Lettera per "Ristretti", per continuare di Angelo Ferrarini (insegnante e scrittore) Ristretti Orizzonti, 5 maggio 2016 È un po’ di tempo che vado in carcere, due ore la settimana, meno l’estate e le vacanze, faccio i conti sono sette anni scolastici, ho incontrato un centinaio di persone detenute, alcune a fine pena altre con pene lunghe o ergastolo. Guidavo un corso di scrittura (diventato poi anche di lettura, ascolto…) nelle stanze della redazione di Ristretti Orizzonti. Ci sono finito perché da insegnante (parlo del 2002-3) ho partecipato qui al Carcere di Padova, in Auditorium, a un incontro con alcune persone detenute, inserite da Ornella Favero, fondatrice e direttrice della Rivista Ristretti Orizzonti, nella redazione. Era la grande idea divenuta stabile iniziativa, dell’incontro tra detenuti e scuole, tra carcere e studenti, dentro e fuori il carcere, seimila incontri all’anno, spesso nelle scuole stesse, con i detenuti in permesso temporaneo, iniziativa denominata "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere" di cui si parla nella rivista e nei notiziari di "Ristretti", e sulla rubrica lettere del "Mattino" di Padova, fino alle proposte sfociate in parlamento. E vanno avanti da quasi vent’anni. Lo scopo è quello di portare "fuori" il carcere, per dialogare con la società, al fine del reinserimento e della prevenzione, e di portare la società, nei suoi elementi giovani "dentro" il carcere, per vedere anche le condizioni e capire cosa significa "solo dieci anni di carcere" o "fine pena mai" e tutti assieme vedere di migliorare la situazione dei diritti e dei doveri e di applicare la Costituzione quando parla di rieducazione, intesa nel senso di reinserimento e risocializzazione. Le persone detenute che partecipano agli incontri e poi alla redazione della rivista sono diventate via via coscienti del male compiuto, raccontandolo ai ragazzi, i quali sono diventati più attenti alle regole e alle restrizioni che la società impone a chi non le rispetta, arrivando tutti a capire che carcere è una parola vuota e di comodo per tranquillizzare il cittadino, ma che ci sono anche forme alternative di pena, punizione, riparazione che risultano più efficaci anche per chi ha subito il reato. E qui si apre un altro capitolo, quello delle vittime, sia dirette, che indirette: si parla di famiglie che han subito il reato in forma diretta, dall’esecutore materiale, e di altre che han subito le conseguenze del carcere e delle pene dal congiunto. Ci sono di mezzo persone, vite, affetti, feriti, strappati, lacerati. "Ristretti" si è impegnato in questi anni a cucire, a sanare, per lo meno a cercare di capire e a far dialogare i versanti coinvolti. E lo ha fatto con i convegni periodici regolari costanti presso il Due Palazzi, rivolti alla società civile o a chi a volte fa informazione sommaria, insieme dunque alle associazioni dei giornalisti, ma anche di volontariato o di categorie che si occupano di reati e di giustizia. Portando dentro magistrati, scrittori, avvocati, psicologi e sociologi, amministratori e politici, rappresentanti dello stesso mondo carcerario a confronto con i detenuti stessi, che si sono espressi ascoltando e portando testimonianze e proposte. E sempre, tutto, viene rendicontato raccontato commentato sulla rivista e nella collana di libri, che rendono visibili le testimonianze e le riflessioni di detenuti, detenute, studenti, scrittori ecc. Tutto ciò non è stato fatto per diminuire la pena e coprire la responsabilità ma per prevenire nuovi reati e rendere la pena più efficace per tutti. Col tempo "Ristretti" è diventato anche un luogo di studio e di documentazione, diffondendo sul territorio nazionale informazione, notizie, documenti. Si capisce che questo insieme di iniziative si sostiene con il contributo volontario di tempo e di forze, con il sostegno finanziario di enti che credono ai progetti e anche con l’assunzione di personale che garantisce stabilità e durata. Ci sono tempi per le delibere e tempi per i bilanci, tempi che obbediscono anche a logiche di amministrazione e di scelte prioritarie. Non vorremmo, parlo a nome dei colleghi e interpreto la voce delle persone detenute che frequentano i corsi, che "Ristretti Orizzonti" dovesse interrompere o chiudere per le difficoltà che si riscontrano nel sostenere il cosiddetto "sociale". Unisco la mia voce di testimonianza e di sostegno affinché si cerchi di stabilire e osservare delle priorità, nella prevenzione dei disagi e nella cura dei delitti e loro conseguenze, partendo sempre dalla riflessione sulle richieste della Costituzione, per diritti e doveri tra uguali, su cui tornare a poter lavorare e a riflettere assieme. Il carcere non è il sotterraneo di casa, la stanza degli orrori da abbandonare, ma, come hanno scritto alcune persone detenute, una corsia sempre aperta, un ospedale sociale: non facciamolo diventare un cronicario da lasciare al suo destino. E se c’è una iniziativa collaudata non facciamola morire. Dà fastidio la voce di chi chiede rispetto? Spero di no. Grazie. I detenuti disabili, condannati due volte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2016 Seicento trentotto - secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap - sono i detenuti disabili ristretti negli istituti penitenziari italiani. Quella dei reclusi portatori di handicap è una tragedia nella tragedia, una vera e propria doppia pena, e lo denunciano le associazioni che tutti i giorni con loro si trovano ad operare. Barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, carenza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri. Quando hanno i requisiti per accedere alle misure alternative non sempre possono uscire dal carcere, perché fuori non ci sono strutture in grado di fornire loro la necessaria assistenza. A tutto questo va aggiunto il dato preoccupante che per i detenuti con disabilità fisica esistono sezioni attrezzate in 7 istituti, per una capienza complessiva di 32 posti. Tutti gli altri vivono in celle comuni, quindi non idonee. I problemi legati a questa tipologia di detenuti sono stati al centro dell’attenzione della corte europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia per ben quattro volte. L’ultima condanna risale al 2012. A fare causa fu Franco Scoppola, appellandosi all’ articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Lo Stato italiano fu condannato a risarcire l’ex detenuto per un importo di quasi dieci mila euro. Per far fronte a questi problemi, il Dap ha emanato una recente circolare (datata il 14 Marzo 2016) dove detta le linee guida. Una vera e propria sfida che consiste nel riformare ed adeguare tutti gli istituti penitenziari in maniera tale da far rispettare i sacrosanti diritti dei disabili. Diritti violati che, non di rado, si trasformano in tragedie sfiorate. Come quella di due anni fa denunciata dall’ex garante dei detenuti del Lazio. Raccontò di un detenuto che tentò il suicidio, in una cella del G11, piano terra di Rebibbia. A salvarlo fu la prontezza del suo compagno di cella, che si buttò per terra, sotto i suoi piedi e ne sostenne il peso, evitando che il cappio improvvisato consentisse l’esito finale del gesto. Il fatto è che il detenuto era una persona con disabilità, che viveva in sedia a rotelle. Non aveva esitato a gettarsi dalla carrozzina, un gesto non naturale e anche pericoloso, in uno slancio di umanità che di per sé ci interroga sulla realtà del carcere, sulla drammatica situazione nella quale queste persone si trovano a vivere. "Le celle e i servizi utilizzati non sono adeguati ? disse il Garante Angiolo Marroni ? per ospitare disabili. Mancano i supporti e capita spesso che i detenuti siano costretti a stare tutto il giorno in cella. Nel G 11 ci sono persone affette da patologie gravi, che avrebbero bisogno di ben altra attenzione". La Circolare - Nella Circolare del Dap a firma del capo Santi Consolo, viene spiegato che l’amministrazione penitenziaria svolge attività di diretta competenza "in tema di monitoraggi, di ordine e sicurezza, di osservazione e trattamento, di traduzioni e piantonamenti, di assegnazione ad istituti o sezioni adeguate e senza barriere architettoniche " e contribuisce all’accesso del disabile "ai servizi erogati da altre Amministrazioni - in materia di tutela della salute, di reinserimento sociale e lavorativo, di prestazioni per i ciechi, per i sordi o per i sordociechi o per gli invalidi civili - in linea con la legge 8.11.2000, n. 328, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi socio-sanitari. Gli ambienti - L’Amministrazione - viene spiegato sempre nella circolare - ha il compito di garantire ambienti adeguati alle limitazioni funzionali della persona nelle diverse forme e gradi che la disabilità può assumere: obesità, mancanza o forte riduzione del visus, limitazioni motorie e posturali. Pertanto - nel caso di realizzazione di nuove strutture penitenziarie ovvero di manutenzione e ammodernamento di quelle esistenti - i provveditorati regionali considereranno l’esigenza di eliminare le barriere architettoniche, prevedendo percorsi e varchi per gli spostamenti verticali e orizzontali, adeguatamente dimensionati e attrezzati per garantire l’accessibilità ai locali frequentati da detenuti e/o operatori disabili, nonché ambienti con servizi igienici dedicati e una camera di pernottamento adeguata per ogni circuito. Inoltre ? ordina sempre la circolare del Dap - ai detenuti disabili dovrà essere garantita, con la necessaria assistenza, la libera ed autonoma circolazione all’interno dell’istituto ivi compresa l’accessibilità ai locali destinati alle attività trattamentali. I trasferimenti - Il problema del trasferimento per mancanza di celle idonee nel carcere è reale. Molto spesso il detenuto disabile viene trasferito in un altro carcere che si trova lontano dai propri affetti e familiari. La circolare infatti spiega che qualora non siano disponibili ambienti appositamente attrezzati nell’istituto ove è presente il disabile, dovrà essere "verificata la presenza di luoghi idonei nell’ambito degli istituti penitenziari più vicini, al fine di non allontanare la persona dagli affetti e dai riferimenti territoriali". In ogni caso il Dap intima che, in ossequio al principio della territorialità della pena, si dovrà privilegiare l’istituto più prossimo alla residenza. I caregivers - Nel 2015 è stato avviato il primo progetto formativo "Caregivers" nel carcere di Bari. Ovvero un corso per dare le competenze ai detenuti di svolgere il ruolo di "badante" per i compagni di cella con problemi di disabilità fisica. Tale iniziativa formativa era nata per svolgere un cambio di cultura sanitaria che passa dalla mera risposta terapeutica alla presa in carico della persona. Per questo motivo la recente circolare del Dap ordina a tutti i provveditori regionali e alle direzioni penitenziarie di promuovere presso le regioni e le Asl l’organizzazione di corsi di caregivers in linea anche con le specifiche indicazioni sull’argomento fornite dal comitato di prevenzione della tortura a seguito dell’ultima visita effettuata in Italia. L’obiettivo è quello di formare tutti i detenuti lavoranti con competenze adeguate per lo svolgimento di interventi secondo il modello di "caregivers familiare", comprendente l’igiene della persona, l’aiuto nel movimento e la mobilità in relazione alla limitazione motoria, le modalità di relazione, l’alimentazione del paziente, le forme di allerta e di intervento per le emergenze. Le barriere - Ma rimane il problema della società esterna. Molti detenuti, a causa della loro disabilità, non possono usufruire la meritata pena alternativa. Nelle città non esistono strutture adeguate. Difficile trovare un’abitazione consona per il disabile ed è difficilissimo trovare un’occupazione nonostante le forme di lavoro protetto. Per questo motivo i disabili sono costretti ad espiare la loro pena dentro il carcere. Nella circolare del Dap non c’è nessun riferimento sulla necessità di sinergia tra carcere e territorio per quanto riguarda i detenuti con disabilità fisica. Anche per questo loro subiscono una doppia pena: sono costretti a subire anche le sbarre esterne. Carceri, Orlando: via a un Piano di intervento per prevenire i suicidi dei detenuti Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2016 Via a un piano per prevenire i suicidi in carcere. Il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre, ha sottolineato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, "è inquietante e intollerabile". Proprio per fare fronte a questo problema il ministro ha predisposto una direttiva che ha l’obiettivo di "innalzare il livello di attenzione, accentuando allo stesso tempo le misure che nei singoli istituti vengono già poste in essere per prevenire fenomeni di autolesionismo". Il Guardasigilli ha dunque avviato un Piano nazionale d’intervento per la prevenzione del suicidio e per il monitoraggio delle strategie adottate, attraverso la raccolta, l’elaborazione e la pubblicazione dei dati sul fenomeno e sulle esperienze condotte. Lo scorso anno nelle carceri italiane si sono verificati 43 suicidi, dal 2000 a oggi sono stati 899. Spesso sottovalutato il disagio psicologico e mentale - Fra gli elementi che maggiormente possono suscitare la tentazione suicidaria il Guardasigilli individua il rischio ambientale: da questo punto di vista, la sorveglianza o l’isolamento del detenuto che abbia tendenze suicide possono talvolta accentuarne il rischio. Spesso, poi, è sottovalutato il trattamento del disagio psicologico e mentale. Inoltre anche l’ambiente detentivo indifferenziato può costituire un fattore di rischio nella tendenza al suicidio. Un sistema maggiormente flessibile potrà essere in grado di attuare più efficaci forme di controllo e di conoscenza approfondita delle persone ristrette e di garantire la miglior comprensione e gestione delle situazioni di maggior disagio. Saranno adeguati gli spazi detentivi per i soggetti a rischio - Verranno fra l’altro sviluppate opportune misure di osservazione del detenuto, differenziate a seconda della fase trattamentale e con particolare attenzione ai soggetti tossico-alcool dipendenti. Saranno inoltre adeguati gli spazi detentivi destinati all’accoglienza dei soggetti a rischio, secondo criteri moderni e rispettosi della dignità della persona. Poi saranno organizzati programmi formativi specifici per tutti gli operatori, favorendo l’interazione anche con coloro che da esterni operano nell’Istituto. Il Dap predisporrà un Piano nazionale di intervento - Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria provvederà a predisporre un Piano nazionale d’intervento, tenendo conto anche della giurisprudenza della Cedu in materia e in linea con quanto elaborato dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2010, ripreso successivamente dalla Conferenza Unificata per i rapporti tra Stato-Regioni nel 2012 nelle sue "Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale". Il Garante dei detenuti Mauro Palma "le carceri non sono pensate per le donne" Ansa, 5 maggio 2016 Assurdo ragionare al "neutro", servirebbe un luogo di riflessione al Dap. "Il modello di detenzione, così come è concepito, contrasta con il femminile, al di là della condizione delle mamme con bambini. Si richiederebbe che il Dap avesse un ambito di riflessione specifico, non pensando in un assurdo neutro. È questo è uno spunto emerso anche durante gli Stati generali sull’esecuzione penale". Lo ha detto Maura Palma, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, alla presentazione in Senato del libro "Mamme dentro, figli di donne recluse: testimonianze, riflessioni e proposte" di Carla Forcolin, presidente dell’associazione La Gabianella. A margine dell’iniziativa, Palma ha quindi spiegato che in primo luogo c’è una questione pratica, "geografica: le detenute sono poche e se recluse nelle carceri femminili sono spesso lontane dalla famiglie, se nelle sezioni femminili di istituti maschili, sono vicine a casa ma in istituti pensati per gli uomini". Ma "in generale le donne stabiliscono un rapporto diverso con le regole, e spesso hanno cura l’una dell’altra. Per questo ci vorrebbe una riflessione sul punto di vista femminile. Anni fa c’era nel Dipartimento un ufficio legato alla detenzione femminile". Per quanto riguarda i bambini di donne detenute, secondo Palma "la previsione migliore è la casa famiglia protetta. Non si possono sacrificare i bambini per esigenze di sicurezza. Su questo c’è l’impegno del ministro Orlando molto più forte rispetto al passato". Un patto tra i partiti per riformare finalmente la giustizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 maggio 2016 Non avrei mai pensato, francamente, che nella vita mi potesse capitare di gridare "Viva Fanfani"! Per me Fanfani è stato sempre l’Amintore, quello del referendum contro il divorzio, l’antagonista di Moro nella Dc. Noi ragazzi di 40 anni fa lo consideravamo un reazionario (anche se non era vero). Roba vecchia, comunque. Ora stiamo parlando di Fanfani Giuseppe, nipotino dell’Amintore in quanto figlio del fratello, che si chiamava Ameglio ed era un insegnate di Anghiari. Giuseppe, avvocato, ieri ha avuto il coraggio (almeno fino a una certa ora della sera...) di alzare la voce e chiedere al Csm, del quale fa parte, di verificare se l’arresto del sindaco di Lodi sia o no legittimo. Gli sono saltati addosso l’Anm e i "togati" del Csm della corrente di Area, i quali ritengono che un sindaco si possa arrestare anche senza necessità (e dunque travalicando le norme del codice penale); però nessuno, proprio nessuno al mondo, neppure il Csm, abbia il diritto di sindacare sul comportamento di un magistrato. I togati della corrente di Area ritengono che un magistrato, in quanto magistrato, sia egli stesso la legge, e anche sia l’etica, la moralità e lo Stato, e chi osa discutere il suo comportamento è un fellone. E perciò, siccome le cose stanno così, questo Fanfani ha avuto un bel coraggio a sollevare la questione. Purtroppo il coraggio è durato fino alle sette della sera. Poi - probabilmente su consiglio di Renzi - Fanfani ha innestato la marcia indietro e ha precisato che al momento la richiesta di intervento del Csm è sospesa. Renzi ieri ha cercato di gettare acqua sul fuoco delle polemiche tra Pd e magistratura. Ha detto che non vede nessun complotto contro di lui. E mentre pronunciava queste parole pensava esattamente il contrario, e provava a immaginare un modo per fermare questo complotto o almeno per ridurre i danni. Non ci sono molti modi, ce n’è uno solo: una riforma della giustizia, che riporti il suo funzionamento nell’alveo della Costituzione e renda effettiva, ad esempio, l’applicazione di articoli fondamentali della Costituzione, come il 111, il 15, il 27 che attualmente sono lettera morta, violati ogni giorno dall’eccesso delle intercettazioni, dall’eccesso della carcerazione preventiva, dalla mancanza di garanzie per la difesa. La guerriglia di pezzetti di magistratura contro il Pd e il governo (anche ieri un paio di avvisi di garanzia) sono causati solo da questo: dalla volontà di impedire la riforma. Per fare la riforma bisogna che le forze politiche mettano da parte le loro divisioni e la tentazione di usare ciascuno contro l’altro le invasioni di campo dei Pm. Si uniscano e cerchino l’appoggio del mondo del diritto, compresa gran parte della magistratura che ha tutto l’interesse che il sistema giustizia torni alla normalità e allo spirito della Costituzione. P. S. Una cosa è certa: se il Fanfani del quale si parla oggi fosse stato Amintore, anziché Giuseppe, col piffero che avrebbe fatto marcia indietro! Verso il voto. Il tiro al bersaglio contro l’argine del premier di Massimo Franco Corriere della Sera, 5 maggio 2016 I rapporti tra Palazzo Chigi e la magistratura si stanno ulteriormente complicando. Dopo l’arresto controverso del sindaco Pd di Lodi, Matteo Renzi ha tracciato una trincea verbale ragionevole. "Chi dice che c’è un complotto" dei giudici "sbaglia"; "Chi strumentalizza contro di noi, dovrebbe guardare in casa propria": parole riferite soprattutto agli attacchi martellanti del Movimento 5 Stelle. Il problema è che la barriera del premier promette di essere messa a dura prova dalle iniziative prese in parallelo da esponenti del Pd al Csm e nel governo con un qualche avallo. La decisione di Giuseppe Fanfani, membro dem del Consiglio superiore della magistratura, di chiedere un’inchiesta sulle misure prese dalla Procura di Lodi, è stata bollata dall’Anm come "indebita interferenza"; e come la conferma di un Pd che oscilla tra rispetto per le inchieste, e insofferenza e sospetti verso il potere giudiziario. Poi c’è stata una mezza correzione di rotta di Fanfani, ma non aiuta la riunione di ieri al ministero della Giustizia tra i dem e un esponente del partito di Denis Verdini sulla prescrizione: in una sede di governo, dunque, non parlamentare. L’episodio ha rilanciato le polemiche sull’ingresso nella maggioranza della pattuglia di transfughi berlusconiani. Ma a rendere l’episodio imbarazzante è stata, in particolare, la smentita iniziale del capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, sulla presenza del verdiniano Ciro Falanga: presenza confermata invece dal senatore, pure del Pd, Luigi Casson. La confusione ha avuto il risultato di creare un alone opaco intorno alle trattative, forse perfino al di là del contenuto dell’intesa; e di offrire al M5S altra materia per attaccare Renzi anche nell’aula della Camera. È stato facile, per gli uomini di Beppe Grillo, ironizzare su un vertice "con gli uomini di un plurindagato e condannato per corruzione". Nella prosa del M5S, il vecchio patto del Nazareno naufragato tra Renzi e Silvio Berlusconi ora è diventato il "Patto dei Lazzaroni" tra il premier e Verdini. Partono accuse tutte da dimostrare contro il vicesegretario Lorenzo Guerini, che è di Lodi. E la voce di chi, come il presidente del Pd Matteo Orfini, ricorda che anche Grillo è un condannato, appare flebile. Viene sovrastata dall’eco delle inchieste che toccano il partito. È un tiro al bersaglio che sembra dimenticare le gravi responsabilità del sistema politico nel suo insieme. L’impressione è che Palazzo Chigi lo soffra più di quanto dicano le indagini: come se temesse sviluppi destinati a colpire più in alto. "Prima o poi cadrò, spero però di non cadere...", dice con autoironia il premier. E intanto guarda al referendum costituzionale dell’autunno. "A occhio, si voterà a metà ottobre", annuncia. Sa che dovrà lavorare molto per convincere quanti, come l’attore Roberto Benigni, sono inclini al "no". La legge e le toghe. Confusione dei ruoli fra procure e politici di Massimo Teodori Il Messaggero, 5 maggio 2016 Sempre più forte si ode il frastuono della contrapposizione tra la magistratura (o, piuttosto, tra una parte degli inquirenti) e la politica. Si moltiplicano gli episodi da cui traspare qualcosa di dissonante nella divisione dei poteri e nella tutela dei diritti del cittadino. Il caso più clamoroso è quello di Pier Camillo Davigo, secondo cui a paragone con tangentopoli degli anni 90 "i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi… e non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti". È sì vero che i magistrati non sono i soli a dar fuoco alle polveri, perché aumentano anche le reazioni grossolane di questo o quel politico contro l’intera casta dei magistrati senza alcuna distinzione, ma tutti dovrebbero contribuire a tenere basso il livello delle ostilità. Oggi è pericoloso procedere con generalizzazioni che non aiutano mai a capire quel che effettivamente accade. La questione centrale è distinguere, tra i politici, i corrotti dai non corrotti e, tra i magistrati, gli equanimi che seguono la legge dai giacobini che pretendono di mettere in riga la politica. Le dichiarazioni del dottor Davigo, gravi in quanto pronunciate dal presidente neoeletto dell’Associazione nazionale magistrati, potrebbero essere indicate come contraddittorie con l’art. 27 della Costituzione - "La responsabilità penale è personale" - e quindi scatenare una reazione senza fine. Non siamo in grado di dire se è in atto un disegno, implicito o semplicemente dovuto a una cultura distorta che ritiene i magistrati investiti del compito di verificare la correttezza del mandato politico, e non sappiamo neppure se gli ultimi interventi degli inquirenti - caso del ministro Guidi, caso del presidente Pd campano e caso del sindaco di Lodi - possano essere ricondotti a un progetto volto a delegittimare il governo Renzi. Certo è che nel caso si trattasse di un disegno con un fine diverso dalla repressione di specifici reati di singoli individui - e non vogliamo crederlo - saremmo su una china pericolosa per la democrazia liberale del nostro Paese. In questa confusione di ruoli, anche la "politica" ha la sua parte di responsabilità. Da qualche tempo, esponenti politici di tutti i colori, di fronte alle distorsioni amministrative ed elettorali, invocano come un mantra la "santa legalità" che dovrebbe essere affidata di volta in volta a magistrati esterni alla politica stessa o a commissioni speciali. Noi ci chiediamo che senso abbia demandare qualsiasi questione di presunta violazione della legge alla "Autorità contro la corruzione" presieduta da Raffaele Cantone, quasi fosse un superman in grado di ricondurre la cattiva politica sulla giusta strada. Per avere forza, le correzioni di rotta dovrebbero venire dall’interno e non dall’esterno della politica. E perché mai una commissione parlamentare antimafia, nata oltre mezzo secolo fa con altri scopi, ed ora presieduta da Rosy Bindi, dovrebbe avere l’ultima parola su chi può o non può candidarsi alle elezioni di ogni ordine? Ancora: molte amministrazioni locali pensano di salvare la faccia nominando, come a Roma, un "assessore alla legalità", quasi che la legalità fosse una questione separata e non già la sostanza della pubblica amministrazione. La mania di affidarsi a qualche magistrato dal buon nome ha ormai invaso tutti gli angoli della politica come dimostra il caso di una candidata al consiglio comunale di Roma espunta dalle liste perché querelata da coloro che erano stati accusati di infrangere la legge. Di fronte al Parlamento vi sono oggi due nodi relativi alla giustizia ed ai diritti dei cittadini. Non c’è dubbio che un male cronico del nostro sistema giudiziario è la decadenza di molti processi per la prescrizione dei termini. Si tratta, anche in questo caso, di denegata giustizia, ma il rimedio che si sente invocare dai populisti d’ogni risma è l’allungamento dei termini della prescrizione. Se così avvenisse, sarebbe un errore: l’istituto della prescrizione serve a tutelare i cittadini sulla ragionevole durata del processo. Come è stato ribadito dalle colonne di questo giornale da Carlo Nordio, il rimedio dovrebbe consistere nel far partire i termini della prescrizione non dal momento della commissione del reato, bensì da quando la persona è stata sottoposta a indagini. L’altro nodo da sciogliere riguarda la pubblicazione delle intercettazioni che dovrebbe essere affrontato senza dare spazio alle pruderie dei media interessati più alla giustizia spettacolare che non alla salvaguardia dell’immagine dei cittadini. Le intercettazione servono per dare impulso alle indagini e non già quale elemento di prova: ragione per cui non andrebbero inserite nei fascicoli giudiziari se non nel minimo indispensabili per dimostrare da dove ha preso avvio il procedimento giudiziario. Prescrizione, si parte dalla versione hard e si tratta con Verdini di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2016 Il Senato adotta il testo base sulla riforma penale col sì di Ncd. Bisogna avere presente il senatore Caliendo, per capire la scena. È in corso la seduta della commissione Giustizia di Palazzo Madama che deve adottare il testo base sulla riforma penale, con dentro la prescrizione. C’è trambusto, e ci sono molti cronisti in attesa. Arriva una pausa, Carlo Giovanardi esce e spiega: "Le avete sentite le urla? Erano di un senatore magistrato, Giacomo Caliendo: diceva che prima di votare un testo lo vuole leggere, caspita!". E invece, chiosa Giovanardi, "qui non ci sono tempi per fare i provvedimenti, solo per dare notizie alla stampa". Caliendo non ci sta. Il testo base è ufficialmente adottato, col voto dell’Ncd e un pizzico di fretta che sa di ansia da prestazione mediatica. Emendamenti da depositare entro il 25 maggio. Lui, l’esperto ex magistrato, napoletano e forzista, è uno pignolo preciso, minuzioso. E proprio non sopporta l’accelerazione un po’ scenografica che travolge i riti di Palazzo Madama. Nella giornata del grande impatto tellurico tra l’inchiesta di Lodi e la reazione del laico di area Pd del Csm Beppe Fanfani, deve necessariamente compiersi il passo avanti sulla prescrizione. Renzi lo dà per compiuto: "Sulla giustizia abbiamo fatto un numero di cose impressionante" comprese appunto "le norme più dure sulla prescrizione". Che il suo ministro dell’Interno, Alfano, definisce una "dilatazione all’infinito del processo penale: non si può andare contro la ragionevole durata prevista dalla Costituzione". Da ieri in effetti il testo che allunga a dismisura i termini di estinzione per alcuni reati di corruzione fa parte del ddl sulla riforma penale. Un unico maxi testo di 41 articoli, 4 dedicati alla scadenza dei processi. Restano immutate alcune pesanti modifiche approvate alla Camera: ad esempio, la previsione di 21 anni e 9 mesi come durata massima dei processi per corruzione propria. Un’iperbole. Che però Ncd accetta senza problemi, per ora. Come spiega Felice Casson, relatore del provvedimento, "il testo base è solo uno strumento tecnico". Vi si potrà derogare. E lo si farà. Perché quelle norme non sono condivise dall’Ncd. Se n’è avuta conferma qualche ora prima del voto in commissione, nella riunione celebrata al ministero della Giustizia insieme con il guardasigilli Orlando. Lì intervengono le diplomazie di democratici e alfaniani, con David Ermini e Renato Schifani in testa. Quest’ultimo ribadisce la posizione del Nuovo centrodestra: no alla prescrizione così com’è uscita da Montecitorio. Ma Casson e lo stesso ministro ricordano che da un testo si deve pur partire. I delegati del Pd parlano di un "successo". Lo stesso ministro, poco dopo, manifesterà la propria "soddisfazione per l’avvio dell’esame al Senato". Ma tutti i convenuti sanno bene che quei quattro articoli sulla prescrizione non resteranno immutati. "Il vero accordo arriverà in fase emendativa", spiega il capogruppo dell’Ncd, Schifani. Così la pensa anche Casson. Lo sa lo stesso ministro. E perciò la scelta di ieri ha soprattutto un valore di risposta politica del Pd all’accerchiamento giudiziario. C’è però un retropalco in questa rappresentazione, che spiega ancora meglio la scelta del testo Casson. Ed è nella partecipazione fantasma di un senatore verdiniano, Ciro Falanga, alla riunione mattutina al ministero. Falanga non è presente dall’inizio, entra solo ad accordi presi. Tornato a Palazzo Madama dirà ai cronisti: "Mi hanno lasciato fuori la porta". Casson, che è un magistrato spiritoso, lo sfotte. "Ma se eri vicino a me?". Basta a scatenare l’ordalia dei cinquestelle. Roberto Fico parla di "ingresso ufficiale di Ala in maggioranza". La sinistra Pd di "pecore affidate al lupo". Luigi Zanda sente il bisogno di giustificarsi: spiega che "si è fatto quanto deciso la settimana scorsa: coinvolgere questa componente sui provvedimenti in calendario, perciò abbiamo informato il senatore Falanga". Lui in realtà alla riunione si prende lo sfizio di dire che non è d’accordo sul testo base. Il che spiega perché lo si è adottato e Ncd ha pure votato sì in commissione: si fosse partiti da un articolato addolcito in tema di prescrizione, l’avrebbero chiamata riforma Verdini. La prescrizione riparte da capo di Beatrice Migliorini e Simona D’Alessio Italia Oggi, 5 maggio 2016 Ricorsi in Cassazione contingentati. Termini di prescrizione rivisti e corretti. Pene più severe per i reati contro il patrimonio. Queste alcune delle misure contenute nel testo base per la riforma del processo penale che ha visto la luce, ieri, in commissione giustizia al senato a seguito del deposito da parte dei relatori Felice Casson (Pd) e Giuseppe Cucca (Pd). Il testo è frutto dell’armonizzazione di due impianti normativi che, nei mesi precedenti, avevano ottenuto il via libera dalla camera. L’articolato, quindi, risulta composto da norme in materia di prescrizione, dalle disposizioni di modifica al codici penale e di procedura penale, con l’aggiunta di alcune norme in materia di intercettazioni, per un totale di 41 articoli le cui proposte di modifica in commissione giustizia dovranno essere presentate entro il 25 maggio prossimo. Fermo restando, quindi, il necessario cambio di numerazione degli articoli l’operazione si appresta a essere più di carattere formale che sostanziale, eccezion fatta per la prescrizione. Per stessa ammissione dei relatori, infatti, l’unificazione dei due testi, resa possibile soprattutto per la comunanza delle materie, si è resa necessaria per procedere con tempi più celeri rispetto all’esame di due impianti normativi differenti che, comunque, erano già stati frutto di una attenta analisi da parte dei componenti della seconda commissione di palazzo Madama. Per quanto riguarda la prescrizione, in particolare, l’attuale testo base prevede l’aumento della metà dei termini per i reati di corruzione, mentre il limite temporale in caso di delitti gravi contro i minorenni inizierà a decorrere dal compimento del diciottesimo anno di età della vittima, e non più come oggi dal quattordicesimo. Per quanto riguarda, invece, i ricorsi in Cassazione se saranno considerati inammissibili, le sanzioni pecuniarie aumenteranno, mentre saranno previste delle limitazioni specifiche per accedere all’ultimo grado di giudizio, in caso di patteggiamento. Le parti offese, inoltre, saranno più coinvolte nell’accertamento dei fatti su quello che hanno subito, dato che sei mesi dopo la denuncia avranno diritto di sapere a che punto è il procedimento che le riguarda. Il Consigliere del Pd nel Csm Fanfani: "Arresti facili". Anm: "Taci!". Renzi lo zittisce di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 maggio 2016 Bufera al Csm. Il consigliere Pd Giuseppe Fanfani ha alzato la voce e ha chiesto che il Consiglio si occupi dell’arresto del sindaco di Lodi (uomo vicino a Renzi) che a suo giudizio è un arresto ingiustificato. L’Anm e la corrente di "Area" del Csm subito sono insorte e hanno bollato la richiesta di Fanfani come una indebita interferenza. Passano poche ore e Fanfani fa marcia indietro. Il caso Lodi non scuote solo la politica. La polemica di giornata è tutta interna al Csm. Da una parte membri i togati, che fanno quadrato attorno ai colleghi lodigiani titolari dell’inchiesta che ha portato all’arresto del sindaco Simone Uggetti. Dall’altro un consigliere laico in quota Pd, Giuseppe Fanfani, che invece vorrebbe aprire una pratica per valutare eventuali condotte anomale dei magistrati di Lodi. "Non ho mai visto, in 40 e più anni di attività di penalista, incarcerare alcuno per un reato come la turbativa d’asta, soprattutto quando l’interesse dedotto è quello di una migliore gestione di una Piscina comunale", ha detto Fanfani, nipote del più celebre Amintore. Secondo il consigliere laico, la misura cautelare decisa dalle toghe lodigiane è del tutto fuori luogo, "frutto di una non equilibrata valutazione del caso. Per questo mi riservo di valutare gli atti che perverranno al Csm e di chiedere la apertura di una pratica per verificare la legittimità dei comportamenti tenuti e dei provvedimenti adottati nel caso di specie". Non bisogna aspettare molto tempo per vedere le reazioni dei magistrati. Un’ora dopo parlano i consiglieri togati di Area, la corrente di sinistra della magistratura che racchiude i rappresentati di Md e Movimento per la giustizia. "Riteniamo incomprensibili e istituzionalmente inaccettabili le dichiarazioni di un consigliere superiore a commento dell’iniziativa dell’autorità giudiziaria di Lodi", è l’inizio della nota diramata dalle toghe. Una sorta di dichiarazione di guerra, che prosegue: "La definizione di "arresto ingiustificato e comunque eccessivo" da parte del consigliere Fanfani, senza peraltro conoscere i contenuti dell’indagine e sulla base delle notizie di stampa, per di più adombrando possibili interventi dello stesso Csm, appare una indebita interferenza sull’autonomia e sulla serenità dei magistrati". Ma che le parole di Giuseppe Fanfani siano state poco prudenti non lo pensano solo i magistrati. Anche Renzato Balduzzi, ex ministro della Salute del governo Monti e attuale membro laico del Csm in quota Scelta civica, si dissocia dalle esternazioni del collega. "Non è compito del Csm, ed in particolare della sua prima commissione, prendere posizione su singoli provvedimenti giurisdizionali e tanto meno interferire con vicende giudiziarie in corso", specifica Balduzzi. Il premier, ovviamente, si guarda bene dall’interferire nelle discussioni che riguardano altre famiglie, altri poteri. E a chi gli chiede un parere risponde secco: "Il governo non commenta". Non si tira indietro, invece, l’Anm, il sindacato delle toghe all’interno del quale sono rappresentate tutte le correnti della magistratura, le stesse che poi esprimono i consiglieri da mandare al Csm. Nel tardo pomeriggio, l’Associazione guidata da Davigo fa sapere: "La Giunta esecutiva centrale dell’Anm ritiene che le dichiarazioni rese oggi dal membro laico del Csm, Giuseppe Fanfani, siano una indebita interferenza nel procedimento in corso presso gli uffici giudiziari di Lodi". Poche parole che però ottengono l’effetto desiderato. In serata, il consigliere laico Giuseppe Fanfani corregge il tiro: "Non chiederò, allo stato, l’apertura di una pratica al Csm, salvo nuove evenienze". Prescrizione, la Commissione adotta il testo base. M5s si astiene di Alberto D’Argenio La Repubblica, 5 maggio 2016 Vertice di maggioranza con Ala. Barani e Falanga negano la presenza all’incontro in Via Arenula. I grillini attaccano: "Ufficiale il loro appoggio al governo". Ma il centrodestra protesta: "Neanche il tempo di leggerlo". Alfano frena: "No al testo della Camera, troppi eccessi". La commissione Giustizia del Senato ha adottato come testo base il testo unificato presentato dai relatori Felice Casson e Giuseppe Cucca (Pd) su riforma del processo penale e prescrizione. Hanno votato a favore Pd, Ap-Ncd, Psi. Si sono astenuti M5S e Gruppo misto. Fi, Lega, Cor e Idea erano usciti dalla Commissione per protesta. Il verdiniano Ciro Falanga, che aveva preso parte oggi alla riunione di maggioranza sulla prescrizione, non ha votato: "Questo testo non ci piace e lavoreremo per migliorarlo". Il termine per gli emendamenti è fissato al 25 maggio alle 18. Alfano frena. Ma in serata il segretario dell’Ncd, Angelino Alfano, frena: "Noi - ha detto il laeder di Ap - non condividiamo il testo della Camera" sulla prescrizione "perché presenta molti eccessi. Siamo fermi al testo del Consiglio dei ministri, quello l’ho votato io, l’hanno votato tutti. Il testo della Camera non è quello della maggioranza di governo di cui facciamo parte". Per il leader di Ap "bisogna rendere conciliabile il principio del giusto processo, che vuol dire che deve avere una ragionevole durata con una prescrizione che noi siamo disponibili anche ad allungare ma che non può essere eterna. Noi siamo per allungare i termini della prescrizione ma l’eternità della prescrizione collide con il principio della ragionevole durata del processo. Spero che non ci sia battaglia e che si torni al testo del Consiglio dei ministri che era una riforma vera, senza eccessi e senza andare dietro a un giustizialismo esasperato". La protesta del centrodestra: "Neanche il tempo di leggerlo". Il testo unificato, come concordato nel vertice di maggioranza, si compone di 41 articoli, dei due ddl, il 2067 e il 1844, così come sono stati votati dalla Camera. Ma alla richiesta di votarli nell’immediato per adottarli come testo base, è scoppiata la polemica con il centrodestra, con i senatori di Fi, Cor e Lega: "È inaccettabile, non ci hanno dato neanche il tempo di leggere il testo", ha dichiarato un irritato Carlo Giovanardi. Così la Commissione Giustizia ha sospeso per mezz’ora i lavori, per permettere a tutti la lettura del testo depositato dai relatori. Ala nega presenza al vertice di maggioranza. Al vertice di maggioranza di questa mattina convocato dal gruppo parlamentare del Pd con il ministro della Giustizia Andrea Orlando c’erano anche i verdiniani. Ala per la prima volta partecipa a un vertice di maggioranza e per di più su un tema sensibile, come la giustizia. Il suo rappresentante era Ciro Falanga, capogruppo del partito in commissione giustizia al Senato. Ala ha smentito di avere preso parte all’incontro in Via Arenula, tramite il senatore Lucio Barani: "Questa mattina ho fatto colazione con Verdini e Falanga e nessuno di noi era alla riunione". Passa qualche minuto e Falanga torna a smentire la propria presenza: "Perché avremmo dovuto partecipare a una riunione di maggioranza se non ne facciamo formalmente parte?". Semplice, perché venerdì scorso nella riunione alla Camera tra Ala e il Pd, Verdini ha concordato che i suoi prenderanno parte ai vertici di maggioranza sui temi che poi dovranno essere votati in aula, dove gli ex berlusconiani contano un drappello di venti senatori, un gruppo in grado di soccorrere il governo sui provvedimenti più a rischio, specie quelli sui quali si verificano strappi tra renziani e minoranza del Pd. Presenza di Falanga confermata. E così interpellati al telefono, diversi protagonisti del vertice di questa mattina confermano la presenza di Falanga insieme ai capigruppo di maggioranza, Zanda e Schifani, al presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola, a Orlando, ai sottosegretari Federica Chiavaroli e Gennaro Migliore e ai relatori del ddl sulla riforma del processo penale Felice Casson e Giuseppe Cucca. Diversi di loro raccontano che Falanga è arrivato a riunione in corso e in virtù del "Patto di consultazione" stretto tra il Pd e Verdini la settimana scorsa è stato reso partecipe delle intenzioni della maggioranza sul ddl. Falanga - proseguono i racconti - ha ascoltato e ha dato l’ok a nome di Ala alle intenzioni di governo e maggioranza. Una presenza durata in tutto una manciata di minuti. Come peraltro conferma il capogruppo del Pd a Palazzo Madama Luigi Zanda: "In chiusura della riunione abbiamo informato il senatore Falanga degli orientamenti emersi nella riunione facendo seguito all’impegno di consultazione e informazione sui provvedimenti in calendario assunto nell’incontro alla Camera la scorsa settimana". Ala: "Falanga ha fatto confusione". Perché allora smentire la presenza da parte di Ala? Raggiunto al telefono, l’interessato non spiega il perché di tanta riservatezza su una presenza di Ala ormai sdoganata al fianco della maggioranza. E se gli si chiede esplicitamente della riunione si sottrae senza mezzi termini: "Ho molto da fare in questo momento, sono impegnato, sono in aula, tra poco devo intervenire". Dunque perché smentire la presenza in aula? L’impressione è che forse ad Ala una semplice "consultazione" sui provvedimenti non basti, vorrebbe incidere di più, essere dentro alla maggioranza. Ma dal partito danno una lettura meno politica, molto più semplice: "Falanga ha solo fatto confusione, prima ha fatto uscire la notizia e poi l’ha smentita, diciamo che è nella sua natura, è mediaticamente estroso". Cinquestelle all’attacco. Sia come sia, la notizia scatena la polemica. Certamente non farà piacere alla minoranza del Pd, ma intanto ad attaccare sono i grillini. Roberto Fico, esponente del direttorio M5S, afferma: "Oggi la maggioranza che sostiene il governo è ufficialmente cambiata con l’ingresso di Verdini. Di questo avevamo informato il Presidente della Repubblica che ne prese atto. Senza alcun tipo di vergogna continuano a trasformarsi per rimanere in sella al potere, ma non capiscono che così facendo prima o poi cadranno perché la gente non ne può più. Questo è un Parlamento di trasformisti. La nostra è l’unica forza che rimane coerente con il programma e con i nostri obiettivi". Le toghe di "Area": Renzi non tocchi le intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2016 Documento della corrente dei magistrati "di sinistra": "Limitatevi a recepire le circolari delle Procure". Sarà una battaglia dura, all’insegna dei reciproci sospetti. Il ddl sul processo penale all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio è una specie di scontro finale tra gli highlander del governo e della magistratura associata. Vi si giocano tutte le questioni più calde: non solo quella sulla prescrizione, ma anche i vari e apparentemente marginali interventi sulle impugnazioni (che potrebbero spiacere soprattutto all’avvocatura penale) e sui tempi delle indagini (che invece fanno incavolare i pm). E c’è soprattutto la delega sulle intercettazioni, terreno sul quale il conflitto tra maggioranza e toghe si svolge in campo aperto. È una specie di bomba. Il fatto stesso che una simile maxi riforma del processo possa un giorno vedere la luce, sarebbe una specie di miracolo. La quantità di temi in gioco è talmente ampia che le posizioni dei partiti e della magistratura associata sono quasi mai misurate nei toni. Se non si arriva all’insulto, la regola è la battuta ai limiti della provocazione. Vale per tutti. E il meccanismo si spiega anche con il timore, assai diffuso all’interno della magistratura, che eventuali inasprimenti sulla prescrizione possano essere compensati con interventi limitativi sulle intercettazioni. In uno scenario da scambi proibiti. Questo si pensa in un’ampia parte dell’associazionismo togato. Ed è con questo spirito che si spiegano i toni molto duri di un documento diffuso nei giorni scorsi da "Area", il coordinamento che riunisce due correnti della magistratura: Md e Movimenti. Si tratta di un punto di partenza "per un confronto con le altre componenti". E però non è un testo aperto alla mediazione, soprattutto nei confronti della politica. La conclusione è che sulle intercettazioni, il "legislatore" dovrebbe "limitarsi a recepire le indicazioni contenute nelle circolari di alcune Procure della Repubblica". Si tratta delle direttive impartite da Pignatone, Spataro, Colangerlo e Creazzo ai loro sostituti. Il Senato dovrebbe al massimo tradurre in legge quelle circolari, dicono in sostanza i vertici di "Area". E nel frattempo è auspicabile che il Csm, tanto per delimitare ancora meglio il perimetro, "approvi e valorizzi le linee guida sino ad ora adottate agevolandone la diffusione sul territorio nazionale, anche mediate normazione secondaria". Insomma, la riforma dovrebbe farla il Consiglio superiore della magistratura, il Parlamento dovrebbe limitarsi a recepirla. Ragionamento che arriva al termine di una specie di avvelenata gucciniana contro Renzi e la sua pretesa di prendersela con i pm piuttosto che con i corrotti. Cose del tipo "la barbarie che allarma il presidente del Consiglio non è la collusione tra crimine organizzato e amministratori pubblici, ma sono i magistrati e le loro indagini". Certo, le intercettazioni sono "uno strumento particolarmente invasivo". Ma è come certi esami medici dolorosi: vanno fatti e basta. E poi, si legge nel documento "ci piacerebbe discuterne quando una indagine penale disvela indebitamente le abitudini sessuali di un terrorista, di un mafioso o di un trafficante di droga, piuttosto che le debolezze private di un ministro". Della serie: cari politici, prima di parlare fareste bene a darvi un’occhiata allo specchio. Intercettazioni. Il cavallo di Troia dei diritti e delle garanzie camerepenali.it, 5 maggio 2016 Spira un’aria di giustizialismo ispirata e alimentata da vari settori della magistratura, dalla quale si sperava che la Suprema Corte potesse restare non contaminata. Le Sezioni Unite con la decisione n. 15 del 28 aprile 2016 hanno risposto positivamente alla questione "se - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa - sia consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l’installazione di un "captatore informatico" in dispositivi elettronici portatili", come ad es. personal computer, tablet, smartphone, ecc. allargando a dismisura ed in maniera davvero pericolosa gli ambiti di utilizzazione di simili strumenti di captazione intrusivi, ubiqui ed onnivori, la cui pratica non può non richiamare alla mente gli angoscianti scenari orwelliani di una collettività sottoposta ad un controllo tecnologico divoratore di ogni garanzia. Innescata dall’ordinanza Cass. sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13884, in dissenso con una decisione della stessa VI sez. 26 maggio 2015 n. 27100, la questione - così come emerge dall’informazione provvisoria della Suprema Corte - è stata risolta affermando la legittimità di tali strumenti captativi, non solo con riferimento a procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica (a norma dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991), intendendosi per tali quelli elencati nell’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p., ma anche a tutti i procedimenti comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con la sola esclusione del mero concorso di persone nel reato. Tale soluzione contiene almeno due profili di criticità: da un lato, nei confronti di ciò che la indicazione provvisoria afferma implicitamente, dall’altro nei confronti di quanto esplicitamente sostiene. Sotto il primo profilo, si arguisce che secondo i giudici della Corte Suprema, l’uso del Trojan è legittimo, sotto un profilo operativo, in termini generali. Non essendo possibile, stante la sua diffusività limitarne gli ambiti e gli spazi, si tratterà di verificarne a posteriori se siano stati violati gli ambiti oggettivi e soggettivi legislativamente preclusi. In altri termini, invece di intervenire a garanzia dei diritti in via prioritaria, si consente un’applicazione ed un utilizzo indiscriminato dello strumento, salvo verificare successivamente se l’attività di captazione si è svolta in modo adeguato. È facile prevedere - basti pensare al tema delle misure cautelari - quali conseguenze, quali ricadute negative potrebbe avere e quali conseguenze ciò determini, anche a non considerare il condizionamento di quanto appreso e ritenuto - ex post - frutto di attività illegale. La logica è ancora quella del male captum, della attribuzione di una logica onnivora alla funzione cognitiva. Sotto il secondo profilo, confermando la sua vocazione alla creazione del diritto, il Supremo Collegio allarga in maniera pericolosa il concetto di reato di criminalità organizzata e terroristica di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater ad ambiti a questa configurazione estranei. Infatti, la disciplina derogatoria dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991 fa esclusivo riferimento ai delitti di "criminalità organizzata". Una espressione evidentemente assai ambigua i cui confini si sarebbero dovuti ricondurre nei confini della tipicità e che, al contrario, la stessa massima provvisoria contribuisce ad allargare in maniera indistinta, aggiungendo, alle richiamate indicazioni codicistiche, l’espressione "nonché comunque riferito ai reati associativi". Si coglie l’eco di alcune vicende giudiziarie in itinere ed il rischio di interpretazioni assai elastiche del concetto, ove si consideri che la qualificazione del fatto, suscettibile di sostanziare la richiesta al giudice e la sua "costruzione" in termini di "organizzazione" è posta in capo al p.m. (che non trasmette al giudice il fascicolo delle indagini espletate e di quelle in corso). Dunque è agevole sostenere che la decisione della Corte di Cassazione dischiude uno scenario di latitudine senza limiti. Va, altresì, considerata la mancanza di previsioni sanzionatorie per quanto captato nelle ipotesi di un esito processuale che smentisca la ricostruzione di una Procura. Porre l’efficienza dello strumento investigativo al centro del ragionamento, piegando alla sua micidiale invasività l’intero sistema processuale, significa non solo dimenticare i valori della Costituzione, ma tradirne il significato più alto, in virtù del quale al centro stanno i diritti e le garanzie e ad essi vanno parametrati i limiti e le modalità di utilizzo degli strumenti dell’investigazione. Spira un’aria di giustizialismo ispirata e alimentata da vari settori della magistratura, dalla quale si sperava che la Suprema Corte potesse restare non contaminata. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Cosimo Maria Ferri: come riformeremo i Codici penale e di procedura penale intervista di Anna Maria Ciuffa Specchio Economico, 5 maggio 2016 Il Governo punta molto sulla legge, in corso di approvazione, di riforma del Codice penale e di procedura penale, con la quale si vuole garantire al cittadino un sistema giudiziario rapido, certo ed efficace, in grado di tutelare la legalità, contrastare i fenomeni criminosi e rispondere alle esigenze di buon funzionamento del sistema processuale. Con questo provvedimento, afferma il sottosegretario di Stato alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, "intendiamo introdurre un ampio spettro di modifiche finalizzate alla ragionevole durata del processo senza pregiudizio per le garanzie difensive, alcuni inasprimenti di pena per reati contro il patrimonio quali il furto in abitazione, il furto aggravato e la rapina ed attuare un contrasto ancora più deciso al reato di scambio elettorale politico-mafioso. Il dibattito in Commissione Giustizia al Senato sta proseguendo serrato in vista dell’unificazione del testo originario con il disegno di legge di modifica al Codice penale in materia di prescrizione del reato in modo da completare il quadro riformatore con una revisione organica della disciplina di quest’altro delicato settore. Si intende raggiungere un punto di equilibrio idoneo a conciliare l’esercizio della pretesa punitiva dello Stato anche per i reati di difficile accertamento, come la corruzione, con il diritto dell’imputato a che il processo si concluda in tempi ragionevoli". Domanda. Quali sono gli obiettivi del disegno di legge approvato dalla Camera ed attualmente in discussione al Senato? Risposta. Il disegno si muove su tre direttrici diverse: rendere più efficace il contrasto dei fenomeni di alcuni reati che generano un forte allarme sociale; migliorare l’efficienza del processo nel rispetto delle garanzie difensive; riorganizzare importanti settori del sistema penale, tra cui sottolineo l’ordinamento penitenziario del quale l’impianto normativo va adeguato alle esigenze educative dei detenuti, nell’ottica della risocializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona. Si tratta di obiettivi molto impegnativi che, ad oggi, costituiscono una vera e propria necessità: i cittadini chiedono sempre più sicurezza, efficienza, tutela dei propri diritti. D. Cosa ci dice a proposito della riforma delle intercettazioni, che sembra catalizzare il dibattito pubblico sul disegno di legge di riforma? R. Le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per il fruttuoso svolgimento delle indagini che quotidianamente conducono ad importanti risultati nel contrasto alla criminalità organizzata: per questo, il disegno di legge di riforma del processo penale prevede un principio di delega teso a semplificarne l’impiego nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Occorre, al tempo stesso, introdurre disposizioni dirette a garantire la riservatezza delle comunicazioni e conversazioni intercettate nel rispetto del diritto riconosciuto a tutti i cittadini dall’articolo 15 della Costituzione. È pertanto necessario bilanciare le esigenze dell’amministrazione della giustizia con gli altri interessi coinvolti. Le direttive date dai procuratori della Repubblica di alcuni dei più importanti uffici requirenti costituiscono un’ottima base di partenza per trovare, in relazione alle varie fasi del procedimento, un serio punto di equilibrio tra le necessità investigative, la libertà di informazione sui fatti penalmente rilevanti e la tutela dei diritti dei soggetti estranei alla vicenda processuale. D. Per quanto riguarda il rafforzamento delle misure di contrasto alle attività criminali quali reati sono oggetto di attenzione nel disegno di legge? R. Il progetto di legge si concentra su alcuni reati particolarmente sentiti a livello sociale quali il furto in abitazione, il furto e la rapina semplice e aggravata; anche il voto di scambio è oggetto di intervento. Mi lasci dire una parola in più su quest’ultimo reato. È opportuno ricordare che già nel corso di questa legislatura la legge n. 62 del 2014 ha modificato il delitto di scambio elettorale politico-mafioso intervenendo sia sul versante della condotta incriminata (accettazione della promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416 bis cp) sia su quello della pena edittale, riducendola. Progressivamente ci si è resi conto della necessità di ampliare il perimetro applicativo della norma essendo emersa l’esigenza di intensificare la risposta sanzionatoria. Per tale ragione, con questo disegno di legge si prevede un innalzamento delle pene per un reato tanto insidioso, passando dalla conformazione attuale che prevede la reclusione da 4 a 10 anni, alla soglia ben più elevata da 6 a 12 anni. D. Che tipo di intervento è stato previsto nel progetto di riforma per rafforzare il contrasto ai reati che destano maggiore allarme sociale? R. Si è agito sull’aggravamento del trattamento sanzionatorio a scopo deterrente ed anche per fornire al giudice, nel suo libero convincimento, un elemento in più per rendere la pena maggiormente adeguata alla gravità del caso singolo. Sono state così elevate sensibilmente le pene minime per alcuni reati. Nello specifico, per il furto in abitazione il minimo edittale aumenta da 1 a 3 anni; per le ipotesi aggravate il minimo della pena aumenta da 1 a 2 anni. Parimenti, per la rapina semplice il minimo edittale è stato aumentato da 3 a 4 anni; per la rapina aggravata della pena minima si prevede l’aumento da 4 anni e sei mesi a 5 anni. D. Quali interventi sono stati predisposti per migliorare l’efficienza del processo penale? R. Si è intervenuti in molti settori e in particolare si è previsto, nei reati procedibili a querela, la possibilità di riparazione del danno da parte dell’imputato cui segue l’estinzione del reato; si sono inoltre modificate le disposizioni che regolano il giudizio abbreviato, la proposizione del ricorso in Cassazione e i termini entro cui il pubblico ministero può decidere se avviare l’azione penale o richiedere l’archiviazione. D. In che modo si è intervenuti sull’attività del pubblico ministero in sede di avvio dell’azione penale? R. Il disegno di legge prevede che il PM è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini. Se a seguito della scadenza dei tre mesi il pubblico ministero non ha esercitato l’azione, ovvero richiesto l’archiviazione, il procuratore generale presso la Corte di Appello dovrà disporre l’avocazione delle indagini. Non si tratta, però, di un criterio astratto poiché il suddetto termine può essere prorogato per non più di 3 mesi ed è di 12 mesi per i reati più gravi tra cui quelli di criminalità organizzata e di terrorismo. D. Il disegno di legge prevede novità anche per quanto concerne la tutela della persona offesa dal reato? R. Sì, il disegno di legge ha previsto che, senza pregiudizio per il segreto investigativo, decorsi sei mesi dalla data di presentazione della denuncia o della querela, la persona offesa dal reato può chiedere di essere informata sullo stato del procedimento. Appare evidente come l’intento principale sia stato quello di coniugare la tutela del segreto investigativo con la imprescindibile esigenza di una informazione piena, completa e tempestiva, per la persona offesa dal reato. Ciò si pone in sintonia con la particolare attenzione che si sta riservando all’adeguamento dell’ordinamento processuale italiano alla tutela delle vittime dei reati: a tale proposito, con il decreto legislativo n. 212 del 2015 è stata data attuazione alla direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. D. Il progetto di legge prevede la riparazione da parte dell’imputato del danno causato dal reato: come funzionerà questo strumento? R. In primo luogo mi lasci ribadire che il meccanismo della riparazione opera solo per i reati perseguibili a querela soggetta a remissione, ovvero quelli che, nella maggior parte dei casi, destano minore allarme sociale. Il disegno di legge in esame prevede che il giudice possa dichiarare estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, se l’imputato ha riparato interamente il danno con le restituzioni o il risarcimento, provvedendo ad eliminare, dunque, tutte le conseguenze della condotta illecita. Si tratta di un passaggio importante nel quadro della giustizia riparativa, che al di là della repressione è volta a consentire il superamento della lacerazione sociale prodotta dal crimine. La riparazione deve realizzarsi nel termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado: in questo modo si prevengono comportamenti dilatori che possano entrare in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. D. Nel disegno di legge vi sono degli interventi sulle norme che regolano il giudizio abbreviato: in cosa consistono? R. In esso gli interventi sul giudizio abbreviato sono stati diversi ed articolati, tutti legati da un unico filo conduttore: deflazionare il dibattimento e rendere più rapida la celebrazione del processo penale. In vista di tale obiettivo, ad esempio, è stato previsto uno sconto di pena più consistente - pari alla metà - se il giudizio abbreviato è richiesto in relazione ad un processo per contravvenzione mentre è rimasta ferma la misura dello sconto di pena già previsto per i delitti. D. Quali interventi sono previsti sulle norme che disciplinano il ricorso in Corte di Cassazione? R. Gli interventi sulle norme per il ricorso in Corte di Cassazione sono mirati a ridurre il numero dei ricorsi in alcune ipotesi in cui questo strumento non appare necessario. Mi lasci sottolineare che le disposizioni in parola, che pur hanno l’effetto di deflazionare il contenzioso e di recuperare tendenzialmente il ruolo nomofilattico della Suprema Corte, rispettano pienamente i diritti degli imputati e sono in maggior parte rivolti a favorire il rapido svolgimento del processo. In particolare, il disegno di legge prevede che se il giudice di appello pronuncia sentenza di conferma di quella di proscioglimento emessa in primo grado, il ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di legge. Questa disposizione è il frutto del recepimento della proposta sui limiti al ricorso per Cassazione in caso di "doppia conforme", che fu formulata dalla Commissione per la riforma del processo penale presieduta dal presidente Canzio. Ulteriori interventi volti a rendere più rapido il processo penale riguardano l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere che viene attribuita alla competenza della Corte di Appello e non più alla Corte di Cassazione, e l’introduzione del concordato sui motivi di appello. D. In che cosa consiste il concordato sui motivi di appello? R. Il disegno di legge reintroduce nel codice di procedura penale il cosiddetto concordato sui motivi in appello. Si tratta di una disposizione pensata per abbreviare i tempi processuali che consente alle parti di concludere un accordo sull’accoglimento, anche parziale, dei motivi d’appello, da sottoporre al giudice. Se l’accordo comporta una rideterminazione della pena, essa dovrà essere concordata tra il pubblico ministero e l’imputato e sottoposta al giudice. Si tratta di un meccanismo evidentemente teso alla semplificazione del rito ed ispirato ad una logica collaborativa. D. Quali sono le novità del Ddl in relazione all’ordinamento penitenziario? R. Il progetto in esame al Senato prevede che il Governo sia delegato ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, una serie di decreti legislativi per la riforma della disciplina dell’ordinamento penitenziario. Il Governo dovrà approvare norme che riorganizzino complessivamente la materia con particolare riferimento alle procedure dinanzi al giudice di sorveglianza e all’accesso alle misure alternative al carcere, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, fatti salvi i casi di condanne per reati di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale. La delega pone particolare attenzione anche alla riorganizzazione dei trattamenti rieducativi volti al reinserimento sociale dei condannati con un riferimento specifico ai minori detenuti. Sarà data attuazione, in sede di decretazione delegata, alla nuova concezione della pena come delineata dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale che si sono appena conclusi alla presenza del Presidente della Repubblica. Si è trattato di percorso di studio e riflessione condiviso da accademici, esperti, magistrati e rappresentanti della società civile, articolato in 18 tavoli tematici dai quali è emersa una nuova idea di carcere che abbandona la concezione tradizionale che lo separa dalla realtà circostante e che da organizzazione sostanzialmente "chiusa" si trasforma in organizzazione "aperta" e in relazione con le realtà territoriali circostanti. Un carcere che non è più luogo chiave di esecuzione della pena ma destinato a diventare "carcere fuori dal carcere" in vista dell’inclusione sociale dei detenuti e del loro reinserimento nel circuito lavorativo me imposto dalla funzione costituzionale rieducativa della pena. Un carcere nel quale vanno garantiti i diritti al mantenimento dei rapporti col mondo esterno, al lavoro, alla libertà religiosa. Tema quest’ultimo di attuale interesse per prevenire il rischio di radicalizzazione dei detenuti di fede islamica. D. Cosa si prevede, in particolare, in relazione all’ordinamento penitenziario minorile? R. Come già detto, la legge delega contiene specifici principi e criteri direttivi per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età, con riferimento tanto alle autorità giurisdizionali coinvolte, quanto all’organizzazione degli istituti per i minorenni, passando per la revisione delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, con particolare attenzione all’istruzione ed ai contatti con la società esterna, in funzione del reinserimento sociale e nel mondo del lavoro. D. Quali sono i tempi previsti per attuare questi importanti interventi? R. Governo e Parlamento sono fermamente intenzionati a procedere con la massima celerità per approvare questo progetto organico di riforma che rientra nel disegno generale di modernizzazione del sistema giustizia che si sta portando avanti anche per il processo civile. Vogliamo dare risposte concrete ai cittadini ed è compito della politica recepire e rispondere, con concretezza ed efficacia, a queste richieste. Roberti: "Basta polemiche, giudici e politica dialoghino". Terrorismo? "Minaccia seria" intervista di Giacomo Talignani huffingtonpost.it, 5 maggio 2016 È una chiamata alla pace quella del procuratore capo della Direzione Distrettuale Antimafia Franco Roberti. A partire da giudici e politica che devono "smetterla con le polemiche e dialogare", a seguire con Napoli dove l’escalation della Camorra fatta di baby gang è ormai "intollerabile". Episodi che avvengono in un contesto italiano fragile dove la minaccia terrorismo "è reale, seria. Ma non come lo è in Francia o Belgio". E dove il magistrato osserva l’avanzata al Nord dell’Ndrangheta, mafia silente che con "la corruzione più che l’intimidazione si infiltra dentro la società civile. È il fenomeno più preoccupante". Dal suo studio di Roma il procuratore capo, che domani sarà a Napoli in un vertice anti Camorra, ha raccontato all’Huffpost tutte le sue preoccupazioni. Prima il caso Davigo, poi lo scontro Pd-magistrati in cui viene chiamato in causa perfino il Csm. Come valuta quello che sta succedendo fra giudici e politica? "Non mi faccia intervenire. Li c’è stato chi ha espresso un giudizio... c’è libertà di pensiero ma bisognerebbe evitare di esprimere giudizi a caldo senza conoscere bene i fatti. La mia opinione è che giudici e istituzioni politiche dovrebbero dialogare serenamente. Questo purtroppo non è sempre stato. La responsabilità sia dei giudici che dei politici evitando invasioni di campo o giudizi affrettati dovrebbe essere quella di instaurare un dialogo per il bene del nostro Paese. Credo che i giudici possano anche contribuire con la loro esperienza alle riforme necessarie alla giustizia che io penso che si faranno alla fine perché questo governo è ben intenzionato a farle. Ma il dialogo dovrebbe essere solo su questa base. Le polemiche? Bisognerebbe bandirle, sono inutili e non fanno bene". E sulla riforma della giustizia c’è dialogo? "Sì, sulla riforma c’è un dialogo aperto. Non solo io ma anche altri colleghi siamo consultati dal ministro della Giustizia, è costruttivo. L’importante è che queste riforme siano approvate dal Parlamento. Ripeto, noi il nostro contributo lo diamo. Il ministro Orlando credo sia molto determinato nel fare queste riforme" Dunque il governo lo giudica positivamente? "Io giudico positivamente l’impegno del ministro della Giustizia" La spaventano tutti questi casi di corruzione, anche e soprattutto in politica? "Il problema corruzione è dilagante. È necessario trovare strumenti efficaci per combatterla a cominciare da un processo tempestivo e più efficiente. Detto questo poi le riforme le fa il Parlamento e noi facciamo il nostro lavoro". Oggi l’Europol ha parlato di possibili imminenti attacchi terroristici in Europa. Quanti rischi ci sono per l’Italia? "La minaccia terrorismo è reale. Non è allo stesso livello in Italia di quanto lo è in Francia o Belgio, questo è poco ma sicuro. Questo perché non abbiamo ancora una fascia generazionale di soggetti che si sono radicalizzati anche come forma di ribellione all’integrazione famigliare. Il fenomeno estero è che moltissimi giovani si sono radicalizzati rispetto ai genitori integrati nel contesto francese o belga, qui invece non abbiamo segnali o tracce di questo fenomeno, ma è un fenomeno progressivo" Però nelle carceri italiane c’è un alto rischio di radicalizzazione dei detenuti. A cominciare dai più giovani. "Nelle nostre carceri ci può essere la ricerca di una alternativa che può essere trovata in posizioni più radicali. Sì, il rischio c’è. È un discorso culturale: bisogna trovare i modi per prevenire la radicalizzazioni di questi giovani e non è facile, purtroppo nessuno ha le idee chiare su come muoversi. In Italia nelle carceri facciamo prevenzione e segnalazione dei soggetti a rischio. Il monitoraggio è stato avviato da poco ma è in corso. Questo vale anche per i minorenni, sia nelle carceri che nelle realtà sociali. Bisogna proporre una sorta di pedagogia dell’integrazione". In Italia c’è una sorta di Molenbeek? "Non credo. Abbiamo i dati delle indagini che ci indicano che alcune zone sono a rischio. Veda le indagini di Milano e Lecco, lì i due soggetti provenivano da una casa famiglia di Vimercate dalle quali sono partiti per la jihad. Un esempio di cittadini marocchini ma perfettamente integrati nella realtà italiana. Persone insospettabili che poi scopriamo andare a combattere in Siria. Troppo semplice dire zone a rischio. Le potrei dire Brescia per la presenza musulmana molto importante, potrei dire Cagliari per la realtà di pakistani radicalizzati, la Lombardia...ma sono informazioni generalizzate. Guardi Napoli: ci sono tantissime moschee, la presenza di islamisti è notevole, ma non ho risultanze giudiziarie che lì mi confermino una minaccia" Quindi da noi dovremmo più temere un attentato progettato da fuori? "Cellule che vengano da fuori? È possibile. Ma se pensiamo che vengano coi flussi migratori...non credo. Non è che i terroristi si mimetizzino nei flussi migratori. È più probabile come è già successo che dopo il loro arrivo si radicalizzano, e questo avviene qui in Italia. Ed è qui che possiamo agire con l’intervento giudiziario che è necessario, ma che è assolutamente insufficiente, largamente insufficiente". Che legami ci sono fra mafia e terrorismo? "Il terrorismo si autofinanzia con attività tipicamente mafiose. Traffici di stupefacenti, estorsioni, sequestri di persona, contrabbandi di petrolio come l’Isis, riciclaggio. Ed è chiaro che viene sostenuto da centri finanziari di alcuni paesi mediorientali come Arabia Saudita, Qatar, Yemen. Li ci sono centri finanziari difficili da individuare e colpire perché si pone il tema della cooperazione internazionale che funziona poco. Anzi, non funziona affatto. Ma se intendiamo collegamenti tra mafie italiane e terrorismo internazionali non ne sono emersi. Anzi, come la Camorra si sono sempre avvantaggiate della minaccia terroristica, nel senso che le minaccia interna o internazionale ha sempre polarizzato l’attenzione e le energie investigative dello stato distraendole dalla pressione sulle mafie. Fecero così anche negli anni di Piombo, prendendo potere. È un dato oggettivo". A proposito di Camorra. L’escalation degli ultimi mesi a Napoli e provincia, con sempre più ragazzini che sparano, anche contro le caserma, come viene valutata dalla Dda? "È un momento molto grave per l’ordine pubblico. Domani ne parleremo con i ministri in un vertice in prefettura a Napoli per fare il punto. Napoli è la terza città d’Italia...e qui si spara come nelle tante città luoghi di conflitti fra bande, come in Medio Oriente. Si compiono stragi, si spara alle caserme. Spesso ad agire sono ragazzini. È intollerabile, è un fenomeno gravissimo che dobbiamo prevenire. Oggi a Napoli dobbiamo ripristinare l’ordine pubblico. Domani dovremo davvero capire cosa fare. Ci vuole un intervento di grande determinazione. Quando lo Stato fa lo Stato, alla fine vince. Quindi si tratta di rispondere mettendo in campo tutte le risorse necessarie". E come dice lei finora nella lotta alle mafie lo "Stato ha fatto lo Stato?". "La lotta alle mafie negli ultimi 20 anni ha prodotto risultati indiscutibili. Pensi a tutte le migliaia di beni confiscati. Sia nel penale che nel patrimoniale c’è stata una repressione importante. Ma ciò non è servito a frenare l’espansione del fenomeno mafioso che si è avvalso di una serie di fattori e opportunità legati alla globalizzazione, alla vulnerabilità dei mercati finanziari, ai paradisi fiscali, alla vulnerabilità delle istituzioni locali permeabili alle infiltrazioni, alla vulnerabilità del sistema economico imprenditoriale che in molti casi ha ricevuto finanziamenti di provenienza illecita per effetto della crisi dopo che il credito legale ha avuto restrizioni. Si sono avvantaggiate della crisi economica. Così come è indubbio che la corruzione gioca oggi un ruolo importante come strumento di penetrazione delle mafie nella società civile e nell’economia legale". Come è avvenuto con la mafia al Nord. Lì l’Ndrangheta fa paura. "C’è una forte espansione delle mafie al nord. L’Emilia, la Lombardia. È il fenomeno più preoccupante. Si sono espanse e ramificate grazie più alla forza della corruzione che dell’intimidazione. Sono le mafie silenti, le chiamiamo così. Perché sono entrate nelle economia in silenzio. Parliamo ad esempio della Lombardia con decine di locali di ‘Ndrangheta, lo stesso discorso si potrebbe fare per la Svizzera, la Germania, l’Olanda, Canada, Australia. Ci sono enormi presenze mafiose ‘ndranghetiste silenti che permettono all’Ndrangheta di operare come broker mondiale di stupefacenti riciclando in questi altri territori i proventi del traffico di droga". Ha visto il caso di Maniaci, il giornalista considerato "antimafia" di Telejato che invece ricattava per non pubblicare? "Non voglio commentare, dovrei vedere gli atti. Purtroppo diciamo che se provato non è una novità". L’altro giorno il sindaco grillino Pizzarotti è stato il primo sindaco a firmare il documento per la legalizzazione della cannabis. Centinaia di parlamentari si sono già schierati. Lei si schiera sul tema? "Io ho già parlato ma di depenalizzazione che non è legalizzazione. Pongo il problema: pensiamo se non è il caso di concentrare gli sforzi investigativi contro droghe pesanti come cocaina ed eroina e depenalizzare, e quindi far diventare illecito amministrativo, il consumo di droghe leggere. Il reato di traffico di droga resta un reato gravissimo ma il consumo di droghe leggere forse si può valutare di farlo diventare illecito amministrativo. Ottimizziamo le risorse investigative che abbiamo concentrandole contro le droghe pesanti. Io parlo di questo. Se poi una maggioranza parlamentare riterrà di legalizzare ne prenderemo atto". Infine una domanda secca. Lei, procuratore, ha paura? "Non me la faccia proprio questa domanda. In 35 anni non ho mai voluto rispondere. Ho scritto un libro, "Il Contrario della paura", la risposta la trovate lì". Scarcerazione senza "vincoli" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 18512/2016. Quando si è in carcere preventivo e si viene raggiunti da una condanna per un altro reato, il conteggio dei termini di custodia cautelare non s’interrompe. E, se il periodo già trascorso in detenzione per via della misura cautelare è già superiore o uguale a quello di tale condanna, il detenuto va scarcerato. Così la Cassazione, con la sentenza 18512 depositata ieri, interpreta le norme che regolano la "convivenza" tra i due regimi. La sentenza fa "piazza pulita" dei due indirizzi giurisprudenziali contrapposti in tema di decorrenza dei termini massimi per la custodia cautelare, dettando un principio, basato su una lettura "piana" dell’articolo 275, comma 5 del Codice di procedura penale. In base alla norma, "se l’imputato detenuto per un altro reato o è internato per una misura di sicurezza", gli effetti di questa decorrono dal giorno in cui viene notificata l’ordinanza che la dispone, "se sono compatibili con lo stato di detenzione o di internamento; altrimenti decorrono dalla cessazione di questo. Ai soli effetti del computo di durata massima, la custodia cautelare si considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza". La Corte afferma che, diversamente dalle altre misure cautelari, la custodia in carcere è pienamente compatibile con la detenzione per espiare una pena detentiva ed entrambe sono dunque eseguibili contemporaneamente. L’instaurarsi della seconda non sospende il decorso della prima, che diventa inefficace nel momento in cui interviene una condanna, anche se non definitiva, la cui pena supera o è pari al periodo di tempo trascorso nella privazione della libertà personale. È quindi accolto il ricorso contro l’ordinanza con la quale il Tribunale aveva escluso la scadenza del termine massimo di custodia cautelare non tenendo conto del periodo in cui l’imputato era stato detenuto in esecuzione di un titolo preesistente. Falso in atto pubblico la mendace attestazione della revisione annuale dei cronotachigrafi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2016 Corte di Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 4 maggio 2016 n. 18553. L’attestazione dell’avvenuta revisione annuale del cronotachigrafo è un atto pubblico e non un certificato amministrativo. Questo il primo principio affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 18553/16, depositata ieri. L’altro principio è che - in questo tipo di attività - possiede la qualità di pubblico ufficiale non solo il capotecnico della motorizzazione civile, addetto alle pratiche di revisione, ma anche il proprietario, l’amministratore o il collaboratore di un’officina autorizzata alla revisione delle auto. Per cui la non veridicità dell’attestazione di avvenuta revisione è una condotta che si inquadra nell’articolo 476 del codice penale, cioè falsità materiale in atto pubblico, e non nell’articolo 477 dello stesso codice, cioè falsità materiale in certificazione amministrativa. Atti pubblici e certificazioni amministrative - Il ricorso, respinto con condanna alle spese, puntava appunto a far riqualificare il reato nella seconda fattispecie che prevede pene di gran lunga inferiori. I giudici di legittimità fanno notare che l’attestazione dell’avvenuta revisione ha di per sé un valore probatorio documentando l’avvenuto compimento dell’attività demandata dalla legge al soggetto delegato. Qui la differenza con le certificazioni amministrative che sono invece espressione di un’attività che trae la sua efficacia probatoria da atti pubblici preesistenti. L’inquadramento del falso - Quindi la Cassazione trova congrua la condanna, confermata nei due gradi di merito, per il reato di cui agli articoli 476e 482"a fronte dell’accertamento di una consapevole e cosciente formazione di un atto pubblico falso". Nel caso specifico la condanna veniva anche aggravata dalla continuazione ex articolo 81 del Codice penale. Si tratta, infatti, della formazione di quattro falsi fogli di revisione annuale di cronotachigrafi. Costruiti sulla base di un unico documento originale poi alterato. La natura di atto pubblico viene affermata dalla Cassazione al di là del fatto che non sia un allegato ad altro documento come la carta di circolazione. Perché, dicono i giudici, è comunque pacifico che chi procede all’attestazione debba necessariamente compiere una verifica diretta del mezzo o dell’apparecchio. E non comporta nessuna scusante della mancata verifica fattuale il riferirsi al contenuto di atti precedenti, che costituiscono un mero antecedente storico. Nell’interdittiva antimafia conta la "sostanza" di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2016 Sentenza 1743/2016 del Consiglio di Stato. Il meccanismo dell’interdittiva antimafia, che serve a escludere dai rapporti con la Pa e da sussidi o sovvenzioni le imprese in odore di rapporti con la criminalità organizzata, deve badare alla sostanza, e non è quindi vincolata a "formalismi linguistici né a formule sacramentali". Per essere efficace, può anche limitarsi a richiamare sinteticamente i risultati scritti nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, negli atti di indagine o negli accertamenti della Polizia, se questi ultimi spiegano in modo sufficiente il rischio di infiltrazioni. Su queste basi il Consiglio di Stato, con la sentenza 1743/2016 diffusa ieri, ha bocciato il ricorso di un’impresa campana che aveva già chiesto senza successo al Tar la revisione dell’interdittiva. Nella sentenza, però, i giudici amministrativi fanno di più, e sulla base di una puntuale ricostruzione normativa ricostruisce le regole generali dell’interdittiva, e fissa il principio che si può riassumere con la "prevalenza della sostanza sulla forma". L’interdittiva, spiegano i giudici, serve a evitare alla Pa rapporti con imprenditori con i quali manca la "fiducia imprescindibile sulla loro affidabilità":?a farla cadere può essere un complesso di elementi, da vicende anomale nella struttura o nella gestione dell’impresa a rapporti di parentela, amicizia, "colleganza" tali da indicare un pericolo verosimile di infiltrazione. Tutti questi fattori possono essere riportati negli atti dell’autorità giuridiziaria, che non sono limitati alle sole sentenze, e negli atti di indagine e di polizia. Quando ci sono questi elementi, l’interdittiva è efficace, a patto naturalmente che le "fonti" richiamate riportino dati sufficienti a sostenerla. In caso contrario, l’obbligo di motivazione puntuale viene assunto in prima persona dalla Prefettura. Lombardia: ok del Consiglio regionale ai fondi per persone ristrette nelle carceri quibrescia.it, 5 maggio 2016 È stata approvata, durante il Consiglio regionale di martedì 3 maggio, la mozione presentata dal consigliere Fabio Fanetti (Gruppo Maroni Presidente) che impegna la Giunta a stanziare risorse adeguate per l’applicazione della legge regionale 14 febbraio 2005 n° 8 "Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della regione Lombardia". "La Regione ha significative competenze in merito alla tutela delle persone ristrette e al loro reinserimento nella società", ha dichiarato Fanetti, primo firmatario della mozione. "Per dare continuità ai progetti in corso e avviare nuove iniziative, sono indispensabili le stesse, se non maggiori, risorse economiche messe a disposizione negli anni passati, ovvero circa 3 milioni di euro annui. Attraverso questi fondi, la Regione Lombardia garantisce la tutela della dignità di queste persone con l’obiettivo di recuperare le qualità individuali compromesse dal disadattamento sociale, di ridurre il rischio di recidiva, di sostenere il reinserimento sociale e di rafforzare i rapporti tra i detenuti e i famigliari". Particolare importanza rivestono in tali attività il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, il Centro per la Giustizia minorile, le Agenzie di tutela della salute (Ats), gli Enti locali, il terzo settore e il volontariato. I fondi vanno anche a coprire i costi per le attività di formazione e aggiornamento rivolte agli operatori dell’Amministrazione penitenziaria, della giustizia minorile, dei servizi territoriali pubblici e privati, compresi il terzo settore e il volontariato, come previsto dalla legge 8 all’articolo "Formazione congiunta degli operatori". "Sono iniziative fondamentali, oltre che per garantire una vita decorosa alle persone ristrette negli istituti, per stemperare il rapporto di tensione che molte volte si crea tra detenuti e agenti della polizia penitenziaria e per diminuire il rischio di recidiva, che influisce parecchio sulle finanze dello Stato. Ritengo pertanto - conclude Fanetti - che i fondi che saranno stanziati non siano, come pensano alcuni, soldi sprecati, bensì rappresentino un investimento". Liguria: il vicepresidente Viale incontra il commissario Corleone per superamento ex Opg regioni.it, 5 maggio 2016 Viale: "lavoriamo per rendere la Liguria autonoma e autosufficiente in vista della realizzazione della Rems regionale". "Stiamo lavorando per individuare una soluzione ponte che consenta alla Liguria di essere autonoma e autosufficiente per quanto riguarda l’adeguata collocazione degli autori di reato con problemi psichiatrici, in attesa che siano ultimati i lavori nella Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, a Calice al Cornoviglio, in provincia della Spezia". Lo ha detto la vicepresidente e assessore regionale alla Sicurezza Sonia Viale durante l’incontro di questa mattina con l’on. Franco Corleone, commissario unico del Governo nominato per le procedure necessarie al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, ex Opg, con il completamento delle Rems. "Preso atto che la Liguria non è una Regione sotto commissariamento - spiega la vicepresidente Viale - è comunque importante tenere un dialogo aperto e costruttivo col governo su questa tematica. Con l’onorevole Corleone abbiamo fatto il punto della situazione in Liguria: i lavori nella struttura di Calice partiranno a breve visto che l’assegnazione, tramite gara, è prevista per fine maggio e dovrebbero concludersi entro il 2017. In piena condivisione con il commissario Corleone stiamo cercando una soluzione temporanea per gli autori di reato in lista d’attesa in Liguria, circa una decina, situazione analoga a molte altre regioni. La soluzione ponte - conclude - servirà a rendere indipendente la Liguria dalle strutture di riferimento attuali". Roma: detenuto morto di polmonite in cella a Rebibbia, assolti i medici corrierequotidiano.it, 5 maggio 2016 Il gup del tribunale di Roma, Giulia Proto, ha assolto i medici del carcere di Rebibbia perché non ci sono colpevoli per la morte in cella di Danilo Orlandi, il 31enne stroncato il primo giugno del 2013 da una polmonite fulminante. Il gup ha assolto, perché il fatto non sussiste, i medici Rosaria Bruni e Marco Ciccarelli al termine del giudizio con rito abbreviato. I due ‘camici bianchì erano accusati di omicidio colposo perché sospettati dalla Procura di non aver controllato il paziente in maniera adeguata e di aver omesso di visitarlo quando manifestò i primi sintomi della polmonite. Le difese, rappresentate dagli avvocati Irma Conti e Igor Magro, hanno invece sostenuto come non vi fosse stata alcuna omissione e che nessuna negligenza dovesse essere attribuita agli imputati. Il giudice ha prosciolto anche l’allora direttore della struttura sanitaria del carcere, Luciano Aloise, difeso dagli avvocati Roberto e Luca Rampioni. Orlandi, che stava scontando una condanna a sei mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, sarebbe dovuto uscire dal carcere dopo pochi giorni. L’inchiesta della Procura prese il via dopo la denuncia dei familiari di Orlandi che accusarono il personale sanitario di non aver diagnosticato in tempo la polmonite. Napoli: 34enne agli arresti domiciliari ucciso a colpi d’arma da fuoco in casa napoli.fanpage.it, 5 maggio 2016 Luca Ciontola, 34 anni detenuto agli arresti domiciliari, è stato ucciso nella notte nella sua abitazione di Fuorigrotta a colpi d’arma da fuoco. Il commando di killer si sarebbe presentato travestito da appartenenti alle forze dell’ordine. Luca Ciotola, 34 anni detenuto agli arresti domiciliari e da tempo noto alle forze dell’ordine, è stato ritrovato morto nella sua abitazione nel quartiere di Fuorigrotta, più precisamente in via Cupa Vicinale Terracina. L’uomo è stato raggiunto da un pioggia di proiettili: oltre dieci colpi sparati a distanza ravvicinata che non gli hanno lasciato scampo, inutile ogni tentativo di soccorso. L’uomo avrebbe aperto la porta volontariamente ai suoi assassini, che si sono presentati travestiti da appartenenti alle forze dell’ordine per un normale controllo. Ciotola si trovava ai domiciliari dopo essere stato arrestato il 25 maggio del 2015 per aver tentato di rapinare due prostitute sotto la minaccia di una pistola finta. Sul caso indagano i carabinieri del Nucleo Operativo. Venezia: il "Progetto agricoltura" in carcere con la Confartigianato di Nadia De Lazzari La Nuova Venezia, 5 maggio 2016 Nelle carceri del Veneto dotate di aree verdi prende il via la mappatura per il "Progetto agricoltura" e la formazione dei detenuti. L’accordo biennale e congiunto tra Confagricoltura Veneto e Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto consiste nel reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti con il coinvolgimento in attività imprenditoriali legate all’agricoltura. Di durata biennale prevede di destinare le aree verdi degli istituti penitenziari veneti ad attività agricole trasformando e commercializzando i prodotti e formando i detenuti per inserirli nelle aziende agricole regionali. Ad avviare i corsi di formazione sarà la Confartigianato Veneto con il supporto di imprese e cooperative del settore che successivamente potranno dare lavoro al personale formato. Oggi e domani sono previste due visite, una nel carcere della Giudecca e un’altra nel carcere di Padova dove si inizierà ad eseguire la mappatura delle aree verdi potenzialmente coltivabili collocate tra i fabbricati e il muro di cinta e a visionare le attuali attività agricole. Il progetto non prevede il coinvolgimento della Casa circondariale maschile Santa Maria Maggiore perché priva di spazi verdi da adibire ad agricoltura. Vi parteciperà una delegazione formata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto Enrico Sbriglia e i presidenti di Confagricoltura Lorenzo Nicoli e Giulio Rocca rispettivamente del Veneto e di Venezia. Nel carcere della Giudecca vengono coltivati 6.000 metri quadrati di terra dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri con il metodo dell’agricoltura biologica da cui si ricavano verdura di stagione ed erbe officinali. Nel carcere di Padova invece la cooperativa Giotto produce ortaggi solo per il fabbisogno domestico e cura delle aiuole. Marsala (Tp): giovani detenuti al lavoro nell’azienda agricola "I Frutti del Sole" trapanioggi.it, 5 maggio 2016 Lavorare nei campi invece di andare in carcere. Accade nel Marsalese dove, anche quest’anno, l’azienda agricola biologica "I Frutti del Sole" accoglierà tre nuovi lavoratori. Si tratta di ragazzi che provengono dal centro "Il Faro" di contrada Rakalia, rivolto a persone, con problemi di dipendenza da droga e alcol, sottoposte a misure alternative alla detenzione e di cui è responsabile don Antonio Cannatà. Il lavoro nei campi è l’ultimo passo di un percorso compiuto dagli ospiti che consiste in diverse fasi: la consapevolezza del proprio vissuto negativo, l’approfondimento personale e di relazione di gruppo all’interno della comunità e, infine, l’inserimento sociale e lavorativo. "L’agricoltura è inclusione e non può e non deve avere barriere sociali - precisa Filippo Licari, amministratore dell’azienda. Il senso della nostra attività agricola - tende al miglioramento del benessere e della socialità. Noi crediamo nell’agricoltura onesta, fondata sul lavoro del contadino, che deve fornire un guadagno giusto. Il lavoro non deve essere un ricatto, non deve strozzare gli agricoltori ma liberare le loro potenzialità". In azienda i ragazzi scoprono la bellezza e l’importanza di avere un impegno, un occupazione, il contatto con persone all’esterno che offrono accoglienza, collaborazione. Questo li gratifica e gli garantisce anche una disponibilità economica che rappresenta per loro una possibilità di riscatto, sostenendo le loro famiglie o, comunque, non dipendendo economicamente da esse. Dopo aver completato il periodo di lavoro in azienda e il percorso terapeutico la percentuale di successo personale di questi ragazzi è altissima. Napoli: nell’Ipm di Nisida nasce un laboratorio di ceramica con l’aiuto di Meridonare julienews.it, 5 maggio 2016 Fondi per il laboratorio di ceramica dell’Istituto Penale Minorile di Nisida, con l’obiettivo di insegnare ai giovani detenuti a produrre i bellissimi manufatti "Nciarmato a Nisida" che possono essere richiesti a fronte di una libera donazione e ordinati come bomboniere o doni solidali. Il progetto di avviamento al lavoro dei giovani detenuti dell’Istituto Penale minorile di Nisida vede impegnata la Fondazione "Il meglio di te" dal 2006 e punta a fornire ai giovani in via di dimissione dal penitenziario le conoscenze necessarie per un onesto reinserimento in società. In questo contesto è stato siglato un fruttuoso accordo con Merdionare, la prima piattaforma di crowdfunding del Mezzogiorno, per la raccolta di donazione che vada a sostenere il laboratorio di ceramica. La start up a vocazione sociale già sta incassando enormi successi per i suoi progetti di raccolta fondi destinati ai progetti sociali del Sud e certamente uno legato a Nisida colpirà il cuore degli interessati. Legato a questo progetto anche il WalleRally, cui oggi la presentazione al Pan. La manifestazione consiste in una gara non competitiva che ha come obiettivo, non secondario, l’opportunità di raccogliere fondi da destinare alle popolazioni in difficoltà dei luoghi attraversati dai partecipanti. Il team Wallerally partirà da Napoli a inizio luglio per arrivare a Londra in tempo per l’evento di partenza che si terrà il 17 luglio per poi raggiungere Ulaan-bataar, capitale della Mongolia, dopo aver attraversato 10.000 km di deserti in Iran, Turkmenistan e Gobe, strade a 5.000 metri di quota nel Tagikistan e Kirghizistan e aver affrontato le temibili steppe del Kazakistan e della Siberia. Bologna: Cinevasioni, alla Dozza il primo festival del cinema in carcere Redattore Sociale, 5 maggio 2016 Si svolgerà dal 9 al 14 maggio alla Casa circondariale della Dozza. 11 i film in gara, 15 i giurati scelti tra i detenuti. La rassegna sarà anche aperta al pubblico. Tanti gli ospiti da Matteo Garrone a Javier Zanetti. Una giuria composta da 15 persone, 11 opere in concorso e un Oscar da assegnare, rappresentato da una Farfalla di ferro. Si svolgerà tra le mura della casa circondariale della Dozza, Cinevasioni, il primo festival del cinema in carcere. Realizzato da D.e-r Associazione documentaristi Emilia - Romagna in collaborazione con la direzione della casa circondariale Dozza di Bologna e con il contributo della fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, e il sostegno di Rai Cinema. L’appuntamento con la manifestazione, che è stata presentata oggi alla Casa del cinema di Roma, è dal 9 al 14 maggio. "Non è un festival sul carcere, ma un festival in carcere - spiega il direttore artistico Filippo Vendemmiati - i detenuti faranno parte della giuria che sceglierà il vincitore. Ci saranno due proiezioni al giorno e una conferenza stampa. Tutto come un vero e proprio festival. L’unica cosa che non riproporremo è il tappeto rosso, perché vogliamo ricordarci dove siamo". Le opere in concorso (selezionate tra oltre 100 pellicole) saranno proiettate all’interno dell’istituto penitenziario e saranno accompagnate e presentate dai loro autori. A giudicarle la speciale giuria dei detenuti che hanno partecipato al corso laboratorio CiakinCarcere e presieduta dall’attore Ivano Marescotti. Il premio finale è la Farfalla di Ferro, una scultura disegnata dal pittore Mirko Finessi e costruita dalla F.i.d. - Fare Impresa in Dozza, l’officina metalmeccanica all’interno del carcere, nella quale lavorano insieme detenuti e lavoratori metalmeccanici in pensione. La premiazione è prevista sabato 14 maggio, ultimo giorno del Festival Cinevasioni, e sarà preceduta da un evento speciale fuori concorso. Cinevisioni sarà anche aperto al pubblico: l’ingresso sarà libero ma con posti limitati. "Il carcere è una realtà con cui i cittadini non hanno spesso a che fare, è giusto aprire le sue porte a tutti - sottolinea Claudia Clementi direttrice della Dozza -. Quello che facciamo non è niente di straordinario, è solo quello che la Costituzione ci chiede di fare. In carcere ci sono molti talenti inespressi che potrebbero essere valorizzati. Mi auguro che una volta finita la manifestazione i riflettori non si spengano su questi temi". A fare da sigla al festival è il cortometraggio "La Sfida" ideato e girato dai detenuti come saggio finale del corso-laboratorio cinema CiakinCarcere. "Abbiamo chiesto ai nostri ragazzi se erano sicuri di volerci mettere la faccia, ci hanno risposto che le loro facce erano già finite sui giornali per i reati che avevano commesso, ora era giusto che fossero note per altri motivi" aggiunge Angelita Fiore, della direzione scientifica Cinevisioni. "Questo è uno dei progetti più belli che abbiamo finanziato finora" afferma Giusella Finocchiaro, presidente della fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Il festival è sostenuto da Rai Cinema. questo per noi è fare vero servizio pubblico - spiega Carlo Brancaleoni, responsabile dei rapporti istituzionali di Rai Cinema -. Noi ci siamo e ci saremo ancora". Il programma. Il primo film a entrare in carcere - lunedì 9 maggio -sarà Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael Nel pomeriggio alle 14.30 sarà la volta invece de Il racconto dei racconti - Tale of Tales co-prodotto e diretto da Matteo Garrone che lo presenterà e risponderà alle domande del pubblico a fine proiezione. La seconda giornata - martedì 10 maggio - sarà dedicata al tema dei migranti. Si apre con il vincitore dell’ultimo festival internazionale del cinema di Berlino, Fuocoammare di Gianfranco Rosi. A presentare il film e dialogare con il pubblico ci sarà il giornalista e autore della trasmissione televisiva RAI Doc3, Lorenzo Hendel. A seguire nel pomeriggio, i lavori di due giovani autori: Irene Dionisio con il pluripremiato Sponde. Nel Sicuro Sole Del Nord, storia dell’amicizia e della profonda relazione che nasce tra lo scultore e postino tunisino Mohsen e il becchino in pensione di Lampedusa Vincenzo; e Stefano Etter con The Lives of Mecca, documentario vincitore del Piemonte Movie gLocal Film Festival 2016, che racconta la realtà quotidiana de La Mecca, il più grande complesso di American Handball di New York, a Coney Island. Entrambi i registi saranno presenti per l’incontro con il pubblico. La mattina di mercoledì 11 maggio, si parla invece di calcio con la proiezione di Zanetti Story, il documentario di Simone Scafidi e Carlo A. Sigon, che racconta l’appassionante storia del capitano nerazzurro. A presentarlo al pubblico oltre ai due registi, lo stesso Javier Zanetti e lo scrittore Rudi Ghedini, co-autore della sceneggiatura. Segue nel pomeriggio, Se Dio vuole, esordio da regista di Edoardo Falcone, già co-sceneggiatore delle commedie Nessuno mi può giudicare. Giovedì 12 maggio, alle 9.30 sarà proiettato Revelstoke - Un bacio nel vento di Nicola Moruzzi, progetto finalista al Premio Solinas nel 2013 e finanziato anche con una campagna di crowdfunding su Indiegogo con cui ha raccolto 31,000 dollari (circa 23mila euro). Il documentario è il personale viaggio in Canada del regista, che sarà presente alla proiezione, sulle tracce del bisnonno Angelo Conte, emigrato veneto che come molti italiani lasciò il Paese in cerca di una vita migliore. A seguire nel pomeriggio, quello che può essere considerato il fenomeno cinematografico della stagione, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Saranno presenti alla proiezione il regista, i due sceneggiatori, Nicola Guaglianone e Roberto Menotti e il musicista Carlo Amato (Têtes de Bois). Venerdì 13 maggio alle 9.30. sarà presentato dallo stesso regista, Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo, un personale film/ritratto sulla madre Silvana Stefanini, attrice di una manciata di film negli anni ‘50 tra cui La barriera della legge di Piero Costa. Segue, alle 14.30, Daniele Lucchetti con la sua ultima fatica, Chiamatemi Francesco, primo film su un Papa che sia mai stato girato nel corso del suo Pontificato. E con il racconto del percorso che ha portato Jorge Bergoglio, figlio di una famiglia di immigrati italiani a Buenos Aires, alla guida della Chiesa Cattolica, si chiude il concorso della prima edizione di Cinevasioni. L’ultima giornata del festival - sabato 14 maggio - sarà dedicata all’annuncio e premiazione del film vincitore. Precede la premiazione, la proiezione fuori concorso di Non essere cattivo del regista Claudio Caligari - presentato postumo alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2015 e vincitore del David di Donatello 2016 per il Miglior Fonico in Presa Diretta. Il film sarà introdotto dal critico e giornalista cinematografico Roy Menarini. Roma: "Mamme dentro", presentato al Senato libro sui diritti dei figli delle donne recluse dire.it, 5 maggio 2016 "Può il nostro Paese disinteressarsi della sorte futura dei bambini che crescono accanto alle madri detenute?" E ancora, "è giusto portarli via dall’Italia per inserirli nei loro Paesi di origine, a costo di grandissime sofferenze?". È quanto si chiede Carla Forcolin, autrice del libro, "Mamme dentro", presentato oggi alla Sala dei Caduti di Nassirya di Palazzo Madama, alla presenza tra gli altri della senatrice Pd, Francesca Puglisi e del Garante nazionale dei Detenuti, Mauro Palma. Il volume pone interrogativi e prospetta soluzioni rispetto a una questione "spesso sottovalutata nel nostro Paese e dalle istituzioni": i diritti dei figli di madri detenute e il dopo carcere, raccontando l’incontro in Nigeria di due gemelli di 7 anni, nati in Italia cresciuti nel carcere di Giudecca, dati in affidamento e infine portati nel paese d’origine della famiglia, con la loro ex affidataria italiana. Il volume si compone di 7 capitoli, più introduzione e post-fazione (quest’ultima a cura della senatrice Puglisi) e spazia su varie questioni: dall’accompagnamento dei bambini all’asilo, alla relazione educativa con le loro madri, fino appunto, al dopo carcere e all’integrazione nella società. Secondo l’autrice, "non sarà creando case-famiglia dove tenere mamme e figli fino ai 10 anni di età, che si salveranno questi bambini, ma permettendo loro di entrare in contatto con il mondo, per senza privarli della madre". "Nulla di magico - ha spiegato ancora - nulla che non esista già". Piuttosto, "tutto che funzioni secondo un disegno di cura vera e di buone prassi, nella collaborazione delle autorità competenti". "È un libro che parla dei diritti dei bambini e delle bambine - ha detto all’agenzia Dire, Francesca Puglisi - diritti, come andare a scuola, all’asilo o più semplicemente vivere una vita dignitosa come qualunque altro loro coetaneo, fondamentali per la persona umana". "Insieme a Carla Forcolin ora intendiamo aprire un capitolo importante - ha sottolineato ancora la senatrice Pd - che è quello di dare l’opportunità ai bambini che hanno madri in carcere, di poter vivere esperienze di asilo diurno con famiglie accoglienti che le accompagnino a scuola e che passino la giornata con loro, per poi riaccompagnarli nelle case circondariali per dormire con le mamme". Altra proposta importante contenuta nel libro, "è la possibilità per le donne straniere di ottenere il permesso di soggiorno una volta scontata la pena per non ributtare questi bambini nei Paesi di provenienza dopo una vita passata qui in Italia". In Presidente della Fnsi Giulietti: "Vespa e Riina? L’intervista sì, ma non così" di Micol Flammini reporternuovo.it, 5 maggio 2016 Il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana commenta la situazione della libertà di stampa in Italia e dice: "Momento grigio, ma non fidatevi delle classifiche". E sul caso Porta a Porta rilancia: "La par condicio tra mafia e antimafia non è ammissibile". Quarantotto ore dedicate alla libertà di stampa. Conferenze e tavole rotonde in tutto il mondo per omaggiare un concetto che resta ancora piuttosto difficile da capire e, per molti, da accettare. Se la libertà di stampa rimane ancora ingabbiata in provvedimenti, carceri e sanzioni, la censura ha più libertà di azione. Ogni anno, Reporter senza frontiere, stila una classifica mondiale sulla libertà di stampa. L’Italia non si è mai posizionata bene, ma quest’anno, la 77° posizione in cui l’associazione non governativa l’ha relegata, ai piedi di nazioni come El Salvador o Burkina Faso, è sembrata irreale. "In Italia ci sono antichi problemi come il conflitto di interessi, il controllo governativo sulla Rai e la mancanza di normative anti trust - dice Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale stampa italiana - Però, bisogna dire che mentre l’Italia ha associazioni come Ossigeno e Libera che, in accordo con l’articolo 21, denunciano puntualmente i casi di cronisti minacciati, in altre nazioni come Polonia, Ungheria, ma anche Francia o Spagna, non esistono associazioni simili. Paradossalmente, l’attenzione che c’è in Italia per il fenomeno dei cronisti minacciati fa sì che i casi italiani siano noti, mentre altrove restano sconosciuti. La classifica di Rsf si basa proprio sui report che le nazioni inviano annualmente". Governo e giornalismo si ostinano a non voler andare d’accordo e in Italia sono ancora tanti i problemi da affrontare. Due anni fa, quando il governo Renzi propose di abolire il carcere per i giornalisti colpevoli di reato di diffamazione a mezzo stampa, tanti furono gli entusiasti che si soffermarono sulla parola "abolizione" e non sulle sanzioni pecuniarie previste in sostituzione del carcere comprese tra i 5.000 e i 10.000 euro. "L’abrogazione del carcere è un atto dovuto perché è stato chiesto dall’Europa", commenta Giulietti, E prosegue: "In quella proposta di legge ferma al Senato, manca un punto chiave: quello delle querele temerarie. Cresce il numero di grandi organizzazioni che di fronte al solo annuncio di un’inchiesta sparano delle richieste di risarcimento che possono arrivare ai 70 milioni di euro. Va introdotta una norma secondo la quale se tu minacci l’articolo 21 o se vuoi oscurare il diritto d’inchiesta, poi, devi pagare una cifra altissima. La legge sulla diffamazione è debole". Risale a un mese fa, uno dei casi che ha riacceso la discussione sulle responsabilità del giornalista. A inizio aprile, Bruno Vespa invita in studio Salvo Riina, figlio di Totò. Lo fa accomodare e lo lascia presentare il suo libro. In studio ci sono solo Vespa e Riina e il figlio del boss si abbandona ai suoi ricordi in un tentativo di riscrittura della storia mafiosa. "Quella doveva essere solo la presentazione di un libro. - commenta Giulietti. È stato anche giusto fare quell’intervista, ma bisognava mettere in studio qualcuno come Lirio Abbate in grado di commentare e decifrare tutti i messaggi che vengono da questi signori che vogliono riscrivere la storia della mafia. Non accetterò mai che si censuri un’intervista o che si chieda di chiudere un programma, ma sicuramente l’incontro con Salvo Riina si doveva fare in tutt’altro modo, non c’è stata una discussione. Ho trovato ancora più grave che si sia detto se oggi parla Riina, domani parleranno le vittime della mafia. Il concetto di par condicio tra mafia e antimafia, in uno Stato che vuole definirsi democratico, non deve esistere". Ormai le quarantotto ore dedicate alla libertà di stampa si sono concluse, tante le tavole rotonde e le conferenze in tutto il mondo, ma c’è una nazione che ha voluto festeggiare la libertà di stampa in un modo più originale di tutti: l’Egitto. Prima dello scadere di quelle quarantotto ore, il Cairo ha imposto la censura sul caso Regeni. Ha vinto di nuovo la censura. Sì al web libero, ma per favore non rassegniamoci alla violenza e all’offesa di Marco Palillo Il Dubbio, 5 maggio 2016 Probabilmente dobbiamo rassegnarci. I social network sono una realtà libera e anarchica in cui ognuno può dare sfogo ai propri pensieri. La nostra cultura liberale ci impone di non credere mai nella repressione penale delle opinioni, un principio sul quale non siamo disposti a negoziare. Eppure, nella maggioranza dei casi questa libertà sul web si declina solamente attraverso la violenza. Le opinioni diventano sfoghi degli impulsi più retrivi che ci riportano ad uno stadio pre-umano, quasi barbarico, in cui ogni esperienza umana, dalla lotta politica alla fede calcistica, diventa una guerra fra bande. L’ho sperimentato sulla mia pelle proprio recentemente quando dopo avere visto una puntata di Otto e mezzo ho fatto un tweet di congratulazioni nei confronti della deputata Pd Pina Picierno che secondo me era stata molto brava nel fronteggiare il candidato a sindaco di Napoli dei Cinquestelle. Apriti cielo. Il mio account Twitter è stato invaso di insulti e offese di una violenza immotivata. Talmente fuori da ogni logica umana da risultare persino surreale, come un film di Almodovar. Ovviamente il contenuto degli insulti era prettamente a sfondo sessista (nei confronti di Picierno) e omofobo (nei confronti del sottoscritto). Picierno veniva costantemente attaccata, derisa, non perché politica del Pd ma perché donna. No, non è la solita lagna moral-femminista. È la presa d’atto di una situazione che ormai ogni giorno ci circonda. C’è una politica della vergogna messa in atto attraverso le possibilità di anonimato e distacco offerto dagli account social. Twitter e Facebook sono diventare arene in cui il buon senso, l’educazione, il rispetto sono parole prive di alcun significato. E non c’entra solo la battaglia politica, lo scontro quotidiano fra renziani e grillini, laici o cattolici, razzisti e anti-razzisti. La politica della vergogna, dell’infamia, dell’odio, si consuma ogni giorno e si applica ad ogni aspetto della vita senza che nessuno si ribelli. L’obiettivo è l’umiliazione dell’altro. Proprio in questi giorni mi trovo in Sicilia e alcuni amici mi hanno raccontato di certi video privati ritraenti alcune ragazze liceali che fanno sesso. Questi video sono diventati merce di scambio, alimentando il pettegolezzo della realtà di provincia in cui sono stati girati. Come negli anni 50, la sessualità delle ragazzine protagoniste (non certo quella dei loro partner maschili) è stata oggetto di derisione e scandalo. Queste ragazzine si sono ritrovate oggetto di una politica della vergogna che probabilmente le segnerà a vita. E che dire delle forme di bullismo che costantemente si consumano sulle pagine di Facebook nei confronti dei "diversi" ed, in particolar modo, delle persone con una fisicità non conforme ai canoni estetici correnti. I social sono diventati una piattaforma incredibile per i bulli come ci insegnano i numerosissimi episodi di cronaca. In alcuni tristi casi, possono persino portare al suicidio delle vittime. Certo, la cattiveria, la crudeltà, sono sempre esistiti prima dell’avvento di internet. In qualche modo, però, ciò che viene a mancare nell’etere è qualsiasi forma di contenimento. Come se le persone vittime di questi attacchi non fossero più esseri umani. E allora lo schermo della virtualità fa venire meno ogni senso del limite, per riportarci in uno stato dionisiaco di inciviltà, in cui la violenza non viene più stigmatizzata, ma diventa un nuovo linguaggio socialmente e culturalmente accettato. È evidente, poi, che in un paese dopato da trent’anni di scontro fra Berlusconi e gli anti-berlusconiani, l’arena politica è il luogo in cui questa strategia della vergogna acquisisce una dimensione iperbolica. Non c’è tema epocale o questione minore, dall’immigrazioni alla potatura degli alberi fatta dal Comune, in cui lo scontro politico non diventi una guerra civile apocalittica degna di Games of Thrones, dove non solo si insulta chi la pensa diversamente, ma si mira ad annientarlo attraverso la denigrazione e l’umiliazione. Qual è allora la soluzione? Riabilitare nuove forme di bigottismo o moralismo? Mettere il bavaglio a internet, inasprire le pene, costruire nuovi reati? Non credo. Forse l’unico rimedio è parlarne, aprire una discussione vera. Iniziare, per esempio, ad interrogarci sulle conseguenze di questa politica della vergogna produce sulla vita reale (non virtuale) delle persone. Internet non è scritta con la matita, dicono gli americani ("Internet is not written with the pencil"). Ogni insulto, foto, commento rimane per sempre e può in alcuni casi segnare le vite delle persone, addirittura rovinarle o ucciderne la reputazione. Bisognerebbe, inoltre, prenderne atto che non c’è una reale educazione alla privacy sui social. Siamo, infatti, la prima generazione a confrontarsi con le straordinarie potenzialità di Internet e per questo siamo anche la più esposta alle insidie, non conoscendole pienamente. Bisogna confrontarsi, allora, tutti insieme, su come fornire ai cittadini, specie ai più giovani, i mezzi per un reale e consapevole uso dei social e del web. Essere per la libertà d’opinione e il web libero, non significa rassegnarsi alle barbarie, consegnarsi passivamente alla politica della vergogna, accettare il far west. Iniziamo a parlarne seriamente, per costruire consapevolezza e non darla vinta ai violenti. "La società punitiva". Una prigione a cielo aperto di Michel Foucault di Toni Negri Il Manifesto, 5 maggio 2016 Pubblicato "La società punitiva", il corso che il filosofo francese tenne al Collège de France tra il 1972 e il 1973. Un testo "militante" sul carcere, ma centrale per comprendere le teorie dello stato e del sapere, sviluppate nel decennio successivo. Ripercorrere queste Lezioni Michel Foucault (La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, pp. 371, euro 35) significa immergersi nelle temperie parigine del dopo ‘68. Sono Robert Castel e Felix Guattari (oltre naturalmente a Gilles Deleuze) che salgono immediatamente sul proscenio quando si parli di istituzioni repressive ed è in relazione all’insieme di temi da loro sollevati, divenuti centrali nella discussione politica, che Foucault apre la sua ricerca. Gli aspetti anti autoritari del 68 avevano drammatizzato la figura repressiva dello Stato: su questo tema occorreva far chiarezza. In più c’è l’esperienza del Gip, il «Gruppo di intervento sulle prigioni», di matrice «maoista», al quale Foucault partecipa da protagonista: è un’esperienza dura nei confronti della «giustizia», delle autorità carcerarie e drammatica nel rapporto con i detenuti. Parlare di carcere, parlare col carcere significa infatti scontrarsi direttamente con la struttura del comando sociale e confrontarsi con una funzione specialista ed essenziale dello Stato. È per Foucault un’apertura alla militanza, alla soggettivazione della lotta. Ma un’apertura interrotta dalla violenza dello scontro, consumata nella sproporzione dell’iniziativa di resistenza contro la risposta del potere. Ribellarsi è giusto ma… Compito immediato dell’intellettuale critico, situato in questa lotta, sarà allora quello di approfondire l’analisi. Il fine è comprendere per ricominciare, un passo diretto dalla teoria alla praxis, facendo del carcere un «caso» non più semplicemente della repressione ma dell’organizzazione del comando capitalista sulla società. Che, in questo frangente, il tema della fabbrica sia accostato a quello del carcere non può dunque stupire: stupisce semmai il fatto che non sia la fabbrica, direttamente, come molto più spesso avveniva in quell’atmosfera, ad essere protagonista. Ma parlare del carcere è parlare della fabbrica: de te fabula narratur. Il rovello del Politico . Ed è parlare del «politico», dello Stato come prodotto di una «guerra civile permanente». Di dove esce questa formula? Dal rovesciamento del dicton clausewitziano sulla «guerra come politica fatta con altri mezzi» nella concezione del «politico come immediato terreno di guerra sociale». Oltre a raccogliere temi presenti nel dibattito francese in quegli anni (si trattava di spiegare come la repressione statale delle lotte del ‘68 lasciasse inalterato l’antagonismo sociale) e nel decennio precedente (l’influenza di Socialisme ou Barbarie non è certo diminuita) quel rovesciamento si vuole immediatamente polemico nei confronti della concezione, marxiana e comunista, della lotta di classe. Ben paradossale questa polemica, perché infatti la ricerca foucaultiana affonda la propria base (documentaria e teorica) e consolida il proprio effetto retorico (nel riferimento alla rivolta seicentesca dei Nu-pieds normanni) nella reinterpretazione della lotta di classe di quegli autori marxisti che l’avevano descritta nel periodo di nascita dell’assolutismo moderno. Boris Porchnev (I sollevamenti popolari in Francia, Jaca Book), è la fonte di questo argomento ed è fuori dubbio che per lui «guerra civile permanente» significa nel Seicento «guerra di classe». Foucault affonda le mani nell’ampia letteratura che in quegli anni tratta della nascita dello Stato moderno ed evidenzia la presenza ossessiva di una «guerra civile permanente» - quella guerra civile che un altro autore marxista, da Foucault largamente studiato, Edward P. Thompson (The Making of the English Working Class, La formazione della classe operaia inglese, Il Saggiatore. Purtroppo da molti anni assente nelle librerie) aveva descritto per l’Inghilterra, illustrando la genesi dei comportamenti di una classe operaia nascente. La vita sotto sequestro - Il modello del carcere (e quello della fabbrica), riassunto nell’assetto disciplinare del potere, potrà dunque essere interpretato come una nuova lettura della lotta di classe? Non c’è risposta al quesito: larvatus prodeo, ripete Foucault. L’originalità del suo lavoro è comunque poderosa non solo dal punto di vista storiografico (la continua comparazione dei sistemi penali e della morale nel disciplinamento sociale, nelle teorie che ne accompagnano la genesi, la nascita del tipo «nemico sociale» e della penalità adeguata il sorgere del penitenziario in Inghilterra e Francia, la forma-prigione come modello sociale e la fabbrica come sequestro del tempo della vita, etc.) - lo è anche e soprattutto dal punto di vista del metodo ed è sul metodo che qui vogliamo insistere. Un primo punto consiste nel superamento, condotto in maniera fenomenologica (quando per fenomenologia si intenda alla Merleau-Ponty un orizzonte di esperienza), del metodo strutturalista. È invece un «metodo per dispositivi» quello che Foucault inaugura. Un cammino di immersione nella realtà per farne parlare i molteplici aspetti, esprimendo la potenza degli attori. Se mai si è potuta fare una precisa differenza fra la historia rerum gestarum e le res gestae, qui essa è chiaramente esposta. Res gestae: una storia narrata attraverso l’immersione dell’autore nell’archivio per provocare l’emergere di un regime di temporalità e di un paesaggio storico: la contemporaneità è spinta nel passato per farlo vivere. Sono gli attori stessi della storia ad esser messi in movimento: ne risulta la definizione della politica come guerra dei poveri contro il potere e del potere contro i poveri. È questo rapporto che configura l’oggetto storico. La ricezione liberale - Vi è poi un secondo punto essenziale: la forma nella quale il conflitto produce. È un conflitto molteplice, plurale, impossibile da ridurre sotto una sola categoria. Quanto l’interpretazione liberale del pensiero di Foucault ha insistito su questo! Sulla ricchezza della pluralità, micro piuttosto che macro, dissolutiva del dualismo antagonista del marxismo! Eppure, lungi dall’essere dispersivo, questo conflitto è strutturante - strutturante a vantaggio del potere ma anche disegnato, nella sua instabilità, dalle urgenze del momento, da una molteplicità di motivi sempre da riportare all’unità della funzione - un potere inteso come fragilità e contraddizione. L’importanza della scuola degli Annales (nel periodo braudeliano) su questo passaggio è indubbiamente essenziale - ma quanto ne ha fatto Foucault è irriducibile ad ogni influenza esterna. Un terzo elemento poi, caratterizza, queste Lezioni nell’evoluzione del pensiero foucaultiano: la nuova definizione del «sapere». Una definizione del «sapere» che comprende e compatta sia la soggettivazione del campo del conoscere sia l’insieme dei meccanismi che ne determinano la complessità. Il sapere di un’epoca (e quello di chi la conosce) non sta fuori ma dentro l’insieme di dispositivi che strutturano, organizzano ed eventualmente disciplinano la vita. Non il mero contesto degli eventi, non il tessuto giuridico, non semplicemente il terreno ideologico: tutto questo deve essere stretto insieme nel caratterizzare un’epoca, il suo farsi e le sue infinite contraddizioni. La dispersione dei poteri è percorsa dalla respirazione dei saperi che in essa si registra. Una posizione di Foucault contro Althusser? Fu certo giocata in questo senso, come un’estrema e feroce polemica contro la teoria althusseriana degli appareils idéologiques d’État. È bene tuttavia essere prudenti in proposito. Di differente ed irriducibile c’è sicuramente il punto di vista: Foucault guarda le cose «dal basso» e Althusser «dall’alto» - ma in entrambi il collegamento interno ai conflitti, strutturanti il potere, è dato da un sapere capace di inseguire la molteplicità nel configurarsi della macchina del potere. Le accuse settarie - Leggendo queste Lezioni si capisce quanto pretestuoso fosse il fatto di assumere, allora nel 72-73, il pensiero di Foucault come quello di un «anti-Marx». Rileggendo queste Lezioni continuo a ripetermi che Foucault divenne in Francia un anti-Marx non perché egli lo fosse ma perché Marx era ignoto ai suoi contraddittori, amici o nemici che fossero. Il panorama delle letture di Marx in Francia in quegli anni è, tolte alcune eccezioni, davvero miserabile. Le letture marxiane più recenti, ma anche antiche come quelle di Porschnev e di Thompson, mostrano un «Marx vivente»: Foucault rilegge questo Marx vivente fuori dalle imbarazzanti apologie marxiste del Pcf e contro ogni autorità, ogni lettura fatta dall’alto, e fa di Marx un tacito attore del proprio metodo. Ma il problema non riguarda semplicemente la Francia. Quando, alcuni anni dopo, apparve Sorvegliare e Punire, la sua recezione in ambito marxista fu tra le più settarie e cieche che si potessero immaginare. Per l’Italia - dove, assecondando le letture operaiste di Marx, avrebbe potuto essere più semplice leggere quel libro - le critiche furono feroci fra filosofi e ideologi come Asor Rosa e Massimo Cacciari. Ben diverse le letture dei giuristi, fra le quali quella straordinaria di Mario Sbriccoli. Che dire in definitiva? Quelle Lezioni del 72-73 costituiscono, come abbiamo detto, una formidabile introduzione alla studio della «guerra civile» che percorre la storia del capitale e dello Stato moderno. Alla forte implicazione soggettiva del metodo manca ancora tuttavia, in quelle Lezioni, l’apporto di una soggettività militante compiuta. L’esperienza del Gip non era stata sufficiente a costruirla. Saranno le lotte degli anni successivi che permetteranno a Foucault di fare ponte, attraverso la militanza, con il suo pensiero degli anni 80: una soggettività in azione che si vorrà immediatamente costituente. Quote rifugiati, multe salate agli Stati che non li accolgono di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 5 maggio 2016 Il nuovo regolamento di Dublino della Commissione contestato dai paesi di Visegrad. Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca esclusi dal nuovo regolamento ma intanto Cameron fa retromarcia sullo stop ai bambini siriani non accompagnati. Multe salate a chi non accoglie i profughi. Gli Stati europei che si rifiuteranno di accettare la loro quota di asilanten dovranno pagare 250 mila euro per ogni rifugiato allo Stato che lo ospiterà. È quanto prevede il nuovo regolamento di Dublino proposto dalla Commissione Junker. Proposta non ancora approvata, dovrà passare al vaglio del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri dei 28, ma che ha già fatto infuriare i paesi del blocco Visegrad prima ancora di una sua formulazione definitiva. Riuniti a Praga i ministri dei paesi dell’ex cortina di ferro capitanati dall’Ungheria di Viktor Orban hanno parlato di «scherzo», di proposta «estremamente deludente», di «spiacevole sorpresa» da Bruxelles. Ai quattro (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia) non è andata giù neanche la decisione presa ieri di abolire i visti per i cittadini turchi dotati di documento d’identità biometrico per facilitare l’applicazione dell’accordo Turchia-Ue sui flussi migratori. «È inaccettabile che la Turchia goda di questo regime di favore prima di Georgia e Ucraina», ha tuonato il ministro ungherese Peter Szijjarto. La monetizzazione della solidarietà europea - perché di questo si tratta, in effetti - è prevista solo «in circostanze eccezionali», ha spiegato presentando la riforma del regolamento Dublino III Frans Timmermans, vice presidente della Commissione. Resterebbe una possibilità non «un’alternativa finanziaria all’accoglienza dei profughi», poco più di una minaccia insomma. «Soltanto nel caso in cui ci siano documentate circostanze eccezionali, i paesi impossibilitati ad accogliere i migranti potranno pagare un onere finanziario per il numero di rifugiati che non accoglieranno». Il principio base nello schema di Dublino resta quello di sempre: i richiedenti asilo devono presentare domanda d’asilo nel primo paese di ingresso, salvo che non abbiano un familiare ad attenderli in un altro paese. Il nuovo meccanismo, denominato corrective fairness mechanism si attiva automaticamente ma soltanto quando un paese - indovinate quale - si trovi «sotto una pressione migratoria eccessiva». Stabilire quando l’asticella del flusso migratorio segni il rosso dipenderà da due parametri - la ricchezza e le dimensioni del paese - ma non è chiarissimo come verranno calcolati. Nel documento della Commissione di dice che l’aiuto coatto arriverà quando le domande di asilo supereranno del 150% il numero-chiave di riferimento, un indicatore calcolato in base al Pil e alla popolazione residente, che probabilmente rispecchia la quota di rifugiati stabilita dal piano europeo di ripartizione. Il ministro tedesco Thomas de Maizière nei giorni scorsi volendo essere più chiaro ha detto che «se la Grecia ce la fa ad accogliere 60mila profughi con una popolazione di 20 milioni di abitanti, l’Italia non potrà chiedere aiuto prima di aver superato i 350 mila arrivi». In ogni caso nella proposta anche i paesi con un indicatore al 100% non si vedranno assegnare alcun altro rifugiato. Ciò che per il momento sembra importare di più è lo snellimento delle procedure per impartire multe comunitarie ai paesi che non partecipano alle quote di riallocamento dei profughi, che altrimenti spetterebbe comminare alla Corte di Giustizia Ue con una procedura lunga. Al momento solo 591 persone sono state ricollocate da ottobre delle 160 mila previste nel piano della Commissione (1.600 al mese). «Numeri ridicoli», li ha commentati il capo del Dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno, Mario Morcone, in audizione ieri davanti alla commissione Esteri della Camera. Morcone ha parlato di «strumenti perfidi» con cui molti paesi europei dribblano l’accoglienza imposta dalle quote. Il meccanismo messo in piedi con la riforma detta Dublino Plus non prevede alcun diniego, solo uno stop temporaneo e, appunto, multabile. In più Dublino Plus rafforza il diritto al ricongiungimento familiare, anche per famiglie che si sono formate nei paesi di transito, e l’interesse superiore a tutela del minore non accompagnato. Regno Unito, Irlanda e Danimarca sono espressamente lasciati fuori dal nuovo regolamento. O meglio, possono ma non devono per forza ottemperarvi. Ma intanto il governo di David Cameron ieri ha revocato il rifiuto di accettare i minori siriani non accompagnati che hanno fatto richiesta di asilo in Inghilterra arrivati da Grecia, Italia e Francia prima del 20 marzo, data dell’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia. Un flop il piano sui rifugiati, la Germania ne ha presi solo 20 di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 maggio 2016 Appena 564 dei 40 mila richiedenti asilo hanno lasciato l’Italia per altri Paesi. Gli analisti criticano le nuove proposte Ue, Renzi insisterà sul Migration compact. Mentre l’Unione Europea vara altri piani di intervento per affrontare l’emergenza legata ai flussi migratori e formula nuove promesse, l’Italia fa i conti con il flop del progetto firmato sei mesi fa da Jean-Claude Juncker. Perché a fronte di quell’intesa, che prevedeva la redistribuzione di 40 mila richiedenti asilo giunti nel nostro Paese, i dati aggiornati al 27 aprile certificano la partenza di appena 564 di loro. La resistenza di Berlino e Madrid - Gli Stati che si erano impegnati a sostenere una politica comune hanno fatto una clamorosa marcia indietro, primi fra tutti Germania e Spagna, che complessivamente ne hanno accettati solo 38. Ecco perché viene accolta con scetticismo la proposta fatta ieri a Bruxelles e perché nei colloqui che si terranno oggi a Roma tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi, la cancelliera Angela Merkel e i rappresentanti delle istituzioni europee Donald Tusk, Martin Schulz e lo stesso Juncker, insisterà sulla necessità di procedere al più presto alla realizzazione del Migration Compact con gli aiuti ai Paesi africani, da dove partono i richiedenti asilo e i migranti economici, determinati a raggiungere il Vecchio Continente. E fortissime sono le proteste rispetto all’ipotesi, formulata dagli esperti finanziari della stessa Commissione, di tassare l’ingresso di turisti e lavoratori residenti fuori dall’Europa. "Si tratta di un controsenso - attacca Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi - visto che le loro spese creano ricchezza e posti di lavoro". Dura anche la reazione di Fabio Lazzerini, consigliere delegato di Enit, secondo il quale "se stiamo cercando di aprire il nostro commercio sempre di più, soprattutto con i Paesi asiatici attraverso investimenti anche di Governo, questa è una cosa che va un po’ controcorrente". Tra i trasferiti anche 21 bambini - Per quanto riguarda la "ricollocazione" degli stranieri, la cifra stabilita a Bruxelles prevedeva che ogni mese potessero trovare ospitalità in Stati diversi dall’Italia 1.666 richiedenti asilo. Sin da subito si era capito che si trattava di un’utopia, ma certo nessuno poteva immaginare un tale fallimento. Tra ottobre e aprile si è riusciti infatti a far accettare 543 adulti e 21 bambini. Ma ciò che più impressiona è la classifica di chi ha accettato le istanze presentate dal Dipartimento Immigrazione del Viminale guidato dal prefetto Mario Morcone. Mentre la Finlandia ha preso 148 stranieri e la Francia 137, la Germania ne ha accolti solo 20, la Spagna 18, il Belgio 24. Cifre ridicole, anche tenendo conto che ci sono 75 richieste accettate ma ancora non operative. E soprattutto che 233 sono in attesa di risposta e 20 sono state respinte. Le lacune del nuovo piano - Al momento la lettura degli analisti italiani della proposta formulata ieri a Bruxelles è stata generica, quanto basta comunque a individuare numerosi punti "critici". Perché, spiegano "non c’è alcuna agevolazione per i Paesi di primo ingresso - come invece era stato promesso - e dunque affermare che si sta effettuando una revisione del Trattato di Dublino per agevolare Roma e Atene è semplicemente falso". Anche la regola di tassare chi rifiuta di accogliere i richiedenti asilo viene ritenuta "priva di fondamento, perché era già nel progetto originario ma è stata respinta in malo modo dalla maggior parte degli Stati e dunque non c’è alcuna possibilità che adesso abbia un iter positivo". Basta cooperazione militare Italia-Egitto di Giulio Marcon Il Manifesto, 5 maggio 2016 Il 20 dicembre del 2014 a Roma una sorridente ministra della Difesa italiana Roberta Pinotti firmava con il Generale Sedki Sobhi una dichiarazione congiunta di cooperazione militare tra Italia ed Egitto. Sedki Sobhi è l’attuale ministro della difesa egiziano e nel marzo del 2014 aveva preso il posto di Al-Sisi (un altro generale) che nel frattempo si era candidato per la presidenza della Repubblica, facendosi eleggere due mesi dopo. Alla dichiarazione congiunta avrebbe dovuto seguire un accordo vero e proprio, che non è mai arrivato. Ma, come dice il comunicato del nostro ministero della difesa, quella dichiarazione - firmata dopo colloqui «improntati alla massima cordialità» - avviava delle «concrete attività di cooperazione», quali l’addestramento delle forze armate egiziane e l’assistenza per i sistemi d’arma. Quali sono precisamente queste attività e in cosa consistono esattamente? Perché il governo non ce lo dice? Non è la prima, né sarà l’ultima volta che il nostro governo firma accordi con paesi i cui governi si macchiano di crimini, violazioni, diritti umani e guerre. Solo qualche settimane fa il parlamento ha approvato un accordo di cooperazione con la Somalia, nonostante sia in vigore un embargo (deciso dall’Onu) sulla vendita di armi a quel paese. Nonostante i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch ci abbiano documentato anche in passato come il regime egiziano violi sistematicamente i diritti umani - l’anno scorso il nostro governo ha tranquillamente autorizzato il trasferimento di sistemi d’arma per ben 37 milioni di euro al governo del Cairo. Protagoniste imprese come la Beretta, la Oto Melara, la Selex, il gruppo Finmeccanica che hanno venduto al regime di Al-Sisi dai fucili e le pistole (decine di migliaia in due anni) a sistemi d’arma più complessi e raffinati. Sostanzialmente si viola la legge 185 sul commercio delle armi: per quella legge non si possono vendere armi a paesi in guerra, a dittature e a regimi che violano i diritti umani. Nel frattempo Giulio Regeni è stato assassinato e le responsabilità del regime sono emerse con tale forza da costringere il governo italiano a richiamare l’ambasciatore per consultazioni. Invece la «concreta cooperazione militare» con l’Egitto continua, per la felicità dei produttori d’armi. Mentre in Egitto, ci ricorda Amnesty International, avvengono arresti e detenzioni arbitrarie, viene limitata la libertà di stampa e di espressione, vengono perseguitate le opposizioni e gli attivisti dei diritti umani, vengono discriminate le donne e le minoranze e viene garantita l’impunità ai soldati e ai poliziotti che si macchiano di crimini e violazioni dei diritti delle persone. È per questo motivo che - oltre al sottoscritto - Roberto Saviano, Alice Rohrwacher, Stefano Benni, Andrea Segre e Valerio Mastandrea hanno promosso un appello per chiedere lo stop alla cooperazione militare con l’Egitto (per aderire: iosottoscrivo@gmail.com). L’appello chiede la «verità per Giulio Regeni» e la fine di ogni fornitura di armi e assistenza alle forze armate egiziane. In poche ore sono già migliaia i cittadini che hanno aderito all’appello. Il richiamo dell’ambasciatore in Italia qualcuno può considerarlo un atto politico forte, ma sostanzialmente simbolico e senza effetti concreti. Ben più significativa sarebbe la decisione di bloccare la cooperazione militare - innanzitutto - con quel regime e non dare più l’autorizzazione alla vendita di armi a quel paese. Trasferire armi ad un governo che viola i diritti umani, che imprigiona gli oppositori, limita la libertà di stampa significa essere complici di un regime ed è un atto eticamente e politicamente inaccettabile. E dopo le bugie, le reticenze e le omissioni degli apparati del regime di Al Sisi sul caso di Giulio Regeni sarebbe ovvio revocare gli effetti di quella «dichiarazione congiunta» di cooperazione militare. Speriamo che Roberta Pinotti se ne renda conto. Messico: il triste fenomeno dei bambini nati nelle carceri da madri detenute Agenzia Fides, 5 maggio 2016 Attualmente nelle carceri messicane ci sono più di 13 mila donne e la maggior parte sono madri. Nei centri di detenzione maschile e femminile di Santa Martha, a Città del Messico, vivono anche 550 bambini che sono nati lì. Si tratta del carcere nel quale risiede il maggior numero di minori, circa 110. Secondo la fondazione Reinserta un Mexicano A. C., l’80% di questi minori vivono in carceri in contesti violenti e di droga. Nell’80% degli istituti di detenzione del Paese non esiste un Centro di Sviluppo Infantile nè le condizioni per una sopravvivenza dignitosa per la loro età, e quando i minori si ritrovano nella vita reale incontrano tanti problemi. Non tutte le prigioni del Messico ammettono la permanenza dei minori dove sono detenute le rispettive madri, e questo, denuncia la Commissione Nazionale dei Diritti Umani (Cndh), viola il diritto dei piccoli a vivere con la mamma. In uno studio sulle donne detenute, la Cndh ha registrato la presenza di bambini in 51 centri di reclusione. La permanenza è consentita solo in caso in cui il piccolo nasce mentre la mamma sta scontando una pena. Nel carcere di Acapulco ci sono bambini di 14 anni che vivono con le madri. In altri 10 in Bassa California, Chiapas, Distretto Federale, Jalisco, Nayarit, San Luis Potosí, Yucatán e Zacatecas, non è consentita la permanenza di minori. Gran Bretagna: nelle carceri aumenta il consumo di cannabis sintetica primapress.it, 5 maggio 2016 All’interno delle carceri britanniche, fra i detenuti, sta prendendo pericolosamente piede la diffusione ed il consumo di cannabis sintetica. Peter Clarke, al comando da Febbraio della HM Chief Inspector of Prisons, ha dichiarato al The Guardian che l’impatto sull’intera popolazione carceraria per le conseguenze dell’uso di questa nuova sostanza è drammatico, e sta stravolgendo la quotidianità dei penitenziari. Venduta tra i detenuti con il nome gergale di "spice" e di "black mamba", la cannabis sintetica sta provocando morte, malattie gravi, reazioni psicologiche pericolose e totalmente inaspettate e imprevedibili, vicende di autolesionismo e psicosi. Secondo il personale delle carceri, l’effetto di questa droga ha alterato completamento i comportamenti ed i protocolli di restrizione imposti dal regolamento che starebbero saltando perché ci si trova difronte a situazioni assolutamente imprevedibili. Un rapporto del 2015 dell’Ombudsman per le carceri, ha riportato che i morti in prigione tra il 2012 e il 2014 per uso di cannabis sintetica sono state 19. A differenza della resina tradizionale e dell’erba, la cannabis sintetica è prodotta nei laboratori e di solito è inodore, rendendo difficile per il personale penitenziario capire se e quando i detenuti la stiano fumando. Nonostante vietata, larghissime quantità continuano a trovare i modi più svariati per entrare nelle mura dei penitenziari. Nella relazione del 2015 del difensore civico si legge un’esortazione ai governanti perché mettano in atto urgenti misure per rendere maggiormente edotto il personale circa la presenza di questa droga, circa i segnali da cogliere per capire che i prigionieri la stanno assumendo e circa i modi per poter arginare tutta una serie di imprevedibili emergenze. Un portavoce del servizio carcerario nazionale ha fatto sapere che il governo, nonostante stia già utilizzando tutti i mezzi a disposizione per prendere il controllo della situazione, è consapevole del fatto che si debba fare di più e perciò investirà 1,3 miliardi di sterline per riadeguare le strutture alla nuova emergenza e prendersi cura sia dei detenuti che del personale.