Aiutiamo Ristretti Orizzonti, il giornale scritto tra le sbarre che rischia chiudere di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 4 maggio 2016 Ristretti Orizzonti è tante cose insieme: giornale fatto in carcere a Padova, momento di dibattito nella società, centro di documentazione, notiziario quotidiano sulla giustizia e sull’esecuzione della pena. Ogni giorno oltre quattro mila utenti tra giornalisti, ricercatori, funzionari del Dap compresi, entrano nel sito e accedono all’archivio composto da almeno 130 mila voci o ricevono direttamente per posta la newsletter con la rassegna stampa. Un lavoro immane e prezioso, realizzato da detenuti ed ex detenuti, e cominciato 19 anni fa; una voce libera che, per mancanza di fondi, rischia ora di spegnersi. Di fatto una perdita per l’informazione e per chi crede che cultura e conoscenza siano i giusti mezzi per costruire una società migliore. Per questo faccio mio l’appello di Ristretti. Abbiamo per anni fornito i nostri servizi, garantendo un’informazione approfondita e puntuale e facendolo gratuitamente, perché ci interessava soprattutto arrivare a più persone possibile, conquistarle non alle nostre idee, ma a una visione più critica dei temi legati alla Giustizia, all’esecuzione delle pene, al carcere. Oggi nessuno investe più sui "soggetti difficili", si preferisce fingere che i "buoni" siano tranquillamente e sicuramente buoni e possano fregarsene dei "cattivi". Ci sono migliaia di persone che leggono il nostro Notiziario quotidiano dal carcere... Molti si sentono partecipi quando esprimiamo queste difficoltà e ci sostengono come possono e in questa occasione li vogliamo ringraziare di cuore. Chiediamo uno sforzo anche agli altri, a chi magari rimanda da tempo la sottoscrizione di un abbonamento o l’invio di una offerta, perché pensa che non cambino la situazione, contiamo sul vostro appoggio. Cari lettori, ma anche caro Ministro, aiutateci a sopravvivere, e a continuare il nostro lavoro, al servizio di chi vuole rendere le pene più sensate e più utili alla società tutta. Per non chiudere abbiamo bisogno di raccogliere 2.000 abbonamenti, o l’equivalente in donazioni. Contiamo su tutti voi, grazie fin da ora. Alla direttrice Ornella Favero, lo dico qui, come del resto l’ho detto a voce, e garantisco personalmente il mio aiuto. Per solidarietà e per amicizia, ma soprattutto perché credo che il percorso di Ristretti, al pari di quello di Voci di dentro e tutti gli altri giornali che si producono nelle carceri, siano percorsi che fanno sicurezza, quella vera e non certo quella illusoria fatta da città blindate o da carceri abbandonate. Percorsi che contribuiscono a trasmettere nelle persone detenute valori come solidarietà, giustizia, rispetto degli altri. Valori che sono alla base del nostro lavoro nelle carceri a contatto quotidiano con chi in carcere ci finisce proprio per mancanza di opportunità, risorse economiche, disagio sociale e mai per indole. Perché nessuno, assolutamente nessuno, nasce cattivo o criminale, ma semplicemente lo diventa (per obbedire a esempio, o perché incapace di disobbedire e dunque di scegliere, come sostiene Zygmunt Bauman) e comunque non resta tale a vita, se gli si dà la possibilità e lo si aiuta a comprendere l’errore. Convinto come sono che nessuno è mai senza colpa e che le colpe non sono mai sempre degli altri. Tre miliardi di euro l’anno per un sistema carcerario che sforna delinquenti di Maurizio Tortorella Tempi, 4 maggio 2016 Per ogni detenuto il costo è 130 euro al giorno. Cifra altissima, paradossale, visto lo stato di quasi tutte le nostre prigioni. Surreale, se si analizzano i "tassi di recidiva". Credo che gli italiani, in stragrande maggioranza, non sappiano quanto costa allo Stato l’ultima appendice della giustizia penale, quella che nei tribunali da Bolzano a Ragusa viene quotidianamente amministrata in loro nome. Ecco, forse è arrivato il momento di dire loro che questo paese, ogni anno, spende quasi 3 miliardi di euro per "l’esecuzione penale". Il lettore probabilmente si domanderà: e che diavolo è l’esecuzione penale? Semplice, è l’insieme delle misure tese a mettere in pratica una condanna. Quindi: i 193 carceri attivi in Italia, con tutte le spese annesse e connesse; forse anche i circa 4 mila braccialetti elettronici disponibili, con relativi canoni d’affitto; probabilmente anche le varie attività di reinserimento. Il problema è che questa immensa ricchezza pubblica viene letteralmente buttata via, attraverso una finestra chiusa a grate. Soltanto per ognuno dei 53.495 detenuti che erano presenti in cella al 30 marzo scorso, c’è chi ha calcolato che il costo si aggiri sui 130 euro al giorno. Ma la cifra è altissima e insieme paradossale, visto lo stato disastroso di quasi tutte le nostre prigioni. E il dato diventa doppiamente paradossale, quasi surreale, se si analizzano i "tassi di recidiva", cioè la propensione a delinquere di chi è già passato almeno una volta dietro le sbarre: in Italia torna a compiere reati il 68 per cento dei detenuti, mentre nel resto d’Europa si va dal 15 al 20 per cento. Insomma, il carcere in Italia è davvero l’eccellente scuola di delinquenza di cui si è sempre parlato. Misure alternative non pervenute - Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, da un anno pare impegnato a fondo in una campagna a favore delle pene alternative, e per riformare il tema complessivo dell’esecuzione penale. È una scelta oculata e corretta, la sua, e non soltanto dal punto di vista sociale, ma anche per gli effetti che quella riforma potrebbe avere sul conto economico del ministero e del Paese. Un suo predecessore, Paola Severino, aveva già calcolato nel 2012 che "la recidiva di chi sconta la condanna attraverso misure alternative (quindi non passando per il carcere, se non in certi casi e comunque fugacemente, ndr) scende drasticamente al 19 per cento". Paola Severino aveva correttamente valutato anche un altro aspetto fondamentale della questione: il lavoro dei condannati. Che purtroppo in Italia è ancora un’araba fenice. "La percentuale di recidivi che non hanno mai lavorato in carcere - calcolava quattro anni fa l’ex guardasigilli - è superiore di tre volte rispetto a coloro che hanno svolto mansioni lavorative all’esterno o all’interno dei penitenziari". Il problema è che in Italia l’82,6 per cento delle condanne viene scontato in carcere, in pochi metri quadrati di cemento armato e quasi sempre senza che sia prevista alcuna attività lavorativa: e l’ozio, se possibile, abbrutisce ancor più i detenuti. In Francia e in Gran Bretagna avviene quasi l’esatto contrario, con due terzi dei condannati impegnati in lavori di pubblica utilità, per di più condotti quasi sempre all’esterno delle prigioni. Non vale nemmeno la pena di parlare di realtà come la Danimarca, dove le regole sono così lontane dalle nostre da essere quasi inconcepibili alla fioca luce della nostra esperienza. È vero che anche in Italia ci sono (pochi) casi esemplari: come il carcere di Bollate, vicino a Milano, dove invece il lavoro è la regola, e la recidiva è inferiore al 20 per cento. Ma sono per l’appunto casi, e in quanto tali isolati. Purtroppo. Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo di Michele Ainis Corriere della Sera, 4 maggio 2016 "E tu, che lavoro fai?". "Il tuo". Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti. Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare. E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso. Prescrizione, ultime trattative. Le condizioni dei 5 Stelle di Andrea Colombo Il Manifesto, 4 maggio 2016 M5S: bloccarla definitivamente dopo la sentenza di primo grado. Di Battista: "Gli scandali fanno capire perché il Pd non approva le nostre proposte". Il testo base sulla prescrizione, atteso per ieri in commissione Giustizia al Senato, non è arrivato. Sarà per questa mattina. Forse. Dipende dall’esito della riunione notturna dei senatori centristi e poi dal vertice di maggioranza con il ministro Orlando in agenda per la mattinata di oggi. Raggiungere un accordo è necessario anche se, come ricordava ieri il relatore Felice Casson, il passaggio chiave sulla prescrizione non sarà contenuto nel testo base, che si limiterà a riproporre quello approvato dalla Camera. Ma la modifica, da inserire poi con apposito emendamento, deve essere pronta prima di licenziare il testo base. Al vertice con Orlando non parteciperanno gli alati di Verdini, che formalmente non fanno parte della maggioranza ma che il loro peso lo hanno già fatto sentire nel summit di Montecitorio: concordano con i centristi sulla necessità di mantenere i termini della prescrizione inizialmente fissati dal governo: 15 anni e mezzo. La Camera ne aveva aggiunti 6. Governo e maggioranza sono disposti a mediare portandoli a 18, magari con l’espediente di mantenere il testo del governo, aggiungendo però tre anni di sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Dove si fermerà il boccino è difficile dirlo, ma non è che tra i 15 anni e mezzo e 18 ci sia una gran differenza. O meglio c’è, ma in termini di propaganda, non di sostanza. Alla soglia di elezioni importantissime e con una raffica di inchieste e provvedimenti giudiziari che tengono il Pd sotto scacco, il premier ha assolutamente bisogno di una norma che certifichi lo schieramento del governo a fianco della magistratura e non dei corrotti. Non a caso il Pd non si lascia sfuggire una sillaba sulla coincidenza che ha visto diversi di quei provvedimenti scattare dopo l’attacco del premier alla magistratura. I verdiniani, per bocca del capobastone senatore D’Anna, la denunciano: "È un’offensiva della magistratura contro Renzi e il governo". Il Pd resta muto. Di conseguenza il ragazzo di Rignano non può permettere che i centristi cantino vittoria, perché la ricaduta in termini d’immagine sarebbe probabilmente fatale. A palazzo Chigi non sono sfuggite quelle rilevazioni che, dopo il durissimo affondo di Piercamillo Davigo, hanno registrato un consenso per l’ex pm di Mani pulite addirittura del 90% del campione. Però Matteo Renzi non è il solo a conoscere le regole del gioco della propaganda facile. I pentastellati non sono da meno e approfittando dello stallo sulla prescrizione rilanciano. Di Battista annuncia la disponibilità del suo movimento ad appoggiare la riforma, però non lungo il sentiero tracciato da governo e maggioranza perché "allungare la prescrizione non ha senso, è un modo che può sempre essere utilizzato per aggirare la giustizia". L’M5S propone invece di bloccare definitivamente la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (anche se preferirebbe dopo il rinvio a giudizio, ma sono uomini di mondo), chiede un "daspo" sia per i politici corrotti, che non potrebbero più candidarsi dopo la condanna passata in giudicato, che per le imprese, che non potrebbero più lavorare per la Pubblica amministrazione. Infine i pentastellati chiedono l’uso di "agenti provocatori". Non sono proposte nuove quelle dell’M5S, anche se hanno acquistato smalto potendo ora vantare una notevole sintonia con le ipotesi di Davigo. Il governo considera possibilità affini: se non la sospensione della prescrizione dopo il primo grado, almeno l’eventualità di far decorrere i termini dal rinvio a giudizio invece che dal momento in cui il reato viene commesso. In un caso come nell’altro, con termini che nella migliore delle ipotesi supereranno i 15 anni, sarebbe più onesto dire che per la corruzione, come per l’omicidio, la prescrizione viene cancellata. Solo che una simile forzatura sarebbe improponibile sia per i centristi che per i verdiniani, e i 5 Stelle lo sanno perfettamente. La loro proposta è fatta apposta per essere respinta in modo da poter poi levare l’indice. Anzi, Di Battista neppure aspetta: "Gli scandali che hanno travolto il Pd fanno capire perché non approvano le nostre proposte. Se le approvassero resterebbero in pochi". A piazzista, piazzista e mezzo. Omicidio stradale, ora rischiano anche i sindaci di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 maggio 2016 "Attenzione alle buche". Non sarà più la tipica raccomandazione da fare ad ogni automobilista che sfidi le strade di Roma e di molte arterie italiane, ma anche a chi quelle buche avrebbe dovuto coprirle. Stando ad una circolare del Ministero dell’Interno, infatti la responsabilità per il reato di omicidio stradale, nella sua forma non aggravata, ricade anche su chi si occupa "della manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli". In altre parole, l’Anas, i sindaci, i presidenti di Provincie e Regioni e anche le case produttrici di auto. Se i problemi tecnici delle singole vetture dovute a errori delle case produttrici sono un fenomeno più circoscritto, altrettanto non si può dire delle condizioni delle nostre strade. Guard rail montati male, segnaletica illeggibile o assente ma soprattutto asfalto rovinato e buche: tutte queste carenze strutturali possono far scattare l’incriminazione per omicidio stradale in capo ai vertici degli enti che dovevano occuparsi della manutenzione. A stabilirlo è una circolare interna diramata dal dipartimento della sicurezza pubblica del Viminale e destinata a Prefetture, Questure, Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza pochi giorni dopo l’approvazione del reato di omicidio stradale. Certo, si tratta di un atto ministeriale e dunque senza alcun valore normativo, tuttavia il documento ha piena efficacia sul piano interno dell’amministrazione ed è vincolante per tutti gli uffici subordinati al ministero. Dunque, nel caso di indagini per omicidio stradale, l’attenzione degli inquirenti sarà focalizzata non solo sul pirata della strada, ma anche sulle condizioni dell’asfalto e della segnaletica, per individuare se abbiano o meno giocato un ruolo nell’incidente. La circolare - "Il reato può essere commesso da chiunque viola le norme che disciplinano la circolazione stradale. In virtù di tale previsione, il reato ricorre in tutti i casi di omicidio che si sono consumati sulle strade, anche se il responsabile non è il conducente del veicolo. Infatti, le norme del Codice della Strada disciplinano anche comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli", recita la circolare, con riferimento alla fattispecie prevista dal secondo comma dell’articolo 589 del codice penale, che disciplina l’omicidio colposo stradale. Non si tratta di una rivoluzione vera e propria. La Cassazione, infatti, si è già espressa sulla responsabilità penale dell’ente proprietario della strada, anche prima della riforma chi ha introdotto l’omicidio stradale. In particolare, nel 2012, ha confermato la condanna per omicidio colposo nei confronti di un amministratore provinciale, per omesso controllo sulle arterie stradali di competenza, in particolare sulla pulizia dei fossi adiacenti le carreggiate. L’acqua piovana accumulata, infatti, aveva provocato lo sbandamento e la morte di un automobilista che percorreva la strada provinciale. Eppure, dopo la circolare l’auspicio è che amministratori pubblici e Anas siano spinti a correre ai ripari, almeno nei casi più eclatanti di dissesto. Anche perché la pena per il reato è esemplare: da due a sette anni di reclusione. L’omicidio stradale - La nuova fattispecie, prevista dall’articolo 589 bis del codice penale, è stata approvata nel marzo di quest’anno e ha introdotto nell’ordinamento una figura autonoma di reato. La norma prevede pene detentive più severe (fino a 12 anni di reclusione, che diventano 18 nel caso di più vittime) rispetto all’omicidio colposo, che aumentano nel caso in cui il guidatore abbia causato l’incidente perché sotto effetto di alcool o droga, se guidava oltre i limiti di velocità consentiti o se ha compiuto manovre azzardate. Inoltre, è previsto il raddoppio dei termini di prescrizione e l’arresto obbligatorio in flagranza, nei casi più gravi. La norma ha sollevato le proteste dell’Unione Camere penali, che l’ha definita un "arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale". Secondo i penalisti, infatti, l’omicidio stradale era già previsto come reato e pene così elevate sono assolutamente inconcepibili "per un fatto qualificato come colposo". Inoltre, la nuova previsione sembra istituire una sorta di "presunzione di colpa" in capo al guidatore, eliminando la verifica caso per caso se le droghe o l’alcool siano effettivamente in rapporto di causalità con l’evento del reato. Arresto del Sindaco di Lodi, Renzi: l’inchiesta fa male, ma nessun complotto di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 4 maggio 2016 L’intervento del premier a Rtl 102.5 sull’arresto del sindaco Pd Simone Uggetti per gli appalti sulle piscine comunali di Lodi: "Piena fiducia nei magistrati". "Questa inchiesta fa male, uno fa di tutto per far vedere le cose positive dell’Italia, è sempre un problema" ma "c’è bisogno di grande chiarezza nei confronti dei magistrati, nessun complotto. Ma de che?". È rimasto in silenzio per un giorno, forse per capire meglio i contorni della vicenda. Ma ora anche il premier Matteo Renzi interviene, a Rtl 102.5, per commentare l’arresto a Lodi del sindaco Simone Uggetti in un’inchiesta sugli appalti delle piscine comunali. "Piena fiducia nei magistrati, se saranno colpevoli è giusto che paghino - sottolinea ancora Renzi - ma nessun tipo di strumentalizzazione di battaglia politica. Nessun complotto". La questione morale - "Io mi arrabbio perché il mio governo ha aumentato le pene per la corruzione e aumentato la durata della prescrizione sulla corruzione mentre altri hanno votato no. La questione morale c’è dappertutto, c’è qualcuno che ruba, non va bene ma smettiamola di sparare sugli altri. Non c’è destra contro sinistra ma onesti contro ladri". Il premier ha sottolineato un aspetto: "Quando si ha una comunità’ di 50mila amministratori" è "evidente" che ci possa essere "una questione morale". "Non ci possiamo immaginare che su una comunità di 50mila persone possiamo controllarli uno per uno". L’attacco agli avversari - Poi Renzi si rivolge agli avversari e ribatte colpo su colpo alle accuse ricevute. "M5s e Lega usano due pesi e due misure. Parlare di riforma costituzionale in questa vicenda non c’entra niente, è un tentativo di strumentalizzare una vicenda giudiziaria. È molto facile - dice il premier replicando agli attacchi di Salvini - fare battaglia su questo contro altri. Ieri Mantovani è tornato in aula tra la bagarre dopo essere stato indagato per vicende legate a questioni di tangenti e corruzione". Il referendum - "È giusto che sia la gente a dire sì o no". Così Matteo Renzi sul referendum di ottobre. "Questa riforma è importantissima. Conta vincere, ma conta anche coinvolgere la gente", ribadisce il presidente del Consiglio. "L’errore lo abbiamo fatto noi nel 2001. Abbiamo voluto inseguire la Lega, abbiamo fatto un federalismo che non ci permette di spendere i soldi europei. A me interessa sbloccare l’Italia. Il Paese ha tutto per essere il più forte d’Europa. Due anni e mezzo fa la nostra credibilità era sotto zero, non si facevano le riforme, in quel momento mi è stato chiesto di fare un governo di rottura, ovviamente avrei preferito passare per le elezioni, che ci saranno nel 2018, era un’impresa alla quale nessuno credeva, oggi le cose stanno cambiando, è evidente che il mio è un governo a progetto". Le banche - "Io a capo della lobby delle banche? Ma de che? Io sono della lobby dei boy scout". La chiacchierata radiofonica con il presidente del Consiglio tocca altri temi. Quello delle banche, prima di tutto. "Il rimborso totale non ci potrà essere. Questi signori hanno messo soldi in operazioni a rischio, avevano assunto obbligazioni subordinate a rischio che rendevano molto di più". Così Matteo Renzi risponde alle proteste degli obbligazionisti delle quattro banche coinvolte dal dl del governo. "Abbiamo dato una mano, abbiamo fatto una durissima battaglia in Europa. Se hanno da protestare vadano a fare l’arbitrato. Io non sono convinto che facciano bene a farlo", sottolinea il premier ricordando che "il governo non ha guardato in faccia nessuno". Gli obbligazionisti "hanno messo dei soldi in operazioni a rischio", ricorda il premier. Le elezioni - Poche battute anche per le elezioni amministrative ormai alle porte (da Roma a Milano). "Chi legge i giornali pensa che i politici ogni giorno pensano a chi vince e a chi perde e agli effetti nei giochi politici. È possibile per chi vive nell’ acquario romano ma secondo me ai cittadini non interessano minimamente queste cose, interessa se le scuole funzionano, se le liste d’attesa della sanità si riducono, se si ricavano posti di lavoro dalla cultura. Le amministrative non riguardano il governo, la riforma costituzionale sì. Le riforme sono un elemento chiave della vita del governo, le amministrative no". Emanuele Fiano (Pd): "Non siamo in guerra con i pm. Ma siamo garantisti..." di Paola Sacchi Il Dubbio, 4 maggio 2016 Un messaggio a sinistra, a Alfredo D’Attorre di SI e anche a eventuali mugugni della minoranza che ora incolpano Matteo Renzi per il dialogo con Denis Verdini: "Non c’è una spectre che induce la classe dirigente del Pd a delinquere. Non lo credono gli italiani". Un altro messaggio a destra: "Matteo Salvini pensi agli arresti in Regione Lombardia e al caso Belsito prima di accusare il Pd". Quanto a Piercamillo Davigo: "Il Pd non è in guerra". Dopo l’arresto del sindaco renziano di Lodi Simone Uggetti, in una delle giornate più nere per i dem, sotto assedio, parla con Il Dubbio Emanuele Fiano, autorevole esponente della segreteria di Largo del Nazareno, dove è responsabile delle riforme costituzionali e la sicurezza. Fiano è anche l’uomo indicato dal borsino del Transatlantico di Montecitorio a sostituire alla guida della commissione Antimafia Rosy Bindi. Onorevole Fiano, dopo Tempa rossa, il caso di Stefano Graziano, arriva l’arresto del sindaco renziano di Lodi. C’è un’offensiva delle Procure contro il Pd? Mi auguro che un’ipotesi del genere non possa neanche balenare nella mente di qualcuno, vorrebbe dire la fine dello Stato di diritto. E quindi noi non ci pensiamo affatto. Ma è un fatto che in senso cronologico i guai giudiziari del Pd sono andati crescendo dopo la cosiddetta svolta garantista di Renzi. Stiamo ai fatti. Noi agiamo su tre filoni. Primo: siamo la legislatura nella quale sotto questa maggioranza e sotto questo governo sono state inasprite le pene sulle corruzione; è stata istituita l’Autorità anticorruzione, alla cui guida è stata messa una autorevolissima figura, quale è il dottor Raffaele Cantone, votato all’unanimità dal Parlamento. A lui sono stati dati poteri straordinari di intervento. Noi quindi abbiamo agito contro fenomeni corruttivi. Ma sembrerebbe che non basti. Noi siamo sicuramente garantisti come è giusto che sia e come è nella nostra cultura. La magistratura compia i suoi passi, faccia il suo lavoro con la massima rapidità possibile. Ma fino a che non ci sono prove e condanne di coloro che sono accusati, noi pensiamo che vadano garantite le prerogative di innocenza di ciascuno, politico o meno. Però, ripeto, che sulla corruzione si debba agire con forza lo dimostrano i fatti da noi compiuti in parlamento. Intanto, il Presidente dell’Anm Piercamillo Davigo si è scagliato contro i politici. E questo quasi subito dopo le parole di Renzi contro "la barbarie giustizialista". Cantone e il vicepresidente del Csm Legnini lo hanno un po’ criticato. Che sta succedendo? Rispondiamo agli atti giudiziari della magistratura. Davigo è la rappresentanza sindacale della categoria. Agiamo secondo la legge e con rispetto della magistratura e naturalmente anche delle nostre prerogative di fare leggi. Non ci sentiamo in guerra, il terreno della polemica non ci interessa, questo ovviamente sempre nel rispetto della magistratura e delle garanzie degli imputati. Oggi (ieri ndr) solo il vicesegretario Pd, Lorenzo Guerini, anche lui di Lodi, ha detto che il sindaco è persona perbene. Sono arrivate accuse e quasi sentenze da parti politiche la cui legittimazione a fare queste cose è veramente incredibile. Il leader della Lega Salvini pensi all’arresto del presidente della commissione Sanità della Lombardia, a quello dell’assessore Mantovani di FI e alla ben nota vicenda Belsito, anche se il processo deve ancora concludersi. La Lega dovrebbe cautelarsi. E i Cinque Stelle non hanno ancora fatto sapere cosa deve fare l’assessore di Livorno sotto inchiesta. Salvini parla di ipotetica deriva penale del Pd. Ma sostiene che sulla legittima difesa non ci debba essere l’intervento del giudice e invece quando si parla di inchieste su esponenti del Pd. I giudici vanno bene? Vanno molto bene. Ingroia parla di romanzo criminale da Craxi a Berlusconi a Renzi, ma lei, da ex Pds qualcosa da rimproverarsi magari sul garantismo la ha? Io personalmente sono stato educato a una cultura garantista, non ho mai fatto parte di un partito delle manette facili. Tutto deve essere riportato all’equilibrio tra i poteri dello Stato. D’Attorre, ex Pd, parla di "questione morale" e tira in ballo i rapporti con Verdini. Che gli risponde? Non vedo nessun tipo di relazione. Suggerisco a D’Attorre, che viene da una cultura di garanzia, di non confondere legittime critiche politiche con questioni che riguardano eventualmente il comportamento penale del singolo. Se qualcuno gioca con le parole, facendo finta di pensare che esista una spectre che induce la classe dirigente del Pd a delinquere, credo che non incontrerà neppure l’ interesse degli italiani. La pg di Venezia "Doina torni in semilibertà, le foto non erano vietate" di Errico Novi Il Dubbio, 4 maggio 2016 La procura di Venezia non ha ascoltato richieste di chi dalla "società civile" e dai media (come il giornalista Gramellini) chiedeva di "punire" Doina e di levarle la semilibertà perché aveva postato alcune sue foto sorridenti su Facebook. Ha ritenuto che "non costituiscano un vulnus al processo di rieducazione". Ora deve decidere il tribunale di Sorveglianza. Dalla Procura generale di Venezia nulla osta al ripristino dei benefici per la detenuta. Con un atto di coraggio che non passerà inosservato, la Procura generale di Venezia ha dato nulla osta al ripristino della semilibertà per Doina Matei, la donna rumena condannata a 16 anni per aver ucciso nel 2007 Vanessa Russo, conficcandole la punta di un ombrello in un occhio. Il Tribunale di Sorveglianza si è riservato di decidere nei prossimi giorni, ma la posizione assunta ieri dalla pg avrà un peso notevole: la motivazione addotta è che i sorrisi mostrati da Doina nelle foto su Facebook "non costituiscono un vulnus alla rieducazione". All’udienza, che si è svolta a porte chiuse, era presente la detenuta, alla quale è attualmente sospeso il beneficio che le consentiva di lavorare fuori dal carcere. Provvedimento adottato lo scorso 12 aprile dopo la sollevazione mediatica seguita alla pubblicazione su Facebook delle foto in cui la trentenne si era fatta ritrarre al mare. Quelle immagini erano state intercettate e viralizzate da alcuni giornali. Travolto dalla campagna mediatica, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia aveva deciso di sospendere la semilibertà, in attesa di una valutazione più approfondita. Nell’udienza di ieri è emerso un particolare decisivo: nell’ordinanza con cui era stata originariamente disposta la possibilità, per Doina, di lavorare fuori dal carcere della Giudecca in cui è detenuta, era stata esplicitamente autorizzata l’apertura di un profilo Facebook, in modo da consentire alla donna di comunicare con il figlio di 10 anni che vive in Romania. La pubblicazione delle foto, dunque, non costituiva in sé una violazione delle disposizioni previste dal giudice, che nel caso dei detenuti fanno norma di legge. È quanto avevano inutilmente tentato di sostenere i difensori Nino Marazzita e Carlo Testa Piccolomini. I due legali di Doina hanno definito "toccante" la dichiarazione resa dalla donna davanti al giudice: "Ho capito di aver compiuto una leggerezza, non pensavo che per una foto pubblicata su un giornale scoppiasse tutto questo scandalo. Chiedo scusa a tutti, anche alla famiglia di Vanessa Russo, so che non mi perdonerà mai ma la mia è un’espiazione interiore". Qualora il Tribunale accogliesse la richiesta, la detenuta potrebbe tornare a lavorare come cameriera in una pizzeria, come fa già da un anno a questa parte. "Non c’è dubbio, visto che siamo in Italia la posizione della Procura generale di Venezia è un atto di grande coraggio", dichiara con amara ironia Rita Bernardini, la dirigente radicale in prima linea per i diritti dei detenuti. "In realtà la richiesta è coerente con quanto prevedono le norme sul reinserimento sociale dei reclusi. Certo, ci troviamo a dover dare atto di un intervento di semplice giustizia". Doina si è pentita di quello che per Bernardini "è un peccato di leggerezza ma non un reato. Il problema è la campagna scatenata da alcuni giornali per rimandarla in galera. Risultato che almeno temporaneamente è stato ottenuto: una battaglia vergognosa". Io sto dalla parte di Doina, la killer dell’ombrello. Spero resti libera di Luca Telese Libero, 4 maggio 2016 Sarà brutta, sporca, cattiva, sarà romena, sto con lei. Non la conosco, non ho idea di cosa le passi per la testa, ma trovo incredibile la polemica sollevata nei suoi confronti. Mi piacerebbe poterle parlare, poter capire se è davvero una donna diversa, oggi, ma non potendolo fare mi fido dei magistrati di sorveglianza che vagliano ogni dettaglio della sua vita, per conto nostro. E per mestiere. La giustizia si amministra nelle istituzioni, non nei bar. Meno male che in Italia c’è un giudice di buon senso, alla procura generale che concede un parere favorevole alla sua semilibertà. Per fortuna esistono dei pubblici ufficiali che, malgrado la pressione stracciona, populista e demagogica di una porzione avvelenata dell’opinione pubblica della politica e dei media, decidono - come ha appena fatto - di non revocarle la libertà (anzi, la semilibertà). La storia la sapete, ma è bene ricapitolarla, nella sua follia. Doina Mattei nove anni fa, viene giudicata colpevole di omicidio preterintenzionale, perché a Roma, con un colpo di ombrello uccide una ragazza, Valeria Russo. Un delitto assurdo, orribile, per cui è giusto che paghi. Viene definita dai media "la killer dell’ombrello". Subisce un processo severo, in cui però viene stabilito, con una sentenza, che nel suo gesto non c’era nessuna volontarietà e nessun intento omicida. Viene fissata una pena, non certo tenera: sedici anni di carcere. Se si ha presente la casistica delle condanne per omicidio, si può dire che sia alta, non certo bassa rispetto alla media. Sconta nove anni, che per una ragazza giovane sono una vita, e che rappresentano un periodo infinito rispetto alle condanne subite dai tanti che - in situazioni simili - hanno potuto comprarsi buone difese. Basti pensare a Vittorio Emanuele di Savoia, che a Cavallo, aveva sparato con un fucile uccidendo il giovane studente tedesco Dirk Hamer. Per quel delitto Vittorio Emanuele, venne processato in Francia e condannato nel ‘91 a sei mesi con condizionale per porto abusivo d’arma da fuoco ma prosciolto dall’incriminazione per omicidio volontario. Il principe, come è noto, si è sempre proclamato innocente. Ancora più nota è la vicenda di Beppe Grillo, indagato per un drammatico incidente d’auto in cui erano morti una coppia di amici e i loro bambino. Una tragedia, di cui Grillo era in parte vittima. Nel processo di appello, il 14 marzo 1985 Grillo fu condannato per omicidio colposo a quattordici mesi di reclusione con il beneficio della condizionale, e la condanna fu resa definitiva dalla IV sezione penale della Cassazione l’8 aprile 1988. Condanna mite, e - aggiungo io - sacrosanta. Doina Mattei, che stava aggredendo la ragazza ma che secondo i giudici non aveva la minima volontà di uccidere, è già stata in cella un decennio. Le è stata concessa la semilibertà, come tutti o coloro che dopo aver scontato la metà della pena hanno i requisiti necessari (a cominciare dal parere dei magistrati di sorveglianza e dalla buona condotta). Il suo percorso di riabilitazione, quello di una ragazza che entra giovanissima in carcere, paga il suo debito, ed ottiene una pena alternativa al carcere, è uguale a quello di tutti i condannati in Italia. Però sui giornali e sui social network, un bel giorno, saltano fuori le foto tratte dalla sua pagina Facebook. Doina sorridente, Doina giovane, Doina viva - udite, udite, grande scandalo - Doina al mare in bikini. Si sollevano polemiche, si alzano voci indignate. Non contano più la pena, la condanna, la legge. Suscita indignazione, indifferentemente, fatto che "dopo soli nove anni", Doina possa pretendere di essere viva e felice. Il padre della vittima, l’unico di cui si può capire il dolore, affida alle pagine de Il Tempo il racconto del suo sconcerto per quelle foto. "Le ho viste. E come no? In una c’ha pure il pollice alzata in segno di vittoria, come dire "Mi vedete ce l’ho fatta, sono fuori". Quel gesto suona come una beffa, una provocazione. E dimostra tutta la cattiveria e l’odio che c’è in questa donna. È una vendetta nei nostri confronti. Incredibilmente ha vinto lei". E ancora: "Mi danno fastidio quelli che dicono che è giunto il momento di sorridere anche per Doina, che sia giusto che esca e che si riempiono la bocca di belle frasi ad esempio "il carcere non è una vendetta". Non parlerebbero così se si trattasse dei loro figli". A Doina hanno trovato subito il lavoro". Il padre di una ragazza morta ovviamente queste cose ha il diritto di dirle. Un senatore della Repubblica come Roberto Calderoli non dovrebbe. Degli opinionisti che non conoscono le regole nemmeno. Per quanto sia spiacevole dirlo, la legge non si può fare a colpi di emotività, legittimo rancore, rabbia. Ed è esattamente così che deve andare: quando uno paga il debito che viene fissato da un tribunale, qualunque sia, deve poter uscire dal carcere. E possibilmente poter trovare un lavoro. E possibilmente poter tornare a vivere e a sorridere. E se trova un lavoro per noi, cioè per la società è molto meglio che se diventa un disadattato e finisce a rubare. Fa la cameriera in una pizzeria, non la regina. Meglio se sorride, invece di ringhiare o piangere. Se uno che esce dal carcere ci rientra siamo noi a perderci. È assurdo e medievale questa ossessione vendicativa, questa idea trogloditica che il corpo debba restare recluso, ai ceppi, debba soffrire, altrimenti qualcuno si potrebbe sentire offeso. Capisco il padre di Valeria, ma se fossi lui, vorrei poter essere ripagato dalla legge, non da una vendetta. Ovviamente c’è una alternativa: si può sostenere che dieci anni di carcere non potendo vedere i propri figli se non nei colloqui, e non potendo parlargli se non per telefono, una volta a settimana siano poco. Però prima di parlare, provatelo voi, anche solo per un giorno. Si può sostenere che non debba esserci possibilità pena, riscatto, libertà. Ma allora, tutti quelli che pensano che il bikini di Doina sia uno scandalo, abbiano il fegato di dire che vogliono la pena di morte e la legge del Taglione. E mettano in conto che, prima o poi, nella vita, potrebbe capitare anche a loro di essere giudicati dal tribunale dell’odio. Il pm di Genova: "Non si condanna chi ruba per fame, la giustizia deve essere giusta" di Matteo Indice La Stampa, 4 maggio 2016 Il sostituto procuratore generale Antonio Lucisano: assurdo mandare in galera un uomo per dei wurstel. "La mia figura viene di solito equiparata a quella dell’accusatore di professione. Ma io ho fatto l’opposto, stavolta, mi sembrava assurdo che venisse condannato il protagonista d’una storia del genere". Antonio Lucisano è il magistrato che, nella veste di sostituto procuratore generale, ha chiesto alla Cassazione di assolvere Roman Ostriakov, l’ucraino che la Corte d’appello di Genova aveva condannato a sei mesi per furto. Aveva prelevato senza pagare da un supermarket Ekom quattro "Wuber" e due pezzetti di formaggio. Pur rappresentando la pubblica accusa, Lucisano è l’unico che ha presentato ricorso, innescando la sentenza di cui da ieri si discute un po’ ovunque: "Basta pensare al tipo di alimento che ha rubato: un pacchetto di würstel, dico, nemmeno un surgelato o qualcosa che devi cucinare. È chiaro che lo volesse aprire e mangiare subito…". La giustizia perde tempo in processi che non si dovrebbero celebrare, o adesso si dà licenza di rubare in determinati casi? "La giustizia deve fare cose giuste. Punto. E il magistrato è un uomo dello Stato, pagato e qualificato per stabilire se un furto è commesso da una persona che ha disperatamente bisogno, se è solo una sciocchezza o, appunto, un furto in tutto e per tutto. A me invece pareva che il verdetto su quest’uomo fosse stato un po’, come dire...". Sbrigativo? "Non vorrei attribuire aggettivi a caso, ma in poche righe si sosteneva che non fosse dimostrata "l’urgenza", insomma la fame. Io invece penso che abbia rubato proprio per quello e la fame beh, è una necessità generale, a volte anche nei tribunali le cose sono più semplici di quel che sembrano. Poi, è vero che tutti i reati andrebbero perseguiti eccetera eccetera; ma pure a comportarsi in modo più burocratico, non esisterebbero i famosi criteri di priorità? A chi sembra una priorità il processo di Roman Ostriakov per quattro würstel?". Le era mai capitata una storia così? "Due anni fa feci assolvere una persona che aveva rubato una lattina di birra da 60 centesimi, lo ritenevo troppo insignificante per meritare un processo. Non vuol dire che ogni piccola ruberia debba rimanere impunta: basta vagliare caso per caso, gli uomini ci stanno apposta". Ha mai visto l’imputato, conosce la sua storia? "Non so che faccia abbia, non si è mai presentato in tribunale ma non importa (Ostriakov era arrivato in Italia nel 2010 al seguito della madre, domestica rimasta senza lavoro, non era mai stato sorpreso a rubare prima del novembre 2011 e nei mesi successivi aveva inanellato un altro paio di denunce, avendo sottratto alimenti per un valore di qualche decina di euro. Non è mai stato arrestato, oggi non si trova a Genova ma di tanto in tanto vi ritorna, ndr)". Perché si è rivolto lei alla Cassazione e non l’avvocato difensore? "L’imputato era indigente e aveva un legale d’ufficio (Maria Montemagno, che si batté fino all’Appello, perdendo per un periodo le tracce del suo cliente che un giorno le aveva detto: "Forse la cella sarebbe meglio, almeno lì si mangia", ndr). All’epoca non era cassazionista e non poteva andare oltre, nonostante si fosse impegnata in un lavoro approfondito e appassionato. Ho pensato fosse giusto tentare con il terzo grado e la Cassazione alla fine ha condiviso la sua e la mia visione. Badiamo bene: non c’entrano le nuove leggi sulla "particolare tenuità", hanno scelto l’opzione più netta partendo dalla fame come bisogno supremo ed ecco perché ha fatto così scalpore". I poveri faticano di più a difendersi fino alla Suprema Corte? "Eh...". Ha sempre fatto il pubblico ministero? "No, sono in Procura generale da sette anni, ma sono stato per molti anni giudice a Venezia, ai tempi del processo per il petrolchimico. Era rarissimo trovarsi davanti a casi del genere e quando toccava giudicare, mi pareva impossibile che fossero arrivati fin lì...". Reato continuato, ludopatia non assimilabile alla tossicodipendenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 2 maggio 2016 n. 18162. Anche se la cura della ludopatia è entrata tra le patologie inserite nei "livelli essenziali di assistenza", essa resta comunque non assimilabile, ai fini della concessione del beneficio della continuazione del reato, alla tossicodipendenza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 2 maggio 2016 n. 18162. Il tribunale di Napoli, adito quale giudice dell’esecuzione, aveva rigettato l’istanza dell’imputato sostenendo l’assenza dell’unicità del disegno criminoso "trattandosi di reati di varia tipologia e non della stessa indole - calunnie, ricettazione, estorsioni, ingiuria e diffamazione -, commessi a notevole distanza temporale, tra il 1996 ed il 2004". Ed aveva anche escluso di "poter applicare in via analogica alla ludopatia - attestata dalla documentazione prodotta - il regime previsto per i reati commessi in relazione allo stato dì tossicodipendenza". Nel ricorso, invece, l’imputato, da una parte, aveva perorato l’analogia con la tossicodipendenza, e dall’altra aveva evidenziato che i reati di calunnia erano stati commessi nell’arco di due mesi ed in danno della stessa persona offesa, mentre quelli relativi ad altre due condanne erano stati commessi a distanza di un solo giorno. Una posizione quest’ultima fatta propria anche dal procuratore generale che ha rinvenuto la possibilità di riconoscere "disegni unitari parziali" tra un numero limitato di reati. Per la Suprema corte dunque "la richiesta di assimilazione della ludopatia alla tossicodipendenza è destituita di fondamento". La modifica introdotta dalla legge 49/2006, proseguono i giudici, "ha inteso attenuare le conseguenze penali della condotta sanzionatoria nel caso di tossicodipendenti, con la conseguenza che tale "status" può essere preso in esame per giustificare la unicità del disegno criminoso con riguardo ai reati che siano ad esso collegati e dipendenti". La modifica indicata, argomenta la Corte, quindi, non ha introdotto una prova legale, "ma ha stabilito che tra i criteri di valutazione della continuazione non si può prescindere dallo stato di tossicodipendenza che, notoriamente, impone al soggetto di porre in essere una serie di reati per procurarsi il denaro necessario a soddisfare i bisogni ad esso legati". Al contrario, "pur potendo avere in comune con la tossicodipendenza la dipendenza dal gioco d’azzardo (non diversamente peraltro da altre situazioni che creano dipendenza come il tabagismo, l’alcolismo e la cleptomania), la ludopatia affonda le proprie radici in aspetti della psiche del soggetto e non presenta, al momento attuale, quegli aspetti di danno, che l’esperienza ha dimostrato essere alla base dei comportamenti devianti cui, nell’ambito della discrezionalità legislativa, la modifica normativa sopra indicata ha inteso porre un rimedio". In definitiva, l’estensione dei livelli di assistenza alle persone affette da ludopatia "non ne ha comportato l’assimilazione alla tossicodipendenza, né consente, per la differenza che si riscontra tra le situazioni di base, il ricorso all’analogia". Il ricorso è stato comunque accolto con riferimento alla richiesta di riconoscere il vincolo della continuazione anche solo per gruppi di reati (o sentenze), valutazione che in concreto spetterà in sede di rinvio al giudice dell’esecuzione. Omicidio mafioso: azione unica per risarcimento diretto dal Fondo statale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 3 maggio 2016 n. 8646. A seguito di un omicidio commesso per vendetta contro chi abbia cercato di contrastare la mafia, l’azione civile diretta dei congiunti per il risarcimento del danno contro chi è stato ritenuto colpevole in sede penale può viaggiare di pari passo con quella mirante ad ottenere l’indennizzo previsto per questi casi dalla Stato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 8646/2016 accogliendo con rinvio il ricorso dei genitori e del fratello della vittima. La vicenda parte dall’efferato omicidio, a seguito di un brutale pestaggio, di un appuntato dei Carabinieri attivo nel "rione Moscarella" di Castellammare di Stabia da parte di due appartenenti ad un clan camorristico, le cui condotte illecite erano state più volte contrastate dal militare. A questo punto i parenti convennero davanti al Tribunale di Napoli, per il risarcimento, uno degli autori del delitto. Con la stessa domanda chiesero anche di accertare che il reato rientrasse tra quelli legittimanti l’accesso al Fondo di rotazione ai sensi della legge 512/99 con conseguente condanna dello Stato al pagamento di 150mila euro. Il Ministero si oppose ed il tribunale rigettò la domanda di accesso al fondo senza però nulla dire sulla richiesta di risarcimento dell’autore del reato. La Corte di appello confermò il verdetto. Per la Suprema corte invece "indubitato - siccome accertato nelle sentenze penali di condanna richiamate in ricorso e poste a base della pretesa - che l’efferato delitto sia stato commesso per vendetta, è indubbio che un’attività di evidente rappresaglia sia stata posta in essere per agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso per l’eccezionale forza deterrente che ne deriva sul territorio e che, pertanto, da un punto di vista oggettivo sussistono i requisiti per accedere ai fondo di rotazione". Inoltre, prosegue la sentenza, "in mancanza di una espressa limitazione nella normativa in esame deve escludersi … che quell’accesso sia consentito solo in favore di coloro che, oltre ad essere costituiti in un giudizio civile, abbiano anche previamente conseguito una condanna nei confronti degli autori dei delitti in sede esclusivamente civile e cioè al risarcimento dei danni, generica o specifica poco importa". Al contrario, "per chi ha prescelto la via dell’azione civile si richiede soltanto la costituzione in un giudizio che abbia ad oggetto i danni derivanti da un delitto, tra quelli indicati nel primo comma dell’art. 4, il quale sia stato già accertato in sede penale". Dunque, "la contemporaneità degli accertamenti - quello della responsabilità civilistica del condannato verso gli attori e quello dei presupposti per l’attivazione della responsabilità solidaristica dello Stato - non solo non è preclusa dal tenore testuale della disposizione, ma anzi risponde a minimali esigenze di economia processuale, agevolando, per tutte le parti coinvolte, la difesa in unico contesto, con possibilità per ciascuna di avvalersi nei confronti delle altre di volta in volta controinteressate delle risultanze e delle acquisizioni probatorie". Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: "in caso di omicidio commesso per vendetta in danno di chi aveva fino ad allora contrastato le attività di un’organizzazione criminale di stampo mafioso spetta ai congiunti della vittima, i quali agiscano contestualmente in via diretta per il risarcimento del danno da uccisione nei confronti dell’autore del crimine e per il caso in cui la relativa domanda sia accolta, il diritto di accesso ai benefici di cui alla legge 29 dicembre 1999, n. 512, nei limiti e con le modalità di erogazione previsti da tale legge e dai regolamenti di attuazione". In materia di notifiche, i giudici hanno poi chiarito anche che "per la peculiarità delle condizioni di espletamento del servizio di protezione dei collaboratori di giustizia, la previsione dell’articolo 139 c.p.c. in tema di persone "addette alla casa" a mani delle quali validamente operare la consegna dell’atto da notificare vada estesa anche a quegli agenti delle forze dell’ordine che, per essere presenti sul posto della residenza anagrafica del collaboratore di giustizia sotto protezione ed essendosi interposti all’ufficiale notificante che tentava di raggiungere il destinatario ed anzi avendo ricevuto l’atto stesso, devono reputarsi ivi presenti in quanto comandati proprio - o almeno anche - per le finalità di protezione del collaboratore di giustizia e possono allora qualificarsi in relazione, lato sensu, di servizio, tale con quest’ultimo da restare obbligati, in dipendenza del loro ufficio, alla successiva consegna dell’atto". Appello, condizioni per la reformatio in peius di una sentenza di assoluzione Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2016 Appello - Reformatio in peius di una sentenza di assoluzione per insufficienza di prove - Sentenza Cedu Dan c. Moldavia - Obbligatoria rinnovazione dell’istruzione - Limiti - Diverso apprezzamento del quadro probatorio in base al libero convincimento del giudice. Per procedere alla reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto - secondo l’articolo 6 Cedu, così come interpretato dalla sentenza della Cedu nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale qualora approdi, in base al proprio libero convincimento, ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esiti della prova dichiarativa valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice, ovvero evidenziando gli eventuali travisamenti in cui quest’ultimo sia incorso nel valutare le dichiarazioni. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 16 ottobre 20115 n. 41736. Appello - Reformatio in peius di una sentenza di assoluzione - Sentenza Cedu Dan c. Moldavia - Obbligatoria rinnovazione dell’istruzione - Necessità - Limiti. Il giudice d’appello per procedere alla reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto - in base all’articolo 6 Cedu, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale quando il primo giudice non ha negato l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni delle persone offese, ed egli, per affermare la penale responsabilità dell’imputato, deve limitarsi a fornire una lettura coerente e logica del compendio probatorio palesemente travisato nella decisione impugnata. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 novembre 2014 n. 45453. Appello - Reformatio in peius di una sentenza di assoluzione - Sentenza Cedu nel caso Dan c. Moldavia - Obbligo di rinnovazione dell’istruzione - Condizioni - Diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale ritenuta in primo grado non attendibile. Il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato - in base all’articolo 6 Cedu, così come interpretato dalla sentenza della CEDU dell’uomo nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale ritenuta in primo grado non attendibile, ma non anche quando fonda il proprio convincimento su altri elementi di prova, in relazione ai quali la valutazione del primo giudice è mancata o è travisata. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 16 aprile 2014 n. 16975. Appello - Reformatio in peius di una sentenza di assoluzione - Sentenza Cedu nel caso Dan c. Moldavia - Obbligatoria rinnovazione dell’istruzione - Condizioni - Diverso apprezzamento di attendibilità della prova orale. Per riformare in peius una sentenza assolutoria, il giudice di appello è obbligato - in base all’articolo 6 Cedu, così come interpretato dalla sentenza della Cedu nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità della prova orale. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 25 marzo 2014 n. 14040. Esecuzione, competenza "in executivis" del giudice di appello Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2016 Esecuzione - Competenza del giudice dell’esecuzione - Modifica in appello del giudizio di comparazione tra le circostanze - Riforma sostanziale della sentenza - Spostamento della competenza in executivis - Competenza del giudice di appello. La modifica in appello del giudizio di comparazione tra le circostanze del reato comporta la riforma sostanziale della sentenza e determina lo spostamento della competenza "in executivis" a favore del giudice di secondo grado, ai sensi dell’articolo 665, comma secondo, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 25 aprile 2015 n. 39123. Esecuzione - Competenza del giudice dell’esecuzione - Modifica del giudizio di comparazione fra aggravanti e attenuanti in sede di appello - Competenza "in executivis" del giudice di appello - Sussistenza. Sussiste la competenza del giudice d’appello ex articolo 665, comma secondo, cod. proc. pen., qualora tale giudice, in sede di cognizione, abbia modificato il giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e attenuanti, trattandosi di un provvedimento di riforma della sentenza di primo grado non limitato alla sola determinazione della pena. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 22 luglio 2015 n. 32214. Esecuzione - Competenza del giudice dell’esecuzione - Rideterminazione della pena a seguito di riduzione per la diminuente del rito abbreviato dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado - Competenza "in executivis" del giudice d’appello - Sussistenza - Ragioni. In tema di incidente di esecuzione, è competente il giudice di appello anche quando la sentenza emessa in secondo grado ha rideterminato la pena inflitta dal primo giudice, riducendola in applicazione della diminuente per il giudizio abbreviato dichiarato inammissibile da quest’ultimo, in quanto la decisione pronunciata in sede di impugnazione riforma la prima sentenza in maniera sostanziale, operando anche una valutazione in ordine alla decidibilità del processo allo stato degli atti. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 16 aprile 2014 n. 16745. Esecuzione - Competenza del giudice dell’esecuzione - Procedimenti con pluralità di imputati - Competenza del giudice di appello a provvedere "in executivis" - Principio dell’unitarietà dell’esecuzione. Per il principio dell’unitarietà dell’esecuzione, nei procedimenti con pluralità di imputati la competenza del giudice di appello a provvedere "in executivis" va affermata non solo rispetto a quelli per cui la sentenza di primo grado è stata sostanzialmente riformata, ma anche rispetto a quelli nei cui confronti la decisione di primo grado sia stata confermata. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 31 ottobre 2014 n. 45148. Esecuzione - Competenza del giudice dell’esecuzione - Mutamento del titolo di reato da parte del giudice di appello - Competenza del giudice di appello. Spetta al giudice di appello, e non a quello di primo grado, la competenza a provvedere quale giudice dell’esecuzione quando la sentenza di appello abbia mutato la qualificazione giuridica del fatto. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 19 giugno 2013 n. 26692. La certezza del diritto in prescrizione di Bruno Leoni L’Opinione, 4 maggio 2016 La settimana scorsa la riforma sulla prescrizione, ferma in Senato, è stata congiunta alla riforma del processo penale. Un segnale di distensione lanciato dal governo alla magistratura, dopo le polemiche, tra le altre, del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, sul fatto che la prescrizione sia uno dei problemi della giustizia italiana. Ci sono tanti processi che, protraendosi per un tempo più lungo di quello della prescrizione, diventano inutili. Allungare la prescrizione o sospenderla ad esempio in primo grado sembrerebbe la soluzione più logica: la giustizia avrebbe tempo di fare il suo corso, e non si sprecherebbero inutilmente i processi e i loro costi. Tuttavia, concentrarsi sulla prescrizione è come prendere il toro per la coda. Se non si può stabilire la colpevolezza o l’innocenza di un imputato, non è perché esiste la prescrizione, ma perché indagini e processo sono stati lunghi, talmente lunghi da superare i termini che si ritiene ragionevoli a contemperare le esigenze di giustizia con quelle della certezza. Si può dire che quanto debbano essere lunghi quei termini sia una questione opinabile, ma è illusorio pensare che il problema della certezza delle pene risieda nella certezza del diritto - che è lo scopo ultimo della prescrizione. Prendere il toro per le corna, invece, vorrebbe dire agire su altri fronti. In primo luogo, ripristinare il principio di tassatività dei reati: l’abuso di ufficio è solo l’esempio classico di reati residuali con i quali si può sostanzialmente aprire qualsiasi indagine. In secondo luogo, rendere effettivamente stringenti i tempi di indagine. Oggi, di fatto, le proroghe che vengono concesse rispetto al termine di legge fanno sì che i tempi delle indagini "mangino" quelli dei processi. Su ogni soluzione procedurale, tuttavia, grava il comportamento della magistratura, compresa quella inquirente. Potrebbe sembrare che tra il non doversi procedere per prescrizione e la responsabilità dei magistrati non ci sia alcuna connessione. E invece, poiché tutte le leggi vanno interpretate, è proprio nel buon senso del modo di procedere degli operatori della giustizia che si può trovare la soluzione per una giustizia efficiente. Dipende da come essi interpretano le fattispecie di reato, il loro dovere di procedere, l’opportunità di proseguire o interrompere le indagini rispetto alla serietà dei fatti, all’attendibilità della notizia di reato e alle prime risultanze, che risiede la parte più consistente del problema della giustizia. Una giustizia che, anche per un’impropria interpretazione delle notizie di reato da parte della stampa e dell’opinione pubblica, diviene preda del clamore senza dover rispondere delle inutilità, oltre che degli errori giudiziari, è una giustizia che nell’allungamento dei termini di prescrizione troverà solo un agio in più per ripararsi dalle proprie responsabilità. Si possono fare tutte le riforme procedurali possibili, ma garantire una giustizia efficiente, non solo nel settore penale, è così difficile proprio perché non dipende solo dalla bontà delle leggi. Chi minaccia la libertà di stampa, la mafia o gli editori? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 4 maggio 2016 Le concentrazioni editoriali non scandalizzano più nessuno. "In Italia non c’è libertà di stampa". O comunque ce ne è pochissima. Lo dice il rapporto annuale di "Reporter Sans Frontiers" nel giorno (ieri) dedicato dall’Onu alla celebrazione della libertà di stampa. Davvero è così? Davvero l’Italia è settantasettesima in classifica, dietro a tutti i paesi europei e occidentali (esclusa la Grecia) e dietro a molti paesi africani e latino americani (scavalcata quest’anno anche da Haiti, dalla Serbia e dal Senegal) e negli ultimi mesi ha perduto altre quattro posizioni? No, non è vero. E tutti lo sanno. Così come non è vero che la libertà di stampa è molto limitata in paesi come gli Stati Uniti e la Francia (che secondo questa classifica meritano rispettivamente il quarantunesimo e il quarantacinquesimo posto, appena un po’ meglio solo di Italia e Grecia nel mondo libero, ma lontanissimi dal mitico giornalismo costaricense o giamaicano o estone o uruguagio). No, Stati Uniti e Francia sono tra i paesi leader del giornalismo moderno. Insomma: balle. E la cosa che più preoccupa e che tutti vanno appresso a queste balle. Qualche anno fa si sapeva il perché: perché questa classifica era la prova provata che quello di Berlusconi era un regime illiberale e oppressivo. Ora però Berlusconi non è più al governo e dunque tutta questa retorica è abbastanza inutile. Non è inutile invece ragionare sulla libertà di stampa in Italia e sui suoi veri problemi. Che esistono eccome. Sicuramente il giornalismo italiano, e il sistema dell’informazione del nostro Paese, non meritano il 77esimo posto in classifica (forse meritano il ventesimo o qualcosa del genere). Altrettanto sicuramente esiste da noi un problema di libertà e di "apertura" della stampa e del giornalismo molto più grande di quello che c’è in altri grandi paesi liberali, come appunto gli Stati Uniti e la Francia, o anche la Germania, la Gran Bretagna, la stessa Spagna. Perché? Ecco, la questione è questa. I parametri che vengono usati nelle classifiche di "Reporters Sans Frontieres" non funzionano. Basta dire che il motivo per il quale l’Italia è considerata un Paese a rischio per i giornalisti è la forte presenza della mafia e della criminalità organizzata. Che minacciano, intimidiscono, puniscono e ricattano i giornalisti. Davvero è così? No, non è così da molti anni, e sostenere che oggi i giornalisti italiani siano minacciati dalla mafia è mancare di rispetto a quei giornalisti che venti o trent’anni fa davvero si battevano per una informazione libera dai poteri criminali, e rischiavano, e pagavano. Venivano discriminati nei giornali, emarginati, isolati, talvolta uccisi dalle cosche. Basta ricordare, per esempio, Peppino Impastato, palermitano, 30 anni, che lavorava per una piccola radio, ucciso dalla mafia (dal clan Badalamenti) con una bomba la notte del 9 maggio del 1978 (lo stesso giorno esatto nel quale venne ucciso Aldo Moro); oppure Pippo Fava, catanese, 59 anni, assassinato dal gruppo dei Santapaola il 5 gennaio del 1984, anche lui per le sue inchieste giornalistiche scomode; così come successe l’anno dopo a un ragazzino impertinente napoletano, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. E come successe a Mauro Rostagno, uno dei maggiori leader del ?68, che poi se ne andò in Sicilia e fu ucciso dalla mafia, a 46 anni, nel settembre del 1988. Oggi non è più così. Si può fare retorica finché si vuole, ma negli ultimi anni, per fortuna, non c’è stato nessun giornalista che è stato aggredito dalla mafia o dalla camorra. Non è volato neppure uno schiaffone. Ho vissuto per tre anni in Calabria, e una sola volta ho assistito ad una intimidazione seria: è stata contro il giornalista di Calabria Ora, Ilario Filippone, al quale hanno bruciato la macchina. Ilario ? che ora lavora al Messaggero ? è uno dei pochissimi giornalisti che le inchieste le fa davvero, non sta ad aspettare i fogli dalla Procura. La verità vera è che tutto il giornalismo antimafia non è più giornalismo d’inchiesta ma consiste solo nel pubblicare le carte della Procura. E chiunque capisce che non è molto pericoloso. Che vuoi che gli interessi al mafioso di una inchiesta giornalistica se la sua storia è già finita nelle mani dei magistrati? Se continuiamo a pensare che sia la mafia a mettere in discussione la libertà di informazione sbagliamo del tutto obiettivo. E non aiutiamo la libertà di informazione (tantomeno aiutiamo la lotta alla mafia). C’è un problema di libertà di stampa, in Italia, ed è legato alla assenza di editori. Naturalmente è difficile che questo problema sia portato in primo piano, messo in evidenza, dal momento che agli editori - che sono quelli che costituiscono il problema ? non interessa molto sottolineare i propri conflitti di interesse né le proprie posizioni di monopolio. È molto più semplice dire che è tutta colpa della mafia, e oltretutto, così, prendersi un bel plauso popolare e capitalizzare un po’ di indignazione. Chi sono gli editori in Italia? Finanzieri, o fabbricanti di automobili, o di appartamenti (i cosiddetti palazzinari...) o di scarpe, o operatori del commercio e del turismo. Hanno in mano il 90 per cento dei giornali e il 90 per cento degli ascolti in Tv e alla radio. Non solo, ma stanno realizzando nuove operazioni di concentrazione delle testate. Nel silenzio totale. Recentemente si è conclusa la fusione tra due colossi, guidati uno da "Repubblica" e uno dalla "Stampa" di Torino. De Benedetti (finanziere) e John Elkan (costruttore di automobili Fiat) hanno siglato un patto d’acciaio unificando una impressionante forza di diffusione dei giornali in edicola. Il patto è stato benedetto dalla nomina a "Repubblica" di un direttore molto gradito alla Fiat (l’ex direttore della "Stampa") e non ha mosso nessun interesse da parte degli altri giornali, che sono rimasti silenziosi. Questo patto ha comportato un indebolimento del "Corriere della Sera", che ora sta rispondendo immaginando una fusione col "Sole 24 Ore" e che comunque, dopo lo sganciamento della Fiat, è alla ricerca di nuovi padroni e di nuovi equilibri. A questi due grandi gruppi editoriali si affianca il gruppo di Caltagirone (costruttore di case e di altri edifici) che controlla il mercato dell’informazione a Roma, a Napoli e in altre città del Sud, e poi c’è il regno di Berlusconi (in parte affiancato da Angelucci, proprietario di cliniche e deus ex machina della sanità privata). L’informazione con un orientamento politico conservatore fa capo a Berlusconi, l’informazione di centro fa riferimento al gruppo del Corriere e a Caltagirone, l’informazione schierata ? diciamo così ? a sinistra, è dominata dal gruppo "Repubblica"- "Stampa". Fuori dagli schieramenti, tra i grandi giornali nazionali, resta solo il "Fatto Quotidiano" che è espressione delle procure e quindi da nessun interesse economico specifico. Si può pensare che in queste condizioni viva e prosperi una forte attività giornalistica, libera, forte, combattiva, anticonformista? No. Nessuno è autorizzato a scrivere contro gli interessi materiali dei propri editori, nessuno è autorizzato a fare inchieste vere e a porre la ricerca della verità, dell’oggettività, al centro ? e come bussola ? della propria attività professionale. È nato così il giornalismo "a squadre", il giornalismo di bandiera, balcanizzato, contro il quale qualche anno fa tuonava Umberto Eco (su questo tema abbiamo pubblicato un suo articolo del 2001 proprio sul primo numero del Dubbio). Con una vocina esile esile? perché siamo piccoli, giovanissimi, gracili, ancora un po’ impauriti? vi diciamo che noi, insieme agli avvocati del Cnf, abbiamo deciso di provare questa folle avventura di fare un quotidiano, il Dubbio, proprio per questa ragione. Gli avvocati del Cnf, che sono gli editori di questo giornale, sono tra i pochissimi editori a non avere interessi materiali da difendere. Sono editori "di idee", potremmo dire "editori puri", come succede nelle altre grandi democrazie europee e in America, ma non in Italia. Perché, è vero, in Italia la libertà di stampa esiste. Ma è troppo debole ancora. È tropo subalterna al mercato, agli interessi dei grandi gruppi finanziari o industriali. Non esiste un giornalismo di idee e libero. Cioè non esiste il giornalismo che serve alla modernità e ai diritti. La legge sul negazionismo tutela la nostra società di Giorgio Sacerdoti Corriere della Sera, 4 maggio 2016 La norma penale è anche chiamata ad una funzione preventiva e a dare un segnale di consapevolezza morale su quello che è legittimo e quello che è inaccettabile. Ha scritto Primo Levi rimeditando la sua esperienza di deportato ad Auschwitz nella poesia Se questo è un uomo: "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…considerate se questo è un uomo che lavora nel fango, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna senza capelli e senza nome senza più forza per ricordare. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore…ripetetele ai vostri figli". La negazione della Shoah è una della menzogne più sfacciate tra quelle propalate con gli scritti e soprattutto via web da chi, volutamente dimentico della tormentata storia dell’Europa del XX secolo, vorrebbe riscriverla per fare dimenticare i crimini del nazifascismo come se non fossero mai stati commessi, assolvendone i loro responsabili, così minando la base democratica che le società europee faticosamente si sono date dopo tante traversie. L’Unione Europea con una decisione che risale al 2008, frutto di un attento esame e accurati bilanciamenti, ha inserito la negazione della Shoah e degli altri più gravi crimini internazionali, condannati dal Tribunale di Norimberga e poi nello Statuto della Corte Penale Internazionale, approvato a Roma nel 1998, tra le forme di razzismo che gli Stati membri dell’Unione devono perseguire, quando espressa con l’intento o la idoneità di incitare alla violenza e all’odio. Un intento e un pericolo presenti nella negazione della Shoah, non così normalmente nella negazione di altri crimini storicamente accertati. Con anni di ritardo, dopo palleggiamenti vari di testi non coincidenti tra Senato e Camera, è stato messo a punto un testo che, se non il migliore del mondo, finalmente allinea il nostro diritto a quello degli altri Paesi europei, inserendo un’aggravante specifica nella esistente legge contro il razzismo del 1975, poi completata nel 1993. Si tratta dunque di una norma contro una forma particolarmente subdola di espressione e incitamento al razzismo, non di un nuovo reato tale da limitare la libertà di opinione e il dibattito storico. La discussione sul perché e sul come delle persecuzioni antisemite del nazismo e del fascismo, persino la minimizzazione della gravità dei fatti, resta perfettamente libera e ciascuno è padrone di esprimersi al riguardo, così come è a sua volta libera la critica di giudizi infondati, avventati o in mala fede al riguardo. Il negare la Shoah non è espressione di un giudizio storico; normalmente è una fandonia propalata con intenti razzistici se non eversivi, un’apologia appena mascherata, ed è contro questo pericolo che la norma è rivolta. Certo, normalmente chi vuole fare apologia di un reato inneggia ai suoi autori. Nel caso del negazionismo invece, coloro che in mala fede lo diffondono, assolvendo i criminali (condannati esattamente settanta anni fa dal Tribunale di Norimberga, cioè dalla giustizia degli uomini ma anche davanti al tribunale della Storia) accusano le vittime e i loro discendenti, in modo subdolo e particolarmente odioso, di essersi inventati le persecuzioni, per chissà quali fini inconfessabili. È quindi auspicabile ma anche doveroso che il Parlamento ponga fine a questa omissione ed eserciti le funzioni di tutela della società che competono alla politica. Saranno sperabilmente rari i casi in cui la norma troverà applicazione. Ma la norma penale è anche chiamata ad una funzione preventiva e a dare un segnale di consapevolezza morale su quello che è legittimo e quello che è inaccettabile, soprattutto in questi momenti delicati in cui l’Europa sembra quasi smarrita e dimentica delle sue radici. Treviso: malore fatale nel carcere di Santa Bona, muore un detenuto di 44 anni di Nicola Cendron trevisotoday.it, 4 maggio 2016 Roberto Barzan si trovava in cella dai primi giorni di aprile. È stato trasportato in infermeria e soccorso dai paramedici del Suem che non sono riusciti a salvargli la vita. Un detenuto del carcere di Santa Bona a Treviso, Roberto Barzan, di 44 anni, è morto a causa un infarto che non gli ha dato scampo. La tragedia si è consumata verso le 7.30 di martedì mentre Barzan si trovava nella sua cella. Gli altri detenuti che erano con lui, sentendolo rantolare, hanno dato l’allarme agli agenti della polizia penitenziaria. I secondini hanno trasportato l’uomo in infermeria e chiesto l’ausilio del 118 ma quando i paramedici del Suem sono intervenuti sul posto per il 42enne non c’è stato nulla da fare. La salma è stata trasferita presso l’obitorio dell’ospedale Ca Foncello di Treviso e messa a disposizione del magistrato di turno che probabilmente disporrà l’esame autoptico per chiarire quale sia stata la causa della morte dell’uomo. Roberto Barzan, residente nel quartiere di Monigo, si trovava in cella dai primi giorni di aprile per una revoca degli arresti domiciliari decisa dal Tribunale di sorveglianza. Di recente il 44enne era stato arrestato dai carabinieri per stalking nei confronti di una ristoratrice del centro storico di Treviso. Lucca: detenuto colpito da tumore maligno, va in ospedale e gli tolgono il rene sano quotidianosanita.it, 4 maggio 2016 Errore nell’ospedale "San Luca" di Lucca, dove al 56enne Guido Dal Porto è stato asportato il rene sano e non quello malato. Guido Dal Porto era in carcere quando venne trasportato in ospedale per l’asportazione di un rene colpito da un tumore maligno. Il 56enne, titolare di una ditta edile, non avrebbe mai immaginato che la sua vita sarebbe cambiata per un errore fatto dalla radiologa Claudia Gianni. All’uomo, dopo l’operazione, vennero concessi gli arresti domiciliari nella sua abitazione. Dal Porto ha cercato di ricostruire la sua storia, ricca di eventi spiacevoli e dolorosi, durante un’intervista rilasciata nella sua casa di Capannori, in provincia di Lucca: "Il 22 dicembre 2015 mi viene diagnosticato un tumore quando sono in carcere. A metà febbraio viene deciso l’intervento per il 25 marzo, ma salta perché mi trovano il diabete troppo alto, e così slitta tutto ad aprile. Il 12 aprile dal carcere chiedo tramite il mio avvocato Nelli che mi vengano dati gli arresti domiciliari. Il 14 mi operano. Il 21 mi medicano e il 28 vengo chiamato per il responso al San Luca, e mi viene detto che è tutto ok. Ma la sorpresa arriva il 29 mattina, quando 5 personalità del mondo medico, tra cui la psicologa dottoressa Dinelli e il medico legale dottor Martelloni si presentano a casa mia. E è proprio Martelloni che cerca di indorarmi la pillola, dicendomi che sono cose che succedono! Ma come si può dire una cosa del genere? Ero interdetto e sono maledetto! Mi trovo peggio adesso di quando mi hanno diagnosticato il tumore al rene. La cosa paradossale è che oggi sono stato convocato al San Luca, in direzione medica, alla presenza del dottor Massimo Cecchi, primario di urologia di Viareggio, e del dottor Giorgio Santelli, che non ha proferito parola. Cecchi mi ha detto che ci sarebbe la possibilità di una nuova operazione nella quale la parte del rene malato verrebbe asportata lasciando il resto del rene. La cosa strana è perché questa cosa non mi sia stata proposta prima! Così ho lasciato tutto in mano al mio avvocato, sarà lui ad occuparsene. Adesso sono in ansia per la mia famiglia: mia moglie Giovanna di 56 anni e i miei due figli, Giacomo e Andrea, di 25 e 18. Sono preoccupato soprattutto per il piccolo, che ha già vissuto il dramma della carcerazione e del tumore. L’unico posto dove mi hanno trattato bene è in carcere e per questo voglio ringraziare tutti". Una storia triste e inquietante quella del signor Guido Dal Porto, che si è trovato senza il rene sano; i medici hanno lasciato al suo posto, invece, quello malato. È incredibile e inammissibile che nei nosocomi italiani possano accadere episodi del genere, che certamente incrinano il rapporto di fiducia tra pazienti e sanitari. L’errore è stato fatto prima dell’intervento, e i medici non si sono accorti che stavano operando sul rene sano. Stefania Saccardi, assessore regionale alla Salute, ha subito sospeso dall’incarico sia il chirurgo che ha operato il signor Dal Porto che la radiologa Claudia Gianni: "Prendo atto con enorme dispiacere di quanto è accaduto all’ospedale di Lucca, e sono vicina al paziente e alla sua famiglia. Offriremo tutti i percorsi possibili per rimediare all’errore compiuto dai medici e prenderemo provvedimenti immediati". Granaiola (Pd): caso che richiama attenzione su rispetto Lea per pazienti detenuti Lo denuncia in un intervento di fine seduta la componente della commissione Sanità, a proposito del caso di malasanità avvenuto all’ospedale di Lucca nei giorni scorsi ai danni di un paziente detenuto. "Quanto accaduto non è purtroppo l’unico caso. Per questo chiediamo al Ministero di avviare, a tutti i livelli, una verifica dello stato di attuazione del passaggio della tutela della salute in carcere dalla giustizia alla sanità". "Asportare il rene sano, anziché quello malato per un grave errore diagnostico al di là del tragico episodio, mette in evidenza il fallimento dell’intera procedura: dal referto sbagliato, alla mancanza di macchinari per leggere la Tac in sala operatoria, all’assenza di confronto tra radiologo e chirurgo (procedura che necessita sicuramente di urgenti correttivi). Soprattutto quello che ci preoccupa è il fatto che a quasi un mese dall’intervento non sia ancora stata fatta chiarezza sulle cose che non hanno funzionato". Lo denuncia in un intervento di fine seduta la senatrice Manuela Granaiola, componente della commissione Sanità, a proposito del caso di malasanità avvenuto all’ospedale di Lucca ai danni del sig. Guido Dal Porto, paziente di 56 anni, sottoposto ad intervento chirurgico il 14 Aprile. "Le responsabilità - sottolinea Granaiola - saranno naturalmente appurate nelle Sedi competenti, ma quello che spaventa sono le parole del danneggiato circa la possibilità che tanta disattenzione o poca considerazione del caso possa essere dovuta alla sua condizione di detenuto sotto i ferri della sanità pubblica". "Quanto accaduto a Lucca - sostiene la senatrice Pd - non è purtroppo l’unico caso. Per questo chiediamo al Ministero di avviare, a tutti i livelli, una verifica dello stato di attuazione del passaggio della tutela della salute in carcere dalla giustizia alla sanità. Non è sufficiente, a caso avvenuto, inviare ispettori (cosa peraltro utile a mettere in atto i correttivi necessari), ma occorre monitorare su tutto il territorio nazionale il rispetto dei livelli di assistenza per i detenuti, che, come denunciato dalle associazioni che operano nelle carceri, presenta ancora molte criticità", conclude Granaiola. Ascoli: 53enne morì dopo lite in carcere, chiesto processo per l’ex compagno di cella Il Resto del Carlino, 4 maggio 2016 La Procura di Ascoli ha chiesto il rinvio a giudizio di Mohamed Ben Alì, un tunisino di 25 anni accusato della morte di Achille Mestichelli, il 53enne ascolano deceduto il 18 febbraio 2015 nell’ospedale regionale di Torrette, ad Ancona, dov’era stato ricoverato a seguito delle gravissime lesioni riportate in una lite avuta con il tunisino qualche giorno prima, il 13 febbraio, in una cella del carcere di Marino del Tronto, dove entrambi erano detenuti. L’udienza preliminare è stata fissata per il 29 giugno prossimo. Ben Alì deve rispondere di omicidio preterintenzionale. Sul corpo dell’ascolano, l’autopsia rilevò, oltre alla frattura dell’osso temporale del cranio (causa della morte), anche la frattura di sette costole, di una vertebra lombare, del bacino e lesioni alla milza. Trento: il primario del pronto soccorso: "detenuti maltrattati". Gli agenti lo querelano Il Trentino, 4 maggio 2016 I Sindacati della Polizia penitenziaria hanno presentato una querela in procura contro le parole dette dal primario del pronto soccorso in commissione. Il verbale della prima commissione del consiglio provinciale diventa parte integrante di un esposto firmato da una rappresentanza degli agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Spini. Verbale che "racconta" la seduta durante la quale è stato ascoltato il dottor Claudio Ramponi che, oltre a dirigere il pronto soccorso del Santa Chiara, è responsabile dell’assistenza sanitaria in carcere. In quel contesto, rispondendo a delle domande avrebbe rilevato (così si legge) l’esistenza di "problemi relazionali fra detenuti e agenti da cui sono maltrattati, ma anche faide tra detenuti". Una frase che ha gelato il sangue di molti agenti che lavorano a Spini e che ha spinto i rappresentanti sindacali a cercare di capire come sono andate le cose. "Vogliamo che emerga la verità - spiega Massimiliano Rosa segretario provinciale del Sappe - perché le parole del dottore sono molto pesanti. Le accuse che muove oltre che essere offensive e diffamatorie della nostra professione, sono del tutto prive di fondamento e calunniose". Parla di sdegno il segretario del Sinappe, Andrea Mazzarese. "Sono - scrive in un comunicato - racconti fantasiosi, che danno in pasto all’opinione pubblica la visione totalmente distorta di onesti poliziotti trasformati in carnefici che invece proprio nel corso dell’ultimo anno hanno subito in più circostanze veramente molte aggressioni verbali e fisiche. Colleghi presi a sputi, a morsi o a pugni che sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso, sempre regolarmente denunciate in procura. Non ci risultano invece denunce da parte dei detenuti". Questa la situazione che ora è diventata anche un esposto "trasversale" presentato ieri mattina in procura e che, spiega Rosa, "serve per fare chiarezza su quanto detto e su quanto invece succede all’interno della struttura di Spini". Rosa che ha anche scritto al provveditore dell’amministrazione penitenziaria al quale viene chiesto di valutare l’opportunità - vista la situazione che si è creata - della presenza del dottore all’interno del carcere. "Puntare il dito - prosegue Rosa nel suo comunicato - contro operatori che lavorano 24 ore su 24 nelle sezioni detentive, a costante contatto con persone private della propria libertà personale e con tutte le loro problematiche, personali, cliniche e psicologiche è davvero di cattivo gusto e diffamatorio". "Ricordo - sottolinea Mazzarese - che da 6 mesi i detenuti sono passati dai 240 previsti a 350 con enorme difficoltà di gestione. La direzione, i poliziotti penitenziari e tutti i civili che lavorano a vario titolo in istituto hanno fatto e fanno ancor oggi l’impossibile per ovviare a questi problemi, e a loro va riconosciuto questo sacrificio". Massa Carrara: il Sottosegretario Ferri "grandi passi in avanti dalla Casa di reclusione" lagazzettadimassaecarrara.it, 4 maggio 2016 Il Sottosegretario al Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri ha partecipato oggi alla cerimonia di consegna degli attestati del corso di primo soccorso per agenti della polizia penitenziaria, presso la casa di reclusione di Massa. "Davvero lodevole questa iniziativa" ha esordito Ferri "perché come ho ribadito più volte la soluzione dei problemi passa soprattutto attraverso una prevenzione efficace e in questo caso avere agenti di polizia penitenziaria preparati per garantire un adeguato soccorso ai detenuti significa tutelare la salute e la dignità umana delle persone. Per questa iniziativa un particolare ringraziamento va alla ASL, che ha interamente organizzato il corso per gli agenti. Quindi è giusto lavorare come stiamo facendo sulla sicurezza, ma anche sulla tutela della salute, che merita particolare attenzione e risalto. In questi anni come Governo abbiamo agito non solo per migliorare la vivibilità per i detenuti, ma anche per il personale della Penitenziaria e gli educatori, che hanno svolto con impegno, professionalità e grande senso del dovere, un difficile e complicato lavoro. È necessario valorizzare questi uomini e queste donne, che svolgono una funzione particolarmente importante sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista della sicurezza dei cittadini. Stiamo facendo tutti gli sforzi possibili per cercare di incrementare il personale, il primo passo, seppur non risolutivo (però di attenzione verso questa struttura) è l’inserimento di due educatori e di un’unita distaccata di altra struttura alla quale spero presto si aggiungeranno nuove forze". Ha poi proseguito Ferri: "L’occasione di oggi ci permette anche di fare il punto sulla situazione, vista la presenza di importanti esponenti del settore locale: con l’apertura della sezione B della casa di reclusione di Massa è stato fatto un grandissimo passo in avanti nella tutela dei diritti dei detenuti poiché è stato riservato uno spazio per i detenuti disabili, nel quale ci sono strutture e bagni attrezzati, oltre a dodici letti. Massa è stato ritenuto un centro ad altissima specializzazione per la riabilitazione, basti pensare che in tutta Italia sono solo altri due i centri di questo livello: Parma e Bari". Ha concluso così Ferri: "Dobbiamo continuare su questa strada e confermare lo stretto rapporto di collaborazione che c’è tra azienda sanitaria e carcere. La nostra idea di carcere rimane quella costruita su principi di umanità, salute, rieducazione e reinserimento nella società. Con queste premesse continueremo ad ottenere importanti risultati". Gorizia: trasferito il detenuto rumeno messo per sbaglio nella sezione dei gay di Roberto Covaz Il Piccolo, 4 maggio 2016 L’esperienza in carcere di un rumeno eterosessuale che aveva firmato un modulo per il nuovo "braccio". Aveva firmato la richiesta per essere ospitato nella nuova sezione omosessuali del carcere di Gorizia, ma dopo alcune settimane aveva chiesto il trasferimento in altro penitenziario. Ora l’ha ottenuto perché non è gay. Protagonista un detenuto rumeno, condannato a una pena di alcuni anni. Non essendo gay il suo "soggiorno" è stato scandito da situazioni drammatiche, tanto da spingerlo a un tentato suicidio. Così almeno aveva dichiarato a Pino Roveredo, garante regionale dei detenuti, che assieme al consigliere regionale di Sel, Giulio Lauri, aveva visitato il carcere di via Barzellini a metà aprile. Come mai un eterosessuale è finito nella sezione omosessuali? Due le versioni. La prima la fornisce lo stesso Lauri, commentando con soddisfazione la positiva soluzione del caso: "Il trasferimento è una buona notizia, anche i detenuti sono innanzitutto esseri umani e in quanto tali sono sempre e comunque soggetti portatori di diritti insopprimibili. Il rumeno era finito nella sezione protetta omosessuali dopo aver firmato un’istanza di protezione senza sapere che essa conteneva la richiesta di essere sottoposto ad un programma di protezione per detenuti omosessuali, ci aveva raccontato di non essere neanche omosessuale e di avere persino tentato il suicidio per richiamare l’attenzione sulla sua situazione, chiedendoci aiuto perché venisse velocizzata l’istanza con cui poi aveva chiesto di essere trasferito dalla sezione per omosessuali". Diversa la versione fornita da "radio-carcere". "Il rumeno è apparso sin dal primo giorno particolarmente problematico. Negli ultimi due mesi era stato trasferito in cinque carceri del Triveneto. A un certo punto gli è stato consigliato di fare domanda per essere recluso nella sezione omosessuali di Gorizia pensando di trovare condizioni migliori. Questo, evidentemente, non si è verificato. Ha dato parecchio filo da torcere. Più che di tentato suicidio è più corretto parlare di minacce di suicidio". La sezione omosessuali del carcere di Gorizia, unica del Triveneto e istituita da alcuni mesi, ospita in questo momento tre detenuti in due celle, nell’ala nuova della struttura di via Barzellini. A causa della carenza di agenti di polizia penitenziaria i detenuti omosessuali non possono godere ancora di tutti i supporti assistenziali garantiti agli altri 37 detenuti. Nuoro: profughi "accolti" nel carcere di Macomer, arriva il no del prefetto di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 4 maggio 2016 Pili (Unidos): "L’ufficio del governo ha dato parere contrario alla proposta". La notizia è emersa durante il sit-in del sindacato Uil della polizia. Ora c’è anche il parere contrario del Prefetto di Nuoro. Il carcere di Macomer non è idoneo ad accogliere i profughi ai quali il ministero dell’Interno voleva dare sistemazione nella struttura. La notizia, rimasta riservata per alcuni giorni, l’ha data ieri il deputato di Unidos Mauro Pili nel corso del sit-in tenuto nella stazione ferroviaria di Macomer col sindacato regionale della polizia e della polizia penitenziaria Uil per manifestare contro la fuga dei servizi dalle zone interne e per richiamare l’attenzione sulla questione della sicurezza delle zone interne. La scelta della stazione di Macomer non è casuale. Da anni è in atto lo smantellamento strisciante del presidio della polizia ferroviaria. L’ufficio, dove il personale è ridotto all’osso, praticamente sta morendo di inedia. Un paio di trasferimenti senza sostituzioni, e sarà chiuso nonostante Macomer stia cercando di recuperare il ruolo importante di polo del trasporto passeggeri in provincia di Nuoro. Pietro Sortino, coordinatore regionale del sindacato di polizia Uil, ha parlato di "Stato che disinveste nel territorio" e della necessità di presidi delle forze dell’ordine nelle zone interne. L’intervento di Sortino è stato ripetutamente interrotto dall’altoparlante della stazione che annunciava che l’Atr 365 (il pendolino) proveniente da Sassari e diretto a Cagliari era puntualmente in ritardo di un quarto d’ora. Giovani Biccai, coordinatore di Unidos nel Marghine, ha denunciato il progressivo smantellamento dei servizi a Macomer. "Lo stato smantella - ha detto, è stato fatto un investimento enorme sul centro intermodale che dovrebbe rilanciare il polo dei trasporti, ma chiudono il posto di polizia ferroviaria. Ci impongono però i migranti con tutti i problemi che ne derivano. Noi siano contrari". Poi ha parlato Pili, il quale ha denunciato il tentativo sistematico di smobilitare i presidi di polizia in tutta la Sardegna, soprattutto in provincia di Nuoro. "Abbiamo iniziato da Macomer il tour di mobilitazione in difesa dei servizi di polizia e per la sicurezza perché questo è il cuore simbolico della Sardegna - ha detto -. Sembra quasi che lo Stato non si occupi della realtà dei luoghi ed è grave che ciò avvenga nel silenzio delle istituzioni, a partire dalla Regione". Poi ha dato notiza del sopralluogo del prefetto di Nuoro nel carcere e del parere negativo che deriva soprattutto dal fatto che la struttura ha una logistica diversa da quella di altre carceri e dai costi pesanti necessari per l’adeguamento. Giovanni Cabras, segretario Uil della polizia di Nuoro ha ricordato che sono a rischio di chiusura anche i posti di polizia stradale di Ottana, Fonni e Siniscola. L’assessore comunale Marco Gordini parlando del carcere ha detto che è inaccettabile un’imposizione dall’alto che non considera i problemi. Siena: "Le fiabe di Santo Spirito e altri racconti", per evadere dal carcere sienanews.it, 4 maggio 2016 Solo l’immaginazione può permettere di volare con il pensiero. Puoi sognare di vivere in un altro mondo, di interagire con chi non puoi, di giocare con il tempo e lo spazio a proprio piacimento. Per alcune persone, come i detenuti, questi bisogni fantastici sono necessità quotidiane. Non è un caso, quindi, che dal laboratorio di scrittura creativa attivato nella casa circondariale senese nel corso dell’anno scolastico 2014/15 sia nato il volume "Le fiabe di Santo Spirito e altri racconti" (Salvietti & Barabuffi Editori srl). Il libro è stato presentato ieri in conferenza stampa a Palazzo Berlinghieri da uno dei suoi autori, Pietro, insieme al direttore del carcere, Sergio La Montagna, al vicesindaco Fulvio Mancuso, al rettore dell’Università degli Studi di Siena, Angelo Riccaboni, al professore di "Antropologia della Performance" del Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive, Fabio Mugnaini, e a Roberta Bonelli, referente dell’Ufficio scolastico territoriale di Siena. Presente all’appuntamento anche Monica Sarno in rappresentanza del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. L’opera è stata pubblicata grazie al contributo del Comune e dell’Università degli Studi di Siena e, d’intesa con il dirigente dell’Ufficio scolastico territoriale, sarà distribuito gratuitamente in oltre 700 copie agli alunni delle classi IV delle scuole primarie cittadine. "Un progetto che trasforma - ha introdotto il vicesindaco Mancuso - un luogo di potenziale esclusione e di separazione, come il carcere, in un laboratorio dal quale si liberano energie positive per tutta la comunità. Il fatto che il volume sarà distribuito a piccoli lettori della scuola elementare crea un vero e proprio contatto tra gli autori dei racconti e i loro destinatari, che li interiorizzeranno e li faranno propri". Il libro, impreziosito da una vignetta di Emilio Giannelli in copertina, raccoglie venti racconti, in parte illustrati, scritti da Antonio, Dritan, Hashim, Salvatore, Edrin, Aleksandr e Pietro, alcuni dei detenuti che hanno partecipato al laboratorio di alfabetizzazione linguistica sul tema della fiaba tenuto nella casa circondariale di Santo Spirito da Elisa Faleri con il supporto del professore Fabio Mugnaini. Qualche storia è stata recuperata dalla memoria orale e da leggende popolari dei loro paesi di origine, mentre altre sono frutto della fantasia degli autori, diversi non soltanto per provenienza, ma anche per età anagrafica, condizioni sociali, familiari e livello di istruzione. Sergio La Montagna ha descritto così i contenuti del libro: "Dal volume emerge un multiculturalismo, ormai radicato in carcere che attraverso le sue eterogenee identità ritrova nella favola e nei sogni che in essa si schiudono il suo denominatore comune. Ma soprattutto, si percepisce forte la volontà di trascendere i limiti e le condizioni del presente, di riscrivere il passato e rifondare il futuro. Per questo motivo, ogni volta che qualcuno leggerà o farà propria una di queste fiabe, contribuirà al progetto di liberazione e, allo stesso tempo, di ritorno dentro un mondo di legami sociali, di ascolto e condivisione". "Quando le leggerete - ha poi sottolineato Elisa Faleri - pensate che dietro a ognuna di queste fiabe c’è un padre, un marito, un fratello e soprattutto un figlio. Dentro ogni racconto si respira l’aria della tradizione del Paese d’origine; in ogni fiaba c’è un po’ di loro e delle loro storie personali", mentre Fabio Mugnaini ha ricordato come il lavoro della docente abbia dato valore al ruolo della scuola "nelle fisiologiche difficoltà di insegnamento che si possono incontrare in un ambiente come il carcere. La scuola deve infatti compensare l’esclusione sociale cui sono soggetti i detenuti, un trauma che può generare ancora più isolamento; ma se create o recuperate con il percorso di introspezione rivolto alla memoria infantile, e tramite la loro scrittura, le fiabe riassumono una voce e attivano una relazione sociale. Per questo assume ancora più valore il coinvolgimento degli alunni delle scuole". Nel corso della presentazione è intervenuta anche Monica Sarno, la quale ha posto l’accento sulla validità e l’efficacia dell’iniziativa ed evidenziato come la casa circondariale di Siena si distingua per la qualità degli interventi rieducativi che vengono attuati, con svariate modalità, anche negli altri istituti penitenziari della Toscana. "Un piccolo libro enormemente grande - ha concluso Pietro, autore di alcune storie del volume - perché le fiabe si raccontano alle persone alle quali vogliamo bene. Quando le ho scritte, immaginavo di rivolgermi a una bambina che per me è speciale e di potergliele raccontare, magari presto, dal vivo". Radio Carcere. Davigo: "i politici non hanno mai smesso di rubare". Ha ragione? Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2016 Registrazione dell’ultima puntata di Radio Carcere su Radio Radicale. Intervengono: Raffaele Cantone, Nello Rossi, Luca Palamara e l’avv. Fabio Lattanzi. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/473736/radio-carcere-davigo-e-la-corruzione-i-politici-non-hanno-smesso-di-rubare-ha-ragione Perché l’Italia è al 77° posto nella classifica della libertà di stampa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 maggio 2016 Reporter senza Frontiere. Roma scende di 4 posizioni, prima anche Burkina Faso e El Salvador. E se sorgono dubbi sulla veridicità dell’indice, è bene fare autocritica: i diritti calpestati dei precari rendono ricattabile l’intero sistema dell’informazione. Ieri si celebrava la Giornata Mondiale per la Libertà di Stampa, occasione per buttare un occhio all’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere. Pubblicato 10 giorni fa, il World Press Freedom Index regala all’Italia uno schiaffo in faccia: siamo messi peggio della Moldavia, scivolati in un anno dal 73° al 77° posto della classifica mondiale. In Europa facciamo meglio solo di Bulgaria, Grecia e Cipro. Ai primi posti stanno i soliti noti: Finlandia, Olanda e Norvegia. In fondo Turkmenistan, Corea del Nord e Eritrea. Vanno male i paesi in conflitto, che si tratti di guerre civili come la siriana o la yemenita, in cui le informazioni si confondono con la propaganda, o di avanzate di gruppi terroristici, Boko Haram in Nigeria e al Shabaab in Somalia tra gli altri; e i governi che spiano imperterriti i propri cittadini, Russia e Stati Uniti. E vanno male quelli che in questo periodo sono sotto i riflettori del Vecchio Continente: la Turchia del presidente-sultano Erdogan che tiene dietro le sbarre oltre 30 reporter (per lo più kurdi) e l’Egitto del golpista al-Sisi che mette a tacere le voci critiche con la consolidata pratica delle sparizioni forzate. Non a caso i redattori del quotidiano turco Cumhuriyet Dundar e Gul e il giornalista egiziano Shawkan (per la cui scarcerazione si è mossa anche la famiglia Regeni) sono tra i 9 reporter che ieri Amnesty International ha preso a modello delle abusi contro la stampa. In generale, registra Rsf, la situazione peggiora ovunque: "Tutti gli indicatori della classifica mostrano un deterioramento - spiega il segretario generale Deloire - Molte autorità temono che il dibattito pubblico sia troppo aperto". Nel caso italiano, le ragioni dell’arretramento le spiega lo stesso Rsf: il caso Vatileaks e le conseguenze giudiziarie subite dai giornalisti Nuzzi ed Fittipaldi che hanno reso note informazioni nascoste dietro il portone di San Pietro. Si potrebbe scorrere tutto l’indice, arrovellarsi per capire perché El Salvador e Burkina Faso occupano posizioni sicuramente più prestigiose (38° e 42° posto). Si potrebbe studiare il meccanismo dietro l’indice di Reporter Senza Frontiere, giudicato poco veritiero perché per l’80% fondato su percezioni soggettive più che su dati assoluti. C’è del vero dietro il giudizio tranchant di alcuni media che nei giorni scorsi hanno pubblicato il rapporto. Si parte da un questionario compilato da associazioni e giornalisti chiamati a dare un punteggio da 1 a 10 su legislatura, autocensura, pluralismo, indipendenza, trasparenza e infrastrutture. I voti vengono poi calcolati sulla base di una particolare formula matematica. Poi si utilizzano dati assoluti: numero di giornalisti arrestati, minacciati, licenziati, uccisi. Valori che pesano meno dei giudizi personali, spesso prodotto del contesto nazionale. In Italia, però, si potrebbe anche fare autocritica. E dirci che se siamo tra i paesi occidentali meno liberi in campo mediatico forse un motivo c’è. Da noi del resto la condizione di lavoro di migliaia di giornalisti è senza contratto, freelance che spesso freelance non sono perché lavorano nelle redazioni, siedono a fianco dei colleghi contrattualizzati, fanno lo stesso mestiere, a volte seguono un intero settore. Sono tanti: secondo i dati 2014 dell’Lsdi, oltre il 62% dei giornalisti attivi sono autonomi, 31mila contro 18mila subordinati. Il restante 38%, da dipendente, può guadagnare 5 volte più di un freelance. Sono tanti e di tanti tipi: dai giovani disposti ad accettare retribuzioni basse o collaborazioni gratuite a chi ha esperienza di decenni ma si ritrova disoccupato per la chiusura del proprio giornale. Secondo la Federstampa, la gran parte dei precari (il 75%) non supera il traguardo dei 10mila euro l’anno. Di questi il 62% è sotto la soglia dei 5mila. Forse scendiamo nella classifica perché è difficile parlare di informazione libera e indipendente quando chi lavora nelle redazioni - che siano quotidiani, tv, radio o agenzie web - è sottopagato e spogliato dei propri diritti. Quindi ricattabile. A uscirne malconcio è un intero sistema che si fonda su giornalisti che mettono insieme uno stipendio - o no - a seconda degli articoli pubblicati ogni mese. Ed è ovvio che di tempo per inchieste, per il mito del giornalismo investigativo, per chiedere diritti ne resta poco. Hotspot, Cie e Cara: dove soffrono gli immigrati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2016 Continui gesti di autolesionismo nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) che ospitano ? oltre la capienza disponibile ? immigrati clandestini; giovani nati e cresciuti in Italia che sono stati chiusi in un Cie, poi liberati con una sentenza, perché i loro genitori "stranieri" avevano perso insieme al lavoro anche il permesso di soggiorno. Donne vittime di abusi sessuali o dell’ignobile tratta delle schiave, lavoratrici e lavoratori residenti in Italia da anni la cui unica colpa è stata quella di aver perso il proprio posto di lavoro e di non averne trovato un altro in tempo utile. La cosiddetta detenzione amministrativa e il sistema ad essa annesso, risulta, inoltre, gestito da cooperative che non garantiscono i servizi essenziali. Il personale è poco qualificato e molto spesso non pagato con il risultato di far vivere in condizioni degradanti gli immigrati. Questo è il quadro desolante descritto dall’ultimo rapporto redatto dalla campagna LasciateCIEntrare, nata nel 2011 per contrastare una circolare del ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie e nei C. a. r. a. (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Nonostante la possibilità di accedere, rimane ancora l’ostruzionismo. Le visite si sono ottenute grazie all’aiuto di alcune associazioni, parlamentari o personalità politiche. Riccardo Magi, ad esempio, segretario del Partito radicale, è riuscito a ottenere più volte il visto per visitare il Cie romano di Ponte Galeria. Dopo lo scandalo della gestione degli appalti gestiti dalla Protezione civile che ha creato di fatto l’emergenza immigrazione, si era deciso di affidare alle prefetture la gestione dei Cie e dei Centri di accoglienza. In questo modo si è creduto di avere maggiore controllo, ma il dossier di LasciateCIEntrare riporta tre casi emblematici che smentiscono la cosiddetta soluzione emergenzialista. Ne riportiamo uno e riguarda la provincia di Benevento dove è attiva la Cooperativa Maleventum che in questa zona gestisce ben 11 centri che accolgono i profughi, dislocati per lo più in luoghi isolati e con una media di circa 900 migranti. Da una visura ottenuta dagli attivisti di LasciateCIEntrare risulta che questa cooperativa abbia ricevuto tanti affidi diretti: Dugenta, Sant’Agata dei Goti, Montesarchio, Paolisi. Tutti centri in cui i servizi sono ridotti al minimo. Nel centro di Dugenta, ad esempio, sono 49 i migranti che non ricevono nessun tipo di servizio. La struttura, un casolare vecchio in cui sono stati collocati, è a due piani. Il piano terra era in passato un deposito. Vi sono due uniche finestre poste in alto e una porta a vetro; è diviso in due ambienti comunicanti senza porta: nel primo vi sono tre letti a castello, un tavolo quadrato di 30 cm ed un armadio; nel secondo due letti singoli e un letto a castello oltre ad un armadio. Quest’ultimo ambiente comunica con un corridoio che conduce ad un’altra stanza con altri 3 letti a castello. Il piano superiore è simile a quello inferiore. Per 10 persone vi sono due armadi (alti due metri e larghi 50 centimetri) che evidentemente non riescono a contenere gli indumenti dei migranti, che si trovano anche in scatoloni o appesi alle sbarre dei letti. Vi è un bagno per dieci persone, che qualcuno viene a pulire una volta alla settimana. Da quando sono nel centro non hanno mai avuto un cambio di lenzuola. Esiste un’unica cucina per i 49 ospiti. Il dossier riporta anche una testimonianza: "Il cibo fornito e cucinato in struttura è scadente e spesso lo gettiamo. Ognuno di noi si compra da mangiare con i soldi che ci danno mensilmente. Parliamo di 75 euro a testa. Con questi stessi soldi acquistiamo indumenti e schede telefoniche e ci siamo comprati i telefonini. All’arrivo non abbiamo ricevuto nulla. Per andare a Napoli o Benevento non ci danno nessun biglietto e spesso partiamo senza e i controllori ci fanno scendere al primo controllo". Da oltre un anno nella struttura, non hanno mai avuto possibilità di intraprendere un corso di italiano. Diversi migranti sono analfabeti in madrelingua. Non esiste nessuna figura di mediazione. La maggior parte dei richiedenti asilo racconta di aver già fatto l’audizione presso la commissione territoriale di Caserta e di aver ricevuto tutti dinieghi. Prima della commissione non hanno avuto nessun contatto con legali od operatori che gli spiegassero qualcosa riguardo il percorso intrapreso come richiedenti asilo. Ricevuto il diniego loro stessi hanno cercato un legale, che hanno poi pagato di tasca propria. I migranti non hanno contatti con la popolazione locale. Qualche volta vengono prelevati per lavori nei campi limitrofi che "gli fruttano circa 15 euro al giorno". Durante la giornata non è prevista alcuna attività. Nessuno ha loro spiegato cosa avviene durante il ricorso in tribunale. I nuovi Hotspots - centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia - risultano luoghi privi di uno status giuridico certo, nei quali si realizzano forme diverse di limitazione della libertà personale, dove c’è il rilevamento forzato delle impronte digitali. Delle vere e proprie carceri in miniatura. La questione è stata sollevata anche da un’interrogazione presentata in Parlamento dal senatore Luigi Manconi, che, nel chiedere chiarimenti al governo su queste violazioni, ha ricordato l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui "La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto". Gli Hotspot sono il fulcro della nuova strategia dell’Unione europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Si tratta di strutture già esistenti, ma ampliate. In teoria, dovrebbero funzionare trattenendo i migranti fino all’identificazione rapida ? entro 48 ore dall’arrivo, prorogabili a 72 ? e alla registrazione, prendendo anche le impronte digitali. Sono strutture che funzionano da filtro: vengono selezionati solamente i richiedenti asilo e rimpatriati gli immigrati giunti nel Paese per motivi economici. Il dossier di LasciatCIEntrare denuncia un grave problema di discriminazione: si garantisce la possibilità di accesso a forme di protezione solo a coloro che provengono da paesi i cui profughi sono almeno nel 75% dei casi considerati aventi diritto. Significa che gran parte dei paesi, tutt’ora in guerra o in situazione politica, economica o ambientale critica, saranno considerati paesi sicuri in cui poter rimpatriare con la forza gli immigrati. Procedure rigide, coercitive e discriminanti. E in questo caso ce lo chiede anche l’Europa. Tassa per gli stranieri che entrano in Europa: ipotesi per finanziare il Migration Compact di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 maggio 2016 Una tassa da cinquanta euro per gli stranieri che entrano in Europa, per turismo o lavoro. È una delle soluzioni che l’Unione sta studiando per affrontare l’emergenza legata ai flussi migratori. E per sostenere il Migration Compact proposto dal governo italiano per mettere in piedi un sistema articolato di aiuti agli Stati africani da cui partono gli uomini, le donne e i bambini che dopo aver affrontato un viaggio massacrante di mesi giungono sulle nostre coste. L’ipotesi formulata dagli specialisti finanziari della Commissione di Bruxelles è contenuta in una relazione messa a punto in questi giorni che sarà sottoposta all’esame dei governi. Prevede il rilascio di un "visto" per i cittadini residenti negli altri continenti che potrebbe essere pagato al momento dell’ingresso o, in alternativa, un contributo di dieci euro sul biglietto aereo. Alla vigilia del vertice che si svolgerà a Roma domani - quando il presidente del Consiglio Matteo Renzi incontrerà la cancelliera Angela Merkel, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, quello del Consiglio Ue Donald Tusk e del Parlamento Martin Schulz - si analizzano tutte le opzioni per alimentare il Fondo necessario a gestire l’accoglienza dei profughi. Ma anche a organizzare i rimpatri nei Paesi di origine di chi non ha diritto ad ottenere lo status di rifugiato. Sono numerosi i Paesi dell’Unione favorevoli all’applicazione del Migration Compact, ma per realizzarlo bisogna poter contare su uno stanziamento almeno doppio o addirittura triplo di quello già esistente. Nei due Fondi dell’Europa ci sono circa 7 miliardi di euro, ma i conti prevedono che il fabbisogno superi i 15 miliardi. Archiviata la possibilità di emettere eurobond a causa della netta contrarietà della Germania, si cercano strade alternative. Come viene specificato nel documento "il nuovo Fondo dovrebbe finanziare principalmente le spese non correnti". Gli analisti specificano di aver proposto un sistema di tassazione perché "le accise hanno il vantaggio di fornire grandi fonti di reddito e di potersi ben armonizzare". Gli esperti finanziari della Commissione specificano la necessità di "istituire una nuova fonte di reddito per l’Unione Europea con un "visto" oppure una nuova tassa sul carburante". In realtà questa seconda ipotesi appare la meno probabile, per le resistenze di numerosi governi dovute al fatto che in questo caso si continuerebbe a "pesare" sui cittadini europei. Ecco dunque che si delinea il piano per alimentare il Fondo con entrate esterne. Si legge nella relazione: "Per assicurare un flusso regolare ed evitare le tasse sui rifugiati, il fondo potrebbe essere alimentato dai viaggiatori provenienti da Paesi terzi". Lo chiamano "Visa Schengen", in realtà riguarda solo chi vive fuori dall’Europa, non è previsto che possa essere pagato da chi risiede nel vecchio Continente anche se non ha aderito al trattato sulla libera circolazione. Il "visto" costerebbe 50 euro e potrebbe portare nelle casse dell’Unione "tra i 500 e i 700 milioni ogni anno". Una cifra non sufficiente a coprire il fabbisogno, ma che rappresenterebbe comunque un primo passo importante anche per riaffermare la "compattezza" della politica europea. L’altro provvedimento prevede "una tassa da 10 euro per ogni passeggero di un Paese terzo che arriva in aereo in Europa". In questo caso l’entrata sarebbe di circa tre miliardi e 300 milioni e non è escluso che alla fine si decida di proporre entrambe le misure in modo da superare così i 4 miliardi necessari almeno ad avviare il progetto. Migranti, l’infernale modello australiano di Guido Caldiron Il Manifesto, 4 maggio 2016 Nelle isole-prigioni che piacciono tanto a Trump e a Salvini aumentano i gesti di protesta estremi, ma Canberra non cede. Critica la situazione nel campo di Nauru: ragazza somala in fin di vita dopo essersi data fuoco. Neanche il verdetto con cui i papuani dichiarano illegale il centro di Manus ferma il governo. In Europa è sostenuto dai movimenti populisti e xenofobi, Matteo Salvini e Marine Le Pen vi fanno spesso riferimento, mentre non dispiace al candidato in pectore della destra statunitense, Donald Trump. Eppure, proprio in patria, il "modello australiano" in materia di immigrazione conta ogni giorno nuovi oppositori e vede crescere anche nei paesi circostanti un progressivo rifiuto. Inaugurata nel 2013 dall’allora governo conservatore, con la scusa che altrimenti i "boat people" avrebbero continuato ad annegare cercando di raggiungere le coste del paese, ma annunciata già nel 2000 come "la soluzione del Pacifico", la politica di Canberra nei confronti di rifugiati e migranti è sintetizzata nello slogan "No Way", vale a dire nessuna possibilità che qualcuno sbarchi sul territorio nazionale grazie a un capillare controllo da parte della marina e a una serie di accordi stipulati con gli altri paesi dell’area per la costruzione di centri di identificazione su alcune isole distanti dalle coste australiane. È qui, nell’isola Christmas, in mezzo all’Oceano Pacifico, piuttosto che sull’isolotto di Nauru o a Manus Island, "affittate" agli australiani dalle autorità della Papua-Nuova Guinea che sono sorte delle vere e proprie prigioni dove sono costretti migliaia di richiedenti asilo e di migranti: donne, uomini e anche molti bambini. Luoghi sinistri e pericolosi, il cui uso è stato più volte condannato da Amnesty International dove regna la violenza e dove, dopo mesi di detenzione provvisoria, la disperazione è spesso l’unica forma di protesta possibile. Dopo la rivolta che alla fine dello scorso anno aveva scosso l’isola Christmas in seguito alla morte di un giovane kurdo, l’epicentro della tensione si è spostato in questi giorni a Nauru dove i richiedenti asilo imprigionati hanno lanciato una forma estrema di protesta: prima un giovane iraniano di 23 anni e quindi una donna somala di 21 anni hanno deciso di immolarsi con il fuoco per denunciare la situazione. L’uomo è morto nei giorni scorsi mentre la donna è stata trasportata mercoledi in un ospedale australiano dove lotta tra la vita e la morte. Tutt’altro che dei casi isolati. Secondo un’inchiesta del Fairfax Media, uno dei principali network locali della comunicazione, nelle "isole prigioni" ogni due giorni si registrerebbe un nuovo caso del genere: tentativi di suicidio e di mutilazioni per disperazione o per far conoscere all’esterno le condizioni di detenzione. Una protesta estrema, cui fanno eco la mobilitazione delle associazioni antirazziste e le denunce da parte di ong e organizzazioni per i diritti dell’uomo, che non sembra però scalfire la determinazione delle autorità australiane che, anzi, considerano chi sostiene migranti e richiedenti asilo come responsabili di quanto sta accadendo. Peter Dutton, responsabile del dicastero dell’immigrazione, ha spiegato che "nessuna azione condurrà il governo a deviare dai suoi propositi". Non solo, ha aggiunto il ministro, "sbaglia chi incita i migranti a compiere azioni estreme, credendo che questo convincerà le autorità a trasferirli sul suolo australiano". Insensibile a quella parte della propria opinione pubblica che chiede un cambio nelle politiche migratorie del paese, come alla sorte degli internati sulle isole-prigioni, il governo di Canberra deve però vedersela anche con un problema giuridico di difficile soluzione. È la recente decisione della Corte suprema della Papua-Nuova Guinea che ha giudicato illegale la detenzione dei richiedenti asilo sull’isola di Manus - affittata a Canberra per scopi difensivi - e stabilito che il campo gestito dagli australiani, che ospita oggi 850 persone, sia chiuso. Canberra ha già fatto sapere che cercherà di spostare i migranti nelle altre isole, forse a Nauru, ma che non intende rinunciare alla sua linea intransigente. Da una settimana il premier conservatore, il liberale Malcolm Turnbull ha annunciato che il prossimo luglio si svolgeranno nel paese le elezioni politiche anticipate. Secondo la stampa australiana, Turnbull intende indirizzare verso posizioni più centriste la politica dell’esecutivo. Peccato che quella che annuncia come una "svolta moderata" non riguardi la sorte di quanti vivono sulle isole-prigioni. Armistizio sulla droga, l’Onu è pronto? di Marco Perduca Il Manifesto, 4 maggio 2016 Nel suo intervento davanti alla plenaria della sessione speciale dell’Assemblea generale sulle droghe, Ungass, il Ministro Andrea Orlando ha affermato che l’approccio delle Nazioni unite "deve essere pragmatico piuttosto che ideologico: orientato ai risultati e che incoraggi gli Stati a promuovere politiche pubbliche motivate dal criterio dell’efficacia piuttosto che dalla demagogia". Niente di più condivisibile, ma niente che l’Italia avesse detto all’Onu negli ultimi anni. L’ideologia a cui fa riferimento Orlando è quella del proibizionismo che ritiene gli stupefacenti pericolosi e quindi da vietare, la demagogia è quella che divide la società in "drogati" e persone "normali" e vuole un "mondo libero dalla droga". La Ungass dell’aprile scorso si è aperta con l’adozione della dichiarazione di chiusura, un forzatura procedurale che dimostra la frattura tra approcci nazionali e regionali e la scomparsa di un comune sentire. Per non rompere il consenso, e soprattutto il vaso di Pandora che lo contiene, il documento di 24 pagine, ordito da un ristretto gruppo di paesi, ha dovuto tener insieme vuoti proclami di politiche "integrate, olistiche e bilanciate" e timidi accenni a riforme necessarie. Pur adottato all’unanimità, l’outcome document è stato criticato ufficialmente da molti paesi per la mancata denuncia dell’uso della pena di morte per reati connessi agli stupefacenti e l’assenza di attenzione a contesti in cui si affrontano i problemi nel tentativo di risolverli in base a evidenze scientifiche. Una riunione di così alto livello, dove si adottano le conclusioni in esordio, è sembrata un’offesa all’importanza delle Nazioni Unite ma ha anche segnato l’inizio di una fase storica di cambiamento. Avendo chiuso il dibattito dopo due ore, la Ungass si è trasformata quindi nel più grande simposio sul "controllo mondiale delle droghe" che sia mai stato organizzato. L’unico paragrafo della dichiarazione che s’è affacciato sistematicamente nelle cinque tavole rotonde ufficiali e nelle decine di eventi organizzati ai piani inferiori del Palazzo di Vetro è stato quello relativo alla "flessibilità interpretativa" delle Convenzioni. Nelle intenzioni dei governi che hanno acconsentito a un documento consensuale, giocoforza debole, c’era anche quella di sganciare l’implementazione dei tre documenti Onu da un’interpretazione prevalentemente punizionista. La flessibilità viene invocata per promuovere la depenalizzazione dell’uso personale, le alternative al carcere, la proporzionalità delle sanzioni, programmi di riduzione dei rischi e dei danni che includano anche la somministrazione delle sostanze sotto controllo medico, l’uso tradizionale o religioso di alcune piante, l’aumento della produzione di oppiacei. Insomma flessibilità è sinonimo di buon senso che però esclude la legalizzazione. Quella del 2016 era una Ungass di passaggio verso una sessione che nel 2019 dovrà rivedere la dichiarazione politica del 2009. Il modo migliore per abbandonare i dogmi e la demagogia è quello di proporre risposte di governo per fenomeni reali e diffusi senza pretendere di cancellarli. L’ingresso dell’Italia tra i paesi che laicamente si pongono di fronte al controllo delle dipendenze e dei rischi e danni a loro connessi deve esser nutrito di fatti concreti. La convocazione della VI Conferenza nazionale sulle droghe, assente dal calendario istituzionale dal 2009, è urgente: è quello il luogo istituzionale dove il Governo deve passare dalle parole ai fatti. Aspettiamo fiduciosi che le parole del Ministro Orlando si facciano strada nel Governo. PS Di questi temi si discuterà sabato 7 aprile a Firenze (area San Salvi, palazzina 31, ore 10) in un incontro del Cartello di Genova promosso da Forum Droghe. Europa: carceri, aumentano gli ergastolani e torna l’opzione della pena di morte di Ruggiero Capone L’Opinione, 4 maggio 2016 Fino a tre anni fa i detenuti condannati all’ergastolo in Italia erano 1.500: un regime carcerario che non prevede né permessi né sconti di pena, "fine pena mai". Ma il loro numero aumenta ogni anno. La tendenza dei giudici è comminare il carcere a vita per i crimini più efferati: quando la scelta è tra i 30 anni di carcere e l’ergastolo, oggi si propende per la seconda soluzione, perché chi ha scontato trent’anni difficilmente si potrebbe reinserire nell’attuale tessuto sociale, finendo ai margini o tra le maglie di un sempre più aggressivo sistema criminale. Di fatto l’Unione europea è per un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri ma, purtroppo, anche per un incremento delle pene da scontare in detenzione: ergo, l’Ue vede di buon occhio che aumentino i ristretti, soprattutto nei Paesi della fascia mediterranea, considerati nel Nord Europa a forte rischio criminale. Per i detenuti europei ci sono varie tipologie d’istituto di pena (per adulti e per minorenni e di custodia preventiva), ma anche persone rinchiuse per motivi amministrativi, come quelle in attesa di riconoscimento dello status migratorio. Nel 2015 i detenuti nell’Ue-28 (esclusa la Scozia) erano circa 643mila, e tra il 2007 e il 2015 il loro numero nell’Ue-28 (esclusa sempre la Scozia) è aumentato del 10 per cento. Nello stesso periodo la popolazione carceraria di Malta è aumentata di poco più della metà (53 per cento) e quella dell’Italia e della Slovacchia di poco più di un terzo (rispettivamente, 35 e 34 per cento). Tra i Paesi non membri dell’Ue si osservano forti aumenti (in termini relativi) per il Liechtenstein (97%), il Montenegro (51%) e la Turchia (41 per cento tra il 2007 e il 2014). Nei periodi 2007-2009 e 2010-2015 i tre Stati membri baltici hanno registrato i tassi più elevati di detenuti per abitante: il tasso della Lettonia è rimasto stabile tra i due periodi, quello della Lituania ha registrato un aumento e quello dell’Estonia una flessione. Nel periodo 2010-2015 la media Ue-28 (esclusa la Scozia) è stata di 130 detenuti per 100mila abitanti, rispetto ai 125 del periodo 2007-2009. I tassi più bassi nel periodo 2010-2014 sono stati registrati negli Stati membri nordici e in Slovenia (tra 60 e 72 detenuti per 100mila abitanti). Ma la tendenza si conferma la scelta detentiva, anche per reati lievi che un tempo prevedevano un percorso di reinserimento, o che il condannato continuasse il proprio lavoro col vincolo di pernottamento nel penitenziario. La tendenza alla reclusione piace all’Ue, che considera il carcere utile a contenere lo strabordante numero di disoccupati che si danno al crimine. Ma che l’Unione europea sia orientata verso il riempire le carceri e, almeno sulla carta, la reintroduzione della pena di morte non lo si deve certo alle politiche dell’ungherese Orban o alle pressioni della Le Pen. La "pena di morte" è stata introdotta nel Trattato di Lisbona del 2010 a seguito di uno studio della Commissione europea sull’incremento dei crimini e su eventuali deterrenti. Il problema di una sua reintroduzione era stato sollevato per la prima volta da un giurista tedesco, Karl Albrecht Schachtschneider, durante una sua lezione sulla "Carta di Nizza" del 2007. Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il primo dicembre del 2009, ratificato da tutti gli Stati membri dell’Ue: modifica ed integra due precedenti trattati (il Trattato sull’Unione europea, o Tue, ed il Trattato che istituisce la Comunità Europea), apportando sostanziali modifiche all’ordinamento. Ma, fortunati noi, la pena di morte è rimasta monca, e nessuno ha ancora sollecitato l’applicazione della reintroduzione da parte dei Paesi membri. Perché potesse tornare la ghigliottina, è stato modificato l’articolo 6 del Tue, e nella parte che prevede la "salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali". Ma esaminiamo l’articolato in questione, che recita all’articolo 1: "Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena". Quindi all’articolo 2: "La morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da un ricorso alla forza reso assolutamente necessario: - seguono i commi a. per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale; b. per effettuare un regolare arresto o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta; c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione". Di fatto l’Unione europea sta orientandosi verso scelte liberticide, e non si comprende come queste possano conciliarsi con la storia europea degli ultimi sessant’anni. Certo, chi migra da Paesi del Terzo e Quarto Mondo, o fugge da guerre e dittature, considera questi come aspetti marginali. Per tutti gli altri il passo indietro è evidente, e c’è tanta paura di finire nelle maglie pressappochiste della giustizia. Ucraina: diecimila morti in 2 anni nella "guerra europea" di Franco Venturini Corriere della Sera, 4 maggio 2016 Assediati come siamo dalle guerre islamiche e dalle loro conseguenze, rischiamo di dimenticare la guerra europea che non è mai finita in Ucraina. Secondo stime delle Nazioni Unite, in due anni il conflitto tra filo-europeisti e filo-russi ha fatto diecimila morti e oltre ventimila feriti. Numeri pesanti, tanto più se si considera che la tregua prevista dagli accordi di Minsk regge sempre di meno e che i combattimenti sembrano ormai adeguarsi al crescente pessimismo sulla possibilità di raggiungere un compromesso. Le responsabilità coinvolgono tutti. A Kiev l’instabilità governativa si è tradotta nell’aggravamento della crisi economica, nel riemergere della corruzione e nella impossibilità (sin qui)) di varare quelle riforme costituzionali concordate a Minsk che pure il presidente Poroshenko dichiara di appoggiare. A Donetsk, nel Donbass filo-russo, si risponde rafforzando le difese ed escludendo che il controllo del vecchio confine tra Ucraina e Russia possa tornare sotto il controllo di Kiev, obbiettivo che peraltro sembrava illusorio sin dall’inizio. E Vladimir Putin getta olio sul fuoco continuando a garantire l’afflusso di "volontari" bene armati. Insomma, il conflitto che Minsk doveva avviare a soluzione è diventato una tipica guerra congelata che continua a produrre vittime e che non dimentica, da entrambe le parti, l’annessione russa della Crimea. I risultati sono molteplici e poco incoraggianti. Le sanzioni anti-Mosca saranno confermate a luglio. Mentre provano a collaborare in Siria, Usa e Russia si guardano in cagnesco sullo scacchiere europeo. Per rassicurare gli alleati più esposti la Nato aumenta la sua presenza in prossimità dai confini russi, ma c’è il rischio che in questo modo venga alimentato un ritorno di guerra fredda che a nessuno gioverebbe. L’impasse, ormai, aspetta il prossimo Presidente Usa. Egitto: il Cairo svela da solo i piani di censura contro la stampa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 maggio 2016 Inviata per "errore" una mail contenenti le strategie del Ministero degli Interni per difendersi dalle proteste dei giornalisti. Daily New Egypt: in meno di un anno 8 i casi di censura. Ma ad appoggiare il sindacato è ora anche il governativo al-Ahram. Censura sul caso Regeni e gamba tesa contro la stampa egiziana in rivolta: è il contenuto, in breve, delle istruzioni a uso interno che per errore il Ministero degli Interni ha inviato ai media dal proprio indirizzo mail. Ufficialmente per errore: dopo l’invio, il dicastero ha parlato di "malfunzionamento tecnico", ma nei corridoi si rincorrono voci diverse. C’è chi parla di un hackeraggio, chi di atto volontario da parte di qualcuno interessato a ostacolare l’uscita dal tunnel in cui il regime di al-Sisi si è infilato. Il presidente appare indebolito: la campagna di repressione di società civile e stampa è così brutale da avere prodotto l’effetto opposto, almeno all’interno dei confini nazionali. Se fuori la comunità internazionale continua a coccolare Il Cairo, in casa la gente esprime una rabbia crescente. Il governo, dice quel documento diffuso per errore, corre ai ripari ed indica le linee guida per zittire le proteste, quella che viene definita "un’escalation deliberata" ordita dai leader sindacali che puntano ad ottenere vantaggi politici. "C’è da aspettarsi - si legge - una feroce campagna mediatica da parte di tutta la stampa in solidarietà con il sindacato", violato domenica scorsa dal raid della polizia e dall’arresto di due giornalisti. Per questo, ordina il Ministero, si deve rimanere fermi nelle propri posizioni e "coordinarsi con programmi tv, esperti e generali in pensione per invitarli a parlare a favore del Ministero": "Non possiamo fare un passo indietro ora: una retromarcia significherebbe ammettere di aver fatto un errore. E se c’è un errore, chi è il responsabile?". Di certo ieri uno sbaglio, volontario o meno, è stato commesso e il Ministero ha già fatto sapere di aver avviato indagini interne per risolvere il mistero della mail incontrollabile. Ad emergere, però, da quelle righe è anche una pratica spesso utilizzata dal governo cariota: la censura su fatti sensibili e potenzialmente distruttivi. Come il caso Regeni: alla procura generale (quella che dovrebbe collaborare con gli investigatori di Roma) è stato chiesto di imporre il silenzio sull’omicidio del ricercatore. Non è la prima volta: secondo quanto riportato dal Daily News Egypt, dal 29 giugno 2015 alle proteste di massa del 25 aprile, sono stati almeno 8 i casi di censura su fatti interni. Quel giorno di un anno fa veniva ucciso l’ex procuratore generale Hisham Barakat, omicidio che ha dato il via ad un’ondata di divieti per la stampa: è successo con il caso dei fondi esteri alle Ong egiziane; con la denuncia di corruzione mossa da Hisham Geneina, presidente (poi licenziato) dell’istituto Central Auditing Organization che dal 1942 monitora i casi di corruzione; con le mazzette ricevute da funzionari del Ministero dell’Agricoltura. L’obiettivo è palese: impedire ai giornalisti di investigare, alla gente di discuterne. Ma ieri, nella Giornata Internazionale per la Libertà di Stampa, i giornalisti egiziani hanno continuato a manifestare. Di fronte alla sede del Sindacato della stampa, proseguono nel sit-in indetto per costringere il ministro degli Interni Ghaffar alle dimissioni e per ottenere il rilascio dei due giornalisti di January Gate, Amr Badr e Mahmoud el-Sakka. I due lunedì si sono visti allungare l’ordine di detenzione di due settimane, con l’accusa di aver diffuso notizie false e aver incitato al colpo di Stato. Sopra l’edificio la bandiera del sindacato è stata sostituita da bandiere nere, listate a lutto per ricordare le condizioni di lavoro dei giornalisti egiziani. Oggi si terrà un’assemblea generale durante la quale il sindacato annuncerà le prossime mosse. Per ora hanno ottenuto un sostegno inatteso: la mano tesa del giornale governativo al-Ahram. In un editoriale definito in Egitto "senza precedenti", il quotidiano di proprietà dell’esecutivo del Cairo si fa carico indirettamente delle stesse richieste dei colleghi: le dimissioni del ministro Ghaffar. Il raid contro il sindacato della stampa, scrive al-Ahram, è "una mossa inaccettabile" da parte di un Ministero che "ha commesso tanti errori nell’ultimo periodo, concludendo con il suo infelice comportamento nei confronti dei diritti dei giornalisti e dei lavoratori dell’informazione". Eppure, aggiunge il quotidiano, Ghaffar "non riuscirà nel suo pernicioso obiettivo di chiudere le bocche e reprimere le libertà di espressione e opinione". Un affondo durissimo che dà la misura delle crepe che si stanno moltiplicando nel monolitico blocco del potere del presidente golpista. "Dichiariamo l’Egitto Paese non sicuro" di Luigi Manconi Il Manifesto, 4 maggio 2016 Verità per Giulio Regeni. Non può essere considerato sicuro uno Stato con il quale si intrattengono relazioni regolari, ma dove un cittadino italiano di fatto non viene tutelato nella propria incolumità: e dove, nel caso che essa venga compromessa, non sono garantite adeguate indagini per individuare i responsabili e ottenere giustizia. Qualche settimana fa, nel corso di una conferenza stampa promossa dalla Commissione diritti umani del Senato, Paola Regeni, con quel linguaggio dolce e potente che ha saputo elaborare dal proprio dolore, ha definito suo figlio "un giovane contemporaneo". Ovvero, una persona intelligente, curiosa, un ricercatore attento che allo studio e alla conoscenza aveva dedicato la sua vita, viaggiando, imparando le lingue, frequentando collegi e università in Paesi diversi. Giulio incarnava il sogno dei padri fondatori dell’Europa, il miglior risultato di quelle politiche di scambio culturale e integrazione su cui abbiamo puntato alcuni decenni fa e che tanto profondamente hanno cambiato le nuove generazioni del continente. Proprio per difendere questo pezzo fondamentale della nostra identità europea, l’uccisione di Regeni non può che portarci a chiedere di dichiarare l’Egitto Paese non sicuro. Non lo è stato per Giulio e non lo è per migliaia di anonimi egiziani della cui sorte mai sapremo. E potrebbe non esserlo per i tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori europei che vi si recheranno in futuro. Non può essere considerato sicuro uno Stato con il quale si intrattengono relazioni regolari, ma dove un cittadino italiano di fatto non viene tutelato nella propria incolumità: e dove, nel caso che essa venga compromessa, non sono garantite adeguate indagini per individuare i responsabili e ottenere giustizia. Non può essere considerato sicuro un Paese in cui centinaia di esseri umani vengono sequestrati, sottoposti a tortura e uccisi: solo negli ultimi otto mesi vi sono state 735 sparizioni e di circa 500 di queste persone non si hanno più notizie; mentre dal gennaio 2016 sono già 3 i morti accertati, con evidenti segni di tortura sul corpo. Di conseguenza, nelle relazioni dell’Europa con l’Egitto la questione dei diritti umani non può essere un accessorio insignificante. Deve essere, piuttosto, una priorità fra le priorità. E non si può immaginare un sistema di rapporti, di qualsiasi tipo, fra uno Stato europeo e un altro Stato che al suo interno non garantisca la tutela dei diritti fondamentali. L’oltraggio di cui è stata oggetto l’Italia da parte delle autorità egiziane nelle ultime settimane non colpisce solo questo Paese ma l’Europa tutta e l’insieme dei valori irrinunciabili in cui crediamo. Per queste ragioni, sollecitiamo Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione europea, ad adoperarsi in tutti i modi possibili al fine di dichiarare l’Egitto paese in questo momento non sicuro, invitando i cittadini europei, in particolare "i giovani contemporanei" del nostro continente, a non recarvisi. Questo fino a quando il regime lì dominante non abbia mostrato la concreta volontà di cooperare per la ricerca della verità su Giulio Regeni e garantito il pieno rispetto dei diritti umani. Questo testo è stato sottoscritto nelle scorse settimane da circa un centinaio di europarlamentari, di tutti i Paesi e di tutti i partiti e indirizzato a Federica Mogherini, Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione europea. Invitiamo chiunque condivida questo testo a sottoscriverlo su change.org. E a inviarlo ad amici e conoscenti in Italia e in altri paesi sollecitandone l’ulteriore diffusione. Dieci giornalisti palestinesi nelle carceri israeliane di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 maggio 2016 Libertà di stampa. Lo Stato ebraico si autoproclama l’unica democrazia del Medio oriente ma sbatte in prigione, spesso senza processo, i giornalisti sotto occupazione per una presunta "istigazione alla violenza". Gli ultimi Omar Nazzal e Hassan Safadi. Si chiamano Omar Nazzal e Hassan Safadi, sono due giornalisti palestinesi ed entrambi sono stati arrestati da Israele mentre passavano il confine al ponte di Allenby, tra la Cisgiordania e la Giordania. Il primo lo scorso 23 aprile. Il secondo il primo maggio. I giudici militari israeliani hanno deciso che Nazzal rimarrà in "detenzione amministrativa", quindi senza processo, per quattro mesi. Al giornalista viene contestata la direzione di "Palestine Today", una stazione televisiva chiusa di recente dall’esercito. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, però non ha prodotto prove di "reati" compiuti da Nazzal. A Safadi invece è stata estesa la custodia cautelare per altri sette giorni. Poi potrebbe scattare il rinvio a giudizio. Israele ha arrestato 19 giornalisti palestinesi da quando è iniziata, lo scorso ottobre, l’Intifada di Gerusalemme. Dieci sono ancora dietro le sbarre, sei dei quali senza processo. Nel giorno internazionale a sostegno della libertà di stampa, questi numeri a prima vista potrebbero apparire marginali di fronte agli abusi, alle violenze sistematiche che subiscono i giornalisti in diversi Paesi della regione. Tuttavia a differenza di questi Paesi, Israele si autoproclama l’unica democrazia del Medio Oriente, come lo stesso premier Netanyahu ama ripetere ad ogni occasione. E quanto subiscono i reporter palestinesi quindi è molto grave. I responsabili della sicurezza affermano che quei giornalisti sono stati arrestati non in relazione al loro lavoro bensì perché coinvolti in "attività illegali". Se le cose stanno davvero così, perché tanti di questi giornalisti sono in "detenzione amministrativa"? Se avessero commesso dei reati, come afferma lo Shin Bet, verrebbero processati. Se ciò non accade vuol dire che contro di loro non c’è nulla. Un caso noto è quello di Mohammed al Qiq, corrispondente di una tv saudita, arrestato a fine novembre e mai processato. Nonostante un lungo sciopero della fame, che poteva costargli la vita, al Qiq non è riuscito ad ottenere la scarcerazione immediata e lascerà la sua cella questo mese, al termine dell’intero periodo di detenzione amministrativa deciso dai giudici in precedenza. Contro di lui non è stata mai presentata un’accusa specifica. "Israele sostiene che ciò accade (da quando è cominciata l’Intifada, ndr) è dovuto all’istigazione dei mezzi d’informazione palestinesi e non a causa dell’occupazione militare e delle ingiustizie", spiega Mohammed Khalifa del ministero dell’ informazione dell’Anp, "siamo davanti al tentativo di trasformare tutti i giornalisti palestinesi in istigatori e al desidero di danneggiare coloro che portano la nostra vicenda all’attenzione locale o internazionale". Dietro alle sbarre c’è anche una giornalista, Sameh Dweik, arrestata il 6 aprile con l’accusa di istigazione alla violenza sulla sua pagina di Facebook. Stessa accusa per un free lance di Gerusalemme, Samer Abu Aisha, arrestato a gennaio per i suoi post sui social. Da Ramallah l’Autorità Nazionale Palestinese denuncia il comportamento di Israele nei confronti della stampa sotto occupazione ma i suoi servizi di sicurezza sino ad oggi hanno arrestato non pochi giornalisti e blogger palestinesi che avevano criticato il governo e il presidente Abu Mazen. Lo stesso ha fatto Hamas a Gaza contro le voci troppo critiche. Iran: resta in carcere malato lo scienziato Kokabee di Domenico Letizia (Consiglio direttivo di "Nessuno tocchi Caino") L’Opinione, 4 maggio 2016 Era la prima metà del settembre 2015 e come "Nessuno tocchi Caino" lanciammo la campagna per il rispetto dei diritti umani e la soppressione della pena capitale in Iran. Un caso colpì intensamente la nostra attenzione, quello dello scienziato iraniano Omid Kokabee. Lo scienziato è stato condannato a dieci anni di carcere per essersi rifiutato di collaborare con il programma nucleare del regime. Da anni i Pasdaran premevano per usare le sue capacità per il programma nucleare, ma Omid ha sempre rigettato ogni proposta. In realtà, Omid Kokabee è un detenuto politico, che ha solo affermato la propria libertà di scienza e di coscienza, perché, da scienziato, ha avuto il coraggio di rifiutare di mettere le sue conoscenze al servizio del programma nucleare militare iraniano lavorando in altri Paesi tra i quali gli Stati Uniti. Omid è stato insignito di importanti premi internazionali, quali il prestigioso Premio "Andrei Sakharov" nel 2013 e il Premio dell’"American Association for Advancement of Science" conferitogli nel 2014 per "l’esemplare libertà scientifica e responsabilità" dimostrata. In suo sostegno si sono mobilitati anche 18 Premi Nobel per la Fisica con una lettera aperta pubblicata dalla Rivista scientifica "Nature". La detenzione di Omid Kokabee è ritenuta illegale e non giustificata dalla stessa Corte Suprema Iraniana per la quale "differenze politiche con altri Stati non costituiscono un motivo di ostilità" e quindi l’accusa mossa ad Omid di "contatti con un Governo ostile" non ha ragion d’essere. Nonostante il giudizio della Corte Suprema, Omid però è ancora in cella. È di qualche giorno fa la tragica notizia del peggioramento di salute di Kokabee. Al giovane scienziato iraniano è stato infatti diagnosticato un tumore maligno e la necessità di essere operato immediatamente per l’asportazione di un rene. La nostra mobilitazione non può arrestarsi e finalmente, dopo tale tragica notizia, riscontriamo qualche passo in avanti da parte delle nostre istituzioni. È stata presentata un’interrogazione al Senato da parte dei senatori Luis Orellana, Stefania Pezzopane e Valeria Cardinali. Un’interrogazione diretta al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che denuncia lo stato del prigioniero politico iraniano Omid Kokabee e chiede al Governo "di sapere se il ministro in indirizzo non ritenga opportuno intraprendere adeguate iniziative per garantire il diritto alla vita dello scienziato". Speriamo che questa interrogazione trovi presto una risposta. Inoltre, vorremmo comprendere, come scritto nella stessa interrogazione, "quali scopi abbia il tavolo con l’Iran sui diritti umani, chiarendo in particolare se e come si intenda trattare la questione della pena di morte". Durante la recente visita del Premier Renzi in Iran, il Presidente del Consiglio ha annunciato l’apertura di un tavolo sui diritti umani. Nessun altro dettaglio su chi componga il tavolo, quali scopi abbia e come intende trattare, ad esempio, la questione della pena di morte per cui l’Iran risulta in cima alla classifica dei Paesi dove si consumano più esecuzioni al mondo. Al nostro capo di Governo, di un Paese riconosciuto da tutti nel mondo come il campione della battaglia per la Moratoria Universale delle esecuzioni capitali e per l’istituzione del Tribunale Penale Internazionale, con forza dobbiamo continuare a chiedere di porre al centro di ogni incontro con i massimi rappresentanti iraniani la questione del rispetto dei diritti umani universalmente riconosciuti e denunciare le violazioni più gravi, tra cui: l’allarmante uso della pena di morte, applicata anche nei confronti di imputati minorenni, in aperta violazione di patti e convenzioni internazionali che l’Iran ha ratificato; la discriminazione delle minoranze religiose, con particolare riferimento alle sofferenze dei Bahài e dei cristiani; la persecuzione delle minoranze sessuali e, in particolare, degli omosessuali, puniti anche con la pena capitale; l’invocazione alla distruzione dello Stato di Israele e il negazionismo della Shoah, promossi soprattutto dalla Guida suprema Alì Khamenei e ribaditi anche recentemente, quando l’Iran ha effettuato l’ennesimo test missilistico, in piena violazione della Risoluzione Onu 2231 (sui missili lanciati era scritto in ebraico e in arabo: "Israele sarà cancellato dalle mappe"); gli arresti di attivisti per i diritti umani e oppositori politici di cui chiedere la immediata liberazione; la discriminazione legale nei confronti della donna, la cui testimonianza in un processo e la stessa vita in caso di assassinio valgono giuridicamente metà di quella dell’uomo; cessare gli interventi militari e il sostegno al regime siriano di Assad.