel registro dei "traditori" del mandato popolare. Adesso arriva Morosini ad annunciare l’impegno nei comitati per il no al referendum con l’imprescindibile missione di fermare le fregole autoritarie di Matteo Renzi. L’interpretazione un po’ estensiva del ruolo - magistrati ma anche legislatori, psicologi, sociologi, antropologi, sacerdoti della morale, combattenti della libertà - non è recentissima, e nell’indifferenza generale toccò le vette durante gli anni di Mani pulite. Il gip di Milano, Italo Ghitti, disse che "il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone ma da un sistema che cerchiamo di ripulire"; il sostituto Gerardo D’Ambrosio che "il grande merito" del suo pool era di "aver portato avanti le indagini così rapidamente che (...) la gente quando è andata a votare non ha più eletto quelle persone"; il collega Piercamillo Davigo fu solenne: "Stiamo processando un regime". Da allora è diventato piuttosto infruttuoso precisare che la magistratura processa i rei e non i regimi o, per fare filosofia spiccia, combatte i corrotti e non la corruzione. Che oggi si ragioni attorno alle ordinanze lodigiane e all’intervista di Morosini è buona cosa, come lo è ricordare che è abitudine dei magistrati dare giudizi non strettamente penali sugli imputati. Celebre è il "criminale matricolato" rivolto a Bettino Craxi da Paolo Ielo (che subito se ne scusò) e, fra le ultime escursioni in vari campi delle materie umanistiche, insuperabile è quella di Ilda Boccassini: Ruby "è una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema". Ruby, e cioè l’amante minorenne di Silvio Berlusconi, qualificata dal premier come nipote di Hosni Mubarak: una giustificazione "degna di un film di Mel Brooks" per la quale "ci ha riso dietro tutto il mondo", disse in Cassazione il procuratore; un coimputato divenne "il Nibbio", il capo dei bravi dei Promessi sposi, "un rapace". Il comportamento di Filippo Penati, poi assolto, ebbe la qualificazione estranea ai codici di "desolante". I chiarimenti di Roberto Formigoni sono stati respinti in quanto "ridicoli" e il suo conflitto d’interessi "clamoroso e spudorato". Al cospetto di Ercole Incalza, alto dirigente del ministero delle Infrastrutture, poi prosciolto, si andava "come in una sorta di processione che evoca antichi rituali di sottomissione". Le requisitorie, le ordinanze, le sentenze traboccano di "vergogna", di "senza vergogna", di "vergogna nazionale", le inchieste prendono nomi irridenti come "operazione Banda bassotti", il capitano Schettino della Costa Concordia è un "incauto idiota", uno sfregiatore con l’acido è "un malvagio senza umana pietà", Stefania Nobile (figlia di Vanna Marchi) "si colloca nell’ultimo dei gironi del male" per "degradazione della cattiveria", per "perfidia psicologica" e anche perché lei e sua madre sono due "iettatrici". E in zona voodoo ci fermiamo. Lo scontro tra toghe e politica L’ordine è: "fermare Renzi". L’arma è il no al referendum di Carlo Fusi Il Dubbio, 6 maggio 2016 Prima è come se fossero stati materiali inerti messi l’uno di fianco all’altro; ognuno potenzialmente esplosivo, è vero, però giustapposti, posizionati senza che potessero collidere. Ora che la deflagrazione è avvenuta grazie alle affermazioni, poi smentite, del consigliere del Csm di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini - quel "bisogna fermare Renzi" che ha funzionato da miccia - il quadro, seppur devastato, è più chiaro. Gli elementi sono noti: bisogna solo metterli in fila. Dall’intervista di Piercamillo Davigo sui politici che rubano ma non si vergognano più, alla staffilata renziana contro la barbarie giustizialista; dall’inchiesta su Tampa rossa con annesse dimissioni del ministro Federica Guidi, all’incriminazione per presunti legami camorristici del responsabile campano del Pd, Stefano Graziano. Dall’arresto del sindaco di Lodi Simone Uggetti, assai vicino a Lorenzo Guerini (a sua volta esponente dell’inner circle di palazzo Chigi), alle accuse ai magistrati che quella inchiesta conducono avanzate da Giuseppe Fanfani, membro del Csm in quota Pd. Per finire a Morosini, appunto, le cui affermazioni hanno provocato in sequenza l’intervento del Guardasigilli Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e addirittura di Giovanni Canzio, Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, praticamente il magistrato più importante d’Italia. Tutti decisi a chiedere chiarimenti o pronti a denunciare "l’incrinatura" della fiducia nei giudici da parte dei cittadini. Volendo, in mezzo ci starebbe anche la freschissima condanna di Renato Soru, europarlamentare democrat. Nessun nesso diretto e neppure indiretto con le altre inchieste in corso. Tuttavia il dato temporale è tremendo: la sera il presidente del Consiglio annuncia la riduzione delle tasse sul reddito a partire dal 2017 e neanche dodici ore dopo il tribunale di Cagliari condanna a tre anni di reclusione per evasione fiscale il responsabile del Pd in Sardegna nonché patron di Tiscali. Che si dimette dall’incarico. Uno tsunami vero e proprio che costringe anche i più riottosi a spalancare gli occhi sulla reviviscenza di un virus tutto italico che nessuno riesce a debellare: lo scontro tra politica e magistratura. Conflitto che dopo il ventennio berlusconiano stavolta si gioca nell’altra metà campo, visto che mette nel mirino il partito più importante del centrosinistra, il Pd, ed in particolare il suo leader Matteo Renzi. Difficile allontanare la sensazione che l’arrivo di Davigo a capo dell’Anm, il sindacato delle toghe, e le sue secche affermazioni, oltre che far scattare l’allarme rosso nei Palazzi della politica abbiano provocato irritazione e distinguo tra gli stessi magistrati. Come pure è arduo non registrare qual è il terreno sul quale si misureranno le schiere dei due eserciti: il referendum costituzionale. È lì, in quel passaggio, che chi vuole può far male all’altro. Perché è lì che la posta in palio è massima: il futuro politico del capo del governo e, anche e soprattutto, i rapporti di forza tra poteri dello Stato. Quel "bisogna fermare Renzi", parteggiando e facendo campagna elettorale per il No alla consultazione popolare di ottobre, ancorché smentito e rismentito, è stato evidentemente preso sul serio da tanti attori della vicenda per una semplicissima ragione: illumina di luce sinistra la guerra in corso. Se la magistratura militante e politicamente più schierata scende in campo contro la politica, e se il premier ed il suo partito quel conflitto accettano e combattono, allora il falò delegittimatorio arriva al cuore delle istituzioni, riducendo in cenere non solo il rispetto ed i confini dei reciproci ruoli ma anche quel residuo di speranza e fiducia nella leale collaborazione tra poteri dello Stato che tanti cittadini nonostante tutto si ostinano a coltivare. Come intenda comportarsi e quali armi mettere in campo, il presidente del Consiglio l’ha enunciato più volte. La freccia più acuminata della faretra renziana non si chiama più rottamazione bensì ricambio, che è sinonimo di rinnovamento. La politica, è il suo mantra, sia nelle facce che nelle scelte, è stata capace di cambiare, di rinnovarsi, di produrre riforme impensabili fino a pochi mesi fa. Sotto il profilo generazionale ma anche dal punto di vista delle regole del gioco. Può piacere o no; è giusto che chi non gradisce o non si riconosce in quel rinnovamento e nei provvedimenti del governo e del Parlamento sia libero di criticare, anche aspramente. La guerra, anche se asimmetrica, necessita di due parti in conflitto. Dunque la politica ha le sue responsabilità. Grandi. Ma nessuno può negare la realtà: proprio perché ha avuto la capacità di cambiare marcia, ha ritrovato autorevolezza e dignità. Ferma restando la legittimità e l’assoluta autonomia delle scelte da parte delle toghe, la riproposizione dell’immagine di Davigo o la recrudescenza di un braccio di ferro voluto o meno, per i risvolti e le conseguenze non solo mediatiche che comporta, può consentire di dire lo stesso? E così cadde l’impero togato. Morosini frantuma la magistratura, il Csm conta le macerie di Errico Novi Il Dubbio, 6 maggio 2016 Si contano le macerie. Le osservano i padri della repubblica giudiziaria: Legnini, vicepresidente del Csm; Canzio, primo presidente di Cassazione; Orlando, ministro della Giustizia. Ascoltano, rileggono, stropicciano l’intervista di Piergiorgio Morosini al Foglio. Dentro c’è tutto quello che la magistratura non dovrebbe mostrare: invadenza nei confronti della politica, eccessiva disinvoltura di giudizio, confusione tra le funzioni e i poteri dello Stato. È il giovedì nero dei giudici, aperto dalle parole dell’ex gip palermitano (romagnolo d’origine) che Morosini stesso smentisce quando è ormai tardi. È anche il giorno in cui i botti dell’inchiesta di Lodi bruciano le mani agli artificieri che dovrebbero controllarne le esplosioni, le toghe appunto. Saltano fuori gli errori, le prese di distanza sulle decisioni della Procura lombarda e del gip, che hanno sancito la custodia cautelare per il sindaco Uggetti. Un provvedimento censurato da Beppe Fanfani, consigliere laico del Csm e avvocato di area Pd, ma anche da un nume tuitelare dell’associazionismo giudiziario come Vittorio Borraccetti, già segretario di Md, la corrente di Morosini. Non si poteva mettere in galera un indagato per turbativa d’asta, è il sussurro impietoso. Che il plenum non può respingere. Siamo a metà mattina, al Consiglio superiore della magistratura corrono vibrazioni telluriche. La parte togata teme le conseguenze di quel titolo con cui il Foglio incornicia il colloquio tra Morosini e Annalisa Chrico: Perché Renzi va fermato. Si parla del referendum, e dell’impegno di Magistratura democratica nel comitato per il no. Ma a due giorni dagli arresti di Lodi il senso è inevitabilmente un altro, il senso percepito si direbbe, come le temperature estive che sfondano il limite dei 40: Renzi va fermato con le manette ai polsi dei suoi sindaci, dei segretari regionali dem come Renato Soru. Ecco cosa capiranno gli spettatori della corrida mediatica, temono i consiglieri in cammino verso la sala del plenum. Il giornale diretto da Cerasa parla di Riforme, ma il doppio senso è più forte di tutto. Accade il prevedibile: il vicepresidente Giovanni Legnini si alza e annuncia "l’incontro formale chiestomi dal ministro della Giustizia per avere chiarimenti sulla vicenda", ovvero sulle parole del consigliere Morosini. In quanto guardasigilli, a Orlando compete l’azione disciplinare nei confronti dei giudici. Lui stesso, il responsabile della Giustizia nel governo, dirà di lì a poco di aver sollecitato l’incontro con Legnini "perché se alcune di quelle parole e di quelle espressioni (sempre di Morosini, nda) risultassero confermate, sarebbero in aperto contrasto con lo spirito di lealissima collaborazione che fin qui ha ispirato i rapporti tra governo e Csm". Orlando lascia trapelare quasi rabbia. Da due anni, da quando è a via Arenula, predica il dialogo. Si dissocia col silenzio dai "brr... che paura" di Renzi, ridimensiona l’offesa della nuova responsabilità civile, lascia che il Csm prenda prima di lui la parola sul sistema per eleggere i giudici al Csm. Fa insomma tutto quello che può fare un ministro della mediazione. Eppure l’impero togato si sbricola sotto i suoi occhi inermi. Non basta. La sentenza più grave spetta al "primo magistrato del Paese", detta con barocca enfasi, il primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio. Anche lui siede al plenum, di diritt. Canzio è asciutto, orgogliosamente campano nella cadenza, e implacabile: "C’è profonda delusione, non è stato ascoltato l’appello all’osservanza dei doveri di riservatezza, discrezione, sobrietà nei rapporti con i media". Ancora, Canzio dichiara "totale dissenso nel merito dei giudizi espressi nell’intervista". Canzio, l’alto magistrato fuori dalle Correnti, personifica la nemesi che si abbatte sull’associazionismo giudiziario. E Legnini? L’avvocato abruzzese vicepresidente del Consiglio sta lì perché il rapporto tra politica e magistratura si svolga senza scosse. Anche lui è uomo con la vocazione a mediare, ma non può trattenersi dal dire che il patto di rispetto istituzionale è infranto. Aveva già suonato l’allarme dopo l’intervista di Davigo al Corriere. Inutilmente. Ecco, peggio di così non si potrebbe. Più divisa di così la magistratura non potrebbe essere, più straziato che come al plenum di ieri mattina il Csm non potrebbe mostrarsi, le parole di Canzio sono una scudisciata che lascia sangue. Morosini prova a difendsersi, confessa che le "parole" riportate dal Foglio, "travisano il senso di un colloquio informale partito con l’esclusione da parte mia di rendere dichiarazioni pubbliche". Parole confidenziali, ma pesantissime, dette a una giornalista d’inchiesta. Qui l’impero togato confessa di non sapersi fare Stato, politica, partito. E perciò ammette di essere crollato, per come lo abbiamo conosciuto finora. Zagrebelsky: "Corruzione, la questione morale ormai è istituzionale" di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016 Zagrebelsky: "Massoneria affaristica, lobby e finanza: temo la rete di potere inquinato e connivente. Oggi si fa politica per ottenere l’immunità. Ma è illusorio credere che si possa sconfiggere tutto questo solo con il processo penale, per batterlo serve invece più democrazia". I politici non hanno smesso di rubare, hanno solo smesso di vergognarsi". L’ha detto Piercamillo Davigo in un’intervista al Corriere della Sera, ripetendo una frase che è stata un grande classico in tanti suoi interventi pubblici negli ultimi anni. Si sono indignati i politici, ma non i cittadini. E comunque la cronaca sembra dargli ragione. In una settimana abbiamo dovuto raccontare ai lettori dell’arresto del sindaco di Lodi Simone Uggetti (Pd) per turbativa d’asta; dell’arresto di Antonio Bonafede, consigliere comunale del Pd a Siracusa, mentre stava per imbarcarsi su traghetto con 20 chili di droga; dell’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa a carico del consigliere regionale e presidente del Pd in Campania, Stefano Graziano; dell’incredibile vicenda del Consiglio regionale della Sardegna, dove in cella si sono incontrati il vicepresidente del Consiglio regionale Antonello Peru (Forza Italia), arrestato per una vicenda di presunti appalti truccati, e Giovanni Satta (centristi) che quando è stato fermato per traffico internazionale di stupefacenti ancora non era consigliere regionale. Lo è diventato - da detenuto - dopo che a seguito di vari ricorsi, l’ufficio elettorale della Regione gli aveva assegnato il seggio. La questione morale incombe, è un’emergenza ormai cronica. Abbiamo chiesto a Gustavo Zagrebelsky com’è possibile che quelle affermazioni di Enrico Berlinguer ("I partiti sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune"), 35 anni dopo suonino così attuali. Dalla politica ci dicono che la responsabilità penale è personale, che bisogna essere garantisti: i corrotti sono casi isolati, cioè singole mele marce. Cosa ne pensa? La responsabilità penale è personale, ma la corruzione non è semplice illegalità individuale. Coinvolge necessariamente più soggetti, come dice la parola: la corruzione implica una cooperazione. I giuristi parlano di reato plurisoggettivo. Per vivere deve necessariamente allargarsi: i corruttori sono indotti a estendere progressivamente il raggio della corruttela per ottenere coperture e per questo moltiplicano le complicità dei corrotti che, a loro volta, diventano corruttori. C’è una forza diffusiva che la semplice illegalità di per sé non possiede. La corruzione è un sistema, non è la somma di singole illegalità. Esempio: se un contribuente fa una dichiarazione fiscale falsa, siamo di fronte a un’illegalità, che si può colpire processando l’evasore. Ma se il contribuente si mette d’accordo con il suo consulente fiscale, che si mette a sua volta d’accordo con la Guardia di Finanza e con l’Agenzia delle Entrate, tutto questo crea un sistema diffuso di corruzione. Come le associazioni criminali. Infatti. A differenza dell’illegalità, la corruzione crea ordinamenti alternativi a quelli legali. Per questo, mi pare riduttivo parlare di "questione morale": siamo di fronte a una "questione istituzionale". La mafia, per esempio, è una istituzione con regole interne, autorità di governo, agenti esecutivi e perfino tribunali. C’è una legittimità mafiosa che si contrappone alla legittimità dello Stato. Bisogna partire dal presupposto che si tratta di conflitti tra ordinamenti. È illusorio pensare che si possa sconfiggere la corruzione esclusivamente con processi che necessariamente perseguono i singoli. Come se si volesse vincere una guerra eliminando, uno ad uno, i combattenti dell’altra parte, mentre i caduti sono sostituiti da nuove leve e i ranghi si rigenerano. Gli ordinamenti si sconfiggono con guerre d’altro tipo; innanzitutto stabilendo una linea di demarcazione netta, un fronte, tra chi sta di qua e chi di là, cioè combattendo la "zona grigia" di chi sta un po’ di qua e un po’ di là. Però la selezione della classe dirigente è affidata, non da oggi, al diritto penale. Ma la verifica penale non ha questa finalità, né il giudice è un’autorità morale. I giudici svolgono i loro compiti con riguardo a singoli fatti e singoli autori dei fatti. Il conflitto tra ordinamenti non può accontentarsi d’una delega ai giudici. Coloro che si richiamano non ipocritamente alla legalità devono innanzitutto selezionare una classe politica priva di commistioni con l’altro ordinamento, mettendo confini invalicabili tra vita e malavita. Questo non può farlo la magistratura. Soprattutto in un momento come questo in cui tutti gli indizi portano a dire che il mondo della politica è estesamente penetrato dalla corruzione: significa che tra questi due opposti ordinamenti oggi non c’è conflitto, ma connivenza. O, addirittura, che s’è creato un meta-ordinamento diffuso, basato sulla convivenza. Quali sono, allora, i rimedi? Non possono essere solo le armi giudiziarie. Che ci devono essere, ma non sono risolutive. Mi chiedo, poi, se esiste davvero la volontà di combatterla, la corruzione. Scoppia uno scandalo e qual è la reazione? Se pur non si accusa la "giustizia a orologeria", si esprime "piena fiducia nella magistratura"; ci si trincera dietro al "fino alla condanna definitiva nessuno può considerarsi colpevole"; si ritorce l’accusa: anche voi avete i vostri corrotti. Tutto ciò mi pare dimostri una fondamentale ambiguità ai limiti dell’acquiescenza. La delega ai giudici è uno sfuggire alle proprie responsabilità; la ritorsione dell’accusa significa considerare la corruzione non un problema di integrità di sistema ma un’occasione per una gara a chi è più o meno corrotto. Così, si finisce per adagiarsi. Il vecchio discorso "tutti colpevoli, nessun colpevole" significa "siamo tutti sulla stessa barca". Per non affondare tutti insieme, dobbiamo darci una mano ed essere tolleranti, gli uni verso gli altri. Mi chiedo se i nostri politici che usano questi argomenti si rendano conto del senso di quello che dicono. Credo di no. Nel 2014 su 1.100 consiglieri regionali, 521 erano sotto inchiesta; per 300 era stato chiesto il giudizio per spese pazze con i fondi ai gruppi. Spesso sono quisquilie, disgustose ma quisquilie per le quali ben venga la repressione penale. Più preoccupanti sono le reti di connivenze che fanno capo a faccendieri e lobbisti vari, massoneria affaristica, finanza laica e vaticana, giornalismo al soldo, ecc. Questa è la potentissima rete della corruzione che tocca interessi finanziari, industriali, della comunicazione, degli armamenti, nazionali e internazionali. Che cosa c’è dietro, per esempio, al fatto che in Parlamento non si è potuto discutere dell’acquisto degli F-35? In una parola, la corruzione alligna nelle oligarchie. Per combatterla davvero, ci vuole democrazia. Vero, ma la riforma costituzionale non va in direzione opposta, garantendo immunità a politici regionali tutt’altro che insospettabili e promossi senatori? Il Senato dei 100 è un pasticcio in sé e una catastrofe funzionale: altro che semplificazione. L’immunità parlamentare nella storia della Repubblica ha subìto un rovesciamento. In origine proteggeva la libertà della funzione parlamentare. Oggi, spesso serve a proteggere il parlamentare. Cioè: mentre una volta si era protetti perché ci si dava alla politica, oggi ci si dà alla politica perché si vuole essere protetti. Insomma, in diversi casi il titolo preferenziale per essere messo in lista è stato avere grane con la giustizia. Sarà così anche per i nuovi senatori? Il presidente emerito Napolitano ha citato voi "professori del no" in un’intervista al Corriere: "Vedo tre diverse attitudini. Quella conservatrice: la Costituzione è intoccabile. Quella politica e strumentale: si colpisce la riforma per colpire Renzi. E quella dottrinaria perfezionista. Dubito che tutti i 56 costituzionalisti e giuristi che hanno firmato il manifesto contro siano d’accordo su come si sarebbe dovuta fare la riforma. Ma è una posizione insostenibile: perché il No comporterebbe la paralisi definitiva". Vuole rispondere? Vincenzo Cuoco - commentatore della rivoluzione napoletana del 1799 - diceva che le Costituzioni sono abiti che devono essere indossati da un corpo. Questo corpo è ciò che chiamiamo la Costituzione materiale, fatta di convinzioni politiche, tradizioni, comportamenti, rapporti e anche di corruzioni. Le costituzioni non sono belle o brutte in sé, ma sono adatte o inadatte al corpo che deve indossarle. Se il corpo è quello della statua modellaria di Prassitele - diceva Cuoco - la Costituzione indossata farà una bella figura. Ma se il corpo è deforme, l’abito servirà soltanto a coprire le deformità. Non si corregge il corpo con la veste. A differenza del presidente Napolitano, penso che, parlando di conservatori, perfezionisti e innovatori, si finisce per perdere di vista la vera posta in gioco: le degenerazioni della vita politica materiale, degenerazioni che non si combattono, ma si occultano soltanto mettendo loro sopra una veste nuova. Il cosiddetto "combinato disposto" della legge elettorale e della riforma costituzionale è per l’appunto questa veste nuova, sotto la quale si nascondono tendenze, da tempo in atto, a separare la politica dalla partecipazione dei cittadini e ad accentrarla in centri di potere sospesi per aria o appesi in alto. La chiamano democrazia perché ogni cinque anni ci faranno votare? Ma votare su che? In verità lei una proposta di riforma l’ha formulata. Sì. L’ho inviata alla ministra Boschi, come si era concordato. Ma è sparita. Anche il presidente Napolitano l’ha ricevuta, ma era assai diversa da quella ch’egli sosteneva e sostiene. Così è stato un buco nell’acqua. Solo mi dispiace che si dica che chi è contrario a questa riforma non ha saputo e non sa proporre nulla di alternativo. È vero il contrario. Per onore della verità. Inchieste giudiziarie, moralità pubblica e strumentalizzazioni di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 6 maggio 2016 I pozzi della vita politica italiana continuano ad essere avvelenati. L’eterno tema della lotta alla corruzione ha, oggi, colpito un altro pezzo della classe politica di governo. E, così, il partito che per molti anni, a partire da Mani Pulite, è stato il portabandiera del giustizialismo nostrano è adesso, per una inevitabile legge del contrappasso, incudine. Con tutti gli imbarazzi che questo capovolgimento di posizione determina, esplicitati dalle manifestazioni di duplice fiducia: negli indagati e negli inquirenti. Come al solito, poi, la questione giudiziaria è solo l’occasione per una violenta strumentalizzazione politica e mediatica. Il cd. Partito degli onesti rialza con arroganza la testa, chiedendo a gran voce una giustizia esemplare e l’allontanamento dei corrotti. Eppure, vi è un quesito di fondo che resta irrisolto. La cui esistenza è stata implicitamente riconosciuta dallo stesso Davigo, quando ha affermato che la differenza rispetto al passato è che ora chi ruba non si vergogna. Le inchieste, anche aggressive, della magistratura non hanno affatto scalfito il mondo del malaffare. Anzi, è ormai opinione comune che nel tempo trascorso da Mani Pulite, e perciò nel nuovo clima di caccia ai corruttori, la situazione non è affatto migliorata. È peggiorata! Così come l’onestà urlata ed occhiutamente controllata come criterio di selezione della classe politica ha clamorosamente fallito. Evidentemente il problema è altrove. Probabilmente bisogna ripartire dalla lezione di Pannella e dei radicali. Il cui messaggio è stato spesso sottovalutato se non addirittura irriso: la sistematica e consapevole violazione da parte delle istituzioni della loro stessa legalità costitutiva ed il soffocamento da parte dei detentori del potere politico dei principi e delle garanzie dello Stato di diritto sono alla base del degrado della nostra democrazia. È fuori discussione che la corruzione va combattuta. Ma come? Violando le norme sulla carcerazione preventiva perché le regole quando ne vale la pena possono essere violate? O rendendo i controlli burocratici sempre più opprimenti, in modo da calpestare il cittadino? O utilizzando come criterio selettivo degli eletti gli avvisi di garanzia? Evidentemente no: è una strada che ha portato al fallimento. Le parole d’ordine devono essere stato di diritto e trasparenza. La legalità va innanzi tutto recuperata nel rapporto tra stato e cittadino, che va difeso dagli abusi e dalle sopraffazioni, anche dei Giudici. Solo nel momento in cui il Paese sarà abitato da cittadini e non da sudditi, sarà possibile sperare in una democrazia più robusta, realmente in grado di combattere il malaffare. Toc toc... c’è qualcuno lassù al Quirinale? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 6 maggio 2016 Nella magistratura si è aperto lo scontro. A livello altissimo. Il campo di battaglia è il Csm, i "combattenti" abitano dentro e fuori dal Csm. La posta in gioco è grande. È l’idea stessa della divisione dei poteri. C’è un pezzo della magistratura che chiede indipendenza ma non riconosce l’indipendenza degli altri poteri. È contraria alla divisione dei poteri classica nello stato liberale. Ed esprime questa sua linea in forme diverse. L’Anm, guidata da Davigo (che ha messo in minoranza le componenti più moderate e democratiche) dà battaglia sostenendo che tutta la politica è corrotta e per questo non è legittimata a governare. La corrente di "Area", guidata in queste ore dal consigliere del Csm Morosini, punta invece allo scontro diretto e ad armi pari con il potere politico. Sfidandolo sul suo terreno. E gettando il peso dell’autorità e della potenza giudiziaria della magistratura, nella battaglia referendaria e in genere nello scontro elettorale. Morosini ha anche indicato la strategia: battere Renzi, disarcionarlo. Il copione, forse, è vecchio. La novità sta nel fatto che, per la prima volta, dentro la stessa magistratura si apre una crepa molto grande e si apre in modo palese. Questo è un fatto storico. Le dichiarazioni, (durissime verso il consigliere Morosini) del primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio (che è la massima autorità della giurisdizione) rompono il muro di silenzi che finora aveva tenuto nascosto il dissenso. Su queste colonne lo abbiamo già scritto varie volte (sebbene esistiamo da meno di un mese): non è possibile una riforma seria della giustizia, in senso costituzionale, se la parte più moderna e liberale della magistratura non si fa coraggio ed esce dal torpore o dalla rassegnazione. I magistrati sono i più interessati a una riforma seria, che ristabilisca gli elementi essenziali dello Stato di Diritto e che restituisca ai giudici la propria funzione. Finora però solo l’Anm ha avuto voce. Da ieri, forse, le cose cambiano un po’. E paradossalmente il merito di questo cambiamento è da assegnare anche al dottor Davigo e alle sue provocazioni. In seguito alle quali lo scontro tra quello che viene chiamato "il partito dei Pm" e il governo si è fatto così aspro da far saltare tutti gli equilibri. E ha aperto preoccupazioni serie anche ai vertici delle istituzioni. C’è stato l’intervento del vicepresidente del Csm, Legnini, poi le proteste di Fanfani, e ora si è arrivati all’altolà di Legnini e poi di Giovanni Canzio. C’è ancora un nome all’appello. Mattarella. Chiederà le dimissioni di Morosini? Può darsi. Il problema è che le dimissioni di Morosini (che ha solo commesso l’errore di esporre apertamente le strategia di quel pezzo di magistratura "militante" della quale fa parte) non porteranno certo a una pacificazione. Il partito dei Pm sicuramente non batterà in ritirata, e la battaglia rischia di travolgere tutta la macchina della giustizia. Come si fa per evitare il collasso? È possibile trovare un punto di armistizio senza procedere a una riforma radicale della giustizia, e a una definizione netta (e compatibile con la Cstituzione), di competenze, poteri, meccanismi dell’azione penale e del processo? La risposta deve darla la politica. C’è bisogno di una politica meno lamentosa e più decisa. Che si assuma le sue responsabilità, mostri coraggio, e non baratti la propria indipendenza e la propria autonomia (anche dal potere giudiziario) con un poco di indulgenza. Canzio, il giudice che insegna l’ortodossia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 maggio 2016 Che non ci fosse feeling fra Piergiorgio Morosini e Giovanni Canzio, pur se entrambi legati ad Area, si era capito già il 22 dicembre scorso. Quando il Plenum del Csm elesse Canzio primo Presidente della Corte di Cassazione. Una elezione plebiscitaria la sua: 23 voti a favore, 3 astenuti. E fra questi 3 astenuti proprio il consigliere togato Morosini. Motivo? "La nomina di Canzio non è in linea con il testo unico sulla dirigenza e con la disposizione che vuole che le funzioni direttive siano ricoperte per almeno due anni", disse l’ex Gip di Palermo, riferendosi al fatto che tra un anno il neo presidente avrebbe dovuto comunque lasciare l’incarico per sopraggiunti limiti di età. Ed è stata proprio l’età il problema che ha rischiato di interrompere sul più bello la carriera di Canzio. Classe 1945, laureatosi giovanissimo a 21 anni a Napoli, entra in magistratura nel 1970 come giudice al Tribunale di Vicenza. Dopo alcuni anni in Procura e al Tribunale di Rieti, nel 1995 il grande salto: consigliere della Prima Sezione penale della Cassazione e componente-coordinatore delle Sezioni Unite penali. Ma Canzio non si ferma e diventa anche direttore dell’Ufficio del Massimario, incarico che svolgerà fino al 2009, quando si trasferisce a L’Aquila per ricoprire la carica di presidente della Corte d’appello. Soggiorno breve quello abruzzese. Dalla fine del settembre 2011 è a Milano, sempre come presidente della Corte d’Appello. Fino al 2014, quando sulla sua testa si abbatte implacabile la "rottamazione" renziana delle toghe: la riforma della PA che abbassa da 75 a 70 anni l’età massima per la permanenza in servizio dei magistrati. Ma un decreto legge risolve tutto. Un decreto approvato "al fine di salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari e garantire un ordinato e graduale processo di conferimento, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, degli incarichi direttivi e semi-direttivi che si renderanno vacanti negli anni 2015 e 2016, i magistrati ordinari con meno di 72 anni al 31 dicembre 2015 potranno continuare a restare in servizio. Almeno per un altro anno". Dunque, sino al 31 dicembre 2016. A quel punto la strada per la Cassazione è libera. Ma anche i suoi critici sono costretti ad ammettere che Canzio è un magistrato preparato e preciso. Oltre che bipartisan, sempre in buoni rapporti con tutti. A partire da quelli con Magistratura Indipendente, che proprio a Milano hanno nel giudice Claudio Galoppi, attuale consigliere al Csm, il loro uomo forte. Lucido nel perseguimento degli obiettivi, ha capito prima degli altri che l’organizzazione del lavoro è fondamentale per il buon funzionamento del sistema giustizia. Oltre a saper scrivere delle sentenze, infatti, il magistrato deve pianificare al meglio le risorse disponibili. Che, nel caso del Palazzo di Giustizia milanese erano milioni di euro, fra cui i fondi straordinari per l’informatizzazione legati ad Expo. Uomo energico, creò il Consiglio giudiziario itinerante nei vari Tribunali del distretto, proprio per toccare con mano i problemi di chi lavora in periferia. Chi ha partecipato alle sue riunioni lo ricorda come una persona che non consentiva divagazioni inutili. Ecco, uno cosi non poteva tollerare le parole di Morosini. Pur se dette in un colloquio informale con una giornalista. Doina in semilibertà ma senza i social Il Dubbio, 6 maggio 2016 Il Tribunale di sorveglianza ha riconosciuto la condotta lodevole della detenuta. Doina Matei è di nuovo in semilibertà, ma il suo raggio d’azione sarà particolarmente limitato, almeno in riferimento alle nuove tecnologie. La ragazza condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio in metro della 23enne Vanessa Russo, avvenuto nel 2007, si è vista riconoscere nuovamente i benefici concessi in precedenza, con alcuni evidenti distinguo. Il tribunale di sorveglianza di Venezia le ha inibito infatti l’accesso a tutti i social network e a Internet. Per il collegio presieduto da Giovanni Pavarin dunque, non potrà fare uso di Facebook, Instagram, Twitter e della Rete, se non in casi eccezionali, per contattare gli operatori che la assistono nel percorso di una "riabilitazione sicuramente non semplice". La misura alternativa al carcere era stata sospesa dopo la pubblicazione su Facebook di alcune fotografie, che la ritraevano sorridente al mare o al bar, "quasi incurante dell’eterno dolore cagionato". I magistrati hanno però accolto il ricorso presentato dagli avvocati Carlo Testa Piccolomini e Nino Marazzita. Quest’ultimo ha esultato per la pronuncia favorevole: "L’Italia rozza, che vuole tornare al Medioevo, è stata sconfitta. I giudici hanno ripristinato un principio di civiltà giuridica protetto dalla Costituzione, la pena finalizzata anche al recupero del condannato". Per il Tribunale, "che certamente comprende tutto lo sgomento, e finanche l’incredulità, dei congiunti di Vanessa Russo", non vi fu una grave violazione delle prescrizioni, anche se "le trasgressioni poste in essere dalla Matei sono state sicuramente inopportune per il rinnovato, acuto dolore, che hanno provocato nelle persone offese dal reato, le cui sofferenze non potranno certamente essere lenite da qualunque decisione". Doina ha violato il divieto di usare lo smartphone per connettersi a Internet o per collegarsi ai social network, giustificandolo con la necessità di mantenere un contatto con il figlio più piccolo. Il tribunale di Venezia ha riconosciuto alla 30enne romena "una condotta connotata da notevole impegno nel disbrigo delle mansioni lavorative, come dimostrato dalla circostanza che i rappresentanti legali della cooperativa sociale Onlus "Il Cerchio", datrice di lavoro con sede a Venezia, sono disposti ad offrirle una nuova prospettiva occupazionale". Per oltre un anno la condannata ha fruito di licenze premio, utilizzate per rinsaldare i legami familiari con la madre, la sorella e appunto il più grande dei suoi figli, evitando qualsiasi rilievo disciplinare e partecipando ad attività di volontariato, "significative e apprezzabili". Pedofilia. Tribunale dispone obbligo di cura dopo il carcere: è il primo caso in Italia di Charlotte Matteini fanpage.it, 6 maggio 2016 Il tribunale di Milano ha stabilito l’obbligo di cura per un detenuto condannato per pedofilia. Una volta uscito dal carcere, il detenuto dovrà prendere contatti con il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano per concordare un piano di osservazione e cura delle eventuali recidive. Una sentenza pilota, la prima in Italia. Per la prima volta un Tribunale italiano stabilisce l’obbligo di cura per un soggetto condannato per pedofilia che ha scontato la sua condanna in carcere. È accaduto a Milano, dove i giudici hanno disposto che il 41enne, una volta uscito dall’istituto penitenziario, dovrà contattare il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano "per concordare un programma di osservazione e di trattamento finalizzato al contenimento e al superamento delle sue tendenze sessuofobe e pedofiliche con l’individuazione di un programma che sarà predisposto dagli operatori del presidio". Per rendere attuabile la disposizione dei giudici milanesi, però, è stato necessario attendere il consenso dell’uomo. Secondo l’articolo 32 della Costituzione, infatti, "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge". Senza consenso, quindi, il percorso di cura, seppur ritenuto fondamentale per il recupero completo del detenuto, non avrebbe potuto essere disposto. L’uomo attualmente ha scontato la propria condanna a 4 anni e 4 mesi per reati sessuali compiuti con minorenni, ma la Procura ha chiesto l’applicazione di una misura di sorveglianza speciale della polizia, con l’obbligo di soggiorno o residenza nel comune di dimora per due anni dopo l’uscita dal carcere perché, in base ad alcune intercettazioni e relazioni stilate in carcere, sarebbe stata confermata l’attualità della tendenza pedofilica del detenuto. Il Tribunale ha bocciato le richieste avanzate dalla Procura, sostenendo che l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza sarebbe stato "inutilmente restrittivo sul piano della libertà individuale", sostituendole però con l’obbligo di cura. Durante l’udienza di convalida delle misure, l’uomo ha dichiarato di non sentire più pulsioni ma di essere disponibile a proseguire con un programma di osservazione e cura. Nonostante siano numerose sono le richieste di assistenza e cura inoltrate dai soggetti condannati per pedofilia, solo una ristretta minoranza riesce ad accedere alla struttura del Centro italiano per la promozione della mediazione di Milano, che si occupa di studiare il percorso adatto al recupero dei condannati per reati a sfondo sessuale. Da uno studio effettuato su un gruppo di 60 soggetti che hanno frequentato il gruppo di aiuto creato dalla struttura milanese, la recidiva sessuale appare dimezzata, passando dall’8% dall’iniziale 16%, mentre la recidiva con violenza ridotta si è attestata intorno al 18% contro il 35% evidenziato nei soggetti che non hanno avuto accesso al progetto. Datore condannato per estorsione se ricatta i lavoratori con il rischio licenziamento di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 5 maggio 2016 n. 18727. Estorsione a carico del datore di lavoro che prospetti ai propri dipendenti il licenziamento in caso di mancata accettazione di condizioni capestro da lui dettate. E nel caso - precisa la Cassazione con la sentenza n. 18727/16 - erano scelte obbligate che andavano sicuramente a intaccare la dignità e il rispetto dei diritti più elementari di un lavoratore. Le condizioni prospettate ai lavoratori - L’assunzione, infatti, avveniva solo a condizione di firmare una lettera in bianco di dimissioni, di percepire meno di quanto risultasse dalla busta paga e come se non bastasse i prestatori erano stati minacciati a più riprese di licenziamento qualora non avessero prolungato il proprio orario di lavoro. L’imputato dalla sua aveva eccepito che tra lui e i dipendenti era intercorso un accordo in base al quale gli stessi avevano deciso di accettare queste condizioni. È di tutta evidenza come il termine accordo previsto anche in sede civile rappresenti un incontro congruo tra due o più soggetti che poi è la formula che sta alla base del contratto ex articolo 1321 del codice civile. E se la regola ha una sua validità e importanza nel campo civile appare chiaro come debba necessariamente avere una rilevanza penale il ricatto (e quindi le condizioni lavorative proposte) dal momento che in questo caso oggetto della contesa non è un bene materiale ma in gioco c’è la dignità della persona. E sulla questione è significativo ricordare come i giudici di appello avessero ricordato come la situazione lavorativa della Sicilia, non fosse certo idilliaca anzi, ma questo non doveva lasciare la strada libera al datore di attuare una politica lavorativa minatoria. Quando scatta l’estorsione - È possibile quindi, ancora una volta, riconoscere e affermare che "integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato". Nella sentenza si legge chiaramente che "anche a volere convenire che l’accettazione da parte dei lavoratori di una retribuzione più bassa rispetto a quella risultante in busta paga non bastasse di per sé sola a dare prova di una subita coercizione, non è infatti stata la forma della "libera" pattuizione ad avere trasformato, nel caso di specie, un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall’assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese della pretesa "libera" pattuizione". Il bacio sulla guancia "rubato" alla 15enne è violenza privata e non violenza sessuale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2016 Corte di cassazione 18679/2016. Il bacio sulla guancia "rubato" a una quindicenne sconosciuta è violenza privata e non sessuale. La Cassazione (sentenza 18679) accoglie il ricorso di un uomo di 37 anni che si era invaghito di una liceale e, senza aver avuto mai alcun contatto con lei, le aveva estorto un bacio sulla guancia davanti alla scuola. Per i giudici di merito era stato sufficiente per condannarlo per violenza sessuale (articolo 609-bis del codice penale), sebbene con la pena minima. Tribunale e Corte d’appello, nel qualificare l’atto come sessuale, avevano valorizzato diversi elementi: le modalità repentine e insidiose della condotta; l’assenza di qualsiasi rapporto con la vittima; l’attrazione provata per quest’ultima e la cerniera dei pantaloni dell’autore aperta. La Suprema corte inizia con il ribadire che l’articolo 609-bis del Codice penale è posto a presidio dell’assoluta libertà personale dell’individuo di compiere atti sessuali al di fuori da ogni condizionamento e la violenza scatta anche quando il fine é lo scherzo o l’umiliazione della vittima. Per configurare il reato è, infatti, sufficiente che l’imputato sia consapevole della natura sessuale dell’atto che compie. Una natura - precisano i giudici - che è il frutto dell’elaborazione scientifica, ma anche espressione della cultura di una determinata comunità e può variare da Paese a Paese. Lo stesso gesto può avere valenza sessuale per alcuni popoli e non per altri. La Cassazione non trascura di specificare che la violenza sessuale c’è anche quando ad essere interessate dai "toccamenti" non sono le zone erogene. Tutto questo prologo serve ad arrivare al caso concreto. La natura repentina dell’azione non qualifica l’atto come sessuale, ma riguarda la "violenza" del gesto. Considerata irrilevante anche l’attrazione nutrita nei confronti della ragazzina, resta il "fattaccio" della cerniera aperta. Quest’ultimo, però, è un elemento non contestuale all’azione, rilevato in un secondo momento dai Carabinieri, per cui manca la prova di un collegamento con l’atto incriminato. E il solo bacio sulla guancia non basta a classificare il gesto come violenza sessuale. Di consuetudine, precisano i giudici, il bacio sulla guancia è percepito come manifestazione d’affetto. Si deve perciò fare riferimento al caso concreto: una cosa è baciare una persona repentinamente sulla guancia, un’altra baciare un’alunna in luoghi appartati, trattenendola per i fianchi e facendo apprezzamenti sul suo aspetto (sentenza 10248/2014) o, ancora, è diverso il bacio sulla guancia dato nel tentativo di raggiungere la bocca. La Cassazione esclude dunque che il fugace e semplice bacio sulla guancia sia un atto sessuale, in base al significato sociale che al gesto può essere attribuito. La connotazione violenta, che qualifica le azioni fatte contro la volontà di chi le subisce, integra la violenza privata (articolo 610 del Codice penale). La sentenza della Cassazione arriva a poca distanza da un precedente verdetto con il quale (sentenza 13940/2016) la stessa Corte ha confermato la condanna di un uomo per aver costretto una donna a subire "atti sessuali" consistiti in un bacio sulla guancia e per averci "provato" una seconda volta nonostante il rifiuto. Sentenza di condanna, pubblicazione su internet più afflittiva e non retroattiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 5 maggio 2016 n. 18728. La pubblicazione della sentenza di condanna su internet, prevista a partire dal 2011 come l’unica modalità di pubblicità del provvedimento, deve considerarsi più afflittiva della precedente pubblicazione sui quotidiani cartacei e come tale non è retroattiva. Lo ha stabilito la II Sezione della Corte di cassazione, sentenza 5 maggio 2016 n. 18728, dichiarando inammissibile - in quanto peggiorativo - il ricorso di un uomo condannato per evasione fiscale che lamentava il fatto che la Corte di appello di Genova, nel 2015, nel confermare la pronuncia del Tribunale (precedente alla riforma) avesse lasciato immutato l’obbligo di pubblicare la sentenza per estratto sul quotidiano "Il Secolo XIX" di Genova, invece che sul sito internet del Ministero della Giustizia. Sul punto la Suprema corte ha chiarito che "la pubblicazione telematica rafforza il carattere afflittivo della pena accessoria, poiché alla diminuzione o eliminazione della spesa per la pubblicazione corrispondono la capillare diffusione delle informazioni offerta dal sistema telematico in ragione del libero accesso ai documenti pubblicati ed alla loro indicizzazione da parte dei motori di ricerca e la tempestività della pubblicazione che le diverse forme cartacee certamente non assicurano". Pertanto, prosegue la sentenza, la modifica apportata all’articolo 36 del codice penale, dal Dl n. 98/2001, convertito nella legge 111/2011, "non ha introdotto nel sistema penale una nuova pena accessoria, ma ne ha diversamente modulato il contenuto, sostituendo alla tradizionale forma di pubblicazione sulla stampa quella via internet, fatto che integra un fenomeno di successione di leggi nel tempo regolato dall’articolo 2 codice penale, comma 4, con la conseguenza che non è applicabile ai fatti pregressi la nuova disciplina, in quanto maggiormente afflittiva". La sostituzione del mezzo della pubblicazione, spiegano i giudici, attiene infatti "alla definizione del contenuto della sanzione e comunque incide sulla relativa funzione afflittiva la cui cifra è data, da un lato, dalle spese della pubblicazione che sono a carico del condannato e, dall’altro, dalla funzione di prevenzione e di difesa sociale della pena, posto che la ratio della pubblicazione risponde all’esigenza di prevenzione generale e speciale che consegue alla dimostrazione della repressione dell’illecito con il conseguente discredito gettato sul suo autore specie in un settore, come quello dell’evasione fiscale, dove il danno criminale sta nella sottrarre all’erario le risorse da destinare alle esigenze collettive". Per quanto riguarda, invece, l’afflittività delle spese a carico del condannato, si tratta di un elemento "recessivo rispetto alle tradizionali ragioni che costituiscono il fondamento della pena accessoria", non soltanto perché sono un effetto dell’applicazione della sanzione ma anche perché "rappresentano un effetto solo eventuale", dal momento le difficoltà di recupero delle spese anticipate dall’erario per la pubblicazione hanno costituito una delle ragioni delle modifiche normative. Diffamazione per chi insulta su Facebook il consiglio dell’ordine degli avvocati di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2016 Tribunale di Genova - Sezione I penale - Sentenza 25 gennaio 2016 n. 79. Insultare il consiglio dell’ordine degli avvocati attraverso espressioni volgari pubblicando un post sulla propria pagina Facebook integra gli estremi della diffamazione aggravata di cui all’articolo 595 comma 3 c.p., in quanto tale condotta è lesiva della reputazione dei membri dell’ente ed è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone. Questo è quanto emerge dalla sentenza 79/2016 del Tribunale di Genova nella quale si precisa altresì che l’utilizzo di frasi gratuitamente ostili non può essere ritenuto espressione di un diritto di critica o di critica politica in grado di scriminare il responsabile. Il caso - L’episodio incriminato ha visto come protagonista un uomo che, in relazione ad una vicenda giudiziaria in corso che coinvolgeva il suo legale di fiducia, aveva pubblicato sulla bacheca della propria pagina Facebook un post offensivo nei confronti del consiglio dell’ordine degli avvocati, che veniva definito "prezzolato" ed etichettato con altri termini volgari. In seguito alla querela presentata dal presidente del consiglio dell’ordine, l’uomo veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di diffamazione di cui all’articolo 595 comma 3 c.p., mentre l’ente si costituiva parte civile. La diffamazione - Il Tribunale condanna l’imputato e spiega che le espressioni utilizzate nello specifico contengono nel loro insieme "una carica lesiva del decoro e del prestigio della persona offesa, in sostanza accusata di riceve denaro o altri vantaggi (anche non solo economici) per tenere un determinato comportamento e per (s)vendere i propri servigi". Inoltre, sussiste l’aggravante del mezzo di pubblicità in quanto l’utilizzo dei social network consente la diffusione ad un numero più o meno ampio di persone, soprattutto nei casi, come quello di specie, in cui l’accesso alla pagina personale è caratterizzata dall’assenza di filtri, ovvero dalla possibilità di visionare il suo contenuto per chiunque abbia un accesso ad internet. Nel caso di specie, poi, il Tribunale chiarisce che non può trovare applicazione la scriminante dell’esercizio di un diritto, sotto specie di diritto di critica o di critica politica. Quanto al primo perché oltre alla veridicità del fatto è necessario il requisito della continenza, con la conseguenza che l’esimente non può trovare applicazione quando le frase utilizzata "trasmodi in una vera e propria aggressione verbale del soggetto criticato, risolvendosi nell’uso di espressioni gravemente infamanti"; quanto al secondo perché anche se in ambito politico - che comunque esula dalla fattispecie - sono ammessi toni più aspri e forti, non sono ammissibili frasi utilizzate "per aggredire in modo volgare, violento e ingiurioso gli avversari o anche solo gli antagonisti". Cagliari: Caligaris (Sdr); impossibile recupero detenuti con operatori insufficienti castedduonline.it, 6 maggio 2016 Il percorso di reinserimento sociale e di consapevolezza di sé e del proprio vissuto richiede un serio rafforzamento delle piante organiche degli operatori penitenziari per garantire interventi personalizzati. "La recidiva è strettamente legata alla qualità del lavoro riabilitativo. Il percorso di reinserimento sociale e di consapevolezza di sé e del proprio vissuto richiede un serio rafforzamento delle piante organiche degli operatori penitenziari per garantire interventi personalizzati. A Cagliari-Uta sette educatori, ridotti all’osso nonostante le oggettive necessità, devono curare attualmente circa 600 detenuti, in prospettiva però considerando la capienza tollerabile potrebbero diventare addirittura 950. Che cosa possono garantire sette funzionari affinché il recupero non sia soltanto una parola vuota?". Lo chiede Maria Grazia Caligaris (foto), presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sostenendo che "non bastano più le dichiarazioni d’intenti per rendere gli Istituti di Pena, in sintonia con la Costituzione e la legge sull’Ordinamento Penitenziario, in grado di restituire alla società persone pienamente riabilitate. Occorrono subito interventi concreti e mirati". "Chi sconta una pena - afferma - è lasciato spesso da solo perché le persone che dovrebbero occuparsi di lui sono troppo poche e/o occupate in mansioni burocratiche. Ciò comporta un grave danno sociale in quanto la recidiva, cioè il ritorno dietro le sbarre per lo stesso o analogo reato dopo un periodo di libertà, raggiunge livelli stratosferici (oltre l’80%)". "Nel suo complesso - aggiunge la presidente di SDR - il sistema è inadeguato al compito se si considera che il numero degli Agenti della Polizia Penitenziaria non è sufficiente per le nuove strutture detentive le cui dimensioni e spazi si sono moltiplicati. Senza contare che i Tribunali di Sorveglianza, gravati da un sempre crescente carico di lavoro a causa di norme particolarmente farraginose, non hanno sufficienti Magistrati, Cancellieri e Assistenti Sociali per sbrigare le pratiche. A Cagliari purtroppo molti detenuti hanno dovuto aspettare almeno due anni per poter vedere loro attribuita la liberazione anticipata per buona condotta e diverse settimane per un permesso premio o di necessità". "La carenza più grave tuttavia è quella relativa ai sex offender. Si tratta infatti di detenuti particolarmente esposti e con una tipologia di reato che genera allarme sociale. Recuperare questi individui è un imperativo, ma ciò può avvenire solo se lo Stato investe in formazione. Servono équipes in grado di intervenire sui differenti aspetti della personalità dell’individuo. Una cella non è sufficiente. Neppure la perdita della libertà per dieci o venti anni o l’isolamento. Il sistema penitenziario può diventare uno strumento efficiente solo con investimenti adeguati e figure professionali che - conclude Caligaris - possano operare formulando soluzioni idonee, caso per caso". Paola (Cs): il detenuto suicida a prima di morire scrisse "l’agente che fa la notte sa" di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 6 maggio 2016 Maurilio Pio Morabito avrebbe chiesto, invano, di essere tutelato. Da chiarire le cause che hanno portato alla morte di Maurilio Pio Morabito. Il quarantaseienne, detenuto da 1 Aprile nella casa circondariale di Paola, era stato arrestato per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Inizialmente ristretto nel penitenziario reggino di Arghillà fu trasferito dopo essere stato aggredito e minacciato di morte il 28 Marzo. Morabito avrebbe raccontato che all’improvviso alcuni detenuti lo avrebbero coperto con un panno, picchiato e poi tentato di strangolare. Le motivazioni dell’agguato subito, scrisse in una prima lettera indirizzata ai suoi legali e ai genitori, erano "conseguenti ai fatti accaduti nel carcere di Arghillà". A cosa si riferisse, ad oggi, non è dato sapere. Verosimilmente l’uomo avrebbe assistito a qualcosa che non andava rivelato, diventando quindi scomodo. L’unica certezza è che il giorno dopo aver spedito la missiva la sua cella andò in fiamme e fu salvato dagli agenti di turno. In quell’occasione il sindacato di polizia penitenziaria Sappe si era affrettato a diramare una nota affermando che l’uomo aveva incendiato la cella in segno di protesta. Nel frattempo dalle ultime cronache nella casa circondariale di Arghillà risultano diversi episodi anomali: un coltello spedito ad un detenuto a fine febbraio, dell’hashish ritrovata all’interno della struttura poche settimane prima ed un tentato suicidio avvenuto esattamente quattro giorni prima del ritrovamento del cadavere di Morabito nella sua cella. Episodi che probabilmente non sono correlati con il decesso del quarantaseienne, ma che pongono diversi interrogativi sulla sicurezza nel carcere reggino. Sicurezza e tutela che Morabito avrebbe invocato disperatamente fino a pochi giorni prima della sua morte. In una seconda infatti il detenuto avanzava precise richieste. "Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, - scrisse Morabito - facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa. Chiedo a tutela della mia incolumità di essere trasferito in una struttura sita in qualsiasi punto della Penisola purché sia dotata di un’area protetta, inoltre chiedo che per il tempo di attesa affinché avvenga il mio trasferimento sia mantenuto il cancello e il blindo chiuso 24 h e aperto soltanto per i vari colloqui, il divieto di incontro con qualunque detenuto anche lavorante". Richieste a cui l’amministrazione di Paola aveva risposto ponendolo in una cella liscia, in mutande, con solo la disponibilità di una coperta. E con una visita psichiatrica in cui sarebbero stati prescritti dei farmaci che il detenuto ha sempre rifiutato di assumere. Seguirà un nuovo episodio in cui dopo essere stato spostato in un’altra cella avrebbe danneggiato gli arredi dopo il 15 aprile. Vicende che l’amministrazione penitenziaria, a cui non risulta che l’uomo avesse subito aggressioni, attribuiva a tentativi di suicidio posti in essere dal quarantaseienne. Diversa la versione dei genitori e dei detenuti di Reggio Calabria, amici di Morabito ristretti insieme a lui nella casa circondariale di Paola. Per loro Morabito non aveva nessun problema di depressione e non avrebbe mai tentato il suicidio. L’unica ansia che lo attanagliava era il timore che qualcuno potesse ucciderlo. Aveva le ore contate a suo dire, e la morte è arrivata inesorabile, come da lui previsto. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile alle 00.50, secondo la versione ufficiale fornita dagli agenti penitenziari di Paola, con una sigaretta Morabito pare abbia strappato una coperta e creato un cappio al quale si sarebbe appeso dopo averlo legato alle grate, per porre fine alla propria esistenza. Eppure diceva di amare la vita. E la famiglia che, stranamente, aveva rifiutato di incontrare il 28 aprile, qualche ora prima di compiere l’estremo gesto. Il medico legale intervenuto sul posto ha decretato che il decesso sia attribuibile a "suicidio per impiccagione". Il pm di turno non ha quindi reputato necessario procedere oltre ed ha provveduto a restituire la salma ai familiari che chiedendo giustizia non hanno celebrato i funerali. Hanno preferito aspettare tenendo con sé il corpo privo di vita del congiunto in attesa di ottenere il trasferimento agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria dove oggi pomeriggio verrà finalmente eseguita l’autopsia. La famiglia Morabito chiede giustizia. Per questo motivo ha già presentato formale istanza al fine di visionare gli atti che riguardano il proprio congiunti: relazioni della penitenziaria, relazioni degli assistenti sociali, immagini videosorveglianza dell’esterno della cella, la coperta usata per uccidersi. Emilio Quintieri dei Radicali che da anni si occupa delle questioni carcerarie, allertato dai genitori di Morabito, proprio il giorno del suicidio il 28 maggio avrebbe dovuto compiere una visita ispettiva per chiedere ragguaglia. La visita però è stata rinviata ed eseguita ieri. Quando ormai era già troppo tardi per intervenire. Sul caso indaga la Procura di Reggio Calabria, su rogatoria della Procura di Paola. Nessun iscritto nel registro degli indagati, ma solo una denuncia verso ignoti per istigazione al suicidio. Paola: caso Morabito, i Radicali visitano il carcere (di Emilio Enzo Quintieri) Ieri pomeriggio alle ore 15,00 presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria si terrà l’esame autoptico sul cadavere di Maurilio Pio Morabito, il 46enne reggino trovato impiccato alla finestra, la notte del 29 aprile 2016 intorno all’una circa, presso la Casa Circondariale di Paola, ove si trovava ristretto dal 1 aprile in espiazione di una condanna che avrebbe terminato il 30 giugno 2016. L’esame autoptico si è reso necessario dopo la denuncia effettuata dai familiari del Morabito, assistiti dagli Avvocati Giacomo Iaria e Corrado Politi del Foro di Reggio Calabria, ed è stato disposto dal Pubblico Ministero di Reggio Calabria Salvatore Faro, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, competente territorialmente, guidata dal Procuratore Bruno Giordano. Gli accertamenti tecnici non ripetibili, per conto dell’Ufficio di Procura, saranno condotti dal Medico Legale Mario Matarazzo. Anche la famiglia ha nominato un proprio consulente di parte che prenderà parte all’esame autoptico per stabilire le cause, le modalità ed eventualmente i mezzi che hanno determinato la morte del detenuto reggino. Al momento, per quanto è trapelato, si procede nei confronti di ignoti per il reato di istigazione al suicidio previsto e punito dall’Art. 580 del Codice Penale. Intanto, ieri mattina, la Direzione della Casa Circondariale di Paola, ha consegnato alla Magistratura, i filmati delle telecamere di sorveglianza presenti nell’Istituto che, contrariamente a quanto riferiva il detenuto ai propri congiunti, erano regolarmente attive e funzionanti. Nel pomeriggio, invece, una delegazione guidata dal radicale Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e composta da Valentina Moretti, Shyama Bokkory, Marco Calabretta e Lucia Coscarelli, giusta autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha effettuato una visita ispettiva nello stabilimento penitenziario - in cui sono presenti 182 detenuti - durata circa quattro ore. Sono stati visitati tutti gli spazi detentivi ivi compreso i reparti e le celle in cui è stato ubicato, durante la sua breve permanenza a Paola, il detenuto Maurilio Morabito. È stato accertato che la cella in cui il prevenuto è stato trovato cadavere dal personale di Polizia Penitenziaria è la numero 9 all’interno del Reparto di Isolamento posto al piano terra della struttura. Ed è una "cella liscia" cioè priva dell’arredo ministeriale (branda, materasso, sgabello, tavolino, etc.). Sono già 32 i decessi dei detenuti avvenuti nel 2016 nelle Carceri della Repubblica, 12 dei quali per suicidio, sostiene il radicale Quintieri. A Paola, in ogni caso, non ci sono stati suicidi da diversi anni ed anche quelli tentati e gli atti di autolesionismo sono pochi rispetto a tanti altri Istituti. Qualcuno aveva ipotizzato che il detenuto sarebbe stato ucciso ma io ritengo di escluderlo categoricamente poiché era isolato e quindi separato dal resto della popolazione detenuta. Nessuno a Paola, né tra la Polizia Penitenziaria né tra i detenuti, lo voleva morto! Quello che contesto però all’Amministrazione Penitenziaria, che ha l’obbligo giuridico di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, è quello di aver collocato il Morabito in isolamento e, peggio ancora, in una "cella liscia", pratica che ritengo illegale, e senza disporre la "sorveglianza a vista" dello stesso nonostante avesse già manifestato le proprie intenzioni suicide ed i propri disturbi psichici. Chi si occupa di carcere sa benissimo che il metodo più utilizzato per il suicidio è l’impiccamento, messo in atto durante l’isolamento, e durante periodi in cui il personale è più scarso o non è presente costantemente in un determinato reparto detentivo, come di notte ed il fine settimana. Molti suicidi avvengono nei momenti in cui i detenuti si trovano da soli e, tra questi, tanti mentre sono allocati nelle "celle lisce". Esiste una forte associazione tra suicidio dei detenuti e tipo di alloggio assegnato. Un detenuto posto in isolamento, o sottoposto a particolari regimi di detenzione (specialmente in cella liscia) è incapace di adattarvisi, è ad altissimo rischio di suicidio. Morabito aveva bisogno di essere rigorosamente sorvegliato ed assistito - continua l’esponente radicale Emilio Enzo Quintieri - ed invece è stato lasciato da solo in una cella, in condizioni al limite della tollerabilità. Il livello di osservazione avrebbe dovuto essere più rigoroso ed adeguato al grado di rischio che era ben noto all’Amministrazione Penitenziaria. Pare che al Morabito lo Specialista in Psichiatria in servizio nell’Istituto avesse prescritto la somministrazione di idonea terapia farmacologica che lui rifiutava di assumere avendo fondato timore di essere avvelenato. Anche da questo punto di vista, a mio avviso, si è operato con superficialità in quanto il detenuto avrebbe dovuto essere immediatamente trasferito in un Reparto di Osservazione Psichiatrica o in altra struttura sanitaria esterna per una migliore comprensione della situazione, la messa a punto di un trattamento psicofarmacologico adeguato ed una sorveglianza più intensificata finalizzata alla prevenzione del rischio suicidario. Pozzuoli (Na): sovraffollamento e sicurezza, i nodi del penitenziario femminile di Antonio Mattone Il Mattino, 6 maggio 2016 Dopo il pestaggio ai danni di Ramondo Caputo avvenuto nei giorni scorsi nel carcere di Poggioreale, questa volta è toccato alla sua compagna Marianna Fabozzi, essere aggredita nel penitenziario femminile di Pozzuoli da un gruppo di detenute. Stessa scena, stesso copione per un vero e proprio agguato pianificato con lucida ferocia mentre tornava nella propria cella, dopo aver incontrato la psicologa, un colloquio di prassi per chi varca l’ingresso di una prigione. Come è potuto accadere? Non era prevedibile che la presenza della mamma del piccolo Antonio avrebbe scatenato la rabbia giustizialista delle compagne di reclusione? Accusata di aver taciuto sulle violenze che avvenivano in quella casa, e con tutta una serie di nubi che si stanno addensando sulla tragica fine del figlio, Marianna Fabozzi era stata rinchiusa nella cella più piccola delle due che ospitano le persone accusate di reati sessuali, uno spazio ritagliato nella struttura, un po’ appartato, ma comunque adiacente al reparto che ospita le detenute comuni. Il carcere di Pozzuoli è l’unico istituto della Campania dove sono recluse esclusivamente donne. Dopo la guerra era l’unico manicomio criminale femminile esistente in Italia. Fu chiuso nel 1975 dopo la tragica morte di una internata, che si era data fuoco nel letto di contenzione per richiamare l’attenzione su di sé. Oggi ospita prevalentemente detenute comuni, eccetto quelle due stanze destinate alle autrici di reati a sfondo sessuale e l’articolazione psichiatrica, dove risiedono un piccolo gruppo di donne con problemi psichici che qui sono sotto osservazione. Attualmente vi soggiornano circa 165 detenute, a fronte di capienza regolamentare di 105 posti. Una percentuale di sovraffollamento molto elevata che complica la gestione della vita dell’istituto e rende più gravosi la sicurezza e il trattamento. Eppure il personale di polizia penitenziaria era stato debitamente allertato ed erano state prese tutte le precauzioni per evitare possibili contatti e aggressioni. Ma non sono bastate. A Pozzuoli tutte le detenute comuni godono del regime aperto, cioè circolano liberamente nella sezione per pranzare assieme e fare attività ricreative e culturali, la cosiddetta "socialità". Solo nelle ore notturne vengono rinchiuse nelle celle, che, in modo appropriato, nel regolamento penitenziario vengono definite stanze di pernottamento. Una misura che l’Amministrazione Penitenziaria ha intrapreso dopo la sentenza Torreggiani, con cui la Commissione Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante dei detenuti. Far prevalere l’aspetto riabilitativo della pena è lo sforzo dopo la condanna di Strasburgo. Tuttavia, la struttura neoborbonica di Pozzuoli non permette una divisione netta ed efficace degli spazi per garantire divisione e sicurezza tra chi è sottoposto a regime comune e chi è in regime di protezione. Le detenute protette, in alcune attività, sono divise dalle altre solo dalla presenza delle agenti che in questi anni hanno sempre garantito che non accadessero scontri. Durante la messa domenicale, per fare un esempio, separate in specifici settori, vanno poi a fare la comunione accompagnate o meglio scortate dalle poliziotte. Per ovviare a questa convivenza problematica, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stava studiando di trasferire il reparto protetto di Pozzuoli all’interno del carcere di Bellizzi Irpino, nella sezione che attualmente ospita i bambini che vivono in galera con le loro madri, destinati a loro volta nel nuovo complesso di Lauro. Il clamore della vicenda del parco Verde di Caivano ha fatto precipitare la situazione e anche in un penitenziario modello come quello della cittadina Flegrea, conosciuto ed apprezzato per la torrefazione di un ottimo caffè, per le sfilate di moda e i concerti e le cene all’aperto, la logica della caccia al mostro ha avuto il sopravvento. Sicuramente c’è stata qualche leggerezza in questa vicenda. Tuttavia oggi c’è bisogno di stabilire in fretta la verità e di fare giustizia. Ma anche di cercare di restituire, per quanto possibile, quella serenità e quell’infanzia rubata ai bambini di Caivano. Le galere sono lo specchio della società. Non si può risanare questa ferita comportandosi da giustizieri violenti. Fuori e dentro le carceri. Varese: visita delegazione del Consiglio regionale "il carcere deve uscire dal limbo" di Stefania Radman varesenews.it, 6 maggio 2016 Una soluzione per i Miogni è necessaria ormai, dopo 15 anni di parole: è questo il risultato a cui è arrivata la delegazione dei consiglieri regionali. Il problema del super sovraffollamento degli anni scorsi, perlomeno, non c’è più: ora ai carceri dei Miogni sono presenti 78 detenuti contro gli oltre 100 (sono arrivati anche a 150) degli anni passati. Ma una soluzione per la casa circondariale del comune di Varese è necessaria ormai, dopo 15 anni di parole: è questo il risultato a cui è arrivata la delegazione dei consiglieri regionali in visita al carcere di via Felicita Morandi, capitanata dal presidente del consiglio Regionale Raffaele Cattaneo, che ha visto come ospiti speciali anche il sindaco Attilio Fontana e il direttore generale dell’Assst Sette Laghi Callisto Bravi: con loro anche il Presidente della Commissione speciale Carceri, Fabio Fanetti, i consiglieri Michele Busi (Patto Civico) e Paola Macchi (M5S), e Paola Lattuada dell’Ats Insubria. "La nostra istituzione è interessata a conoscere le condizioni dei detenuti nelle carceri lombarde - ha detto il Presidente Cattaneo - Questi spazi non devono essere buchi neri, ma luoghi dove il fatto di scontare la giusta pena si accompagni a processi di formazione in vista del reinserimento. Il Consiglio regionale è molto attento a questi aspetti e lo ha dimostrato promuovendo presso Expo il musical dei detenuti di Opera. Quanto a Varese è urgente uscire dal limbo: il Ministero si pronunci in maniera definitiva sul futuro della struttura, in queste condizioni non si può andare avanti". "Le alternative sono due - ha spiegato il sindaco Fontana - Ristrutturare e magari ampliare, o rifare daccapo. Quest’ultima ipotesi, per motivi economici, sembra la meno probabile. Ma una ristrutturazione è doverosa e un ampliamento possibile". In particolare, l’ipotesi potrebbe essere il trasferimento della polizia giudiziaria nella sede della polizia locale, e l’utilizzo dei locali per la polizia Giudiziaria, ora all’interno del carcere, ad uso comune, come per esempio dei laboratori, presenti in molte carceri lombarde e mai avviati ai MIogni per mancanza di spazi. "La città merita una struttura moderna, adeguata, con spazi idonei alle attività di recupero - ha aggiunto il Presidente Fanetti - Impossibile pensare a Varese senza questa struttura, anche perché così facendo si metterebbe in discussione anche il Tribunale". La Commissione speciale del consiglio regionale porterà in Aula una Risoluzione con la quale si chiederà al Ministero Di Grazia e Giustizia di intervenire su questa struttura. Reggio Emilia: chiude l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario… ora chiuderli tutti dal Comitato StopOpg Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2016 La buona notizia della chiusura di Reggio Emilia, annunciata dal Commissario per il superamento degli Opg Franco Corleone, segue la chiusura di Secondigliano. Ora vanno chiusi gli Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa e Montelupo Fiorentino, dove restano meno di 80 persone internate. Ma c’è anche da smascherare l’operazione fatta a Castiglione delle Stiviere dove l’Opg ha solo cambiato targa diventando una mega Rems con oltre duecento internati, come denuncia lo stesso Corleone. A Reggio Emilia è però venuta alla luce la situazione, drammatica e finora sottovalutata, dei detenuti con sopravvenuta malattia mentale, che finora erano trasferiti dal carcere per finire rinchiusi in Opg, e per i quali invece devono essere garantite cure adeguate, che come sappiamo spesso nel carcere, come in Opg e nelle "istituzioni totali", non si è in grado di assicurare. Il Commissario Corleone insiste per accelerare la chiusura degli Opg supersiti e per monitorare il funzionamento delle Rems; e giustamente chiede un provvedimento per fermare gli ingressi nelle stesse di persone con misura di sicurezza provvisoria. Noi gli confermiamo la piena disponibilità a collaborare, e ribadiamo che a nostro avviso il Commissario debba procedere, prioritariamente e con la massima urgenza, per la presa in carico da parte dei servizi dei territori di appartenenza - e non necessariamente per un trasferimento nelle Rems - delle persone ancora internate negli Opg, così da chiuderli in via definitiva. E debba agire, nel rispetto del mandato ricevuto, soprattutto per garantire che le misure alternative alla detenzione, quindi anche alle Rems, siano la norma e non l’eccezione. Questo vuol dire investire decisamente sul potenziamento dei servizi socio sanitari e di salute mentale, per garantire che sia l’inclusione sociale la via maestra per assicurare cura e riabilitazione, e sempre diritti e dignità. Stefano Cecconi, Vito D’Anza, Giovanna Del Giudice, Denise Amerini, Patrizio Gonnella Pesaro: gli muore il padre, detenuto cerca d’impiccarsi e viene salvato da un agente Corriere Adriatico, 6 maggio 2016 "Un detenuto Italiano, ristretto nel penitenziario di Villa Fastiggi, ha tentato il suicidio nella prima mattinata del 3 maggio, appena ricevuta la triste notizia del decesso di un proprio congiunto. Provvidenziale l’intervento di un assistente capo della Polizia penitenziaria che ha sorpreso l’uomo intento a legare alla grata della finestra del bagno una corda rudimentale ricavata da effetti letterecci. Soccorso dal personale di polizia ed affidato alle cure dello psicologo, il detenuto ha beneficiato di un permesso necessità che gli ha consentito la partecipazione alle esequie del padre". Ne da notizia Claudio Tommasino, segretario provinciale del Sappe, che esprime "soddisfazione per la professionalità dimostrata dalla Polizia penitenziaria, attenta ad interpretare i segnali di criticità e prevenire i rischi di atti inconsulti che, tristi accadimenti come quello di un lutto in famiglia, possono ingenerare specie in soggetti appena associati in carcere". "Ogni anno", aggiunge Tommasino, "l’esperienza e la scrupolosità della Polizia penitenziaria cura il mal di vivere di migliaia di persone malgrado le note problematiche del sistema ed, in particolare, della carenza d’organico". Firenze: primo corso di formazione su carceri, architettura e diritti umani professionearchitetto.it, 6 maggio 2016 La Fondazione Michelucci e l’Ordine e la Fondazione degli architetti di Firenze danno vita a un corso di aggiornamento progettuale per gli architetti, il primo nel suo genere in Italia, dedicato alla rapporto tra progetto di architettura e carcere ma anche, più in generale, tra architettura e tutti i luoghi di emarginazione che creano ferite nel tessuto urbano delle città moderne. Dai campi rom, definiti impropriamente "nomadi", ai centri di accoglienza per migranti alle soluzioni abitative per profughi e rifugiati. La presentazione pubblica del progetto si è tenuta giovedì 14 aprile alla Palazzina Reale di Santa Maria Novella, sede degli architetti fiorentini, con l’incontro "Architettura e diritti umani" a cui hanno preso parte i rappresentanti della Fondazione Michelucci e degli architetti e, tra gli altri, il garante regionale dei diritti dei detenuti Franco Corleone. Un’iniziativa che trae spunto dall’esperienza di Giovanni Michelucci Ripensare le carceri attraverso l’architettura. Da zone d’ombra, fatte di strutture inadeguate spesso oltre i limiti della vivibilità, alla trasformazione in luoghi di inclusione relazionati con la città, grazie alla qualità del progetto. Fu lo spirito con cui l’architetto Giovanni Michelucci a metà degli anni ‘80 progettò il Giardino degli incontri all’interno del carcere fiorentino di Sollicciano, uno spazio di socialità con caratteristiche urbane dove i detenuti ricevono i parenti, che nacque per rendere più sottile la distanza tra il "dentro" e la città fuori. È questo lo spirito da cui tre spunto l’iniziativa della Fondazione Michelucci e dell’Ordine e della Fondazione degli architetti di Firenze. Tre lezioni e un workshop - Tre le lezioni in programma, che si svolgeranno tra maggio e la fine dell’anno in Palazzina Reale. Al termine del corso, si terrà un workshop progettuale che cercherà di trovare nel concreto risposte alle tematiche trattate, con riferimento specifico al territorio toscano e a quello di Firenze, e lo sguardo rivolto alle esperienze messe in atto nelle principali città europee. Un laboratorio pratico i cui risultati saranno messi a disposizione delle amministrazioni pubbliche. A maggio un incontro sull’architettura carceraria - Il primo corso si svolgerà nell’intera giornata di martedì 17 maggio e sarà dedicato al carcere. Tra i relatori vi saranno esperti del tema e progettisti sia esterni che interni all’amministrazione della Giustizia come l’architetto del Ministero Leonardo Scarcella o Cesare Burdese, esperto di architettura carceraria. I penitenziari italiani e le loro profonde criticità, come dimostra la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante dei detenuti, saranno solo il punto di partenza per una riflessione complessiva sulla riprogettazione di tutti gli spazi dell’esecuzione penale, come i luoghi per la semilibertà, le strutture a sicurezza attenuata per tossicodipendenti e quelle per le detenute con bambini piccoli, solo per fare qualche esempio. Temi cruciali, già al centro del tavolo ministeriale su "Architettura e carcere" convocato nella primavera 2015 dal Ministero della Giustizia a cui ha partecipato anche la Fondazione Michelucci. La Toscana, con le sue 18 strutture e circa 3.400 detenuti, si presenta come un caso studio di particolare interesse. In autunno altri due appuntamenti - In autunno si svolgeranno gli altri due corsi. Uno sarà focalizzato sulle soluzioni di accoglienza per i profughi e i rifugiati, con particolare attenzione ai modelli dell’accoglienza diffusa e una riflessione sui campi profughi e le strutture temporanee. L’altro sarà dedicato ai brani di "città informale", microcosmi irregolari insediati in territori di scarto o in aree industriali dismesse alla periferia delle città, spesso coincidenti con i campi della popolazione Rom, che interessano 40mila persone in Italia. Per l’incontro del 17 maggio la quota di iscrizione è di 87,84 euro (72 euro + Iva). Iscrizioni entro il 12 maggio. Info: fondazionearchitettifirenze.it. Agli architetti saranno riconosciuti 8 crediti formativi validi per l’aggiornamento obbligatorio. Appuntamento: martedì 17 maggio 2016 ore 9.00/13.00 - 14.00-18.00. Palazzina Reale, piazza Stazione n. 50, 50123 Firenze. Pisa: viaggio fotografico tra i detenuti dell’istituto Don Bosco Il Dubbio, 6 maggio 2016 Frammenti di vita quotidiana "al di là delle sbarre" dove la vita è un cono d’ombra, un mondo a parte dimenticato da dio e nascosto allo sguardo degli umani. Gli spazi angusti delle celle, la promiscuità degli ambienti comuni, il degrado di una struttura fatiscente, gli sguardi dolenti e stravolti dei prigionieri. Il viaggio fotografico patrocinato della Camera penale e dall’Ordine degli avvocati di Pisa nell’istituto Don Bosco ci racconta con crudezza l’esistenza reietta di detenuti e detenute. Gli scatti realizzati dalle bravissime Veronica Croccia e Francesca Fascione puntano i riflettori sulla solitudine e lo smarrimento di chi sta scontando la pena tra le mura di prigione laddove il cielo è un orizzonte cieco e la libertà; una solitudine fatta di piccoli gesti e di grandi attese, sospesa tra speranza e rassegnazione. Perché i prigionieri non sono sabbia sotto il tappeto. Come spiega Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, "il progetto ha lo scopo di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche della detenzione, purtroppo, ancora oggi, fraintese e sottovalutate, nonostante l’attenzione politica e mediatica degli ultimi anni dovuta all’emergenza del sovraffollamento. Parlare del carcere è scomodo e fastidioso: comunemente non si comprende perché le condizioni di detenzione debbano essere migliorate visto che è pensiero diffuso che chi si è macchiato di un reato debba solo soffrire al fine di espiare la propria colpa. Da sempre denunciamo le condizioni di degrado in cui versano le carceri italiane, lottando contro i pregiudizi, provando a superare il solo concetto retributivo della pena, a vantaggio della sua funzione special preventiva che si concretizza nella sua finalità rieducativa, in ossequio al principio sancito dall’art. 27 della Costituzione". Al progetto hanno collaborato le associazioni "Prometeo Onlus" di Pisa, "Controluce" di Pisa. Bologna: Cinevasioni; direttrice "difficile da organizzare, ma fa parte del nostro lavoro" di Laura Pasotti Redattore Sociale, 6 maggio 2016 A pochi giorni dall’apertura del primo Festival del cinema in carcere, Claudia Clementi parla dell’importanza di questa iniziativa. "Il cinema è parte del progetto trattamentale per tutte le persone che sono ospitate qui". In aumento le presenze in carcere (750), tanti i progetti di lavoro. "Questo festival è un’operazione importante, un motivo di orgoglio e anche di tanti pensieri". A parlare è Claudia Clementi, direttrice della Casa circondariale di Bologna e il festival di cui parla è ovviamente "Cinevasioni", il primo Festival del cinema in carcere che si terrà alla Dozza dal 9 al 14 maggio. "È la prima iniziativa del genere, ma a noi non interessa il primato vogliamo solo continuare a offrire possibilità ad ampio spettro a chi è ospitato qui - aggiunge - Il cinema fa parte del progetto trattamentale che cerchiamo di offrire loro". Il festival, infatti, è il momento conclusivo di un percorso iniziato a ottobre con il laboratorio "CiakinCarcere" che, ogni martedì, ha visto una ventina di detenuti confrontarsi con storia del cinema, film, documentari e critica. La prossima settimana quei detenuti si trasformeranno in giurati per la settimana del Festival. "Il corso e il festival sono alcuni degli interventi con cui cerchiamo di dare suggestioni alle persone che sono qui ospitate - spiega Clementi -, per suggerire loro prospettive di vita che fino a quel momento non hanno avuto, far intravvedere loro qualcosa che non hanno mai visto". È un’esperienza che funziona molto bene in campo artistico e il cinema non è la sola arte che i detenuti possono sperimentare, alla Dozza è presente anche un coro, un gruppo di teatro e i cineforum tenuti dai volontari in cui i film sono visti sul computer. "Ai detenuti viene tolta la libertà ma non tutto il resto - dice la direttrice - Il talento, la passione, i desideri sono qualcosa che nessun essere umano può togliere a un altro essere umano. E ci sono persone che non sapevano di poter essere attori o di poter cantare e hanno scoperto qui la loro vocazione". Tra i prossimi progetti c’è quello di realizzare un corso sui mestieri del cinema. Grande appassionata di cinema, "quelli in concorso al Festival li ho visti quasi tutti", Claudia Clementi sottolinea però come organizzare un festival in carcere non sia un’operazione semplice: far entrare centinaia di persone (sono circa 150 quelle che assisteranno alle proiezioni, tra detenuti, studenti e cittadini) e permettere ai detenuti di andare nella sala cinema senza fermare tutte le altre attività, "è complicatissimo - ammette Clementi - ma le sfide ci piacciono e abbiamo affrontato anche questa". Per far sì che il maggior numero di detenuti possa partecipare al festival (ci sono due proiezioni, una al mattino e una al pomeriggio e poi le conferenze stampa con registi, distributori, ecc.), la direzione ha stilato un calendario, "a ogni proiezione parteciperà una sezione del carcere ma sempre su base volontaria". I 12 film scelti sono tutti in lingua italiana e in carcere ci sono provenienze geografiche diverse, come ovviare a questa situazione? "Ci è venuto in mente che non abbiamo pensato ai sottotitoli - spiega la direttrice - Qui c’è una sorta di esperanto e le persone riescono a capirsi e comunicare nella loro quotidianità ma capire un film è una cosa diversa. Il cinema però ha una valenza universale, speriamo che le persone riescano a seguirli ugualmente". "Ognuno dovrebbe cercare di affrontare con coraggio la propria vita, ma io non mi sento coraggiosa in questo. Non faccio nulla di straordinario rispetto al mio lavoro". Claudia Clementi risponde così a chi le chiede se si sente "una direttrice coraggiosa" a portare un Festival del cinema dentro un carcere. "La Costituzione e l’Ordinamento italiano ci dicono che possiamo fare certe cose, sta a noi decidere come – aggiunge. La cultura è uno degli strumenti del trattamento, è uno strumento di lavoro che ognuno può interpretare in modo diverso. Questo festival è stato difficile da organizzare ed è anche rischioso ma fa parte del nostro lavoro". E risponde positivamente alla possibilità di esportare l’esperienza in altre carceri: "Il carcere non è mai uguale a se stesso - dice - Io credo non sia lontano dalla liquidità di cui parla Bauman perché ci sono tante variabili e la fotografia che possiamo scattare oggi sarebbe senz’altro diversa da quella di domani. In ogni carcere si organizzano cose diverse, quindi penso che possa essere replicabile". Oggi la Dozza accoglie circa 750 detenuti (circa 480 la capienza regolamentare). "Sono molti - ammette Clementi - Il trend è in risalita, anche a livello nazionale". Clementi parla poi di "miglioramento" rispetto al lavoro, in genere nota dolente delle carceri. "L’officina ‘Fare impresa in Dozzà e la sartoria ‘Gomito a gomitò vanno alla grande - dice - La prima si sta espandendo sia fisicamente che diversificando le attività, la seconda ha tantissimo lavoro". In più, dopo l’estate aprirà la serra "Semi di libertà" per la produzione di piante biologiche grazie alla collaborazione tra Comune, Università, Casa circondariale Dozza, Cefal, Centro Poggeschi, associazione Streccapugn e cooperativa sociale Pictor e, a breve, "apriremo un caseificio per produrre latticini - conclude Clementi - Noi possiamo assumere i detenuti per i lavori interni ma è importante che ci siano aziende esterne a sostenere attività come questa". Genova: a Marassi nasce il primo teatro in carcere di Laura Santini mentelocale.it, 6 maggio 2016 Il Teatro dell’Arca si trova dentro la Casa Circondariale. 200 posti per detenuti e cittadini. Dieci anni fa, il 5 maggio del 2006, il Teatro Necessario debuttava con Scatenati al Teatro Modena, il primo spettacolo del gruppo a cui partecipavano detenuti. Dopo nove spettacoli e tre anni di progettazione, costruzione, permessi e tenacia, oggi Teatro Necessario ha aperto ufficialmente le porte e alzato il sipario del Teatro dell’Arca, che si trova dentro la Casa Circondariale di Genova Marassi. Per l’occasione sul nuovo palcoscenico è andato in scena un nuovo spettacolo: Padiglione 40 - L’ordine imperfetto, liberamente tratto dal romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey - in cartellone al Teatro della Corte dall’11 al 15 maggio - interpretato dagli attori detenuti di Marassi e da Matteo Alfonso, Filippo Anania, Silvia Bargi, Francesca Pedrazzi e Carola Stagnaro. Il teatro è entrato nel carcere, ma soprattutto ha aperto un grande varco culturale e sociale tra dentro e fuori, con uno spazio che a Marassi sta tra il carcere e lo stadio. È commosso il direttore di scena Lino Mazzarella, detenuto. Schivo, altrettanto emozionato, Pino, che con altri detenuti ha costruito il teatro con le sue proprie mani, recuperando e valorizzando un’area in disuso all’interno del carcere su un progetto dell’architetto Vittorio Grattarola. Un’inaugurazione che è una vera e propria festa, marcata dal rituale taglio del nastro con benedizione, a cui hanno partecipato tutte le autorità della città accolte dalla nuova direttrice Maria Milano (già alla guida del carcere di Chiavari e Pontedecimo), salutate da Salvatore Mazzeo, ex-direttore di Marassi, e dalla vicedirettrice, Cristina Marré, entrambi fin dall’inizio (tre anni fa) al fianco di Mirella Cannata, Carlo Imparato, Sandro Baldacci e tutti i volontari e collaboratori di Teatro Necessario per la costruzione di questa realtà. Presenti tutti i teatri cittadini, tra cui Archivolto, Ortica, Tosse e Stabile, che nel tempo hanno collaborato o ospitato gli spettacoli della compagnia Scatenati. E poi i ragazzi delle scuole I.I.S. Vittorio Emanuele II-Ruffini e dell’Istituto Alberghiero Marco Polo e i tanti volontari che affiancano il lavoro di Teatro Necessario quotidianamente. Per l’evento sono arrivati in città anche Fabio Cavalli da Rebibbia, attore, autore e regista, da 15 anni al lavoro all’interno del carcere romano con la Compagnia G12 del reparto Alta Sicurezza, nonché ispiratore del film Cesare deve morire. "La vostra esperienza - ha affermato Cavalli - è all’avanguardia e mi auguro che possa essere opera guida per altre città. Sono reduce dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale a Roma, lo scorso aprile, in cui abbiamo siglato un protocollo di intesa con il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) per incrementare l’azione di recupero e intervento attraverso il teatro e la cultura. Dal 7 aprile 2016 il teatro di Rebibbia è in diretta con il mondo dopo il collegamento, in streaming con l’Università La Sapienza e i detenuti all’interno del carcere: una lunga ripresa realizzata in HD con un progetto che vuole sfruttare le nuove tecnologie e mezzi di comunicazione". Per il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, sul palco a fine spettacolo anche Vito Minoia, presidente, che ha annunciato la terza edizione del Festival Nazionale di Teatro e Carcere Destini Incrociati fissata al 14-16 ottobre 2016 e in scena proprio sul palcoscenico del Teatro dell’Arca a Genova. La ricorrenza dei dieci anni e l’apertura del teatro sono accompagnate da un altro traguardo di Teatro Necessario: la pubblicazione di un volume che ne ripercorre le produzioni e la storia: Scatenati. Dieci anni di teatro necessario in carcere. Una raccolta di interviste e episodi raccolti dalla penna della giornalista Eliana Quattrini e corredati da foto e locandine degli spettacoli prodotti per la casa editrice Il Canneto. Accanto a Matteo Alfonso, nei panni del protagonista di Padiglione 40, De Nicola detto Robin, o anche numero 728, gli attori-detenuti Norman Alberganti (van gogh), Francisco Formica (il generale), Massimo Gallo (martini), Giorgio Girotti (il marchese), Massimiliano Meola (valium), Elton Muhaj (bonsaj), Bruno Orlandini (il direttore del carcere), Tahir Tarik (l’uomo-ragno) tra gli altri, hanno ripercorso i vissuti dei pazienti-reclusi negli Opg (Ospedale Psichiartrico Giudiziario), strutture per detenuti affetti da turbe e patologie di natura psichiatrica, evoluzione dei manicomi criminali, di cui il reparto agitati di Aversa, Padiglione 40, appunto, rappresentò l’esempio peggiore, riconosciuto da tutti come l’anticamera dell’inferno per gli abusi e le violenze subite dai carcerati-pazienti. Gli Opg sono stati chiusi sulla carta nel 2011 anche se con ritardi e proroghe gli ultimi sono stati davvero serrati solo nel 2015 e rimpiazzati dalle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Sandro Baldacci, regista e co-autore dell’adattamento del testo di Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, afferma che "nessun altro testo avrebbe potuto rappresentare meglio questa occasione che racconta di un percorso di civiltà lanciato in Italia decenni fa con la legge Basaglia". Immobile. Tradizionalista. Conservatrice. Individualista. La Superba è anche capace di volitivi guizzi che non sorprenderanno chi la conosce nel profondo. Con l’avvio a breve del Life Festival e questa inaugurazione del Teatro dell’Arca, Genova potrebbe anche essere definita una brillante città all’avanguardia e mai pacificata rispetto ai grandi valori umani e temi dell’attualità: diritti civili, pacifismo, pari opportunità, rispetto della diversità, accoglienza, educazione alla legalità, beni comuni, cooperazione e azioni partecipative. Negli anni, altre iniziative hanno lavorato a creare un canale attivo di comunicazione e condivisione con il carcere e i detenuti, attraverso il lavoro di teatro sociale del Teatro dell’Ortica per esempio, o nel 2011 con il numero zero dell’iniziativa Uomini dentro mai proseguita. Una testarda e tenace anima percorre Genova, che seppur spremuta, zittita, messa spesso all’angolo non molla. Ovviamente una cosa è costruirle e salire sul carro delle buone idee, altra cosa è trasformare le buone idee e le buone pratiche in quotidiana cura così che ciò che di buono si è creato non resti episodio virtuoso. Ora che è nato, il Teatro dell’Arca ha bisogno del sostegno di tutta la città. Intanto sono già calendarizzati i prossimi appuntamenti al Teatro dell’Arca: il 20 maggio ci sarà il saggio di fine anno Mitico delle scuole Vittorio Emanuele II-Ruffini e Liceo Pertini. A seguire, l’attore e regista Jurji Ferrini sarà in sala per provare la sua nuova produzione goviana I maneggi per maritare una figlia al debutto al Festival di Borgio Verezzi, dove replicherà anche Padiglione 40. Quindi a ottobre, Destini incrociati. E poi? Un accordo con il Teatro Stabile di Genova per ospitare iniziative "ancora da mettere a fuoco"; la volontà di aprire lo spazio a gruppi e compagnie che ne faranno richiesta; proseguire i percorsi formativi e professionalizzanti svolti in collaborazione con Fuoriscena, azienda che si occupa di servizi tecnici per lo spettacolo dal 1997. Ilaria Cavo, assessora alla cultura della Regione, conferma l’entusiasmo personale per l’iniziativa e il sostegno istituzionale sia al teatro che ai corsi di formazione, invitando pubblicamente a partecipare al prossimo bando per l’inclusione sociale. Corruzione. Le ragioni sociali degli scandali di Tommaso Nencioni Il Manifesto, 6 maggio 2016 Le attuali vicende ricordano il post-Risorgimento, quando, esaurita la destra storica, dilagarono qualunquismo e moralismo. Non passa ormai giorno senza che l’intreccio perverso tra affarismo e partiti (a prescindere dai suoi connotati delittuosi o meno) invada le cronache politiche, facendo riemergere in continuazione i termini della questione morale. E gettando una maschera sinistra sul preteso "rinnovamento" con il quale il nuovo corso renziano avrebbe travolto un sistema palustre e anchilosato. Se attraverso gli scandali è possibile leggere in filigrana la "ragione sociale" delle nostre classi dirigenti, bisognerà spiegare cosa ci sia di veramente nuovo in questa selva di corruttela popolata da porporati, alti burocrati e capitalisti di periferia sempre liberisti a parole, ma all’atto pratico dediti a prosperare spolpando lo Stato delle sue risorse e ricambiando i favori con il ricorso massiccio e sistematico all’evasione fiscale. La novità sta semmai nell’assoluta assenza, nel corpo politico, degli anticorpi atti a frenare l’invadenza delle pretese dei gruppi affaristici. In questo panorama, al di là delle contrapposte retoriche (auto-assolutorie) delle "poche mele marce" e dei "politici tutti ladri", c’è di strutturale l’assoluta mancanza di rispondenza tra il corso degli eventi politici ed il conflitto sociale ed ideale. Nel Paese reale operano dinamiche profonde, che si svolgono però in parallelo, e non di concerto, con il sistema dei partiti. A tirare le fila è ormai un’oligarchia finanziaria del tutto disinteressata alle sorti della comunità - una classe cosmopolita che riempie da noi come altrove le pagine dei panama papers, e che pure possiede un potere di ricatto smisurato nei confronti dei governi, sotto la minaccia continua delle delocalizzazioni e del disinvestimento. Sul versante opposto dello spettro sociale, una maggioranza di lavoratori e subalterni anch’essa lontana da una politica disinteressata a dare risposta ai suoi bisogni ed aspirazioni. A metà del guado, se si esclude una minoranza nobilmente ma sterilmente iper-politicizzata, si assiste ad un affastellarsi attorno al Partito-della-nazione di un ceto medio ipertrofico che vede nella politica una via di sbocco diretta o indiretta alla propria insicurezza non solo materiale, ed un capitalismo nano, insofferente delle regole ma bisognoso delle regalie della comunità per rimanere a galla tramite il sistema degli appalti, in un mercato globale spietato e troppo competitivo. Di qui la necessità, affinché il sistema politico non venga travolto, di un Partito unico di governo che si occupi di strutturare una rete clientelare di consenso, con il sostegno plaudente dell’intero sistema mass-mediatico, e che realizzi per quanto può una cassa di compensazione tra miriadi di interessi particolari impegnati in una guerra di corsa. Se a questo sistema politico non si scorgono alternative di carattere globale, va da sé che solo due tipi di opposizione possano emergere: o il rifiuto della politica in quanto tale, o il cacicchismo locale che lotta furiosamente per strappare allo Stato quote di risorse, da gestire però ripetendo, del potere centrali, le modalità di operare e gli stilemi propagandistici. Una situazione che ha, nella storia patria, un poco entusiasmante precedente nell’epoca post-risorgimentale, quando, esaurita la "destra storica" la propria missione ed il proprio afflato ideale (a prescindere dai suoi sbocchi apertamente conservatori), l’Italia si trovò preda, secondo Lelio Basso "di uno scetticismo fondamentale verso la politica, i partiti e i governi, un’assenza di idealità e una tendenza a ricercare ciascuno per proprio conto il modo di "arrangiarsi", stato, d’animo che oggi si chiamerebbe qualunquista; in senso opposto un moralismo velleitario, non legato alla vita reale del paese e all’azione delle masse, ricusante come riprovevole compromesso ogni concreta possibilità politica; infine una retorica di grandezza che si esprimeva talora in un rivoluzionarismo massimalistico astratto e verboso, più spesso invece in sogni di romanità o in ambizioni imperiali assolutamente sproporzionate alle reali possibilità del paese". Tutto ciò mentre tra le classi subalterne e lo Stato si apriva una frattura incolmabile, e "lo Stato italiano in tal guisa veniva assumendo a poco a poco la figura di un sindacato di privilegiati, ciascuno preoccupato di tagliarsi la propria fetta di favori, di concessioni e di privilegi: precisamente l’opposto di quello che dev’essere uno Stato democratico". Nel primo dopoguerra intervenne il fascismo a tagliare in modo drastico il nodo di queste contraddizioni, ammantandole sotto una coltre di retorica, repressione e guerra. Furono la Resistenza e poi il lungo "spirito del 1945" a introdurre seri elementi di rottura in questa storia pluridecennale. Una rottura certo figlia della tempra morale delle élites che la promossero, ma anche, e soprattutto, dell’irruzione per la prima volta nella storia del Paese delle masse popolari, con il loro carico di ideali e di interessi materiali che esigevano soddisfazione. Oggi quella parentesi pare chiusa, né pare possibile riaprirla riprendendo con gli stessi canoni un discorso interrotto. Ma oggi come allora non vi è ristrutturazione possibile in senso democratico per il sistema politico senza un nuovo protagonismo nella lotta politica dei ceti spossessati dalla crisi. Nel protagonismo popolare sta il più prezioso antidoto alla definitiva deriva del sistema democratico; e da qui passa il vero rinnovamento. Negazionismo. La pena incerta per i carnefici che si atteggiano a vittime di Claudio Vercelli Il Manifesto, 6 maggio 2016 Il negazionismo costruisce una contro-narrazione per legittimare a posteriori lo sterminio degli ebrei. Sul tortuoso iter del disegno di legge in discussione al Senato, il cui testo definitivo dovrebbe essere approvato a giorni, che introduce la fattispecie penale del reato di negazionismo, è bene fare alcune considerazioni di merito e di metodo. La prima di esse è che tale percorso legislativo dovrebbe rispondere alla decisione, adottata dagli organismi dell’Unione Europea già nel 2008, di introdurre la negazione dello sterminio degli ebrei europei, così come di altri crimini internazionali di natura genocida, già definiti come tali dai processi di Norimberga e poi recepiti nello Statuto della Corte penale internazionale, tra le forme di razzismo da perseguire penalmente. Ciò tanto più dal momento in cui la negazione rinvii esplicitamente e consapevolmente alla volontà di incitare all’odio, diffamare le vittime, cancellare le violenze trascorse per legittimare quelle potenzialmente in divenire. Gli Stati membri dell’Unione dovrebbero quindi adeguare la loro legislazione nazionale a tale deliberazione. Dopo di che la preoccupazione da tempo sopravvenuta è che si ingeneri una sorta di eterogenesi dei risultati. Tra i rischi potenziali c’è quello di offrire a soggetti che praticano la menzogna come provocazione quotidiana un’impropria tribuna, dalla quale presentarsi come martiri della "libertà di opinione". A poco vale l’obiezione di merito che di opinioni non si tratti. Ciò che troppo spesso entra in gioco, quando si parla di negazionismo, infatti, non è l’indiscutibile diffamatorietà di certe affermazioni ma l’erronea percezione pubblica che esse, ancorché sgradevoli, debbano comunque avere diritto di espressione. Quel che sfugge a tale logica di senso comune è che gli antisemiti si presentano sempre con lo stigma della vittima, ribaltando i ruoli e presentandosi come "martiri" di un’idea. Tanto più meritevole di attenzione perché avversata dalle istituzioni. La ribalta pubblica di un processo, quindi, offrirebbe loro insperata visibilità. E i processi, soprattutto sul merito di ciò che sia opinione, ancorché ripugnante, oppure lesione intenzionale e razzista dei diritti di memoria e riconoscimento, potrebbero spostare pesantemente l’attenzione dal contenuto delle menzogne alla figura degli imputati. I quali, se ne può stare pressoché certi, saprebbero rivestire le casacche degli ingiustamente proscritti. Non di meno, il delegare alla magistratura il potere di definire ciò che, essendo stato detto in pubblico, costituisca o meno reato, potrebbe paradossalmente non riuscire nell’intento di contenere un fenomeno, quello negazionista, che si alimenta di continue evoluzioni virali, attraverso il complottismo e il cospirazionismo, la sua ibridazione con teorie e ideologie di falsa coscienza, di pseudo-liberazione e così via. Il negazionismo è non solo il negare l’evidenza di un fatto storico ma il costruirne una sorta di contro-narrazione, ad uso e consumo delle circostanze del momento. Peraltro l’attenzione riservata al giudizio degli storici, da parte dei parlamentari, durante le audizioni succedutesi nel tempo, parrebbe essere stata assai più di forma che non di sostanza, quasi a volere rivelare che l’adempimento alla richiesta formulata dall’Unione risponda essenzialmente alla mera logica di uniformarsi al dettato europeo e non ad un’effettiva azione di contrasto del fenomeno. Lo stesso impianto del testo legislativo rischia di risultare contraddittorio, soprattutto laddove la mediazione politica ha prodotto torsioni di significato. Si è rilevato che le norme contenutevi rischiano di punire chi nega un genocidio ma non nella stessa misura chi lo esalta. Più in generale, il timore condiviso è che l’evidenza dei fatti venga sancita come verità di Stato. In una democrazia i giudizi di fatto, e quindi quelli di valore che da essi derivano, non sono oggetto di curatela di una qualche pubblica amministrazione. Altrimenti il rischio è di sgretolarne la loro credibilità nel momento stesso in cui si dice di volerne tutelare il fondamento. Migranti. Renzi e Merkel: "L’Austria sbaglia". Poi applaudono la Turchia di Riccardo Chiari Il Manifesto, 6 maggio 2016 Tante belle parole nell’incontro romano fra la cancelliera tedesca e il presidente del consiglio, con slogan come "uniti contro i muri" e "Schengen non si tocca". Ma sui finanziamenti a un piano europeo si rinvia al Consiglio Ue di giugno. Critiche a Vienna per le minacce di chiudere il Brennero, lodi ad Ankara che, ben pagata, si tiene i migranti. Tante belle parole da Angela Merkel e Matteo Renzi, con slogan come "uniti contro i muri" e "Schengen non si tocca". Ma di soldi per i migranti si parla poco. E quando se ne parla, la cancelliera tedesca boccia l’idea italiana di mettere in cantiere gli eurobond. Sarebbe meglio, osserva Merkel, andare a prenderli dal bilancio Ue. Se ne riparlerà al Consiglio dell’Unione di giugno. Al presidente del consiglio, padrone di casa a palazzo Chigi, tocca fare buon viso a cattivo gioco: "A me interessa il risultato. Non importa se è con gli eurobond o no, l’importante è che il migration compact dia le risorse per aiutare l’Africa". Ma anche questa sarà un’impresa, a giudicare da quanto sta succedendo a Bruxelles, dove il "gruppo di Visegrad" (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) è sulle barricate contro le quote obbligatorie di rifugiati, e contro le multe per chi non le rispetta. Stringi stringi, i due primi ministri si trovano in sintonia sulla strategia di arginamento del flusso migratorio fuori dalla Fortezza Europa. A riprova, ecco Renzi: "Siamo impegnati perché l’accordo con la Turchia possa essere ulteriormente incoraggiato e implementato". Più chiaro di così. Pieno accordo fra Italia e Germania anche contro la minaccia - elettoralistica - di una chiusura delle frontiere austriache al Brennero: "Io farò il possibile perché non vengano chiusi - spiega la cancelliera - non possiamo chiudere i confini che non sono confini esterni". Mentre Renzi usa le parole del Salvini austriaco Strache ("Renzi e Merkel scafisti di Stato") come un judoka: "Chi ha visto le immagini dei bambini morti nelle stive delle navi sa che sentirsi dare degli scafisti è una frase vergognosa, che dovrebbe far riflettere le tante persone per bene in Austria". Duetto finale: "Germania e Italia convergono su un approccio all’immigrazione che sia carico di valori umani e di dignità, e in grado di offrire una proposta politica dell’Ue credibile e di lungo periodo". Intanto per i migranti c’è il containment in Turchia.