Pedofili picchiati in cella dagli altri detenuti, ma a Bollate li recuperano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 maggio 2016 In Italia sono 1.322 i "sex offender" reclusi, 400 sono stranieri e 98 donne. "La pedofilia è una tragedia, non dobbiamo tollerare gli abusi sui minori, dobbiamo difendere i minori e punire severamente coloro che commettono gli abusi", così papa Bergoglio è intervenuto indirettamente sul caso riguardante la svolta nelle indagini per l’omicidio di Fortuna Loffredo, la bimba di 6 anni trovata morta il 24 giugno 2014 davanti al palazzo dove abitava a Caivano, dopo essere caduta dall’ottavo piano. Si era pensato a un tragico incidente, ma quando l’autopsia evidenziò che la bambina aveva subito abusi sessuali "cronici" si iniziò a indagare su un possibile omicidio. Le indagini della Procura hanno fatto ricadere i sospetti su Raimondo Caputo, compagno e convivente di Marianna Fabozzi, vicina di casa e amica della madre della piccola Fortuna. L’uomo, 44 anni, è già detenuto dal novembre 2015, insieme alla compagna, con l’accusa di violenza sessuale ai danni di un’altra bambina. I mass media l’hanno già dato per colpevole senza ancor prima aspettare l’esito del processo. Tanto che ha subito un’aggressione dagli stessi compagni di cella, anch’essi reclusi per reati legati agli abusi sessuali. I detenuti che rischiano di più nel carcere sono proprio i pedofili. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della Giustizia il numero di pedofili detenuti nelle carceri italiane sono 1.322 di cui 400 stranieri e 98 donne. Tra le regioni che detengono il maggior numero di pedofili ci sono Lombardia, Sicilia, Piemonte e Lazio. In Italia esistono 15 organizzazioni pedofile che si autodefiniscono culturali e il nostro è il secondo Paese al mondo per visite legate al turismo sessuale in Tailandia. Gli abusanti sono quasi sempre all’interno del nucleo familiare: padri, madri, nonni, nuovi conviventi o coniugi. Solo il 9,0% riguarda soggetti estranei. Un tema scottante visto che sia fuori (la società libera auspica molto spesso la loro morte) che dentro, non sono i benvenuti e nessuno crede al loro recupero. I pedofili che entrano in carcere, non vengono reclusi nelle celle comuni perché rischierebbero la loro incolumità. Nella cultura del mondo carcerario, vengono definiti " gli infami". Nel gergo tecnico di psicologi e operatori penitenziari sono i "sex offender". Qualunque sia il modo di chiamarli, una cosa è certa: quando entrano in galera, le persone che si sono macchiate di un reato sessuale vengono spedite dritte nei reparti protetti e isolate dal resto dei detenuti. Ma c’è un carcere dove questo non accade e mette in discussione i numerosi luoghi comuni che definiscono, i pedofili, come persone irrecuperabili e da castrare. Un carcere definito erroneamente "sperimentale", ma che si limita semplicemente a rispettare l’articolo 27 della Costituzione italiana. Parliamo del famoso carcere di Bollate, conosciuto per essere uno dei pochi centri di reclusione dove la recidiva è sotto la media nazionale. E per il detenuto pedofilo è proprio la recidiva il vero problema. Si possono aumentare le pene, si possono varare norme che tengano i pedofili lontani dalle possibile "prede" come viene fatto in diversi paesi europei, ma se non s’intraprende un percorso di "cura", il sex offender di turno tornerà a commettere le violenze, fino a quando verrà scoperto nuovamente. Per questo a Bollate, dal 2005, è in corso una sperimentazione per il recupero dei pedofili. Si chiama "Progetto di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali in Unità di Trattamento Intensificato e sezione attenuata" ed è l’ unico caso in Italia in cui, dopo un anno di terapia in un’unità specializzata all’ interno del carcere, i detenuti possono lasciarsi alle spalle il reparto protetto e vivere quotidianamente insieme agli altri detenuti di reati "comuni". La sperimentazione per il recupero dei pedofili e violentatori sessuali in genere è pianificata e gestita dai professionisti del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione. È un’associazione fondata nel marzo del 1995 a Milano, da un gruppo di criminologi, sociologi, psicologi, operatori sociali e magistrati. Essa costituisce la prima presenza organizzata su territorio nazionale per la formazione e la diffusione delle pratiche di mediazione. Al carcere di Bollate la terapia si basa su tre passaggi fondamentali: ospitare i sex offender in una struttura isolata dal resto del carcere, creando il clima ottimale per l’avvio della terapia; il secondo passaggio è utilizzare il gruppo come uno strumento di confronto e introspezione; il terzo è quello di puntare al progressivo reinserimento di queste persone tra gli altri detenuti, preparandoli gradualmente alla scarcerazione. Un percorso che non si esaurisce dopo la scarcerazione, ma continua nel Presidio criminologico di Milano. Un centro dell’assessorato comunale alla Sicurezza, dove i gruppi di cura vengono costituiti con "sex offender" usciti di prigione, altri che stanno scontando pene alternative, e altri ancora a piede libero, mai individuati dalla giustizia, ma con l’urgenza di farsi curare. Nella cosiddetta società civile, ma anche tra gli stessi detenuti, i pedofili e stupratori non sono recuperabili e meriterebbero l’ergastolo. In realtà la sperimentazione che avviene nel carcere di Bollate, dimostra l’ esatto contrario. E contribuisce anche alla sicurezza stessa, abbassando la recidiva. La vendetta in cella che non fa giustizia di Antonio Mattone Il Mattino, 3 maggio 2016 I detenuti accusati delle violenze più infami finiscono nel mirino dei compagni di cella. Tagli, fratture, lividi vengono giustificati con una caduta: e tutti fanno finta di niente. "Fammi vedere le carte". Sono le prime parole che si sente dire un nuovo giunto appena entra nella cella di un carcere italiano. È la richiesta per verificare che si è (o lo si è stato nel passato) autore di un "reato infame", che abitualmente viene fatta dal "vecchio di stanza", cioè da chi risiede da più tempo nella cella o ne è il più autorevole abitante. Insomma da chi comanda. Nelle carte c’è scritto se si è accusati di reati sessuali o se si è collaborato con la giustizia. E, così, tutto il padiglione resta in attesa del responso, fino a quando il controllore dopo aver esaminato i documenti con i capi di imputazione urla dalla finestra della sua cella un liberatorio "tutto a posto", che certifica che il nuovo arrivato può essere accolto senza problemi nella comunità dei carcerati. Di solito gli autori di questi crimini "spregevoli" vengono rinchiusi in reparti speciali, oppure sono in qualche modo separati fisicamente dagli altri detenuti, soggiornando in piani appositamente dedicati. Ma può succedere che per errore, per distrazione o per un motivo qualsiasi, finiscano nelle sezioni comuni. E allora è meglio verificare il curriculum vitae. Un carcerato mi ha raccontato che per essere finito nella sezione sbagliata ed evitare di essere picchiato ha dovuto strappare e poi ingoiare il foglio dove era impresso il numero 609, il famigerato articolo del reato odioso. Per Raimondo Caputo, il presunto assassino della piccola Fortuna, non c’è stato bisogno di esaminare le carte. Era finito al terzo piano del padiglione Roma della Casa circondariale "Giuseppe Salvia Poggioreale", dove sono collocati i sex offenders, gli accusati di reati di violenza a sfondo sessuale, e il clamore suscitato dal suo arresto ha fatto subito il giro del penitenziario. Radio carcere comunica velocemente almeno quanto internet. E così è stato aggredito dai suoi stessi compagni di cella, autori anch’essi di reati a sfondo sessuale, durante quella che viene definita una adunanza di socializzazione. Una crudele legge del carcere impone di scagliarsi contro chi ha commesso un delitto più sporco del tuo. E allora succede che chi una volta è stato oggetto di un feroce pestaggio, divenga poi un giustiziere spietato. Spesso questi linciaggi avvengono sotto silenzio. Un braccio rotto, un taglio in testa, una faccia piena di lividi, hanno sempre la stessa giustificazione, una caduta. Anche se poi tutti sanno come sono andate veramente le cose. Le colpe imputate a chi frequenta le sezioni protette possono essere di diverso tipo. C’è chi ha picchiato la moglie perché l’ha trovata a letto con un altro, chi è accusato di violenze domestiche, chi ha violentato donne, chi ha seviziato bambini, fino all’orribile omicidio di cui è accusato Caputo. Questi detenuti sono segnati da un grande disprezzo, uno stigma che la gravità dei fatti commessi lascia come impronta indelebile. Ogni occasione è buona per essere umiliati dagli altri carcerati. Alcuni anni fa un lavorante che portava il vitto ai sex offendere urinò e sputò nella pentola con il cibo ancora fumante. Il suo collega, tra i destinatari del pranzo, se ne accorse e, con una manovra furtiva, riuscì a fare uno scambio di gavette. Forse andrebbero previsti dei circuiti alternativi, delle prigioni riservate a chi ha commesso questi crimini, prevedendo una serie di attività trattamentali e rieducative specifiche. Così come andrebbero formati gli agenti di polizia penitenziaria, per relazionarsi con loro nel modo più opportuno. Nel Tavolo 15 degli gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale Esterna, promossi dal ministro della Giustizia Andrea Orlando per discutere di un nuova idea di carcere, è stata data molta importanza alla formazione del personale che vive a stretto contatto con chi è recluso. È davvero difficile certe volte stare davanti a chi ha commesso azioni così orribili, anche per chi frequenta da anni le galere. C’è un grande male che non ha spiegazioni né giustificazioni e provoca solo una grande nausea. Ci sono vittime innocenti come i bambini uccisi e violati che chiedono giustizia. È una storia che si ripete da anni, forse da millenni. Una strage degli innocenti che non ha nessuna logica. Tuttavia non si può cedere alla vendetta dando addosso al mostro. Forse è più facile, libera da un peso la nostra coscienza, soprattutto se a portare a termine il lavoro sporco sono altri. Le circostanze e i fatti che sembrano essere avvenuti al parco Verde di Caivano parlano di tutto un contesto mostruoso e malato. Non è eliminando l’orco che tutto ritorna a posto. Piuttosto non dobbiamo abbandonare quel quartiere e quei bambini. Ma bisogna capire, accompagnare e intervenire con un esercito di operatori sociali. Al carcere resta invece un grande e arduo compito. Quello di cercare di rieducare anche il più spregevole degli assassini. Abdicare a questa funzione significherebbe una sconfitta non solo per il sistema penitenziario ma per l’intera società. Prescrizione. Renzi: "va cambiata, ma i giudici siano più veloci" di Alberto Custodero La Repubblica, 3 maggio 2016 Il premier interviene sul tema della sicurezza, dei servizi segreti e del terrorismo: "Sulla microcriminalità bisogna essere più duri nelle pene". "Il nostro sistema di intelligence è straordinario". "Importante l’arresto a Lecco, quell’uomo voleva farsi esplodere". E di Weidmann dice: "Pensi a sue banche, non dia lezioni all’Italia". Poi replica a Grillo e Berlusconi: "Loro condannati, io no" "La prescrizione va cambiata, ma va fatta anche un’altra cosa per arrivare alla sentenza: chiedere ai magistrati di essere più veloci. Ci sono Tribunali nei quali si corre. Altri invece in cui si va troppo spesso alla prescrizione". Matteo Renzi, a Domenica in, è intervenuto sul tema della giustizia. Ed è tornato anche sulle polemiche sollevate qualche giorno fa dalle dichiarazioni del neo presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo. Poi ha toccato i temi delicati della sicurezza del Paese, dal rischio attentati al ruolo degli 007 alla corruzione. Quindi ha risposto a distanza al Governatore della Banca Centrale tedesca. Infine ha replicato alle accuse di Grillo e Berlusconi. Corruzione: "Basta analisi, certezza della pena". "Ci vuole la severità della pena - ha dichiarato Renzi - Ai magistrati dico, organizziamoci meglio e andiamo a sentenza e quando sei colpevole io ti sbatto dentro. Basta analisi sulla corruzione, io voglio una sentenza e che poi stai in galera. Il messaggio vero è: molto più duri nelle pene sulla microcriminalità. Ci sono dei casi scandalosi in cui non accade che stai in galera, ma ce ne sono molti che ci vanno e io vorrei che ci andassero anche i pezzi grossi in carcere". "Davigo? Nomi, non spari nel mucchio". Renzi è tornato sulla polemica sollevata nei giorni scorsi dalle dichiarazioni contro i politici corrotti di Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Anm. "Sì - ha detto Renzi - ci sono politici corrotti. Ma io voglio i nomi, voglio sapere chi è che ruba e chi non ruba. Pieno rispetto per il dottor Davigo, ma dico una cosa su cui il 101 per cento degli italiani pensa sia una cosa banale: se uno ruba deve essere preso e giudicato. Ma non si può sparare nel mucchio sennò fai il gioco di quelli che rubano". "Io non ce l’ho con i magistrati - ha precisato - ma non si deve fare ‘i giudici contro i politicì. Ma ‘gli onesti contro i ladri". Renzi sulla Sicurezza. Il premier ha poi toccati i temi più delicati della Sicurezza all’indomani delle nomine ai vertici del Viminale, delle forze dell’ordine e degli 007. "Sulla microcriminalità dobbiamo essere più duri nelle pene, se ti beccano stai al fresco per un po’, per un po’ tanto. Chiedo ai magistrati senza polemiche: andiamo a sentenza, non ne posso più di grandi analisi sulla corruzione". A proposito del rischio attentati, ha aggiunto: "La sicurezza non la sottovalutiamo. L’Italia è in prima fila con un sistema di intelligence straordinario". Per il premier, l’evento più importante degli ultimi giorni è stato l’arresto a Lecco di un uomo che "stava progettando di venire in Italia e farsi esplodere da qualche parte". Terrorismo: "Arrestato a Lecco voleva farsi esplodere". Renzi ha spiegato di aver avuto primi segnali sulla pericolosità dell’individuo diverse settimane fa, e la segnalazione diceva che l’arrestato "stava progettando di venire in Italia e farsi esplodere da qualche parte". "I capelli bianchi vengono anche (…) quando ricevi informazioni di questo genere", ha detto il premier. Non bisogna "avere ansia, perché bisogna essere lucidi e freddi. A Palazzo Chigi abbiamo seguito (i movimenti del sospetto, ndr) e, al momento opportuno, quando il magistrato ha ritenuto, siamo intervenuti". "Grillo e Berlusconi condannati. Io no". Commentando gli attacchi di Beppe Grillo contro di lui, e le critiche per i suoi rapporti politici con Denis Verdini, il leader di Ala coinvolto in indagini giudiziarie, ha replicato così: "Io ho la fedina penale pulita". "Mi sento sempre dire - ha aggiunto - che guido un partito di delinquenti. Voglio ricordare che il M5s e FI sono guidati da due leader (Grillo e Berlusconi, ndr) con sentenze passate in giudicato". "Weidmann pensi alle sue banche". Matteo Renzi a Domenica in risponde Jens Weidmann, che aveva parlato a Roma all’ambasciata tedesca il 26 aprile. "Il tempo in cui ci davano le lezioni è finito: al Governatore della Banca centrale tedesca suggerirei di guardare alle banche tedesche. Ha tanti problemi a cui pensare e meno pensa all’Italia, meglio è per lui". Il numero uno della Bundesbank, dopo aver ricordato il contributo di Tomaso Padoa Schioppa alla costruzione dell’euro e i suoi avvertimenti ("L’unione monetaria non può tornare indietro"), prima si era complimentato con le riforme del governo Renzi. Poi aveva evidenziato i punti di rottura con il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan e le criticità dell’Italia in termini di debito pubblico. La prescrizione non salva i politici? Cancelliamola di Piero Sansonetti Il Dubbio, 3 maggio 2016 Renzi è tornato a parlare di politica. Ha ribadito che ci sarà una riforma della prescrizione (cioè sarà allungata) ma ha chiesto ai magistrati di lavorare per abbreviare i tempi dei processi. In modo da far rispettare l’articolo 111 della Costituzione, che prevede la ragionevole durata del processo. Domanda: ma se riusciamo ad accorciare i tempi dei processi, che urgenza c’è di allungare la prescrizione? Un processo breve (o anche abbastanza lungo: tipo sei anni per un piccolo reato e 10 o 15 anni per un reato più grave...) non cade in prescrizione neppure con la legge attuale. Dunque... Seconda domanda: perché il mondo politico, a parte qualche piccolo gruppo, non sembra affatto contrario a concedere l’allungamento dei tempi della prescrizione? Provo ad ipotizzare una risposta. L’effetto delle irruzioni del potere giudiziario in politica non ha niente a che fare con la prescrizione. Ha poco a che fare persino col processo. Gli effetti dell’iniziativa della magistratura sul mondo politico si realizza nei primi due mesi dell’inchiesta: quando arriva l’avviso di garanzia, o addirittura l’arresto o la richiesta di arresto al Parlamento. È in quel momento che si apre l’offensiva mediatico-giudiziario che in genere demolisce l’indiziato ? a prescindere dalla sua colpevolezza e dall’esito dell’eventuale processo ? e danneggia il partito, o lo schieramento, al quale appartiene. Una volta ottenuto l’effetto, il conflitto tra politica e potere giudiziario è risolto. Poi l’inchiesta proseguirà il suo corso (in modo tranquillo se era una inchiesta fondata, in modo incerto se era infondata). Della prescrizione non frega più niente a nessuno, tranne forse al diretto interessato, che tuttavia a quel punto è un ex politico ed è rimasto privo di qualsiasi potere. Non si conoscono leader politici tornati in sella grazie alla prescrizione (dopo essere stati disarcionati da un’inchiesta). Volete qualche esempio, tra i più noti? La famosa inchiesta Why Not, quella di De Magistris, che interruppe decine e decine di carriere politiche e manageriali. Tutti assolti, senza prescrizione. Ma allora a che serve la prescrizione? Soprattutto a difendere il diritto alla giustizia degli imputati più deboli. Che non attirano l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica. E sui quali la giustizia è molto, molto più lenta che nei grandi casi politici o in quelli che coinvolgono gente famosa. La prescrizione è essenzialmente una norma che riguarda loro. Che garantisce il diritto a non essere perseguiti dalla giustizia per decenni. E questa è la ragione per la quale è probabile che si troverà un accordo tra magistratura e politica. A nessuno, in fondo, interessa molto dei diritti di quella gente lì. Magistratura onoraria, le nuove competenze per valore aprono a una giustizia di classe di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2016 Ho sempre avvertito un certo senso di fastidio tutte le volte che, giunto in aeroporto, son passato davanti ai varchi preferenziali riservati ai possessori di carte fedeltà: mi sono sempre sembrati i segni più tangibili del fatto che siamo tutti uguali, ma non troppo. Ed anche le scandalose pensioni d’oro sono un altro incontestabile esempio di una insopportabile ingiustizia. Ma dinanzi alla legge, almeno sino ad alcuni anni or sono, si poteva dire di essere tutti uguali perché i diritti trovavano tutti tutela in Tribunale, indipendentemente dal loro valore economico: ogni cittadino poteva confidare che la ragione e/o il torto fossero dichiarati da un giudice professionale, selezionato in maniera molto rigorosa e la cui autonomia ed indipendenza fossero presidi irrinunciabili. Poi, in nome di un’emergenza, ha cominciato a prevalere un diritto su tutti, la ragionevole durata del processo, e si è affermata l’idea che non c’è giustizia se questa arriva tardi. Pur condividendo la necessità che il processo sia celebrato in tempi accettabili, lasciano molto perplessi le politiche messe in atto dallo Stato per affrontare il problema. Il legislatore, preferendo le scorciatoie, si è mosso in tre direzioni: ha aumentato i costi di accesso alla giustizia; ha aumentato le decadenze a carico delle parti processuali attraverso ossessive riforme del codice di rito che hanno anche ridotto i rimedi nel caso di provvedimento errato; ha accresciuto le funzioni e le competenze della magistratura onoraria. Poiché l’emergenza è sempre attuale, nei giorni scorsi il Parlamento ha delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo di riforma della magistratura onoraria che, tra l’altro, dovrebbe estendere la competenza per valore dei "giudici onorari di pace", ai quali saranno affidate le cause civili sino a 30.000 euro e quelle sino a 50.000 euro di risarcimento del danno da circolazione stradale. Ed allora non può non prendersi atto della volontà politica di proseguire sulla strada di riservare ad una giustizia di serie A (affidata a giudici professionali) le questioni di maggiore rilevanza economica e ad una giustizia di serie B (affidata a giudici onorari, e dunque non professionali) le questioni di minore valore economico ma certamente, in considerazione del loro numero, di maggiore rilevanza sociale. E così neppure davanti alla legge saremo più tutti uguali e la massima parte degli affari civili, quelli - per essere chiari - che riguardano i comuni mortali e che non possono certo definirsi "bagattellari" (per un pensionato, un artigiano, un piccolo professionista, un lavoratore dipendente 30.000 euro equivalgono ad uno/due anni di guadagni), saranno affidati a giudici non selezionati attraverso un rigoroso concorso e le cui competenze ed attitudine (pur non potendosene escludere a priori il possesso) nessuno valuterà. Ma poco importa se i cittadini italiani saranno meno uguali dinanzi alla legge perché a guadagnarci sarà senz’altro lo Stato che, remunerando i giudici onorari con emolumenti lontani anni luce dagli stipendi dei magistrati togati, otterrà considerevoli risparmi. Sulle intercettazioni "autoregolamento" uniforme e condiviso di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2016 I protocolli di autoregolamentazione, di cui si sono dotate alcune tra le più importanti procure della Repubblica nella materia delle intercettazioni, sono considerati da molti osservatori un buon viatico per porre rimedio a criticità che sono sotto gli occhi di tutti da parecchi anni ormai. L’iniziativa del Csm e l’autoregolamentazione delle Procure - Secondo fonti di stampa nelle ultime settimane anche il Consiglio superiore della magistratura si sta lavorando anche sulle problematiche delle intercettazioni, per definire delle linee guida nazionali che - sintetizzando e integrando le circolari dei Procuratori di Roma, Torino e Napoli - saranno messe a disposizione di tutte le procure. L’obiettivo è quello di arrivare a un’autoregolamentazione uniforme e condivisa. Nel frattempo, anche i procuratori Giuseppe Pignatone, Armando Spataro e Giovanni Colangelo sono stati convocati in audizione dalla commissione Giustizia del Senato, alle prese col Ddl sul processo penale e sulle intercettazioni (atto Senato n. 2067). Ad aprire il filone dell’autoregolamentazione delle procure in materia è stata Roma, con la direttiva n. 1757 del 16 giugno 2015, recante "criteri direttivi in tema di intercettazioni di conversazioni tra l’indagato e il suo difensore", a firma del Procuratore capo Giuseppe Pignatone. Successivamente, il 15 febbraio scorso la Procura di Torino ha emanato le Linee guida su "Modalità di deposito e rilascio copie su supporto magnetico o in cartaceo (inclusi i cosiddetti "brogliacci" redatti dalla polizia giudiziaria di registrazioni e/o trascrizioni di conversazioni telefoniche o ambientali, nonché di comunicazioni informatiche e telematiche". Anche Napoli si è mossa il 16 febbraio 2016 con la direttiva della Procura n. 1/2016, recante "criteri direttivi in tema di intercettazioni inutilizzabili o irrilevanti nonché in tema di intercettazioni di conversazioni con i difensori". Prima di procedere alla disamina del contenuto di queste linee guida di Roma, Torino e Napoli è bene porre alcune questioni preliminari. La prima concerne il fondamento giuridico di questa potestà che i procuratori hanno inteso esercitare con questi provvedimenti. Nessuno degli atti cura di indicare alla stregua di quali disposizioni ordinamentali e/o processuali sia da ritenere in facoltà del procuratore della Repubblica "autointegrare" il corpus di norme codicistiche che regolano le captazioni. Ma un controllo in questa direzione pare pur sempre necessario al fine di poter delineare, anche, quali conseguenze possano derivare dalla violazione o semplice inosservanza di queste regole domestiche. Il fondamento giuridico dell’autoregolamentazione - Orbene, innanzitutto, deve aversi riguardo all’articolo 4 del Dlgs 106/2006 (recante "Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero") il quale sotto il titolo "impiego della polizia giudiziaria delle risorse finanziarie e tecnologiche" prevede che "Per assicurare l’efficienza dell’attività dell’ufficio, il procuratore della Repubblica può determinare i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria, nell’uso delle risorse tecnologiche assegnate e nella utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l’ufficio può disporre … Ai fini di cui al comma 1, il procuratore della Repubblica può definire criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti". È una disposizione che, a un primo sguardo, ben si presta ad assicurare al procuratore capo la potestà di un intervento di questo genere, potendo certo annoverarsi tra i "criteri generali" da osservare "in relazione a settori omogenei di procedimenti" anche una linea guida che riguardi le indagini nelle quali si ricorre alle intercettazioni telefoniche o ambientali. Secondariamente si pone il problema della tutela delle prerogative dei difensori (troppo volte intercettati nei colloqui in carcere con i propri assistiti). A questo riguardo, sempre il Dlgs 106/2006, detta una norma generale secondo cui "il procuratore della Repubblica assicura … il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio", norme tra le quali occupa un posto di assoluto rilievo la salvaguardia del diritto di difesa e l’inviolabilità delle conversazioni tra difensore ed imputato. In terzo luogo nulla esclude che tra le direttive che il pubblico ministero può impartire alla polizia giudiziaria (ad esempio, ex articolo 357 del Cpp) vi siano quelle inerenti talune attività complementari da svolgere nell’esecuzione, sempre delegata dal pm, delle attività di intercettazione. Le conseguenze - In linea generale il codice non consente al pubblico ministero di impartire disposizioni generali alla polizia giudiziaria, la quale - malgrado la direzione delle indagini competa all’ufficio di procura - ha spazi di autonomia che possono essere erosi solo attraverso una delega specifica (articolo) al compimento di singoli atti (come accade per le intercettazioni all’articolo 267, comma 4, del Cpp). Al di là di queste ipotesi è discutibile che questi provvedimenti abbiano un’efficacia vincolante, anche se è intuitiva la corposa moral suasion che essi esercitano sulla polizia giudiziaria. Quindi, in primo luogo, perché possa darsi responsabilità della polizia giudiziaria delegata all’esecuzione delle intercettazioni è forse indispensabile che il protocollo di autogestione sia espressamente menzionato nel decreto ex articolo 267, comma 3, del Cpp con cui il pubblico ministero devolve l’ascolto e ne fissa le modalità di esecuzione. Secondariamente, vedremo, i codici di autoregolamentazione delle procure prevedono specifici oneri per i magistrati dell’ufficio inquirente nella trattazione dei risultati dell’attività di intercettazione e, a questo riguardo, soccorre probabilmente l’articolo 2, comma 1, lettera n), del Dlgs 109/2006 che appresta un’ipotesi di responsabilità disciplinare nella "reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti". A questo, integrativamente, potrebbe accompagnarsi l’ulteriore fattispecie disciplinare di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d) secondo cui costituiscono illecito "i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori". Il riferimento all’abitualità implica una reiterazione delle condotte, mentre il requisito della gravità potrebbe rendere sufficiente anche una sola attività di intercettazione che non sia rispondente ai canoni prescritti dal capo dell’ufficio (da notare che nella norma non vengono in considerazione i cosiddetti "terzi estranei" coinvolti dalle captazioni). L’attivazione di questi dispositivi sanzionatori compete direttamente al procuratore della Repubblica (articolo 14, comma 4, decreto citato) e al procuratore generale presso la Corte d’appello in ragione delle ampie facoltà che gli sono riservate dall’articolo 6 Dlgs 106/2006 "al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale". È un circuito di vigilanza ancora in attesa di un definitivo collaudo (l’ultima riunione plenaria si è svolta presso la procura generale della Cassazione il 14-15 aprile 2016), ma che, allo stato, dovrebbe consentire ai procuratori generali presso le Corti d’appello di verificare il rispetto delle direttive di cui si discute in materia di intercettazione. In definitiva una cornice non particolarmente rassicurante, poiché si esaurisce nell’inner circle dell’ufficio del pubblico ministero e, comunque, in una dimensione disciplinare che, di certo, non offre alcuna tutela per ai soggetti privati (imputato, difensore, terzo estraneo) i cui fondamentali diritti, spesso di rango costituzionale, sono intaccati dalle attività di intercettazione e dalle lamentate distorsioni applicative. È, probabilmente, proprio questo il limite dei provvedimenti di autodisciplina di cui si discute: assicurare una sorta di protezione "paternalistica", ossia dall’alto, delle posizioni giuridiche meritevoli di tutela senza che si abbia la possibilità di azionare in sede giurisdizionale rimedi specifici sul piano della nullità o della inutilizzabilità delle captazioni oltre quelli vigenti nel codice. Probabilmente è da ritenere che il privato, leso da condotte distoniche rispetto alle autodeterminazioni dei procuratori, possa agire per il risarcimento dei danni in sede civile, lamentando la violazione di queste direttive. Ma la questione resta sempre fuori dal perimetro del processo penale e, questo, è un limite insuperabile di questa autodichia del pubblico ministero. In ogni caso la procura di Napoli ricorda che, laddove l’avviso di deposito ex articolo 268 del Cpp avvenga in uno con l’avviso di conclusione delle indagini ex articolo 415-bis del Cpp, "attivata tale procedura e fino al suo esaurimento, non verranno meno i divieti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 114 c.p.p. e gli atti rimarranno processualmente segreti fino al momento in cui il giudice competente - e non il pubblico ministero - assumerà doverosamente, da un lato, le decisioni relative ad inutilizzabilità di atti o a manifesta irrilevanza di registrazioni e flussi di comunicazioni informatiche o telematiche contenenti dati sensibili di cui il pubblico ministero stesso abbia richiesto lo stralcio e, dall’altro, quelle relative ad eventuali richieste difensive di estrazione di copie dei medesimi". Circostanza, questa, che sinora non ha certo impedito la divulgazione di materiale investigativo coperto da segreto d’indagine, ma che è resa più cogente per il pubblico ministero sotto il cennato profilo disciplinare. Lo scopo delle direttive - I provvedimenti in esame non rispondono tutti alla medesima logica e traggono origine da contesti operativi non del tutto assimilabili. Così la direttiva della procura di Napoli muove dalla considerazione che "con il presente provvedimento si intende, in primo luogo, dettare specifiche direttive al fine di evitare l’ingiustificata diffusione di conversazioni intercettate nel corso di indagini che siano del tutto estranee e irrilevanti ai fini della proficua conduzione delle stesse o addirittura inutilizzabili; in secondo luogo, analizzare gli adempimenti gravanti sul pubblico ministero al fine di distruggere le conversazioni inutilizzabili o senza alcun dubbio prive di qualsivoglia rilevanza penale, specie nel caso in cui la obbligatorietà di detta distruzione sia stata esplicitamente rimarcata dal legislatore". La direttiva romana, a sua volta, è circoscritta alla formulazione di "criteri direttivi in tema di intercettazioni di conversazioni tra l’indagato e il suo difensore". Il provvedimento della procura di Torino precisa, invece, che "la necessità di emanare le presenti linee guida trae occasione dalle considerazioni depositate da uno studio legale di Torino, in merito al rilascio di copie di dvd contenenti registrazioni di conversazioni telefoniche o tra presenti, nonché di comunicazioni informatiche telematiche ed in merito al pagamento dei relativi diritti. Tale problematica, però, ha indotto il procuratore a estendere il contenuto del presente provvedimento, dando indicazioni anche in ordine alle modalità di deposito e rilascio di copie su supporto magnetico o in cartaceo (inclusi i cosiddetti "brogliacci" redatti dalla polizia giudiziaria) delle suddette registrazioni. Per quanto si tratti - infatti - di argomenti oggetto di comune esperienza e di recenti pronunce delle sezioni Unite e di varie sezioni penali della Corte di cassazione, le linee guida oggetto di questo provvedimento appaiono utili sia a seguito di alcuni quesiti prospettati da magistrati e dal responsabile dell’Ufficio intercettazioni di questa procura, sia in relazione al rilievo della materia che - pur considerando l’importanza delle intercettazioni come strumento d’indagine - presenta indubbi collegamenti con i temi della tutela della riservatezza e del diritto d’informazione, entrambi di rilevanza costituzionale". Conseguentemente è la direttiva torinese a contenere un’ampia e articolata disciplina di dettaglio che, sostanzialmente, accompagna tutte le disposizioni codicistiche in materia di intercettazioni, offrendone un’interpretazione volta a meglio descrivere gli adempimenti che competono al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria e a curarne il corretto svolgimento. Le direttrici del codice - Ovviamente tutti e tre i provvedimenti esaminano i profili di criticità dell’attività di intercettazione nella prospettiva dei rimedi azionabili dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. Sarebbe stato impensabile che fossero concordate con gli organi giudicanti comuni intese regolatrici. Tuttavia non si può fare a meno di considerare che l’intercettazione viene solo "richiesta" dal pubblico ministero e che essa è e resta (al pari delle misure cautelari) un provvedimento del giudice. Tutte le procedure previste in autodisciplina considerano ovviamente questo dato che concentra, secondo il codice di rito, in capo al giudice il sindacato sulla legittimità, rilevanza e pertinenza delle captazioni "solo" raccolte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, a sua volta autorizzato dal Gip. L’ampia manipolazione delle conversazioni - ovviamente sotto l’esclusivo profilo della loro selezione - è certo imposta dalla necessità di assicurare un governo alle registrazioni nella fase cruciale dell’impiego e del deposito a fini cautelari (si veda oltre) in cui non può trovare applicazione il complesso congegno previsto dall’articolo 268 del Cpp e ciò determina, come inevitabile risultato finale, che sul pubblico ministero si concentri una posizione di garanzia e di tutela di rilevanti posizioni soggettive che, secondo l’ordinamento, dovrebbe competere al giudice. A costui - invece - nella disciplina secondaria approntata dalle procure della Repubblica risulta affidato un ruolo che appare di mera ratifica e controllo "esteriore" sulle attività di polizia. La fonte di prova rappresentata dalle intercettazioni com’è noto - per la sua natura di "atto a sorpresa" - non prevede un contraddittorio anticipato per la sua assunzione. E, infatti, il contraddittorio si concentra per intero sulla fase successiva quando il complesso delle acquisizioni investigative scorre sotto il controllo del giudice (quanto al contenuto) e della difesa (quanto, anche, all’iniziale provvedimento autorizzativo). La centralità di questa fase è resa del tutto evidente dal diverso regime delle intercettazioni preventive di cui all’articolo 226 delle disposizioni di attuazione del Cpp (valevole ai sensi della legge 124/2007 anche per i servizi di intelligence), ove la totale inutilizzabilità del materiale raccolto esclude il controllo giurisdizionale sia nella fase dell’autorizzazione (rilasciata dal pubblico ministero o dal procuratore generale della Corte d’appello di Roma) che in quella del deposito dei risultati delle captazioni. Quindi la selezione delle conversazioni rilevanti per il procedimento, secondo il codice, non può subire alcun intervento anteriormente all’incardinarsi di questo contraddittorio che l’articolo 268 del Cpp descrive in modo minuzioso e, in apparenza, insuscettibile di deroghe: ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che - entro il termine fissato dal pubblico ministero (comma 4) o entro quello prorogato dal giudice (comma 5), hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Scaduto il termine, il giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione. Il pubblico ministero e i difensori hanno diritto di partecipare allo stralcio e sono avvisati almeno ventiquattro ore prima". Compete, quindi, in esclusivo al giudice - in contraddittorio con le parti - escludere dal compendio delle conversazioni da acquisire e, poi, trascrivere, quelle che "appaiano manifestamente irrilevanti" e quelle "inutilizzabili" (ad esempio, perché intercorse con il difensore). Si badi bene: questo controllo non è onnicomprensivo, ma è circoscritto alle conversazioni "indicate dalle parti" cui compete - ciascuno secondo la propria angolazione - la segnalazione al giudice delle conversazioni ritenute utili ai fini di causa. Nel caso del pubblico ministero questo compito è quasi sempre affidato alla polizia giudiziaria che estrapola la comunicazioni indicate nell’informativa di reato. La questione è, invece, problematica sul versante della difesa che potrebbe avere interesse all’acquisizione e trascrizione di altre conversazioni che la polizia giudiziaria non ha censito nei propri atti. Spesso, ma non sempre, ciò accade in buona fede, perché l’operatore addetto all’ascolto (che nei procedimenti di criminalità organizzata può essere anche solo un agente di polizia giudiziaria in deroga all’articolo 267, comma 4, del Cpp) non ha inteso la rilevanza di quella conversazione e perché non ne può percepire, in anticipo, l’efficacia dirimente per la posizione dell’imputato. Per evitare che la difesa si sobbarchi il compito immane di ascoltare le conversazioni (come pure ha facoltà di fare, come visto), l’articolo 268, commi 1 e 2, del Cpp prevede che "le comunicazioni intercettate sono registrate e delle operazioni è redatto verbale. Nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate". Questa trascrizione, anche sommaria, consegue il risultato di consentire un controllo sull’attività di intercettazione e di abilitare la difesa alla selezione di cui si è detto. In sé il meccanismo procedurale è perfetto (cfr. anche le guarentigie di custodia dell’articolo 89 delle disposizioni di attuazione del Cpp). Sennonché il problema è rappresentato dalle conversazioni che coinvolgono terzi ignari e/o gli stessi indagati per profili carenti di qualunque rilevanza e meritevoli di protezione (il provvedimento di Napoli prende correttamente in esame la tipologia dei "dati sensibili" previsti dall’articolo 4, lettera d), del Dlgs 30 giugno 2003. n. 196 cosiddetto "Codice della Privacy", in particolare dati personali relativi a opinioni politiche o religiose, sfera sessuale, stato di salute). È evidente che la trascrizione anche di queste comunicazioni sia dovuta e debba essere posta a disposizione delle parti: l’articolo 268 del Cpp è chiaro e inderogabile sul punto. Ma è altrettanto chiaro che devono escludersi da una completa trascrizione (spesso quella più imbarazzante e lesiva) le conversazioni che lo stesso articolo qualifica come "manifestamente irrilevanti" e quelle "inutilizzabili". La locuzione "anche sommariamente" è direttamente correlata agli adempimenti successivi scanditi dall’articolo 268 del Cpp. Il codice, nella sua lettera e nella sua ratio, abilita la (o impone alla) la polizia giudiziaria a una trascrizione meramente sommaria, ossia sintetica, di quelle captazioni che non sopravvivrebbero al vaglio di cui al comma 6. In questi termini le disposizioni non necessitano di alcuna eterointegrazione da parte del pubblico ministero, rappresentando un minimum prescrittivo di natura inderogabile. Il precetto è chiaro: si trascriva, ma solo sommariamente, l’inutilizzabile o il manifestamente irrilevante in modo da consentire comunque un controllo alla difesa. La trascrizione integrale deve intendersi in questi casi interdetta alla polizia giudiziaria, poiché non conducente a nessuno degli adempimenti previsti dal codice di rito. L’esaurimento dell’illegittima prassi di trascrivere per intero conversazioni irrilevanti o inutilizzabili naturalmente comprimerebbe drasticamente la lesione della privacy dell’imputato o di terzi, atteso - come dire - lo scarso appeal mediatico di striminzite sintesi di polizia. Le soluzioni proposte - Rispetto a questa soluzione che, sulla scorta del solo dettato normativo, valorizza una direttiva di orientamento alla polizia giudiziaria unicamente per i contenuti del verbale e per la completezza o meno delle trascrizioni (cosiddetti "brogliacci"), le direttive in commento attuano una più complessa manovra che distingue - è il caso delle procure di Napoli e di Torino - tra la fase cautelare e quella, per così dire, ordinaria in ragione degli adempimenti imposti (nel primo caso) dagli articoli 291, 293, 309 comma 5 e 310 del Cpp), largamente anticipatori della disciplina dettata dall’articolo 268 del Cpp. Anzi accade quasi sempre che il pubblico ministero abbia conseguito dal Gip l’autorizzazione a ritardare il deposito delle intercettazioni "non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (articolo 268, comma 5, del Cpp), per cui l’intera procedura di discovery è dilazionata rispetto all’emissione della misura coercitiva. Ed è questo il vacuum normativo che i provvedimenti organizzativi di Napoli e Torino intendono regolare. La direttiva partenopea prescrive ai pubblici ministeri che la selezione delle conversazioni da utilizzare nella fase custodiale "dovrà essere eventualmente compiuta dal pubblico ministero in un momento precedente, in quanto spetta al pubblico ministero selezionare, prima dell’invio al giudice competente degli atti posti a sostegno della richiesta di misura cautelare, il materiale acquisito (tra cui le trascrizioni o sintesi delle intercettazioni normalmente redatte della P.G sui cd. "brogliacci" ed i relativi supporti audio o informatici) di cui ritenga di dover tutelare la riservatezza per una delle seguenti ragioni: 1) per necessità di prosecuzione di indagini nello stesso procedimento o anche in altri procedimenti (quando ricorrano le condizioni previste dall’articolo 270 c.p.p.); 2) per inutilizzabilità a qualunque titolo, come - ad es. - nei casi di cui agli articoli 103, comma 5, c.p.p. (ovviamente quando l’avvocato non sia indagato e, ove lo sia, per conversazioni con suoi assistiti attinenti alle sue attività professionali); 270 bis c.p.p. (salvo che non ricorrano le condizioni di cui al comma 3 o il Presidente del Consiglio ne abbia autorizzato l’utilizzo o siano decorsi i termini di cui al comma 4 dell’articolo 270 bis c.p.p.), articolo 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 contenente "Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato" (ovviamente considerando quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 390 del 19 novembre 2007) o articolo 271 c.p.p.; 3) perché non pertinente all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede e contemporaneamente rientrante nella tipologia dei "dati sensibili" previsti dall’articolo 4 lett. d) d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (c.d. "Codice della Privacy"), in particolare dati personali relativi a opinioni politiche o religiose, sfera sessuale, stato di salute; 4) per assoluta non pertinenza rispetto ai reati per cui viene richiesta la misura cautelare, specie se si tratti di materiali riguardanti terze persone non indagate o non direttamente intercettate. Tale scelta, tranne nei casi di assoluta inutilizzabilità, non potrà mai portare in questa fase al mancato inoltro al Giudice, ai fini del successivo deposito, di trascrizioni e/o registrazioni di conversazioni e/o scambio di comunicazioni informatiche o telematiche astrattamente, anche se indirettamente, favorevoli all’indagato". Come si vede la questione necessita di una regolamentazione che, per quanto possibile, anticipi le linee di intervento previste dall’articolo 268 del Cpp anche al fine di evitare che nella fase cautelare si utilizzino conversazioni che non supererebbero, poi, il vaglio del contraddittorio di cui al comma 5 citato. In questa sede il pubblico ministero è chiamato a un esercizio di trasparenza e di correttezza che, ora, attraverso le direttive emanate, può trovare una sanzione sul piano disciplinare (come detto). È evidente che l’accesso del difensore alle intercettazioni, ed ai relativi atti posti a fondamento della pretesa cautelare, si eserciterà nell’alveo di una scelta comunque discrezionale del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria) e, appropriatamente, le direttive di Napoli e Torino auspicano che - al momento della richiesta cautelare - sia messo a disposizione l’intero materiale raccolto: "La selezione del materiale da non inviare al Giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare deve quindi essere operata con criteri restrittivi ed, anzi, tendenzialmente, sarebbe auspicabile che i magistrati procedenti avessero esaurito tutte le indagini necessarie e conseguenti alle conversazioni registrate e/o a scambio di comunicazioni informatiche o telematiche prima dell’inoltro al giudice competente delle eventuali richieste di misure cautelari in modo da non precludere ai difensori l’accesso effettivo e la conoscenza - nella misura più ampia possibile - dei contenuti di tutte le comunicazioni acquisite agli atti del procedimento". È un indirizzo operativo che, naturalmente, non può condurre a un’indiscriminata discovery di tutte le conversioni con la relativa trascrizione integrale, essendo ovvio l’enorme nocumento che una tale opzione comporta per l’imputato e i terzi. Il criterio qui proposto della trascrizione "sommaria" recupera, allora, valore anche nella fase cautelare dovendosi pur sempre allegare le conversazioni "non utili" con una sintesi, la più stringata possibile, del loro contenuto. Da questo punto di vista la direttiva della procura di Napoli prevede un regime di secretazione di queste ultime conversazioni ancora più stringente rispetto al disposto normativo in esame visto che prescrive nei "casi in cui durante la fase delle indagini preliminari si verifica l’acquisizione di conversazioni o comunicazioni inutilizzabili o irrilevanti e contemporaneamente contenenti dati sensibili sono numericamente esigui e perché gli organi di polizia giudiziaria cui il presente provvedimento viene pure inviato provvederanno (o continueranno a provvedere ove si tratti di prassi già attuata) ad indicare - nei brogliacci o nei verbali delle operazioni da loro redatti - l’avvenuta registrazione di tali conversazioni o comunicazioni, indicandone data ed ora, nonché gli apparati su cui la registrazione è intervenuta, senza alcuna sintesi delle conversazioni e comunicazioni e senza indicazione delle persone tra cui le stesse siano intervenute". Del tutta identica l’indicazione operativa della procura della Repubblica di Torino. La direttiva della procura di Roma prevede invece, con riguardo al caso dei colloqui tra imputato e difensore, che "le conversazioni non dovranno essere riportate nei brogliacci redatti dalla polizia giudiziaria, nei quali verrà apposta la annotazione "conversazione con il difensore non utilizzabile", né potranno, di conseguenza, essere riportate nelle informative, comprese quelle redatte a supporto delle richieste di autorizzazione e di proroga delle intercettazioni, né potranno essere utilizzate dal magistrato procedente per fondare richieste al giudice". Un quid pluris rispetto alla soluzione napoletana. Il girone dantesco del processo telematico di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 3 maggio 2016 Come tutti sanno, il processo telematico è stato pensato e realizzato allo scopo di ridurre drasticamente i tempi morti della giustizia civile (che sono tanti), rendendo possibile a giudici e avvocati di operare a distanza di migliaia di chilometri dalla sede del Tribunale di cui di volta in volta si tratti. Ragion d’essere di questa nuova esperienza di tipo informatico è stata dunque sempre l’esigenza di sveltire una mastodontica macchina della giustizia, troppo spesso ingolfata e lentissima. Va da se tuttavia che dietro ogni sistema operativo c’è un essere umano che deve farlo funzionare e senza il quale nulla potrebbe essere pensato o fatto di funzionale. Prova ne sia quanto accaduto presso il Tribunale di Roma pochi giorni or sono. Sperando di poter utilizzare il sistema telematico, un avvocato spedisce l’atto introduttivo di un giudizio civile presso la cancelleria del Tribunale di Roma. La legge specifica che tale deposito telematico, per essere validamente perfezionato, deve essere riscontrato dalla cancelleria con ben 4 Pec. Dopo l’arrivo dell’ultima Pec soltanto, attestante la regolarità dell’inoltro telematico della documentazione di cui si tratti, il deposito può considerarsi validamente effettuato. Queste benedette 4 Pec di riscontro dovrebbero giungere presso l’avvocato, rassicurandolo circa la regolarità della procedura, nelle 24 ore successive. Accade che non sempre sia così. Nel caso in esame, dopo ben 4 giorni dall’invio, la quarta ed ultima Pec non era ancora giunta a destinazione. Ma siccome la data dell’udienza è già fissata, l’avvocato parte comunque per raggiungere Roma, confidando nella circostanza che la quarta Pec giunga la mattina stessa dell’udienza. L’importanza di tale ultimo arrivo si capisce pensando a questa sequenza che è comprensibile anche a coloro che avvocati non sono: se non giunge l’ultima e definitiva Pec di conferma dalla cancelleria, non si può attribuire alla pratica alcun numero di Ruolo Generale; non si può formare il fascicolo d’ufficio e non si potrà mai giudicare su quel caso. Insomma, niente Pec, niente processo. Benissimo. Il povero avvocato chiede allora al giudice e alla controparte la cortesia di essere atteso, si fionda verso una cancelleria diversa da quella vicino alla quale si trova, vale a dire la cancelleria del contenzioso generale dalla quale dipendono le assegnazioni dei numeri di Ruolo Generale e si accorge con raccapriccio di essere approdato in una sorta di girone infernale di sapore dantesco. Infatti, in una ressa indescrivibile di avvocati, parti in lite, impiegati, curiosi, consulenti, comprende che il suo turno di conferire con l’addetto a tali questioni ? il solo al mondo che potrebbe aiutarlo ? giungerà dopo tre ore almeno, essendo il suo numero di fila il 57. A questo punto, cercando di impietosire i colleghi e spesso trovandone la solidarietà umana e professionale, l’avvocato riesce a conferire dopo appena mezz’ora con la persona addetta; ma solo per ricevere una ferale notizia: il sistema potrà concedere l’ultima Pec solo dopo diversi giorni, in quanto si tratta ancora di smaltire l’arretrato delle precedenti Pec. Ma le Pec e il processo telematico non erano state inventate allo scopo di sveltire il disbrigo dell’arretrato? Mistero! Tuttavia, intrepidamente, l’avvocato con coraggio avanza una richiesta alla cancelleria, chiedendo che in ogni caso emettano questa benedetta quarta Pec, visto che l’udienza si dovrebbe tenere quella stessa mattina. Ma la cancelleria nicchia: come si può scavalcare l’ordine costituito? Oggi, 2 maggio, sono arrivati a rispondere solo alle Pec ricevute il 18 aprile e perciò bisognerà attendere. Nel frattempo, nei corridoi centinaia di avvocati e poveri cristi si accalcano verso gli uffici in un’atmosfera da assalto alla diligenza. L’avvocato prega, impietosisce, perora e finalmente riesce ad ottenere lo scopo: la cancelleria, per pura compassione umana, emette questa famosa quarta Pec. Tutto risolto dunque? Per nulla! Infatti, anche dopo l’emissione della Pec, e dopo l’assegnazione del famoso numero di Ruolo Generale, il fascicolo cartaceo del tribunale, necessario per decidere, non può essere formato: occorrono almeno tre o quattro giorni. Ma l’avvocato non si arrende; si precipita dal giudice e lo invita a prendere visione del fascicolo telematico che in ogni caso potrebbe ritrovare sul proprio computer. Il giudice, seraficamente, gli fa notare che il famoso numero di Ruolo Generale, tanto faticosamente ottenuto, non risulta ufficialmente, ma solo ufficiosamente e perciò non fa fede: non può fare fede. Invita pertanto l’avvocato a farsi rilasciare dalla cancelleria un certificato di avvenuto rilascio del numero. Orrore! Tornare nel girone infernale? Il giudice, mosso a pietà, lo rassicura: basta raggiungere la cancelleria al piano di sotto, cosa che l’avvocato fa subitaneamente. Ma, c’è un ma: l’impiegata gli fa notare che, a rigore, tale certificazione può essere emessa soltanto dalla medesima cancelleria generale che ha assegnato il numero. A questo punto, l’avvocato, al limite della sopportazione, evidenzia all’impiegata una cosa di assoluta banalità: e cioè che qualunque cancelleria può rilasciare una certificazione di tal genere, a una sola condizione: che essa corrisponda al vero. E questa è vera, verissima... Solo così l’impiegata si convince e schiaccia il tasto del computer col dito indice: perché di questo si trattava e di null’altro. Trionfante, l’avvocato torna dal giudice sventolando, come un vessillo di vittoria, il certificato attestante l’assegnazione del numero di Ruolo Generale e sperando concretamente di poter celebrare l’udienza. Ma quando mai! Il giudice lo gela: non esiste neppure il fascicolo telematico, in quanto, per caricarlo sul sistema, occorrono diverse ore ed è impensabile attendere oggi per tanto tempo, e perciò niente udienza, niente processo, niente di niente. L’avvocato, ormai sconfitto, si arrende. E sente di odiare profondamente il sistema telematico, le Pec, i clic, le cancellerie in genere, alcuni impiegati in particolare, indistintamente tutti i computer. E molto altro ancora. E l’udienza? Rinviata, naturalmente! "Provenzano, il mio pericoloso cliente in coma" di Valentina Stella Il Dubbio, 3 maggio 2016 Parla l’avvocato Rosalba Di Gregorio, divenuta il difensore di fiducia di Bernardo Provenzano subito dopo l’arresto di quest’ultimo l’11 aprile 2006 in una masseria nella contrada Montagna dei Cavalli di Corleone. Ci può dire quali sono le attuali condizioni di salute di Bernardo Provenzano? Provenzano è su un letto, in una stanza singola, videosorvegliato tutto il giorno. I valori ematochimici sono tutti nella norma. Dal punto di vista cerebrale, il paziente risulta gravemente compromesso, ha il Parkinson, è dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Tecnicamente è risvegliabile ma non contattabile. Nel decreto di proroga leggiamo da una parte le motivazioni di quelli favorevoli al 41 bis per Provenzano - ministro Orlando, Direzione Nazionale Antimafia, Procura di Palermo, Cassazione, dall’altra quelle dei contrari: procura di Caltanissetta e di Firenze. Solo pochissimi accenni alla stato di salute del detenuto. Come giudica il provvedimento di proroga? Nelle motivazioni, la procura di Palermo elenca i vari processi che ha subìto Provenzano, delinea la figura del detenuto e il suo ruolo nell’associazione mafiosa, la sua storia passata. Cita l’Operazione Perseo del 2008 durante la quale furono arrestati 99 appartenenti a Cosa nostra che avrebbero voluto rifondare una sorta di commissione provinciale, naturale prosecuzione dell’epoca provenzaniana. Secondo gli investigatori, gli "altri uomini d’onore, pure di primario rilievo, portano avanti i disegni del boss detenuto": quindi secondo loro Provenzano deve rimanere al 41 bis per il suo passato. In più, e questo è l’aspetto che più non ho compreso, tra le motivazioni c’è il fatto che i figli Angelo e Francesco Paolo hanno rilasciato "inusuali" dichiarazioni alla stampa nazionale. Farete ricorso contro l’ennesima proroga del 41-bis? Si, il ricorso è già pronto e lo discuteremo insieme alla collega Maria Brucale. Già nel 2012 l’allora deputata radicale Rita Bernardini, a seguito di una visita ispettiva nel carcere di Parma, evidenziava anche che Provenzano "è in regime di 41-bis in un reparto isolato; sorvegliato a vista 24 ore su 24 a seguito del recente tentativo di suicidio; è apparso poco lucido e sicuramente non in grado di rispondere a tono alle domande che gli sono state rivolte sul suo stato di salute". Una foto di Falcone e Borsellino era stampata dinanzi la sua cella. È stato sempre un detenuto eccellente? Direi di sì: sempre in isolamento, non ha mai potuto fare una richiesta di giornali. Sulla foto di Falcone e Borsellino dinanzi la cella voglio specificare un fatto forse noto a pochi: nel processo di Capaci, Provenzano era assistito da un avvocato che dopo la sentenza di primo grado non ha fatto appello; quindi Provenzano è diventato definitivo per la strage di Capaci senza difesa. Nel Borsellino-ter invece per ogni udienza c’era un difensore di ufficio: Provenzano si è preso una condanna in funzione del fatto che il suo gruppo avrebbe commesso la strage; ma ora sappiamo che il suo gruppo non era implicato, perché la strage l’hanno fatta i Graviano, secondo le dichiarazioni di Spatuzza. Nei processi Tempesta e Golden Market con le dichiarazioni di Giuffrè e di Brusca ho ottenuto l’assoluzione di Provenzano da tutta una serie di omicidi per il semplice fatto che è stato provato che lui della commissione provinciale di Palermo, cioè quella che decideva le stragi, non ne faceva parte, perché per il mandamento di Corleone c’era Totò Riina. Giuffrè sostiene che nell’89 Riina gli chiese "Ma Binnu esce di mattina o di sera?". Noi chiedemmo cosa significasse: Riina voleva fare fuori Provenzano. Dunque quando gli hanno messo la foto di Falcone e Borsellino davanti la cella non gli hanno fatto nessuna pressione psicologica. Viste le gravi condizioni di salute di Provenzano, per quale motivo in passato gli è stata rifiutata la richiesta di differimento della pena? È importante sottolineare che la richiesta di differimento della pena a Milano non l’ho fatta io. L’ha fatta direttamente il magistrato di sorveglianza di Milano perché il dottor Casati, cioè il primario, ha voluto sollevare un problema serio: nel reparto da lui diretto un letto destinato ad un malato acuto, pagato quindi dalla Regione Lombardia, è occupato invece da un malato cronico come è Provenzano, che non è curato ma mantenuto in vita. Lo ha scritto da quando Provenzano è arrivato a Milano: è incompatibile con il carcere, non solo con il 41 bis. Avete presentato un ricorso a Strasburgo per denunciare le condizioni di detenzione inumane e degradanti alla quali è sottoposto Provenzano? Sì, ma il procedimento è ancora pendente. L’udienza non è stata ancora fissata. Attualmente quanti sono i processi che vedono come imputato Bernardo Provenzano che sono stati sospesi in quanto quest’ultimo non è nemmeno in grado di partecipare coscientemente al dibattimento? Che io sappia ne sono sospesi tre. Dal momento che non fa più nomine di avvocati da quando non è più in grado di capire, potrebbe avere sparsi in teoria altri processi. Due anni fa abbiamo impugnato il 41 bis adducendo tutta una serie di certificazioni mediche ma il Tribunale di Roma ha rigettato la nostra richiesta dicendo che nel momento in cui a Provenzano era stata notificata la fissazione di una udienza, al Tribunale risultava che lui si rifiutava di firmare la notifica stessa. Rifiutare di firmare comporta una manifestazione di volontà che però non c’era in Provenzano già gravemente malato e incapace di comprendere. Appena Provenzano è stato trasferito al San Paolo di Milano, abbiamo fatto una istanza al giudice tutelare di Milano per valutare le condizioni cliniche del detenuto e stabilire se era meritevole di avere un amministratore di sostegno anche per ricevere le notifiche. Il giudice ha emesso il provvedimento e ha nominato suo figlio Angelo amministratore. Il Tribunale di Milano con questa relazione scritta dal loro magistrato di sorveglianza dispone una perizia. Io non ho nominato consulenti di parte. L’esito della perizia è chiaro: "dal punto di vista cognitivo, il paziente risulta essere gravemente compromesso. Pur rimanendo vigile, non è in grado di relazionarsi con il personale medico. Esplora con gli occhi l’ambiente, ma non risponde ad alcun tipo di domanda, se non confabulando". In più un criminologo ha appurato che non esiste pericolosità né diretta né indiretta. Lui non è pericoloso come risulta dalle perizie del Tribunale di Milano, ma in un reparto di lungodegenza i familiari potrebbero salutarlo prima che muoia. Attualmente lui è dietro un vetro blindato e non può tenere il citofono in mano. Dopo dieci minuti che i familiari - la moglie e i due figli - sono arrivati in ospedale, dove possono recarsi solo una volta al mese, vanno via perché lui non risponde, non li vede e non apre gli occhi. All’inizio gli mettevano accanto una guardia del Gom (Gruppo Operativo Mobile) che gli teneva il citofono sull’orecchio. Le ultime novità sono che da circa un paio di mesi la guardia non gli porge più il citofono, aprono lo sportello del vetro ma continuano ad impedire ai familiari di avvicinarsi a lui e toccarlo. Angelo, la scorsa volta, ha chiesto di chiudere il vetro perché quella pantomima era inutile. La procura di Palermo scrive nel 2014 che Provenzano è "costantemente tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa". Di cosa si tratta? A me invece hanno scritto due donne, mi pare una fosse belga, dicendo che erano le figlie di Provenzano. Altre in cui mi si chiede di essere messi in contatto con Provenzano per fare affari insieme. Purtroppo il mondo è pieno di mitomani. Il 41 bis è nato come misura emergenziale, cautelare e preventiva. Oggi invece sembra assumere una funzione punitiva, di cui si fa un uso politico? Lei che parere ha? Per me il 41 bis resta incostituzionale. È l’istituzione di un regime di doppio binario di carcerazione ingiusta. Nicola Gratteri ha dichiarato che il 41 bis potrebbe essere superato solo in un mondo senza mafia e terrorismo. Lei come commenta? Resterà un provvedimento eterno? Certo, altrimenti l’antimafia che fa! Quando morirà Provenzano, come gli altri, imbalsamatelo e mettetelo in una sezione del 41 bis con le guardie in pensione e tenetelo lì. Così abbiamo spiegato allo Stato che il nemico è sempre quello, e gli altri possono farsi i fatti loro all’esterno. Nel Suo libro co-firmato con Dina Lauricella "Dalla parte sbagliata", Lei scrive che soprattutto durante i processi del 1992 per le stragi, spesso l’avvocato dei mafiosi era additato come fiancheggiatore dell’antistato. È ancora così? Da parte nostra la percezione è sempre la stessa, nella misura in cui se sei il difensore di un soggetto ti si identifica con quel soggetto. Però devo dare atto che nell’attuale processo di Caltanissetta con il presidente Antonio Balsamo non abbiamo percepito per tutta la celebrazione del processo nessun tipo di discriminazione, di differenza. Siamo tutti insieme lì senza distinzioni di parti per l’accertamento di una verità che per 20 anni hanno messo sotto i piedi. Quello è un processo campione. Rubare per fame non è reato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 18248/2016. Il fatto non costituisce reato: per questo motivo la Cassazione ha annullato completamente la condanna per furto inflitta dalla Corte di Appello di Genova a un giovane straniero senza fissa dimora, affermando che non è punibile chi, spinto dal bisogno, ruba al supermercato piccole quantità di cibo per "far fronte" alla "imprescindibile esigenza di alimentarsi", per stato di necessità. Con questo verdetto la Suprema corte ha giudicato legittimo non punire un furto per fame del valore di 4 euro per una confezione di wurstel e due pezzi di formaggio. A fare ricorso in Cassazione non è stato il giovane senza fissa dimora ma il procuratore generale della Corte di Appello di Genova che chiedeva che l’imputato fosse condannato non per furto lieve, come stabilito in primo e secondo grado, ma per tentato furto dal momento che Roman era stato bloccato prima di uscire dal supermercato, dopo essere stato notato da un cliente che aveva avvertito il personale vigilante. Il clochard alla cassa aveva pagato solo una confezione di grissini, non i wurstel e le due porzioni di formaggio che si era messo in tasca. La sentenza degli ermellini - numero 18248 della Quinta sezione penale - non riporta l’entità della pena inflitta a Roman, che aveva già dei precedenti di furti di generi alimentari di poco prezzo perché spinto dalla fame. Ad avviso dei supremi giudici quello commesso da Roman è un furto consumato e non tentato, ma - a loro avviso - "la condizione dell’imputato e le circostanze in cui è avvenuto l’impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata e imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità". Così è stata annullata senza rinvio la sentenza di condanna inflitta in appello il 12 febbraio del 2015 "perché il fatto non costituisce reato". Anche la Procura della Cassazione aveva chiesto l’annullamento senza rinvio della decisione dei severi magistrati genovesi. La condanna in primo grado era stata decisa il 24 ottobre 2013 a Genova. Gare mortali, il reato è doppio di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 16610. Se durante una corsa illegale si verifica un incidente mortale, il "vecchio" reato di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale può concorrere con quello di gara in velocità (articolo 9-ter Codice della Strada). A condizione che si dimostri che la morte sia conseguenza diretta e immediata di un’infrazione diversa e ulteriore rispetto alla violazione del divieto di gareggiare in velocità. Lo dice la Cassazione, nella sentenza 16610/2016, che pare applicabile anche al "nuovo" reato di omicidio stradale, introdotto per gli incidenti accaduti dal 25 marzo. Anzi, in questi ultimi casi, l’interpretazione della Corte sembra rimediare a una "svista" del legislatore, che non ha previsto la gara proibita tra le ipotesi in cui c’è omicidio stradale "aggravato". Questi i fatti: tre automobilisti avevano gareggiato su un raccordo autostradale urbano con "reiterati e reciproci sorpassi, guidando pericolosamente, spostandosi repentinamente" di corsia e "comunicando l’un l’altro goliardicamente con reiterati colpi di clacson". In una galleria l’auto che era in testa aveva tamponato una vettura estranea in cui viaggiavano un bimbo, che moriva, e due adulti, rimasti feriti. Gli imputati hanno percorso diverse strade processuali: l’autore del tamponamento ha scelto il rito ordinario, gli altri due l’abbreviato, finito con la sentenza della Cassazione. I giudici di merito avevano ritenuto che l’incidente fosse dovuto al mancato rallentamento entrando in galleria da parte del tamponante, istigato dai due avversari che lo tallonavano. Il passaggio repentino al buio aveva impedito di vedere l’auto tamponata. I ricorrenti erano stati condannati a quattro anni per gara proibita con morte e lesioni (articolo 9-ter, comma 2, del Codice della strada), più quattro per omicidio colposo con violazione delle norme della circolazione. La Cassazione - riqualificando il reato in quello meno grave di gara proibita (articolo 9-ter, comma 1) - è partita dal presupposto che non si può addebitare due volte a una persona la morte di un’altra, come aveva fatto la condanna sia per gara con morte sia per omicidio colposo. Ma la Corte, visti i fatti, ha pure escluso che l’omicidio colposo dovesse essere assorbito dal delitto di gara con morte: la condotta di guida su cui si sorreggeva l’omicidio colposo non era "perfettamente sovrapponibile" alla gara con morte. La causa diretta dell’incidente era infatti da trovare non tanto nello svolgimento della gara, ma nel mancato rallentamento entrando in galleria, definito di "assoluta centralità nella catena causale". Il principio è condivisibile: àncora la responsabilità per la morte all’effettiva condotta colpevole dell’agente e allontana il rischio di sconfinare nella responsabilità oggettiva causata da un’applicazione troppo rigida del reato di gara con morte. Inoltre, così si contempera il principio di colpevolezza con le esigenze di difesa sociale alla base del nuovo reato di omicidio stradale: esso, nella versione "aggravata" dall’aver commesso infrazioni che non di rado si verificano in una gara proibita, prevede la pena base della reclusione da 5 a 10 anni. Una pena sulla carta simile a quella prevista dall’articolo 9-ter in caso di gara con morte (da 6 a 10 anni), ma che in concreto può essere ben superiore perché le si somma quella per il reato di gara proibita e, se c’è fuga (come nella vicenda in questione), scatta l’aumento di pena (da un terzo a due terzi) previsto dalle nuove norme sull’omicidio stradale. L’interpretazione della Corte evita anche, per il futuro, un possibile paradosso per le corse illegali con morti: pene più miti di quelle nuove sull’omicidio, nelle quali tali corse non sono tra le gravi infrazioni che fanno scattare le ipotesi aggravate Non c’è senso di giustizia senza l’empatia di Dacia Maraini Corriere della Sera, 3 maggio 2016 Il sentimento di giustizia è innato o si tratta del prodotto di una cultura ideologizzata? Io credo che sia un sentimento profondo e naturale, che troviamo perfino in certi animali. Potremmo chiamarlo una forma di intelligenza della sopravvivenza. Rifiutando le prepotenze, infatti, si cercano la parità e l’armonia sociale necessarie per una buona convivenza. Oltretutto dà spazio a quel motore essenziale del nostro spirito che è l’immaginazione. Se uno è capace di immaginare il dolore altrui, sarà anche capace di battersi perché questo dolore sia alleviato. L’immaginazione si coltiva con la conoscenza, con l’empatia, con l’uscire rischiosamente dal proprio baccello per incontrare il mondo con tutti i suoi pericoli. Dire, come si è fatto in questi giorni, che bisogna equiparare nella memoria nazionale coloro che hanno combattuto contro il nazifascismo a coloro che lo hanno coltivato e protetto, è una offesa al sentimento di giustizia di un intero Paese. La pietà è un’altra cosa, la pietà si rivolge ai perseguitati, agli infelici, ma anche a chi ha gravemente sbagliato. Ma appunto, si deve essere chiari sugli sbagli. Mettere sullo stesso piano chi ha creduto nel razzismo, chi ha concorso al rastrellamento di ebrei e dissenzienti politici per mandarli nei campi di sterminio, con chi ha rischiato la vita e spesso l’ha persa, per rifiutare il razzismo, per liberare il proprio Paese dalla guerra e dal dominio straniero, è un insulto alla memoria e al sentimento di giustizia comune. Io, tanto per fare un esempio, e la mia famiglia ci siamo fatti due anni di durissimo campo di concentramento in Giappone, per non avere firmato l’adesione alla Repubblica di Salò, dopo il patto fra Germania, Italia e Giappone nel 43. Non è stato un caso, ma una scelta responsabile, fatta conoscendo i rischi che correvamo. Giustizia vuole che non si giudichino alla stessa stregua quegli altri italiani che, per paura, viltà, pigrizia, hanno firmato l’adesione a Salò, avvalorando la tesi che la maggioranza degli italiani all’estero era favorevole al regime. Io ringrazio i miei giovani genitori che, pur sapendo di mettere in pericolo la vita di tre figlie bambine, hanno voluto essere fedeli alle proprie idee, fra cui la più importante era proprio il rifiuto del razzismo come ideologia aberrante e odiosa che divide gli esseri umani in superiori e inferiori, con la conseguente licenza data ai più forti di perseguitare e sfruttare, torturare e uccidere i più deboli, fra cui c’erano i malati di mente, i minorati fisici, gli zingari, gli omosessuali, i comunisti, gli ebrei. Il negazionismo è una schifezza, ma non può essere un reato di Gaetano Quagliariello Il Dubbio, 3 maggio 2016 È alle più giuste battaglie di merito che si fa maggior torto se le si combatte con un metodo sbagliato. È il caso della legge sul negazionismo in discussione al Senato che, intervenendo sulla legge Mancino, si prefigge di colpire con lo strumento penale la "negazione della shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra". Non credo ci sia bisogno di scomodare Voltaire per affermare che si tratta di una legge profondamente sbagliata. E, come tutte le leggi sbagliate, rischia tra l’altro di produrre effetti esattamente opposti a quelli che si prefigge. Popper le avrebbe chiamate "conseguenze non intenzionali", ma si tratta in questo caso di conseguenze talmente prevedibili che ci si dovrebbe tanto più opporre a questa legge quanto più si considerano ignobili e aberranti le teorie che si intende mettere fuorilegge. Su un punto credo infatti che l’aula parlamentare e la comunità degli studiosi, attraversate trasversalmente dal dibattito sul reato di negazionismo, siano assolutamente concordi: la tesi sulla inesistenza della shoah è moralmente abietta, razionalmente ridicola e insostenibile sul terreno del confronto logico-storico. Ne consegue che chiunque se ne faccia portatore sia meritevole di disprezzo sul piano etico e sul piano culturale. Ma mettere le opinioni fuorilegge non è la strada giusta per contrastare i cattivi pensieri. La storia ci insegna che è vero l’esatto contrario. Già sulla formulazione della legge in discussione, che peraltro si innesta su una norma (la Mancino) a sua volta controversa, vi sarebbe molto da obiettare: essa presenta aporie, contraddizioni, contorsioni lessicali che l’ennesimo compromesso sul compromesso del compromesso prodotto all’interno della maggioranza ha soltanto aggravato. Soprattutto, accostando un crimine storico ben determinato come la shoah alla generica enumerazione delle categorie del genocidio, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità - per dire che ogni loro negazione è un reato -, il disegno di legge finisce per sminuire e relativizzare il rilievo storico della stessa shoah e, stante la complessità e talvolta la schizofrenia del contenzioso internazionale in materia, rischia di ritorcersi contro la stessa Israele e i suoi difensori di fronte alle prima accusa da parte di qualche organizzazione o regime mediorientale. Ci si è riflettuto abbastanza? Io temo di no. Al di là di tutte queste motivazioni specifiche, credo tuttavia che vi siano delle ragioni di fondo per opporsi alla legge sul negazionismo. Per quanto mi riguarda, c’è innanzitutto una contrarietà di principio al reato di opinione, anche la più aberrante come in questo caso. L’opinione non è un reato, mai. E dovremmo aver imparato che contrastare le teorie più abiette comprimendo la libertà personale di chi le esprime è il modo migliore per alimentarle. Diverso è ovviamente il caso della diffamazione, o ancor peggio dell’incitamento a delinquere o a commettere concretamente atti di discriminazione: ma qui ci troviamo in ambiti diversi del diritto penale che sarebbe bene non confondere con la sfera delle opinioni. Le opinioni si combattono con le altre opinioni, si combattono nelle aule delle scuole e delle università e non in quelle dei tribunali, si combattono con le parole e con i mezzi di comunicazione, si combattono con la cultura e con l’esempio, con la memoria e con l’educazione. Non si combattono con la galera, mai. C’è poi un altro problema, che ci riporta a Popper. Fra le conseguenze non intenzionali di una norma come questa, soggetta ad ampia discrezionalità interpretativa, vi è infatti il rischio che insieme alle teorie abiette di cui sopra, vengano messe fuorilegge anche pagine di dibattito culturale e storiografico su epoche controverse della storia non solo italiana. A chiunque abbia frequentato i manuali di storia sarà capitato ad esempio di imbattersi in opinioni sullo stalinismo che rimuovono e talvolta addirittura giustificano il genocidio e i crimini contro l’umanità perpetrati dal regime comunista. Personalmente ho letto quelle pagine e non le condivido, ma non vorrei mai che fossero catalogate come reato. C’è infine un aspetto sul quale come legislatori non possiamo fare a meno di interrogarci. Questa legge si inscrive infatti in una più generale tendenza a credere che con lo strumento penale si possano risolvere tutti i mali della società. E la legislazione prodotta sull’onda di tale erroneo convincimento sta progressivamente distorcendo la natura stessa del diritto penale. È molto preoccupante che nel produrre nuove norme si tenga sempre meno conto del principio di tassatività delle norme incriminatrici che scaturisce dal nostro ordinamento costituzionale. Si parla tanto di garantismo, ma non c’è nulla di meno garantista del legiferare attraverso leggi-bandiera come queste, destinate nel migliore dei casi a restare disapplicate e nel peggiore a generare assurdità. Se tutto è penale, alla fine nulla sarà penale. In questi giorni abbiamo sentito pretendere più sentenze e in tempi più rapidi, invocare capi d’accusa più puntuali, sollecitare imputazioni più specifiche. Ma è difficile prendersela con i magistrati se i legislatori invece di fare la propria parte per dare certezza all’ordinamento perseverano nel produrre norme dalla cui interpretazione si può ricavare tutto e il contrario di tutto, a continuano a devolvere alla giustizia penale ogni aspetto del comportamento umano. Dall’autocertificazione per il canone Rai alle opinioni, per sballate che siano, sulla storia e sull’attualità. Il diritto di avere fame di Massimo Gramellini La Stampa, 3 maggio 2016 Roman Ostriakov, senzatetto ucraino di trent’anni e novello miserabile alla Jean Valjean, si era preso sei mesi di carcere per avere rubato due pezzetti di formaggio e un pacchetto di wurstel in un supermercato di Genova. Ma la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza, sostenendo che non è punibile chi ruba piccole quantità di cibo spintovi dall’appetito. Come cantava Fabrizio De Andrè in "Nella mia ora di libertà": "Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame". Per i giudici supremi il diritto alla sopravvivenza prevale su quello di proprietà. In America sarebbe una bestemmia e anche qui qualche benpensante parlerà di legittimazione dell’esproprio proletario. In realtà la situazione è parecchio cambiata dagli Anni Settanta, quando a saccheggiare impunemente i supermercati in nome del proletariato erano i figli di papà, che infatti prelevavano caviale e champagne. Adesso non si ruba più per inseguire un’idea, ma per riempire lo stomaco. E a compiere gli espropri sono proletari veri. Veri e affamati. Anche in passato esisteva una quota di esclusi: sfortunati e balordi, disoccupati e inoccupabili. Ma grazie al benessere diffuso e a uno Stato materno e spendaccione, la società italiana riusciva a farsene carico. Non si era ancora sfaldata in tante solitudini, tenute a bada sempre più a fatica dalle associazioni di volontariato. La sentenza della Cassazione anticipa il reddito di cittadinanza e ricorda a tutti che in un Paese civile nemmeno il peggiore degli uomini può morire di fame. Rubare per fame non costituisce reato? Un varco pericoloso di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 3 maggio 2016 Quale è l’ispirazione di fondo della sentenza con la quale la Corte di cassazione ha annullato la condanna per furto inflitta dalla Corte d’appello di Genova ad un giovane senza fissa dimora, che aveva sottratto in un supermercato piccole quantità di cibo, occultandolo alla cassa: spirito umanitario che rompe il rigore della legge, oppure logica applicazione delle norme? L’imputato era quel che si dice un povero diavolo. Condannato per furto lieve e con precedenti penali sempre per lo stesso reato "alimentare", non aveva fatto ricorso. Lo aveva fatto il Procuratore generale genovese, sostenendo che la sottrazione delle confezioni di cibo non era andata a buon fine, essendo stata scoperta prima di varcare la cassa del supermercato. Quindi tentato furto, punito con una pena diminuita di un terzo rispetto al furto. La Corte di cassazione è andata oltre: ha annullato la sentenza della Corte di Genova ed ha assolto l’imputato. È vero, la pretesa punitiva dello Stato per condotte che, nella loro materialità, costituiscono reato, tiene conto delle circostanze concrete nelle quali l’imputato ha agito e talvolta si arresta, operando un bilanciamento tra l’offesa che quella condotta cagiona al bene protetto dalla norma penale e la gravità del danno che senza quella azione, pur illecita, subirebbe chi ha commesso il reato. Questo orientamento alla umanizzazione del sistema penale ha portato ad emanare, nel marzo dello scorso anno, il decreto legislativo n. 28, che attribuisce rilievo alla speciale tenuità del danno e prevede, per i reati astrattamente puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, che l’imputato che lo ha commesso non sia condannato se il giudice valuta la speciale tenuità dell’offesa e accerta la non abitualità del comportamento. Devono sussistere questi due requisiti, perché scatti la causa di non punibilità di un fatto, che rimane qualificato come reato. Può sorprendere la formula di assoluzione adottata dalla Cassazione: perché il fatto non costituisce reato. E giunge a questa conclusione ricorrendo ad un istituto giuridico tradizionale: lo stato di necessità che, egualmente, rende non punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non altrimenti evitabile. Questa formula del codice penale, rimasta immutata sin dalla sua remota emanazione, circoscrive con rigore i confini dello stato di necessità determinandone i requisiti che, tutti, devono essere provati. Alcuni elementi sono di più agevole riscontro, quali l’attualità del pericolo e l’assenza di alternative. Altri elementi, quali la gravità del danno, sono rimessi a una ampia valutazione del giudice, sempre vincolato dalla ragionevolezza. Non conosciamo l’esatto svolgimento dei fatti e le puntuali circostanze sottoposte al giudizio della Cassazione. Pur se dalla decisione sembra trasparire lo spirito di umanità che deve ispirare anche il diritto, non manca qualche rischio se la soluzione adottata con ragionevole comprensione di una situazione di bisogno diventa principio che apre a letture lassiste. Nel contesto di solidarietà che caratterizza il nostro Paese, anche per il generoso impegno di una miriade di organizzazioni religiose e di volontariato, in presenza di non poche mense della carità, davvero non ci sono effettive possibilità di alimentarsi senza ricorrere al furto, o questo è davvero invetriabile, come occorre per caratterizzare lo stato di necessità? E quando l’esigenza di alimentarsi diviene oggettivamente necessità immediata e imprescindibile, come la ha definita la Cassazione? Sarebbe opportuno qualche approfondimento, ad evitare che una sentenza, ispirata ad equità nella concretezza di una situazione davvero eccezionale, apra alla giustificazione di un taccheggio minuto e diffuso, talvolta persistente e di gruppo, quasi quale ammissibile alternativa a servizi che la comunità e le istituzioni sono impegnate ad offrire. Campania: la Garante regionale; 715 detenuti di troppo, le carceri rischiano di esplodere di Stefano Di Bitonto Metropolis, 3 maggio 2016 Il report della Garante dei detenuti: 715 "ospiti" in più rispetto alla capienza. Per i detenuti il ricovero e l’assistenza medica restano un miraggio. La società che dà un’opportunità a chi è recluso dà un’opportunità a se stessa per essere migliore. Questa l’idea generale prevalsa ieri mattina al carcere di Secondigliano nell’incontro di presentazione del report annuale della Garante dei Detenuti della Regione Campania. L’incontro è stato presieduto dal direttore del penitenziario Liberato Guerriero e ha visto la partecipazione della Garante dei detenuti, Adriana Tocco, del provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria (Prap), Tommaso Contestabile, della rappresentante in Consiglio regionale Flora Beneduce e del sottosegretario di Stato alla Giustizia, Gennaro Migliore. Una relazione incentrata sull’attività svolta dalla garante e sulla situazione penitenziaria, nazionale e regionale, accompagnata da un dettagliato report sullo stato delle carceri campane. Un report che riflette le difficoltà degli istituti penitenziari nazionali dove sono presenti 53.495 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49.544. Un sovraffollamento che resta il problema maggiore, quello che impedisce una piena razionalizzazione e un pieno adeguamento del sistema. Il problema principale emerso dal rapporto è quello della mancata risposta delle strutture ospedaliere per la disponibilità di interventi chirurgici e non solo. Secondo il report addirittura l’asportazione dei ferri necessari per le fratture viene effettuata dopo mesi e dopo continue segnalazioni effettuate dal Garante. I centri clinici presenti a Secondigliano e Poggioreale per esempio non sono forniti da attrezzature capaci di fronteggiare le emergenze, né vi è strumentalizzazione adatta a eseguire ricerche specialistiche o interventi di lieve entità. Occorrerebbe mettere a norma le strutture ospedaliere ivi esistenti fornendole di strumentazione tecnologicamente avanzata, fatto questo che si tradurrebbe in un notevole risparmio di denaro. A puntare il dito contro le carenze in ambito sanitario sono gli stessi dirigenti che più volte hanno denunciato l’insostenibilità di una situazione in cui si attendono anni per prestazioni banali e per ricoveri ospedalieri, anni che incidono fortemente sulla patologia aggravandola e rendendola spesso irreversibile. Altro tema scottante emerso dal report quello del lavoro che, sebbene sia considerato un elemento fondamentale del trattamento, teso al reinserimento dei detenuti, scarseggia sia per le attività di routine che per quelle esterne. Il lavoro interno è diminuito, a causa del ridotto trasferimento di risorse agli istituti penitenziari. Eppure uno spiraglio c’è: il Ministero ha messo in atto un’iniziativa per la quale sarà possibile per le singole aziende dislocare in carcere pezzi di produzione: alcune imprese campane e la dirigenza dell’Unione industriali sono apparse interessata al progetto. Resta comunque difficile la situazione in Campania: addirittura 1.948 in attesa di giudizio. A Poggio-reale è tornato alto il numero dei presenti (a fronte di una capienza di 1640 detenuti le celle del Salvia ne ospitano 1.909) anche se ci sono stati evidenti miglioramenti come l’apertura di alcune celle in alcuni reparti per otto ore al giorno e una maggiore razionalizzazione della pratica dei colloqui. Il penitenziario di Secondigliano (1.291 presenti rispetto ad una capienza di 897 detenuti) presenta minori criticità per quanto concerne la struttura, abbastanza proporzionata al numero dei detenuti, è fornito di un centro clinico. Qui, secondo il report, dovrebbero trovare posto persone affette da patologie gravi ma appare insufficiente alle necessità attuali. In effetti, proprio per la natura e la presenza del centro clinico le maggiori richieste riguardano la salute. Altra struttura che presenta criticità anche quella femminile di Pozzuoli dove a fronte di una capienza di 105 unità vi sono 154 detenuti. Problemi che abbracciano tutti i penitenziari campani. Adriana Tocco: "La vita dietro le sbarre sia un misto di realismo e visione" Il carcere tra realismo e visione. Sono queste le caratteristiche dei progetti Futuri relativi alla situazione carceraria. Ne è convinta Adriana Tocco, garante regionale dei detenuti. "L’importanza di giornate come questa è quello di divulgare quanto fatto ma soprattutto tracciare la linea su quanto ancora c’è da fare e diffondere le idee del Ministro sugli Stati generali (finalizzati a dare piena applicazione all’articolo 27 della Costituzione italiana che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) e di come la società si deve impegnare per considerare il carcere parte di se stessa e come ridurre la recidiva attraverso una serie di attività anche trattamentali". La vita all’interno dei penitenziari non deve rimanere qualcosa di relegato alle celle ma essere parte integrante di quanto avviene fuori, di questo la Garante è convinta. "Il carcere che raccoglie i problemi che nascono dalla società, misure alternative che possono consentire una minore recidiva. In Italia è ancora troppo alta e con esso lo sforzo economico sostenuto". Certo restano molti problemi, primo fra tutti quello del sovraffollamento. Come emerge dal report presentato ieri i numeri in Campania parlano di una popolazione di 6599 detenuti a dicembre 2015, di cui 1307 in attesa di giudizio, 857 appellati, 547 ricorrenti, 341 misti, 3538 definitivi e 8 in case di lavoro. I detenuti stranieri sono invece 802, un numero inferiore rispetto alle altre regioni italiane. Tra le situazioni più difficili, quella del carcere di Santa Maria Capua Vetere che non è allacciato alla rete idrica pubblica. Una situazione che, come spiegato da Tocco "si è finalmente sbloccata con l’investimento da parte della Regione di due milioni di euro per i lavori di allacciamento alla rete idrica, che però, vista la necessità di espletare le gare, non potrà avvenire che per l’estate 2017" Liberato Guerriero: "La società consideri i penitenziari uno strumento" Porre al centro dell’attenzione la questione delle carceri. Questo l’imperativo categorico imprescindibile per realizzare la tanto agognata svolta. Ne è convinto Liberato Guerriero, il direttore della Casa circondariale di via Roma verso Scampia. "Spesso i problemi dei penitenziari vivono all’interno del muro di cinta mentre lo stesso ordinamento penitenziario nonché la nostra Costituzione indica no di portare al termine della condanna persone migliore. Come ribadito dall’onorevole Migliore il carcere deve essere considerato come uno strumento della società, qualcosa che non deve più essere inteso come affare d’altri ma risorsa capace di misurare il grado di operatività della società intera. Senza questo si rischia un’inutile spreco di risorse e di energie". Un appello, neanche poi così nascosto, alla collaborazione tra le istituzioni vero mantra dell’incontro svoltosi ieri mattina all’interno della casa circondariale. Guerriero nel suo intervento ha fatto riferimento alla Costituzione e all’articolo 27. Come ribadito dallo stesso report quest’ultimo ripropone un principio che spesso viene ripetuto ma che non si può affermare che abbia già trovato la sua piena applicazione. Come ricordato dallo stesso Migliore al termine del suo intervento la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, in occasione della sentenza Torreggiani, ha ricordato l’esperienza quotidiana di chi con difficoltà e ogni giorno opera negli istituti. Dialogo e confronto. Così come ribadito nel corso degli interventi. Così come spiegato dal direttore del penitenziario di Secondigliano: "Bisogna iniziare a concepire i problemi e le criticità del carcere come qualcosa che interessa ogni aspetto della società, mi trovo perfettamente in linea con quanto ribadito nel corso dell’incontro, la società dia più spazio a ciò che avviene dietro le sbarre". Lazio: l’incarico di Garante dei detenuti vacante dopo il decennio di Marroni di Laura Arconti Il Dubbio, 3 maggio 2016 Nel Lazio la Legge Regionale del 6 ottobre 2003 - n. 31 ha istituito il "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale" con rifermento a persone presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nonché nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri e nelle strutture sanitarie in quanto sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio. Secondo questa legge, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n. 29 del 20 ottobre 2003, il Garante è affiancato da due coadiutori e può avvalersi dell’opera di consulenti esterni, eletti dal Consiglio regionale con deliberazione adottata a maggioranza assoluta (la metà più uno degli aventi diritto al voto) con voto limitato, durano in carica cinque anni e possono essere rieletti una sola volta. Dalle informazioni presenti nel sito ufficiale della Regione non è possibile stabilire quando e con quale deliberazione sia stato nominato il Garante, perché la prima traccia di un bando per la ricerca di un Garante e di due coadiutori porta la data del 2010, e non c’è alcun documento relativo alla prima nomina dopo la promulgazione della legge. Una data approssimativa si può dedurre leggendo quanto nel mese di settembre 2005 il giornale "Ristretti Orizzonti" diretto da Ornella Favero, scriveva: "È il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale istituito da una Regione, ha una sede all’Eur, bella, luminosa, immersa nel verde, e molte persone che lavorano con lui per rendere sempre più concreto il suo ruolo. Angiolo Marroni, avvocato, volontario in carcere, ricopre da più di un anno il ruolo di "Garante dei detenuti" del Lazio". Più preciso il quotidiano l’Opinione online, che in data 31 marzo 2004 scrive: "Il 26 febbraio il consiglio regionale del Lazio ha eletto Angiolo Marroni garante dei diritti dei detenuti. Il Lazio è la prima regione in Italia ad aver istituito questa figura di garanzia". Ancora da Ristretti Orizzonti, in un altro articolo, apprendiamo che Marroni è stato eletto all’unanimità: un voto unanime è un segno inequivoco di gradimento del personaggio, ovvero di accordi fra partiti e correnti per la sua nomina. Evidentemente tale gradimento è continuato a lungo, poiché dalla Legge del 2003 fino a tutto il 2014, nel Lazio c’è stato un solo Garante, appunto l’avvocato Marroni, rimasto in carica per un decennio. Nel 2010 dunque, alla scadenza del primo mandato, è stato evidentemente rieletto, ma nel sito della Regione non è stato possibile reperire alcun documento probatorio né della prima né tanto meno della seconda nomina; e non si trova alcuna traccia relativa ai due coadiutori previsti dalla Legge. Quanto segue è su Huffington Post, in data 5 marzo 2015. "Dopo dieci anni come Garante dei diritti dei detenuti, uno fra i primi ad essere nominato nel 2005, da qualche giorno l’avvocato Angiolo Marroni è in procinto di liberare gli uffici all’Eur, della regione Lazio, destinati al Garante dei detenuti". Nella sua ultima relazione annuale, del 2014, si legge: "Al termine del mio mandato di Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio, ritengo sia opportuno tracciare un bilancio di ciò che abbiamo realizzato in questi anni con l’ambizione di indicare questo Ufficio come punto di riferimento, come modello per le Regioni italiane dove i Garanti operano con difficoltà, o addirittura non sono stati ancora eletti". Non è obiettivo di questo studio valutare l’operato dei vari Garanti, ma soltanto di ricostruire una mappa il più possibile precisa della situazione dei garanti regionali. Pertanto sulla regione Lazio c’è da dire che l’incarico è vacante, e le candidature sono state affidate all’esame di una apposita Commissione. Per il momento non si conoscono i nomi dei concorrenti, né all’incarico di Garante, né per i due incarichi di coadiutore: con buona pace del Decreto Legislativo del 14 marzo 2013, n. 33 (Amministrazione Trasparente), in attuazione della Legge 6 novembre 2012, n. 190 (Anticorruzione). L’elenco ministeriale conferma: nel Lazio, l’incarico è vacante. Gorizia: il carcere sarà rimesso a nuovo, dal ministero arriva 1 milione di € di Emanuela Masseria Il Messaggero Veneto, 3 maggio 2016 Criticità e mancanze del carcere goriziano si legano a doppio filo ai finanziamenti in grado di risolverle. Così ieri, in Provincia, a un tavolo con i volontari, ma anche nel corso della visita dei Radicali nella struttura, sono trapelati alcuni importanti aggiornamenti. La buona notizia è che sono stati stanziati i fondi da oltre un milione di euro per far partire il secondo lotto dei lavori in via Barzellini ad agosto o al massimo a settembre. Ciò completerebbe, di fatto, la ristrutturazione del penitenziario. A riportarlo è stato Michele Migliore dei Radicali Fvg, dopo una visita all’interno della struttura. Su un altro fronte l’assessore Ilaria Cecot, che ieri ha coordinato un incontro in Provincia non solo con le associazioni di volontari che operano nel carcere, ma anche con la senatrice Laura Fasiolo, il garante dei detenuti Alberto De Nadai, il cappellano del carcere, don Paolo Zuttion e il sindacalista della Cisl Massimo Bevilacqua, ha poi fatto emergere un altro aspetto relativo ai contributi, ma questa volta negativo. "Parlando con l’assessore Panariti, alle prese con un nuovo progetto regionale per le carceri in cui verranno stanziati 950 mila euro, ho scoperto che ci sono delle oggettive difficoltà a includere Gorizia per le sue condizioni". Ed entrando in merito alle criticità, ieri ne sono emerse davvero tante e su più fronti. I radicali hanno contato 40 detenuti e circa altrettanti operatori, quindi un organico carente. Al di là del fatto che metà della struttura è fatiscente, è parso che non ci sia un piano adeguato per coordinare le attività extra carcerarie dei detenuti, sia di tipo lavorativo che formativo. "Nessuno ha ancora visto un piano di istituto per il carcere", ha riportato Cecot, mentre Fasiolo sta continuando a sollecitare il sottosegretario Ferri su questi e altri problemi. La senatrice ieri ha portato alla riunione il nuovo documento sugli Stati generali della giustizia, dove spiccano le attività riabilitative che possono far diminuire i casi di recidività criminale nei detenuti. Alghero: Pili (Unidos); carcere svuotato, nel 2013 c’erano 170 detenuti, oggi solo 44 alguer.it, 3 maggio 2016 "Nel 2013 c’erano 170 detenuti oggi quelli presenti erano 44, più 9 che stanno fuori per lavorare e 5 in semilibertà. Un piano chiaro quello del Dap che a dicembre ha smontato la tipografia laboratorio per mandarla a Potenza. Pronta per essere smontata anche la falegnameria, e i tecnici del Dap hanno già compiuto apposito sopralluogo. Da dicembre non entra nessun nuovo detenuto. E continuano a uscirne. Nei prossimi due-tre anni ben 18 detenuti saranno a fine pena. Il risultato è eloquente: un carcere con 158 posti ne ospiterebbe se restasse aperto appena 26. La decisione del Dap di non mandare più nessun detenuto ad Alghero, se non quei due o tre che si costituiscono in quel carcere, é la dimostrazione di un progetto scellerato di chiudere quell’istituto. Ogni smentita d’ufficio é ridicola e funzionale solo a coprire il misfatto. Il tentativo di nascondere questo progetto si infrange con i dati e con la marginalità sempre più evidente del carcere. Un progetto che mira a trasformare quella struttura in centro di accoglienza, così come pianificato per i carceri di Macomer, Iglesias, Quartucciu e la scuola penitenziaria di Monastir". Lo ha detto il deputato sardo di Unidos Mauro Pili che stamane ha effettuato una visita ispettiva durata tre ore in cui sono state esaminate tutte le carte di entrata e uscita dei detenuti e la logistica del carcere. "Il piano malsano del ministero - sottolinea Pili - ha praticamente svuotato il carcere con interi bracci totalmente vuoti e tutti i laboratori in disuso. Alcuni di questi come la tipografia smontata e mandata fuori Sardegna. A questo si aggiunge che il Dap nel 2013 fece realizzare le docce in ogni stanza, peccato che contestualmente decideva di svuotare il carcere. La decisione di non mandare nessun detenuto si commenta da sola. Solo un cretino non capisce il piano deciso dal DAP di chiudere il carcere. Tutte le fonti interne hanno confermato il piano di chiusura e l’obiettivo di trasformarlo in un centro di accoglienza per migranti. Chiudere il carcere e trasformarlo in centro per migranti è pura follia. Si tratta di un piano da bloccare in ogni modo". "Le smentite del Dap hanno le gambe corte e sono senza alcuna credibilità considerate quelle precedenti tutte smentite dai fatti. Un anno fa denunciai che avrebbero chiuso i carceri di Macomer e Iglesias e la scuola penitenziaria di Monastir. Arrivarono vibrate quanto ridicole smentite. Dopo qualche mese svelai il piano di trasformare quelle strutture in centri di accoglienza per migranti. Altre vibrate smentite. Ridicole. Il giorno dopo le smentite pubblicai tutte le comunicazioni interne e ufficiali che confermavano chiusura e trasformazione delle strutture. Ora i carceri di Macomer, Iglesias, la scuola penitenziaria di Monastir sono tutte strutture chiuse, nonostante le farlocche smentite. E in questi giorni le prefetture costrette a confermare il tutto. Smentire è solo una formalità per creduloni da quattro soldi. Hanno l’ordine di smentire. Appunto ridicole smentite. Ci sono le visite dei tecnici, i numeri di un carcere che stanno svuotando precostituendo la chiusura. E poi il sopralluogo del vice del Dap. Programmata per ieri ad Alghero e poi di tutta fretta annullata dopo la fuga di notizia. E chi crede alle smentite - conclude Pili - è complice del progetto scellerato di chiudere il carcere e aprire il centro di accoglienza per migranti". Rovigo: l’Osapp denuncia "il nuovo carcere è stato aperto senza essere ultimato" rovigooggi.it, 3 maggio 2016 La rabbia dei Sindacati: "Per la Polizia penitenziaria non c’è ancora nulla". Parte una lettera a Roma perché si individui chi ha reso possibile questa assurdità. I destinatari sono i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma anche il ministro della Giustizia e numerosi altri soggetti istituzionali. Il sindacato Osapp vuole che si chiarisca come sia stato possibile che qualcuno abbia consentito che venisse aperto, portandovi i detenuti, un carcere che chiaramente non è finito Una lettera definita "urgentissima" al capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, al vice Massimo De Pascalis, ai vari gruppi parlamentari della Camera e del Senato, al ministro della Giustizia Andrea Orlando e ad altre importanti figure istituzionali inviata dal sindacato di polizia penitenziaria Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). Al centro di tutto, l’apertura del carcere di Rovigo, avvenuta secondo numerose voci, prima che la struttura fosse in effetti pronta ad accogliere detenuti e personale della penitenziaria. "Lo scorso 22 aprile - comincia la lettera - ha ufficialmente avuto luogo l’apertura del nuovo complesso penitenziario di Rovigo mediante il trasferimento dal vecchio istituto di una trentina di ristretti. Dalla data delle anzidetta nuova apertura, come era peraltro prevedibile, data l’estemporaneità dell’iniziativa (che da tempo era prevista ma per la quale non si erano ancora debitamente affrontate le esigenze logistiche e organizzative), sono iniziate le gravi e per certi versi assurde, difficoltà per gli addetti, non solo di polizia penitenziaria". Difficoltà di vario tipo, quelle elencate dai sindacati, che sarebbero grottesche se non fossero gravi. Nella lettera vengono elencati per esempio "il fatto che per il turno notturno il personale debba consumare il pasto consistente in un panino o in altra pietanza fredda e in posti di fortuna, non esistendo ancora nella nuova sede una sala mensa e solo ultimamente si è provveduto a dotare il locale di un tavolino con qualche sedia di plastica nel locale dove un giorno sorgerà la mensa. Fermi restando i disagi anzidetti sarebbe opportuno e urgente, oltre che legittimo, che al personale interessato fossero erogati buoni pasto sostitutivi, sino a quando non sarà disponibile il servizio". La nota prosegue poi denunciando come "non sia ancora funzionante la caserma agenti, se non per qualche letto dove gli addetti del Corpo appoggerebbero i propri indumenti quando assumono servizio; gli spazi sono del tutto privi di armadietti o degli arredi previsti dal vigente accordo nazionale quadro; il fatto che non vi siano ancora linee telefoniche o, eventualmente, linee dati per i posti di servizio occupati dal personale né tanto meno, dalla caserma agenti; unica eccezione la telefonia per le comunicazioni dei detenuti; benché non precisamente di immediata e prioritaria rilevanza, il fatto che non siano in alcun modo disponibili nella nuova struttura per il personale e a differenza di quanto invece risulta per il ristretti, sale di ritrovo e palestre". Insomma: la sensazione del sindacato è che a livello centrale si sia pensato prima ai detenuti e ancora non si stia pensando al personale della Polizia penitenziaria. "In ordine a quanto sopra - chiude infatti la nota - atteso che è vivissima l’impressione l’amministrazione sia diventata così attenta alla popolazione detenuta e si sia dimenticata del tutto delle esigenze minime e lavorative, oltre ai diritti sanciti contrattualmente, del personale in particolare di polizia penitenziaria, si chiede di voler cortesemente chiarire le responsabilità dell’apertura di una nuova sede penitenziaria senza avere provveduto ad operare, in via preventiva, al superamento delle difficoltà e delle disfunzioni dianzi dette". L’impressione è che per l’ennesima volta si sia di fronte a una operazione condotta in maniera raffazzonata a dilettantesca, che mette Rovigo e il Polesine alla berlina a livello nazionale. Il nuovo carcere è rimasto una cattedrale nel deserto per anni, prima che "Striscia la notizia", lo scorso autunno, denunciasse la situazione. Poi l’iter si è improvvisamente sbloccato. La stessa inaugurazione, come segnalato da Rovigooggi.it all’epoca, è avvenuta in maniera disorganizzata, con due ministri - Andrea Orlando e Graziano Delrio - intruppati in mezzo a sconosciuti a vagare per corridoi spogli sentendosi raccontare cosa sarebbe poi stato sistemato qui e cosa là. Roma: detenute con figli, la prima Casa famiglia aprirà presto askanews.it, 3 maggio 2016 Il Garante Nazionale dei diritti dei detenuti o delle persone private della libertà personale, ha visitato oggi la struttura che il Comune di Roma in accordo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha destinato all’accoglienza delle detenute madri con i loro figli, attualmente ristrette nella Sezione nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. La struttura, una villa sequestrata alla criminalità, situata a Roma Sud - si legge in una nota del Garante - è in ottime condizioni e appare adeguata alle esigenze delle donne e dei loro bambini, tutti sotto i sei anni di età. I locali sono adatti per ospitare i nuclei famigliari e ci sono spazi per le attività trattamentali, ricreative e di gioco per i bambini. Si tratta della prima Casa famiglia protetta per detenute madri, una struttura prevista dalla legge 62 del 21 aprile del 2011 per evitare il dramma dei bambini sotto i sei anni detenuti in carcere con le loro mamme. "Siamo certi che la Casa famiglia ‘Leda Colombinì aprirà molto presto - afferma Mauro Palma, presidente del Collegio del Garante - sanando una situazione che da troppo tempo si trascina nel nostro paese, con decine di bambini dagli zero ai sei anni detenuti nelle carceri insieme alle loro madri, con gravi risvolti sulla relazione educativa e sul complessivo equilibrio pisco-fisico dei bambini". La Casa "Leda Colombini" rappresenta la speranza di non vedere più bambini in carcere. Roma: il candidato Sindaco Fassina (Si) vuole Ilaria Cucchi come Garante dei detenuti blitzquotidiano.it, 3 maggio 2016 Ilaria Cucchi come Garante dei detenuti. È l’idea lanciata dal candidato sindaco di Roma Stefano Fassina (Sinistra Italiana) che vorrebbe affidare alla sorella di Stefano Cucchi morto dopo un arresto nel 2009, la tutela dei diritti delle persone recluse. "A mio avviso - ha detto Fassina a Radio Cusano Campus - è una risorsa per tutta Roma, per tutti, non deve essere tirata da una parte o dall’altra. Penso infatti che il Consiglio Comunale alla prima seduta utile possa nominare Ilaria Cucchi garante dei detenuti a Roma. Lo deve fare il consiglio comunale, non la giunta. Deve essere una scelta condivisa da tutti, maggioranza e opposizione. Anzi, per la posizione di garanzia che andrà a svolgere, dovrebbe rispondere all’opposizione prima che alla maggioranza. Sarebbe un bel segnale per la legalità ed i diritti di cui Roma ha tremendamente bisogno" Non più tardi di un mese fa Ilaria Cucchi si era detta pronta a candidarsi per il Campidoglio. La notizia data a sorpresa in un’intervista al settimanale l’Espresso, aveva smosso non poco le acque nel centro sinistra. Poco dopo il passo indietro di Ignazio Marino, Ilaria Cucchi si era detta disponibile a correre per la poltrona di sindaco ma "libera dai partiti": non mettere la faccia sul progetto politico altrui ma agglomerare una squadra di persone che possano rendere la sfida possibile. Il riferimento è all’area a sinistra del Pd ancora orfana di una figura forte. E non sarebbe neanche la prima volta: nel 2013 era stata la capolista nel Lazio con la lista "Rivoluzione civile" di Antonio Ingroia, ma non venne eletta. Macerata: donna morta per sospetta overdose, era uscita dal carcere il giorno prima di Laura Boccanera www.cronachemaceratesi.it, 3 maggio 2016 Ventiquattro ore di libertà e poi la morte. È deceduta dopo essere uscita dal carcere di Camerino Gessica Pagliaccio, la 37enne trovata priva di vita nel B&B di San Marone, a Civitanova, ieri mattina (1 maggio). Un giorno per riabbracciare la vita dopo sette mesi di buio passati in cella. Un dramma nel dramma per la civitanovese, madre di due bambine. Questa mattina è stata fatta l’ispezione cadaverica sul corpo della donna. L’autopsia slitta a domani. Il primo esame ha escluso segni di violenza. Sulle cause della morte l’ipotesi degli inquirenti è quella di una sospetta overdose anche se solo l’accertamento autoptico di domani chiarirà definitivamente i motivi del decesso. Pagliaccio viveva nella zona di Fontanelle. Era tornata a casa da appena un giorno dopo aver scontato la pena in carcere. La 37enne era stata arrestata a settembre del 2015 per una sentenza della Corte di appello di Ancona relativa ad un furto avvenuto nel 2012. Era entrata in una stanza dell’ospedale Villa Pini e aveva trafugato la borsa ad una donna. L’accusa era di furto aggravato con destrezza. Aveva scontato la sua pena e sabato era tornata in città. Ora i carabinieri, che seguono l’indagine, stanno cercando di ricostruire le sue ultime 24 ore di vita. I militari stanno ascoltando gli amici della donna che aveva ricontattato e quell’amica con cui aveva diviso la stanza della struttura ricettiva prima di trovare la morte. Proprio quell’amica ha dato l’allarme, ritrovandola priva di vita. I carabinieri stanno indagando per morte causata da altro reato. La 37enne lascia il padre, la madre, un fratello, la sorella e due bambine di 12 e 8 anni. Benevento: detenuta tenta il suicidio in cella, salvata dalla Polizia penitenziaria ilquaderno.it, 3 maggio 2016 Tragedia evitata nella Casa Circondariale di Capodimonte a Benevento dove una detenuta ha cercato di togliersi la vita. Fondamentale l’intervento delle Poliziotte in servizio. Poteva avere un triste epilogo il gesto messo in atto da una detenuta della Casa Circondariale di Benevento se, il personale della Polizia Penitenziaria non fosse intervenuto salvandole la vita. Tutto è accaduto nella giornata di sabato 30. aprile quando, una donna per cause ancora in via di accertamento, ha tentato di togliersi la vita mediante soffocamento. Dopo aver annodato uno strofinaccio da cucina del tipo consentito ad una delle inferriate della cella e l’altro capo al collo, la donna si è lasciata cadere nel vuoto. Provvidenziale l’intervento del personale femminile della Polizia Penitenziaria che, dopo aver sorretto la donna permettendole così di continuare a respirare, sono riuscite a tagliare la stoffa del cappio rudimentale che la stessa aveva annodato al suo collo liberandola definitivamente. A renderlo noto l’episodio è il segretario Regionale della Uspp (Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria) Ciro Auricchio. La detenuta, già sotto osservazione e cura da parte del personale sanitario del Reparto Psichiatrico Giallo Basaglia della C.C. di Benevento, non ha riportato alcun danno fisico ma solo tanto spavento. "L’episodio - sostiene il segretario Uspp Auricchio - denota ulteriormente la difficoltà a poter gestire e arginare fenomeni, quali la tendenza all’autolesionismo in presenza dei così detti circuiti aperti. Una certa ortodossia trattamentale, ha infatti portato negli ultimi anni a un’eccessiva tendenza all’apertura dei detenuti negli spazi intra-moenia, sottraendo al contempo alla Polizia Penitenziaria, quegli strumenti idonei a prevenire episodi di violenza ed autolesionismo. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della camera detentiva, e alla maggiore libertà dei detenuti nelle aree intra-moenia, deve necessariamente associarsi un’attività trattamentale mirata e concreta e la reale possibilità da parte del Personale della Polizia Penitenziaria di poter effettuare i propri compiti istituzionali anche a fronte di un regime detentivo aperto. Vive congratulazioni per l’ottimo operato - continua il segretario Uspp Auricchio - nei confronti di tutto il personale del Reparto Femminile della C.C. di Benevento". Torino: gli incontri nel parlatorio del carcere, sognando il diritto all’affettività di Monica Cristina Gallo La Repubblica, 3 maggio 2016 Fra i diciotto tavoli degli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando il numero sei riguarda il mondo degli affetti e la territorialità della pena. Molte sono state le proposte di legge in materia di affettività e sessualità per le persone private della libertà; forse una decina e mai nessuna ha avuto un seguito. Oggi ho ascoltato un detenuto che aveva fatto richiesta di parlare con la Garante dei diritti delle persone private della libertà. È sceso dalla sua cella per raggiungere lo stanzino dove è possibile fare un colloquio privato con in mano un foglio stampato*. Si è seduto e mi ha raccontato che nel primo pomeriggio era andato al colloquio visivo nel parlatorio del carcere con sua moglie, arrivata dal sud la sera prima, e che avevano chiesto un colloquio cumulativo per avere più tempo. Poi ha spiegato e messo sul tavolo il foglio stampato da internet che la moglie si era portata da casa e me lo ha mostrato. Raccontava che in alcune prigioni in Danimarca, e anche in Spagna e Svizzera, è possibile trascorrere una o due giornate consecutive con i propri familiari all’interno di alcuni "appartamentini" per riprendersi un po’ di quella relazione che la detenzione dolorosamente interrompe. Indicandomi con il dito puntato le righe che spiegavano i "colloqui gastronomici" mi ha rivelato la loro abitudine di raccontarsi mangiando. Nell’articolo c’erano alcune foto che rendevano la sua sofferenza ancor più profonda. Poi ha ripiegato il foglio e mi ha detto che era consapevole del fatto che nulla avrei potuto fare di fronte a quella richiesta, ma ci teneva a farmi sapere che poco lontano da noi si fa qualcosa che rende la detenzione più umana. Pochi giorni prima, sul tema dell’affettività si era espresso anche Salvatore Striano in un interessante incontro con i detenuti nel teatro del carcere di Torino nell’ambito del progetto "Adotta uno Scrittore" promosso dal Salone del Libro. Striano ha emozionato il pubblico, un teatro silenzioso, un linguaggio fra pari, un autentica lezione di dignità. Ha raccontato pezzi della sua storia, della sua vita, dei suoi 18 mesi di detenzione nel carcere di Valdemoro a Madrid, fra il 2000 e 2001, dove già allora in una stanza arredata come una camera d’ albergo poteva trascorrere una giornata di assoluta intimità con la moglie. Fra i diciotto tavoli degli stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando il numero sei riguarda il mondo degli affetti e la territorialità della pena. Molte sono state le proposte di legge in materia di affettività e sessualità per le persone private della libertà; forse una decina e mai nessuna ha avuto un seguito. Ad oggi infatti, l’attuale normativa penitenziaria, pur riconoscendo l’importanza dei rapporti affettivi, non garantisce il diritto all’affettività, non offre opportunità e neppure spazi adeguati per continuare a vivere le relazioni affettive, e ancora troppo spesso detenuti spostati dal sud al nord e viceversa vivono una delle più terribili sofferenze immateriali che la detenzione offre: la privazione degli affetti. *Il modulo 393 è uno stampato che viene utilizzato dai detenuti per comunicare con l’amministrazione penitenziaria, meglio conosciuto come "Domandina". Parma: "Colpo di testa", calcio e teatro in carcere con l’Associazione "Zona franca" La Repubblica, 3 maggio 2016 L’Associazione "Zona franca" è scesa in campo coi detenuti attraverso uno spettacolo sul calcio. Nella giornata Nazionale del Teatro in carcere l’Associazione di Promozione sociale "Zona Franca Parma" ha realizzato, con la collaborazione degli attori della Compagnia teatrale dell’Istituto Penitenziario di Parma, uno spettacolo dedicato al Calcio, con la regia di Franca Tragni, presidente di Zona Franca Parma e "maestra" di teatro per un gruppo di detenuti di alta sicurezza. Da dieci anni Franca Tragni, insieme a Carlo Ferrari - attraverso laboratori condotti dall’Associazione culturale Progetti & Teatro e sostenuti da Istituto Penitenziario di Parma e Comune - portano avanti progetti teatrali che si inseriscono nel percorso di risocializzazione delle persone detenute. Questa volta però, nel giorno in cui a livello nazionale è stato celebrato il teatro come strumento privilegiato per la costruzione di ponti tra il carcere e il proprio territorio, in uno scambio tra "dentro e fuori", Franca Tragni ha voluto mettere in atto questa evidenza, portando con sé dentro l’Istituto Penitenziario di Parma dieci donne dell’Associazione teatrale Zona Franca Parma e mettendo in scena "Colpo di Testa", con la collaborazione dei suoi allievi detenuti e la partecipazione del giornalista Marco Balestrazzi. La scelta del "calcio" come tema "ponte" è legata al suo essere più che uno sport un’emozione di popolare condivisione, autentica e primordiale, nel bene e nel male, nella mediocrità e nell’elevatezza delle sue manifestazioni. Lo hanno raccontato con un cuore di donna, ma nel tentativo di descriverlo con gli occhi di chi sta dall’altra parte della barricata, perché il calcio si sa, è prima di tutto indubbiamente maschio. Hanno provato a osservarlo attraverso alcune pietre miliari della storia del calcio: Maradona, Pelè, i Mondiali dell’82, il Grande Torino, il mitico Dino Zoff. Ma soprattutto hanno condiviso il palco con gli allievi della Compagnia teatrale dell’Istituto Penitenziario, che hanno interpretato con impegno e tanta emozione l’esilarante racconto di un surreale calciatore dal tiro portentoso. Il finale è stato un applauso infinito, di cento detenuti che applaudivano i loro compagni e le attrici di Zona Franca insieme sul palco, in un momento di potente normalità e condivisione, vera e propria magia del teatro. Fermo (Ap): l’Itet Carducci Galilei visita i detenuti del carcere e si emoziona Corriere Adriatico, 3 maggio 2016 Faccia a faccia tra studenti e detenuti del carcere "Lezione indimenticabile". Incontro di parole, qualche lacrima e tante emozioni per gli studenti del quinto anno dell’Itet Carducci Galilei di Fermo. Sono arrivati pieni di emozione e con gli occhi sbarrati per catturare storie e impressioni. Una classe del quinto anno dell’Itet Carducci Galilei è stata ieri in visita alla Casa di reclusione di Fermo, per un incontro con il gruppo di detenuti che fa parte della redazione della rivista l’Altrachiave news. A guidarli gli insegnanti Roberto Cifani e Maria Grazia Senatori, i ragazzi hanno avuto l’opportunità di entrare direttamente all’interno della sezione, scortati dagli agenti di polizia penitenziaria e dal comandante Loredana Napoli con il collega Nicola De Filippis. Un momento che è il risultato di un importante lavoro di preparazione e di riflessione sulla legalità, come ha spiegato il docente Cifani: "Io insegno diritto ma ogni volta che porti i ragazzi qui dentro, e questo è il terzo anno consecutivo, ho l’impressione di consegnare loro qualcosa di vivo e di vero, una lezione che non si dimentica". Forte l’impatto con la realtà carceraria, occhi lucidi e un po’ di tensione per i ragazzi che hanno attraversato le celle in silenzio, con grande attenzione e dimostrando rispetto e considerazione. L’incontro vero e proprio nella sala riunioni della redazione che è anche la biblioteca, sala computer e aula scolastica. Il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti, insieme all’educatrice Lucia Tarquini, hanno introdotto i ragazzi nella quotidianità di un carcere, per far capire loro le difficoltà di chi si trova a vivere un percorso tra quelle mura ma anche di chi ci lavora. Molto colpiti i ragazzi che hanno fatto domande, hanno chiesto della libertà che manca, degli affetti negati, del senso di colpa che ci può essere. Si è parlato del concetto di giustizia, i detenuti hanno cercato di dare l’esempio della loro esperienza, per dire ai ragazzi che si fa presto a sbagliare, più difficile è ricominciare a camminare. Padri di famiglia, hanno parlato dei figli lontani e della quotidianità persa, della libertà preziosa, della convivenza forzata che si vive tra le mura del carcere. "Abbiamo capito che siete esseri umani come noi" hanno sottolineato i ragazzi, ammettendo di avere pregiudizi e attese sbagliate e confessando una preoccupazione che poi si è dimostrata infondata. Gli stessi agenti di Polizia Penitenziaria hanno raccontato il loro lavoro, spesso sconosciuto, fondamentale per gestire al meglio il percorso di rieducazione delle persone che dentro un carcere devono tentare di ritrovare un’esistenza migliore. I ragazzi sono usciti con una diversa consapevolezza, più attenti e maturi di come erano entrati, grati del raggio di sole che hanno ritrovato fuori e della libertà che assume un valore diverso. Migranti. Grazie ai corridoi umanitari l’imbarco non fa più paura di Carlo Lania Il Manifesto, 3 maggio 2016 Arriveranno oggi in Italia, provenienti da Beirut, altri 101 profughi siriani, grazie ai corridoi umanitari. "Con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia si potrebbero portate in Europa tre milioni di rifugiati, tutti identificati e registrati", dicono gli organizzatori. Tra Homs, in Siria, e Tripoli, in Libano, saranno al massimo una novantina di chilometri. Una volta partiti bisogna dirigersi verso il mare e Tortus, dove si trova la base navale russa, poi puntare a sud verso il confine libanese attraversando campi coltivati a patate e verdure e la sfilza infinita di serre in cui lavorano i migranti. Cinque anni fa, prima che in Siria scoppiasse la guerra, potevi coprire l’intero tragitto in un paio d’ore, compreso il tempo perso per attraversare la frontiera. Ad aprile del 2013, quando l’ha percorso con sua moglie Souzan stipato nella cabina di un’autocisterna carica di benzina insieme ad altri sette siriani e all’autista, Abdul ci ha impiegato dodici ore. Si lasciava alle spalle una Homs dilaniata dai combattimenti insieme al suo lavoro di impiegato in una azienda tessile e alla speranza di poter continuare a viverci. "Non capivamo più chi ci stava sparando addosso, se Daesh o l’esercito siriano. Siamo rimasti quindici giorni senza cibo e con poca acqua. Poi c’è stata una tregua di 24 ore e abbiamo dovuto decidere in fretta cosa fare, se restare o andare via e siamo partiti", racconta ora Abdul seduto insieme a Souzan su un vecchio divano in una casa alla periferia di Tripoli presa in affitto insieme ad altre tre famiglie di profughi siriani. La vita non è certo stata generosa con questa coppia di giovani rifugiati. Prima la guerra con i suoi orrori e le violenze, poi la nascita di due bambini, Ayham 2 anni e 4 mesi e Fatima, 1 anno e 2 mesi, colpiti entrambi dalla sindrome di Dandy Walker, una patologia neurologica che rende chi ne soffre cieco, sordo e con grosse difficoltà motorie. La sanità libanese non ha fatto molto per loro, salvo presentargli salatissime parcelle che Abdul ha potuto pagare solo grazie all’aiuto dell’Unhcr. l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ora però, la lotteria della vita sembra essersi finalmente ricordata di loro. Abdul e la sua famiglia fanno parte del gruppo di 101 profughi che questa mattina atterreranno all’aeroporto di Fiumicino grazie al secondo corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) e dalla Tavola valdese. Nuclei familiari scelti nel mare di oltre 1 milione duecentomila rifugiati siriani (questo è solo il numero ufficiale, ma stando ad alcune stime sarebbero almeno 1,5 milioni) ospitati da anni in Libano. Abdul e Souzan saranno accolti in una struttura della Chiesa valdese a Torino, dove esiste un centro specializzato nella sindrome Dandy Walker. La speranza è che i loro bambini possano migliorare grazie alle cure. I corridoi umanitari sono la risposta concreta della società civile all’ipocrisia dell’Unione europea che con la scusa di fermare i trafficanti di uomini sigla accordi come quello del 18 marzo scorso con la Turchia, che serve solo a impedire nuovi arrivi di migranti e richiedenti asilo. Il progetto - finanziato prevalentemente con l’8×1000 della Chiesa valdese e con sottoscrizioni organizzate dalle chiese - costa due milioni di euro e prevede il trasferimento in Italia di mille rifugiati in due anni. "Prendiamo in considerazione soggetti vulnerabili come famiglie con figli piccoli, donne sole, anziani e persone malate", spiega Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope, iniziativa della Fcei che partecipa alla realizzazione dei corridoi. "Con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia si potrebbero portate in Europa tre milioni di rifugiati, tutti identificati registrati e pronti per essere inseriti nelle nostre società". Tecnicamente i corridoio umanitari sono resi possibili da un’opportunità offerta dal regolamento dei visti europei del 2009. L’articolo 25 prevede infatti la possibilità per uno Stato di concedere visti eccezionali di validità temporanea per motivi umanitari. Più che una porta, uno spiraglio offerto dalle norme comunitarie che le tre comunità religiose hanno pensato di sfruttare dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 dove morirono in un naufragio 366 migranti. È stata avviata una trattativa con il ministero degli Esteri che ha portato alla firma di un protocollo tra Farnesina, ministero degli Interni, Sant’Egidio, Fcei e Valdesi. Il 23 febbraio scorso un primo viaggio ha permesso ai primi 93 profughi di arrivare in Italia, dove hanno trovato ospitalità in cinque regioni. E adesso si riparte. Il campo di Tal Abbas dista dalla frontiera siriana una manciata di chilometri. Due file di baracche allineate lungo una stradina coperta di pietre che servono per far defluire la pioggia. Una cinquantina di famiglie siriane hanno affittato il terreno da un saudita che pagano lavorando nei campi o con piccole somme di denaro. Le casette, alte non più di due metri, sono una attaccata all’altra, i tetti ondulati, tappeti e tovaglie alle pareti e sul pavimento per trattenere il calore. Quando tra pochi giorni arriverà il caldo vivere qui sarà ancora più difficile. Ogni mese l’Unhcr dà a ogni profugo una tessera con 30 dollari per comprare acqua e cibo, più cento dollari al mese nei quattro mesi invernali per comprare il gasolio necessario ad alimentare le stufe. Per quanto possa sembrare assurdo in questa situazione, ogni baracca ha sul tetto la parabola, per molti forse l’unico contatto rimasto con la Siria. Fuori pecore e mucche dividono il campo con i bambini. Per quanto cerchi di apparire normale, Gharale non riesce a trattenere la gioia. Da due anni vive nel campo con suo marito Sami e i loro quattro bambini, Mater di 11 anni, Ahmed di 9, Manahel di 8 e Raghad, la più piccola, di 3. Ora però è finita. Tra poche ore anche loro partiranno per Roma e la felicità per il modo radicale in cui sta cambiando la vita elettrizza Gharade che non riesce proprio a nascondere la sua felicità. Il motivo è semplice. Per loro, come per tutte le famiglie coinvolte nel corridoio umanitario, partire significa rinascere, uscire dal buco nero in cui sono precipitate a causa della guerra e quasi sempre sperare di riuscire a risolvere un grave problema di salute. È così anche per Gharade. Per quanto sia la più vivace, la piccola Raghdad è talassemica e almeno una volta al mese ha bisogno di una trasfusione di sangue. Una sfida, se sei costretto a vivere in queste condizioni, che adesso però diventa più facile da affrontare. "Il lavoro che stiamo facendo dimostra che i corridoi umanitari sono possibili, che non è necessario che persone che hanno diritto all’asilo politico rischino la vita in mano alle organizzazioni criminali per arrivare in Europa", spiega Maria Quinto, responsabile del progetto per la Comunità di Sant’Egidio. "I corridoi possono rappresentare una chance anche per l’Europa, per fermare il suo declino. È chiaro che chi entra può cambiare un po’ il tuo modo di vivere, ma stiamo parlando di persone disponibili a integrarsi in un Paese dove potranno finalmente vivere libere". Migranti. Hrw: "deportazioni in Turchia, viaggi forzati anche per i richiedenti asilo" di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 3 maggio 2016 Human Rights Watch denuncia le violazioni e gli abusi di cui sono state vittima soprattutto afghani costretti a lasciare i centri di detenzione senza i propri beni e tagliando i contatti con amici e parenti. Dall’inizio di aprile decine di persone sono state riportate dalle isole di Chios e Lesbo all’interno del confine turco. Messaggi vocali e richieste d’aiuto. Sono queste le prove raccolte dagli attivisti di Human rights watch (Hrw) attraverso colloqui con amici e parenti dei migranti deportati da Chios e Lesbo in Turchia. Una procedura sbrigativa e sommaria che non tutela i diritti di coloro che sono costretti a tornare in Turchia. Al di là del confine turco infatti non solo le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite non sono bene accette, ma la sicurezza di coloro che arrivano non può essere garantita come in altri paesi europei. "Nella folle corsa per l’avvio delle deportazioni in Turchia - ha detto Fred Abrahams, direttore associato di Hrw - l’Unione Europea e la Grecia hanno gettato i diritti al vento, anche quelli dei richiedenti asilo. Le deportazioni accelerate dall’Unione avvengono in un paese che non può essere considerato sicuro". Nessuna informazione. Parlando con amici e parenti delle persone costrette a imbarcarsi per la Turchia emerge un quadro allarmante. In molti casi infatti i testimoni hanno affermato che un gran numero di deportati non è stato informato di quanto sarebbe loro accaduto né è stato permesso loro di portare con sé i propri beni personali. Come se non bastasse, una volta giunti in Turchia, a molti sono stati requisiti telefoni e mezzi per mettersi in contatto con le proprie famiglie o conoscenti. Ma c’è di più, poiché anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha dichiarato che tra i deportati in Turchia c’erano persone che avevano intenzione di richiedere asilo politico in Grecia. Una serie di violazioni che pesano sull’Europa ed evidenziano la sommarietà dell’azione condotta per contrastare il flusso di migranti e richiedenti in territorio comunitario. A questo proposito va ricordato come in Turchia la Convenzione dei rifugiati del 1951 è limitata solo a coloro che provengono dall’Europa. Una legge che si traduce nell’impossibilità per afgani o pakistani di chiedere asilo in territorio turco. Storie di deportati. A documentare quanto accaduto sono alcune conversazioni registrate da chi è rimasto in Grecia. Il 3 aprile sono iniziate le deportazioni dal centro di detenzione Vial di Chios. Qui la polizia greca assieme agli agenti di Frontex ha separato i 66 migranti individuati per il primo viaggio verso la Turchia dal resto dei migranti e richiedenti. Ma secondo le testimonianze di coloro che sono rimasti nel centro, la polizia ha avvicinato i migranti con il pretesto di registrare le loro richieste d’asilo. "Hanno fatto salire tutti dentro un autobus, un autobus della polizia - ha raccontato Tahir un ragazzo afgano di 26 anni - e non hanno permesso loro di prendere le giacche, borse, denaro, telefoni cellulari. Non abbiamo avuto il tempo di parlare. Le loro famiglie ci chiedono e si chiedono, ‘Dove sono?’ Noi non abbiamo alcuna informazione. Non sappiamo dove sono". Uno degli afgani detenuti nel centro d’identificazione di Tabakika a Chios, prima di essere deportato ha mandato un messaggio vocale ad una sua amica: "Ciao, siamo qui con le famiglie in un altro campo, senza nulla, senza acqua, senza cibo ed è così freddo qui". Benvenuti in Turchia. L’accordo che ha portato alla deportazione dei migranti in Turchia parte dal presupposto che quello turco sia uno stato che garantisca il rispetto dei diritti e la sicurezza di coloro che sono fuggiti dalla terra d’origine. Un assunto messo fortemente in discussione dalle organizzazioni umanitarie che guardano con sospetto alla politica sull’immigrazione del governo Erdogan. A sostenere questa linea è anche Hrw che ha documentato le violazioni inflitte ai deportati una volta giunti in territorio turco. Il sequestro dei telefoni. Alcuni messaggi testimoniano come coloro a bordo delle imbarcazioni dirette in Turchia non avessero idea di dove fossero diretti. In molti inoltre sostengono che una volta arrivati nei centri di identificazione turchi, ai migranti siano stati tolti telefoni e altri mezzi per mettersi in contatto con amici e parenti. Sia all’organizzazione statunitense che alle Nazioni Unite, il governo ha per ora negato l’accesso ai centri di espulsione turchi. Ad oggi la Turchia cerca di accelerare il rimpatrio dei profughi stipulando accordi con i paesi d’origine, non garantisce una protezione adeguata e non riconosce il principio del non-refoulement, ovvero il divieto di rimpatriare le persone che corrono seri rischi di vita o persecuzione in patria. Muri e persone. Le operazioni di trasferimento in Turchia iniziate il 3 aprile 2016 sono state sommarie, frettolose e caotiche. Di questo caos determinato dalla necessità di dimostrare politicamente l’operato dell’Unione sono state vittima più di 200 persone. Tra queste, nonostante sia gli agenti di Frontex che le autorità greche lo abbiano negato, c’erano anche richiedenti asilo: persone costrette ora a fare i conti con un paese che non garantirà loro alcun diritto e che probabilmente cercherà di farli tornare a casa, una terra dove la loro vita è in pericolo. L’UE chiude gli occhi su una premessa ingannevole. Che le deportazioni dei primi di aprile siano state a dir poco carenti dal punto di vista organizzativo l’ha riconosciuto indirettamente anche la Grecia che l’8 aprile ha sospeso le deportazioni per migliorare la procedura di trasporto. "L’accordo dell’Unione - conclude Abrahams - si basa sulla premessa ingannevole che tutte le persone che ritornano in Turchia siano al sicuro, mentre i fatti dicono il contrario. L’Europa sta chiudendo gli occhi di fronte ai pericoli cui sono esposte queste persone in difficoltà e lo fa per costruire muri". Migranti. Così il populismo in Germania sfida la Merkel di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 3 maggio 2016 "Alternativa per la Germania" raccoglie consensi tra chi ha paura dei musulmani. Per contrastarlo, la cancelliera non deve occultare i problemi legati ai profughi. "Integrazione" è la parola chiave della politica seguita finora dalla Germania di Angela Merkel. Esitazioni e titubanze, affiorate di tanto in tanto, non hanno fermato il progetto ambizioso di aprire le frontiere. Centinaia di migliaia di profughi hanno trovato rifugio e, forse, una nuova patria. Nel 2015 - anno record - sono state avanzate 476.649 richieste di asilo. La Germania è assurta così a superpotenza umanitaria, modello per gli altri Paesi. Con rapidità è stata in grado di risolvere i problemi posti dalla improvvisa presenza di nuovi futuri con-cittadini. Solo in parte si è trattato di una scelta obbligata. Da tempo è chiaro il progetto politico di Merkel: fare della Germania uno Stato multietnico in cui le differenze di origine e di religione possano essere via via ridotte. Ma i tedeschi condividono il progetto di Merkel? Pensano che la Germania debba diventare uno Stato multietnico? Giudicano le condizioni attuali favorevoli? La sfida - Si sa che ai tedeschi le sfide non dispiacciono. Questa volta, però, le cose stanno diversamente. Non solo perché la via moderata verso l’integrazione appare a molti una maratona. Ma anche perché l’estraneo, con cui convivere, è l’Islam percepito in tutta la sua alterità. Ecco allora la novità nel paesaggio politico tedesco: Alternative für Deutschland, un partito-movimento che, a soli tre anni dalla sua fondazione, si presenta come la nuova destra. Nuova perché, pur se contigua agli ambienti del radicalismo nero, è populista quanto basta per compiere due mosse decisive: convogliare tutta l’inquietudine identitaria dei tedeschi in senso xenofobo e lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato. Il nuovo look è quello della leader Frauke Petry, protagonista della politica anti-immigranti. Domenica 1° maggio il congresso di 2400 delegati ha approvato il nuovo programma in cui, fra l’altro, si legge la frase lapidaria: "L’Islam non fa parte della Germania". Perciò "non può invocare il principio di libertà religiosa che si fa valere per il cristianesimo". La crescente presenza di musulmani viene ritenuta una minaccia per lo "Stato tedesco". E non è un caso che non manchino puntate contro gli ebrei. Se si pensa che, sulla base dei sondaggi, l’Afd raggiungerebbe già il 14%, si capisce perché Peter Tauber, segretario della Cdu, si sia affrettato a definire la Afd "un partito anti-tedesco", che "guarda al passato". È questo, certo, il modo per squalificarlo. Ma non sarà semplice. L’integrazione - Merkel si è mossa nel solco di quella integrazione che negli anni Settanta ha permesso di dare lavoro a tanti immigrati e negli anni Novanta ha consentito di accogliere milioni di profughi dall’Europa orientale. Quella integrazione è stata insieme modello politico per le nuove generazioni - come non pensare a Berlino? - e possibilità di un riscatto dal passato. Le scelte della cancelliera vanno lette su questo sfondo. Dopo l’estate, però, molti hanno cominciato a definire "radicale" la sua politica dei confini e puntare l’indice contro il binomio "integrazione e Islam". "La sharia è un ostacolo al modus vivendi della società civile", così si è espresso di recente Peter Sloterdijk, manifestando la preoccupazione che una "legge religiosa" possa ledere la Costituzione. Qui e là affiora l’inquietante parola "autodistruzione". Come se dovesse essere questo il destino del Paese. Eppure la presenza dell’Islam non è nuova. Oggi vivono in Germania circa quattro milioni di musulmani, un mondo variegato e per molti versi già ben integrato, a partire dalla maggioranza costituita dai turchi. A loro spetterà un ruolo decisivo. In un libro appena pubblicato, Hamed Abdel-Samad, un giovane politologo tedesco-egiziano, ha esaminato spietatamente l’ambivalenza di molti giovani profughi che desiderano la libertà, ma sono ingabbiati in una morale conservatrice, che sperano nell’Europa, ma ne disprezzano i valori. Il loro atteggiamento verso le donne ne è la prova. Proprio per ciò è indispensabile che questi problemi non vengano occultati, ma siano piuttosto all’ordine del giorno nel dibattito pubblico. Forse l’ipocrisia è ciò che ostacola il progetto di una coabitazione. Non i confini aperti, né la strumentalizzazione della destra. Per una politica radicale, come quella di Merkel, occorre affrontare con radicalità le questioni. In Europa carceri ancora troppo affollate di Simone Lonati lavoce.info, 3 maggio 2016 Nonostante una leggera flessione nel numero di detenuti, in Europa le carceri continuano a essere occupate al massimo delle loro capacità. In Italia il problema è particolarmente grave. Anche se ci sono netti segnali di miglioramento per gli interventi seguiti alla condanna della Corte di giustizia. È stata di recente pubblicata l’edizione 2014 delle statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa, frutto di un’analisi elaborata dai ricercatori dell’università di Losanna alla quale hanno partecipato il 96 per cento degli Stati europei. L’obiettivo è quello di raccogliere e analizzare i dati provenienti dai diversi paesi per fornire una dettagliata panoramica sulla popolazione carceraria in Europa. Uno dei dati di maggiore interesse che emerge dal Rapporto è quello relativo al tasso di detenzione, ossia il numero di detenuti ogni 100mila abitanti: nel 2014 il tasso medio europeo è di 124 detenuti su 100mila abitanti, in leggera diminuzione (7 per cento) rispetto al dato rilevato nel 2013 (134 detenuti). Valori particolarmente elevati si registrano in alcuni paesi dell’Europa centrale e orientale, quali Russia (467,1), Lituania (305) e Lettonia (240,3). Per quanto riguarda l’Italia, il tasso medio di carcerazione è pari a 89,3 detenuti su 100mila abitanti, inferiore alla media europea e in netto calo (-17,8 per cento) rispetto al 2013, allorché si attestava a quota 107. Il numero è particolarmente significativo perché conferma per il nostro paese una linea di tendenza positiva, iniziata a partire dagli ultimi mesi del 2011. Quali termini di raffronto, è utile il riferimento a Germania (81,4), Francia (101), Spagna (141,7), Inghilterra e Galles (149,7). Nonostante la leggera flessione nel numero di detenuti, le carceri in Europa continuano a essere occupate al massimo delle loro capacità: il rapporto medio tra detenuti e posti in carcere è pari al 93 per cento, comunque sempre in leggera diminuzione rispetto un anno prima (96 per cento). Come si evince dalla figura seguente, il problema rimane preoccupante in Ungheria (142 per cento), Belgio (129 per cento), Macedonia (123 per cento), Grecia (121 per cento) e Albania (119.5 per cento). Il dato concernente l’Italia è di 109,8 detenuti su 100 posti in carcere. Permane, dunque, un problema di sovraffollamento nelle carceri, ancorché in forte attenuazione rispetto alla precedente rilevazione del Consiglio d’Europa. Nel 2013 il tasso di sovraffollamento era pari al 148 per cento, risultato che collocava il nostro paese al primo posto in questa triste classifica. Il dato registrato nel 2014 è senz’altro positivo e forse oltre ogni aspettativa, ma non si può comunque trascurare che i valori riportati dal Consiglio d’Europa si riferiscono a una media nazionale: se guardiamo invece ai singoli istituti penitenziari, troviamo tuttora molti casi di sovraffollamento, anche grave. Tra i più preoccupanti, al 31 dicembre 2015, quelli di alcuni istituti di Lombardia, Lazio, Liguria, Puglia, Campania, Sardegna e Sicilia. Alla diminuzione del tasso nazionale di sovraffollamento nelle carceri hanno senz’altro contribuito le riforme introdotte nel nostro ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani e altri contro Italia, con la quale la Corte Europea ha condannato il nostro paese per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a causa del trattamento "inumano e degradante" al quale erano sottoposti i detenuti in alcuni istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascun detenuto era di soli tre metri quadri e impossibilità di utilizzare l’acqua calda nelle docce. A partire da quella condanna pronunciata all’inizio del 2013, il Consiglio d’Europa ha assegnato all’Italia un anno di tempo (poi prorogato al 31 dicembre 2015) per predisporre rimedi adeguati allo scopo di diminuire il numero dei detenuti presenti nelle carceri. In particolare, la Corte di Strasburgo ha invitato il nostro paese a prevedere l’applicazione di pene non privative della libertà personale in alternativa a quelle detentive e l’adozione di misure per ridurre al minimo l’impiego della custodia cautelare in carcere. Il legislatore italiano ha affrontato il problema privilegiando interventi volti a ridurre le presenze in carcere, piuttosto che puntare al potenziamento delle strutture penitenziarie e all’aumento della capienza degli istituti di pena. La riforma, nel suo complesso, ha seguito tre direttrici. La prima è consistita nella riduzione del flusso di condannati in entrata, attraverso un allargamento delle maglie di accesso di alcune misure alternative e alcuni benefici penitenziari. La seconda è rappresentata dal potenziamento del flusso di detenuti in uscita mediante l’introduzione di una misura straordinaria che consente forti sconti di pena ai condannati che abbiano dato prova di partecipazione al trattamento rieducativo. La terza direttrice è la depenalizzazione di alcune fattispecie di reato attraverso la trasformazione in illecito amministrativo. I dati che emergono dall’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa dimostrano che la strada intrapresa dal nostro paese per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario è ancora lunga e impervia. È necessario proseguire con forza privilegiando riforme strutturali che siano in grado di garantire effetti permanenti piuttosto che limitarsi a gestire sempre e solo l’emergenza. Non lo chiede solo l’Europa, ma anche il senso di civiltà del nostro paese. Forse l’Italia, almeno per questa volta, sembra aver imboccato la giusta direzione. India: caso marò, per il Tribunale internazionale dell’Aja Girone deve tornare in Italia di Ester Palma Corriere della Sera, 3 maggio 2016 Il marò Salvatore Girone potrà stare in Italia durante l’arbitrato. Lo ha deciso il Tribunale internazionale dell’Aja che ha accolto la richiesta italiana, invitando le parti a concordare le modalità del rientro del fuciliere in patria. L’altro fuciliere di Marina, Massimiliano Latorre, protagonista del processo sul caso dell’Enrica Lexie che si è trasformato in un controverso dibattito internazionale, è già in Italia e potrà restarvi almeno fino al 30 settembre, come ha deciso a fine aprile un tribunale indiano. "L’Italia non ha interpretato correttamente l’ordine del tribunale. Non è vero che il marine Girone è libero: le condizioni della sua libertà provvisoria devono essere stabilite dalla Corte Suprema" hanno commentato fonti del governo indiano all’agenzia di stampa Pti commentando la decisione del tribunale arbitrale dell’Aja. Roma in mattinata ha annunciato che "le condizioni del rientro" di Girone "saranno concordate tra Italia e India". In serata il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha espresso "grande soddisfazione" per il prossimo ritorno dopo quattro anni, di Salvatore Girone e per la presenza in Italia di Massimiliano Latorre. La gioia di Renzi - Il premier Renzi ha telefonato a Salvatore Girone da Palazzo Vecchio: "Ho parlato con il marò Girone che potrà tornare in Italia, della straordinaria notizia che viene dall’Aja. È un passo avanti davvero significativo al quale abbiamo lavorato con grande dedizione e determinazione". E aggiunge: "Colgo l’occasione per inviare un messaggio di amicizia e collaborazione al grande popolo indiano e al primo ministro indiano Narendra Modi. Siamo sempre pronti a collaborare". Anche la ministra della Difesa Pinotti ha telefonato ai due fucilieri di marina, Girone e Latorre, e ha espresso loro vicinanza, come scrive su twitter. La nota della Farnesina - La Farnesina spiega in una nota: "Il Governo ha lavorato per sottoporre l’intera vicenda all’arbitrato internazionale e, in questo quadro, riportare a casa i due Fucilieri di Marina. L’ordinanza annunciata apre la strada a questo risultato. Si tratta quindi di una buona notizia per i due militari, le loro famiglie e per le ragioni sostenute dal Governo e dai nostri legali. Il Governo conta su un atteggiamento costruttivo dell’India anche nelle fasi successive e di merito della controversia". "Procedimento lungo" - Aggiunge ancora il comunicato del ministero degli Esteri: "La decisione del Tribunale de L’Aja recepisce le considerazioni legali e di ordine umanitario derivanti dalla permanenza di Girone in India da oltre quattro anni e che avrebbe potuto prolungarsi per altri due o tre anni, tenuto conto della prevista durata del procedimento arbitrale. Il Governo avvierà immediatamente le consultazioni con l’India affinché siano in breve tempo definite e concordate le condizioni per dare seguito alla decisione del Tribunale arbitrale. E sottolinea che la decisione odierna del Tribunale relativa alle misure richieste dall’Italia in favore del Sergente Girone non influisce sul prosieguo del procedimento arbitrale, che dovrà definire se spetti all’Italia o all’India la giurisdizione sul caso della Enrica Lexie". Le reazioni e le polemiche - Cauta la reazione del padre di Girone, Michele: "Non so se è vero, ma se è vero sono molto contento, noi non abbiamo mai perso la fiducia". E arrivano anche le altre reazioni. Per la Presidente della Camera, Laura Boldrini: "È una notizia che aspettavamo da tempo, un risultato frutto, oltre che dell’impegno del Governo italiano, anche del Parlamento europeo che lo scorso gennaio ha approvato una risoluzione in cui è stato chiesto il rimpatrio considerando la detenzione come "una grave violazione dei diritti umani". "Tutta la Puglia gioisce per una notizia straordinaria, che è quella del ritorno a casa di Salvatore Girone" fa sapere il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Soddisfazione anche dal M5S, che non risparmia però una nota polemica: "Ci sono voluti quattro anni di ingiusta detenzione in India perché il fuciliere Salvatore Girone fosse restituito alla sua famiglia. È stato necessario un tribunale arbitrale istituito a L’Aja perché i suoi diritti umani fossero rispettati. In questo momento siamo felici per il rientro del Marò in Italia ma non dimentichiamo gli errori commessi dalla Farnesina nella gestione diplomatica di tutta questa vicenda". Parla di successo per il governo e il parlamento tutto, invece, il presidente della Commissione Affari esteri del Senato Pier Ferdinando Casini: "Non è solo un grande risultato ottenuto dal Governo ma da tutto il Parlamento, maggioranza e opposizione, che ha mostrato una straordinaria prova di coesione nazionale. Adesso la strada è intensificare la collaborazione diplomatica con l’India per risolvere il contenzioso ancora esistente". E ancora Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa al Senato: "Questo risultato è il frutto di una crescente credibilità internazionale del nostro Paese. Oggi ha vinto la giustizia e ha vinto l’Italia". L’Italia, la Libia e l’amico dell’Egitto di Paolo Mieli Corriere della Sera, 3 maggio 2016 A Tripoli sta emergendo un problema che si è già posto in Siria. Nell’impossibilità - a causa di vicende pregresse - di creare una salda e organica coalizione anti Isis, ci siamo visti costretti a combattere assieme a dei non alleati con i quali, a guerra conclusa, non è detto che tutto vada per il verso giusto. Cosa dobbiamo fare con Khalifa Haftar? Il settantatreenne generale fu a fianco di Gheddafi già nel 1969 (quando di anni ne aveva ventisei) al momento del colpo di Stato contro il re Idris al-Senussi. Con il "colonnello" rimase per decenni, fino al 1987, all’epoca della catastrofica campagna nel Ciad: qui, a conclusione della battaglia di Ouadi Doum, venne catturato assieme a trecento dei suoi soldati. Non si perse d’animo e, incoraggiato dai suoi carcerieri, mise su un drappello di duemila detenuti da impiegarsi in un golpe contro il rais di Tripoli. L’impresa non riuscì, Haftar in patria fu condannato a morte, ma, in compenso, fu autorizzato dagli Usa ad espatriare in Virginia. Lì restò dal 1990 al 2011 e gli fu concesso di diventare cittadino americano. Secondo molti all’epoca avrebbe vissuto a Langley e sarebbe stato arruolato dalla Cia. Probabile. Ma le amministrazioni statunitensi, fossero repubblicane o democratiche, non hanno mai puntato esplicitamente su di lui, neanche nella fase di maggior contrapposizione al regime gheddafiano. E i collaboratori di Obama hanno sempre smentito di aver avuto alcunché da spartire con Haftar. Tornato in Libia nel 2011, al momento della deposizione e dell’uccisione di Gheddafi, il generale non trovò una collocazione che gli si addicesse. Rientrò in America per poter poi essere di nuovo a Tripoli nel 2013 quando ottenne la protezione dell’egiziano Abdel Fattah Al Sisi, che aveva appena deposto il capo di Stato Morsi. Forte di questo appoggio, nel 2014 tentò, con l’"Operazione Dignità" di rovesciare il regime dei Fratelli musulmani impadronitisi di Tripoli. Fallì, ma le elezioni del 26 giugno 2014, nonostante molteplici irregolarità, punirono i suoi nemici islamici. Questi ultimi, tuttavia, rimasero al potere. Talché il Parlamento fu costretto a trasferirsi a Tobruk e Haftar ne divenne il difensore. È a quel Parlamento che adesso le Nazioni Unite si sono rivolte chiedendogli di dare luce verde al governo di pacificazione nazionale guidato da Fayez al-Serraj. Compagine, quella guidata da Serraj, che, accantonato il divisivo Haftar, dovrebbe condurre una guerra senza pietà contro le milizie Isis radicatesi a Sirte. Anche con il nostro concorso. Ma metà di quei deputati che due anni fa furono costretti a riparare a Tobruk non ne vuole sapere di questa prospettiva e resta fedele ad Haftar. Sostiene l’inviato dell’ Onu, il tedesco Martin Kobler, che al parlamento di Tobruk il quorum necessario per varare l’operazione Serraj sarebbe stato raggiunto il 26 febbraio, non fosse per una "minoranza chiassosa" che avrebbe intimidito buona parte dei parlamentari. Kobler in ogni caso garantisce che adesso il presidente Aguila Saleh è impegnato a favorire un voto corretto. Sarà. In attesa di questo "voto corretto", Serraj è costretto a starsene al riparo in una base navale tripolina mentre la Cirenaica di Haftar ottiene armi, batte moneta e inizia a vendere il suo petrolio. Le sue truppe hanno riconquistato Bengasi, assediano Adjabiya e puntano verso la capitale islamista, Sirte. Si sta creando una Libia cuscinetto sostenuta da Egitto, emirati arabi e, anche se non ufficialmente, dalla Francia che è già all’attacco contro la capitale libica dell’Isis, mentre la parte tripolina sotto la guida di Serraj, appoggiata da Italia, Gran Bretagna e Turchia, fatica a mettere in piedi un’offensiva di pari portata. Haftar, una volta espugnata Sirte, vorrebbe una sorta di secessione della Cirenaica. Separazione che lascerebbe il grosso delle milizie jihadiste e dei gruppi terroristici on Tripolitania, proprio di fronte all’Italia, prospettiva poco attraente per il nostro Paese. Per questo il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, gli ha chiesto di fermarsi e di unirsi agli sforzi della comunità internazionale per sostenere il nuovo governo. La risposta è stata che a Bengasi persone riconducibili al generale hanno bruciato in piazza bandiere italiane. E la cosa si è ripetuta a Tobruk. Anche il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha lasciato intendere di preferire che Sirte sia liberata da truppe del governo libico insediato dalle Nazioni Unite. Ma Haftar e con lui l’Egitto sono già all’attacco ed è singolare chieder loro di sospendere le operazioni contro Sirte in attesa che arrivino i nostri. È come se nella primavera del 1945 gli angloamericani avessero implorato i russi di ritardare la conquista di Berlino per dar tempo a loro di essere quantomeno presenti al momento della liberazione (nei fatti, furono i sovietici che pretesero e ottennero di arrivare per primi nella capitale tedesca). In Libia si sta creando un problema che si è già posto in Siria. Nell’impossibilità - a causa di vicende pregresse - di creare una salda e organica coalizione anti Isis, ci siamo visti costretti a combattere assieme a dei non alleati con i quali, a guerra conclusa, non è detto che tutto vada per il verso giusto. Già nel corso dello scontro, tra i nostri commilitoni di oggi si riescono a intravedere i nemici di domani. Fu in qualche modo lo stesso anche per la grande coalizione che nel ‘45 sconfisse la Germania hitleriana destinata a dividersi nella successiva guerra fredda. Niente di inedito o di sorprendente. Basta esserne consapevoli. Per quel che ci riguarda, anche a seguito della severa e più che giustificata condotta italiana nel caso Regeni, si configura un futuro non amichevole nei rapporti tra Italia ed Egitto. E la nostra richiesta ad Haftar, l’uomo degli egiziani, di fermarsi ad aspettarci prima di colpire al cuore la principale città libica di al-Baghdadi, rischia di apparire come qualcosa di più e di diverso da una normale istanza di coordinamento militare. Anche perché viene fatta con argomenti e toni non propriamente bonari. Mustafa Taghdi - il più importante negoziatore di parte tripolina per conto del Partito della giustizia e della costruzione (Fratelli musulmani) sostenitore di Serraj - ha pubblicamente definito Haftar "un criminale". A suo dire, nell’attacco a Derna, "il generale ha colpito i gruppi che avevano cacciato l’Isis" e provocato la morte di numerosi civili. Mustafa Taghdi ha promesso all’uomo di al-Sisi, una volta che la Libia sarà "democratica e giusta", di essere "incriminato e portato dinanzi alla Corte penale internazionale". Dove dovrà rispondere della colpa di avere "le mani sporche di sangue". Per quel che riguarda il suo destino, ha annunciato Taghdi, si può dire fin d’ora che "è segnato". Quanto a noi, siamo sicuri che Haftar meriti gran parte delle contestazioni mossegli da Taghdi e lo stesso discorso può valere per il suo grande protettore del Cairo. Come anche, però - e questo va messo bene in chiaro - per qualsiasi alleato siamo stati o saremo obbligati a sceglierci da quelle parti. Detto questo, invitarli a combattere sotto le bandiere dell’Onu annunciando che - a fine conflitto - li manderemo a processo per crimini di guerra e che la sentenza è già scritta, non sembra essere il modo migliore per guadagnare alleati stabili nella lotta contro il califfato. Egitto: assalti a lavoratori e giornalisti, gli spauracchi di al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 maggio 2016 Repressa la manifestazione del primo maggio. Raid contro il sindacato della stampa che reagisce con un sit-in a tempo indeterminato e chiede le dimissioni del ministro Ghaffar. Due testimoni all’Ap: la presunta banda criminale uccisa a sangue freddo. Da settimane la famiglia Abdel Fatah denuncia l’uccisione dei propri cari in quella che fu definita dal governo egiziano una sparatoria. Il 24 marzo cinque uomini sono stati uccisi dalla polizia al Cairo; poco dopo nella casa del presunto capobanda, Tarek Abdel Fatah, in realtà imbianchino, sono comparsi i documenti di Giulio Regeni. Per il Ministero degli Interni la prova della loro colpevolezza, versione mai accettata dalla procura di Roma. Ora a parlare sono due testimoni che avvalorano la tesi della famiglia degli uccisi e che spiegano le foto che già circolavano online: in un articolo del 27 aprile riportavamo delle immagini pubblicate sul sito Tahrir News, corpi crivellati di colpi ma con nessuna arma da fuoco al loro fianco. Un’esecuzione a sangue freddo, la definiscono le due fonti citate ieri dall’Associated Press: i 5 erano disarmati quando il loro minibus è stato circondato dalla polizia. Subito dopo i video delle telecamere di sorveglianza sono stati sequestrati ed è partita la pantomima del ritrovamento dei documenti di Giulio a casa della figlia di Tarek e moglie di un’altra vittima Ali: il Ministero degli Interni, dice Rasha all’Ap, "ha provato a coprire i propri misfatti uccidendo la mia famiglia". E, aggiunge, la sera del 25 gennaio quando Giulio scomparve non si trovavano a Dokki ma a Sharqiyya, a due ore di macchina dalla capitale. L’ennesima rivelazione giunge in un periodo caldo, tra il primo maggio e il 3: due date simboliche che in Egitto assumono un significato ancora più profondo. Se domenica si celebravano i lavoratori, oggi si celebra la Giornata Mondiale della libertà di stampa, due settori della società che più di altri subiscono la repressione del Cairo. E per noi italiani, come per gli egiziani che chiedono verità per Giulio, è impossibile non pensare alla scomparsa atroce del ricercatore che proprio dei sindacati indipendenti aveva fatto l’epicentro del proprio lavoro. Non a caso le manifestazioni e i concerti dei sindacati italiani domenica sono stati dedicati alla sua memoria. Dal 15 aprile l’Egitto ha assistito ad un’escalation di proteste e repressione governativa: sono 1.277 - dice il Front to Defend Egyptian Protesters - gli arrestati dal 15 al 27 aprile, tra cui Ahmed Abdallah, consulente della famiglia Regeni. E le violenze continuano: domenica il governo ha impedito a centinaia di lavoratori di prendere parte nella capitale all’assemblea per la festa dei lavoratori. Poco dopo nel mirino finiva il sindacato della stampa, luogo di ritrovo dei manifestanti: 60 poliziotti ne hanno attaccato la sede e arrestato due giornalisti, Amr Badr e Mahmoud El-Sakka, direttore e reporter dell’agenzia January Gate. Ieri la reazione ad un evento mai accaduto nei 75 anni di storia del sindacato: centinaia di avvocati, attivisti e giornalisti si sono ritrovati sul posto per protestare contro "il barbaro attacco" e indirre per domani un’assemblea generale. Nel mirino della stampa indipendente c’è il Ministero degli Interni e il suo uomo forte, Magdy Abdel Ghaffar: il sindacato ne ha chiesto ufficialmente le dimissioni e annunciato un sit-in a tempo indeterminato fino alla sua sostituzione. "Il sindacato ritiene che la gravità dell’aggressione, in violazione della costituzione e delle normative nazionali e internazionali [gli articoli 76 e 77 della costituzione egiziana vietano raid in qualsiasi sindacato], non può essere cancellata senza le dimissioni del ministro degli Interni - si legge in un comunicato - I giornalisti ritengono il presidente al-Sisi responsabile di un crimine senza precedenti, assalto palese alla libertà di stampa volto a impedire ai giornalisti di svelare i crimini del governo, omicidi, arresti e torture di migliaia di egiziani". Ghaffar non è una personalità qualsiasi: braccio destro del presidente, salvato dal rimpasto di governo un mese fa, è il pugno di ferro che gestisce arresti e sparizioni forzate, pratiche ormai istituzionalizzate. Ben diversa è la versione del Ministero che dice di aver seguito le procedure previste dalla legge, inviando la polizia su mandato della magistratura. Non una novità: da tempo il governo usa il sistema giudiziario come strumento di repressione, nascondendosi dietro una cortina di presunta legalità. Le stesse accuse mosse contro i due giornalisti rientrano nella legge anti-terrorismo varata da al-Sisi: "Incitamento alla violazione della legge sulle proteste e tentativo di destabilizzare il paese". A disturbare però i piani del governo sono gli altri sindacati (ingegneri, avvocati, medici), che ieri hanno garantito sostegno nel caso di procedure legali contro il Ministero. Le associazioni dei lavoratori egiziani restano centrali, come 6 anni fa, e il governo lo sa se invia la polizia a bloccare la manifestazione del primo maggio e nega il riconoscimento ufficiale ai sindacati indipendenti. Di ufficiale c’è solo il sindacato unico, l’Egyptian Trade Union Federation, 24 sindacati controllati dall’esecutivo e braccio della tentacolare struttura istituzionale. I movimenti dei lavoratori sono stati costola della rivoluzione con la loro legittima richiesta di uguaglianza socio-economica. E possono esserlo di nuovo: per questo da un anno nessun sindacato indipendente ha potuto registrarsi negli elenchi ufficiali e da marzo il Ministero degli Interni ha emesso una normativa che ne definisce illegittimi documenti e rapporti. Turchia: attacchi dell’Isis, ma Ankara reprime i lavoratori di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 maggio 2016 Oltre 200 arrestati e un morto a Istanbul durante le manifestazioni per il primo maggio. Kamikaze islamista uccide due poliziotti a Gaziantep. Mentre il sud est della Turchia veniva colpito da un’autobomba probabilmente fatta esplodere da una cellula dello Stato Islamico, le forze turche erano impegnate a reprimere le celebrazioni per il primo maggio a Istanbul. Per impedire ai manifestanti di raggiungere piazza Taksim, da sempre teatro della festa dei lavoratori e nel 2013 simbolo delle proteste contro le politiche antidemocratiche e neoliberiste dell’allora premier Erdogan, il governo ha dispiegato circa 24.500 poliziotti in tutta la città. Scene simili a quelle che resero famoso il parco Gezi: gas lacrimogeni e proiettili di gomma sparati contro la folla, un ferito e 207 arrestati. Ma soprattutto una vittima: un uomo di 57 anni è stato ucciso, riporta la Cnn turca, investito da un camion che portava un cannone ad acqua, da anni mezzo preferenziale per disperdere le manifestazioni di protesta. Poco lontano, in via Talimhane, la polizia attaccava il comizio di alcuni sindacati indipendenti, arrestando altri cinque manifestanti. "Alcuni gruppi illegali che volevano mettere in pericolo la pace e la sicurezza della nostra gente hanno tentato marce illegali e manifestazioni intorno a Taksim, con il pretesto delle celebrazioni del primo maggio", si è giustificato l’ufficio del governatore di Istanbul che ha aggiunto di aver arrestato oltre 200 persone e di aver confiscato Molotov, fuochi d’artificio e poster illegali. In migliaia hanno quindi raggiunto il distretto di Bakirkoy per poter comunque celebrare la giornata dei lavoratori. Anche lì però è arrivata la polizia che ha arrestato sostenitori dell’Hdp, il partito di sinistra pro-kurdo nel mirino del governo dell’Akp perché accusato di fare da portavoce del Partito Kurdo dei Lavoratori. È di pochi giorni fa la rissa scoppiata in parlamento durante la sessione della commissione costituzionale chiamata a discutere la controversa proposta di legge dell’Akp per sospendere l’immunità parlamentare ai deputati dell’Hdp: il Partito Democratico dei Popoli ha chiesto la fine della campagna anti-kurda a sud est, prima che pugni e calci prendessero il posto del dibattito. Fuori dalle aule parlamentari scontri ben più seri esplodevano a Istanbul tra giovani sostenitori del Pkk e la polizia, naturale reazione alle brutali operazioni militari contro la popolazione kurda, in atto dal luglio del 2015 e responsabile della morte di almeno 338 civili (dati della Human Rights Foundation of Turkey). E mentre Ankara si concentrava sulla repressione delle manifestazioni popolari, domenica un attentatore suicida si faceva esplodere a Gaziantep, città meridionale al confine con la Siria. Il bilancio è di due poliziotti uccisi e oltre 20 persone - tra cui civili - ferite. Nel mirino del kamikaze è finito il quartier generale della polizia che poco dopo ha arrestato alcuni sospetti membri dello Stato Islamico, considerato il responsabile dell’attacco. In particolare al padre del presunto attentatore è stato effettuato un test del Dna per verificare l’identità del kamikaze. L’uomo è stato poi identificato dalle impronte digitali: si tratterebbe di I. G, membro della cellula islamista "Ahmet Gunes". Durante la perquisizione della sua abitazione sono stati detenuti il padre, i fratelli e la moglie. E sempre domenica il Tak, Kurdistan Freedom Hawks, gruppo separatista kurdo un tempo affiliato al Pkk ma poi allontanatosi dal movimento del leader Ocalan, ha rivendicato l’attentato di Bursa del 27 aprile. La 23enne Eser Cali, membro del gruppo, è saltata in aria vicino alla Grande Moschea prima di raggiungere il suo obiettivo, ferendone 13 persone. Australia; iraniano si dà fuoco, da tre anni era rinchiuso in un Centro per rifugiati di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 3 maggio 2016 È accaduto nel luogo di detenzione di Nauru, un’isola sperduta a oltre 2 mila chilometri a nord ovest dell’Australia. Un’attesa infinita che ha portato Omid, un ventenne iraniano, a darsi fuoco per protestare contro le leggi che vietano anche ai richiedenti asilo di entrare in territorio australiano. La moglie denucia: "Cure mediche insufficienti". Partito alla ricerca di una nuova vita, Omid Masoumali, un rifugiato iraniano di 23 anni è riuscito a varcare il confine australiano per morire coperto di ustioni di terzo grado. Un’ironia della tragica sorte e delle leggi che anche dall’altra parte del mondo costringono migliaia di persone a rinunciare ai propri sogni e alla speranza di una vita migliore lontani da guerre e persecuzioni. L’ultimo viaggio. A 23 anni Omid Masoumali ha deciso di darsi fuoco. Un gesto dettato dalla disperazione. Partito nel 2012 dall’Iran, il giovane si è imbarcato per raggiungere l’Australia. Ma qui è rimasto vittima delle leggi stringenti del governo di Canberra. Come altre migliaia di persone che provano a raggiungere illegalmente il suolo australiano via mare, Omid è stato rinchiuso nel centro detentivo di Nauru, un’isola del Pacifico che riceve finanziamenti dall’Australia per "ospitare" migranti e rifugiati in attesa che siano trasferiti in paesi terzi o ricondotti nella terra d’origine. Lì Omid è rimasto per tre anni. Tra anni di incertezze, di sogni e rabbia fino al tragico epilogo. Senza cure. Secondo quanto riportato dai media locali, il giovane si è dato fuoco durante la visita di tre ispettori dell’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhr) giunti a Nauru da Canberra per verificare lo stato di detenzione dei richiedenti asilo. Inutili i tentativi di spegnere le fiamme che hanno avvolto velocemente il corpo dell’uomo. La moglie di Omid ha denunciato la mancanza di cure tempestive che avrebbero potuto salvare la vita del giovane. È lei infatti a raccontare alle testate australiane come il marito sia rimasto per due ore nel centro medico dell’isola senza esser visitato da un dottore e abbia sofferto dolori atroci per otto ore prima che gli venisse somministrata della morfina. Le condizioni di Omid sono apparse subito disperate. Dopo esser stato trasportato nell’ospedale di Brisbane con un’eliambulanza, il ragazzo iraniano è morto a causa delle ustioni presenti sull’80% del corpo. La legge australiana. Omid è solo l’ultima delle vittime che con gesti disperati cercano di portare alla luce il dramma dei rifugiati. Mentre in Europa si parla di costruire muri e limitare l’accesso di migranti e richiedenti, l’Australia ha escogitato un modo per risolvere il problema dei flussi migratori in costante crescita. Infatti, per fronteggiare l’aumento degli sbarchi di disperati, il governo di Canberra ha adottato una serie di procedure che comportano la detenzione di coloro che tentano di arrivare via mare in due centri costruiti fuori dalla frontiera australiana. Il primo, quello dove era recluso Omid è a Nauru, un’isola di 10 mila abitanti che negli anni ha fatto fortuna vendendo alla Gran Bretagna i diritti sulle ricche miniere di fosfati. L’isola di Nauru. Il campo di detenzione di Nauru è stato spesso al centro di denunce mosse da diverse organizzazioni non governative. "Come Amnesty sottolinea da anni - ha detto Patel Champa, consigliere di ricerca di Amnesty International per il Pacifico - il sistema [australiano]attuale è crudele e inumano. Abbiamo ricevuto segnalazioni di stupri, molestie sessuali e abusi fisici e psicologici avvenuti in questi centri. Quest’ultima vittima è solo l’esempio più recente di come l’Australia sta trattando alcune delle persone più vulnerabili del mondo". L’altra i sola di Manus. Il secondo campo di detenzione per rifugiati si trova nell’Isola di Manus in Papua Nuova Guinea. Lì ad oggi sono presenti circa 850 rifugiati e richiedenti asilo che per anni hanno atteso di conoscere il destino riservato loro dalla burocrazia australiana. Ma le costanti denunce di Ong e sentenze dei tribunali che riconoscevano l’irregolarità del centro di Manus hanno portato il presidente della Papua Nuova Guinea alla decisione annunciata il 27 aprile di chiudere definitivamente la struttura detentiva. "L’Australia - sottolinea Michael Garcia Bochenek di Human Rights Watch - ha rigettato i richiami internazionali e le conclusioni della Commissione per i diritti umani australiana che ha chiesto la fine delle detenzioni offshore di rifugiati e richiedenti asilo. La decisione del primo ministro O Neill di chiudere il centro di Manus dopo la sentenza del tribunale permette alla Papua Nuova Guinea di staccarsi dal famigerato regime di detenzione offshore dell’Australia. Ora, richiedenti asilo e rifugiati detenuti dovrebbero essere trasferiti in altri paesi - tra cui Australia - dove si potranno ricostruire le loro vite".