Prigioni storiche in vendita e detenuti in periferia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2016 Il piano di Cassa depositi e prestiti è stato recepito dal Ministero della giustizia. Vendere il carcere milanese di San Vittore, quello romano di Regina Coeli e quello napoletano di Poggioreale per costruirne delle nuove nelle periferie. Sarebbe questo il nuovo piano carcere proposto dalla Cassa Depositi e Prestiti e recepito con entusiasmo dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Spiega il Guardasigilli: "Il progetto comincia a prendere forma adesso e dopo le amministrative credo ci saranno anche le condizioni politiche per un confronto con le prossime amministrazioni locali. Non appena i nuovi sindaci si saranno insediati partiranno i colloqui". Come è nata l’idea del progetto? È fin troppo evidente che carceri assai antiche - San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più "moderno" Poggioreale realizzato nel 1914 - non possono rispondere alle attuali esigenze di una detenzione conforme ai parametri di legge. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono stati in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e un riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi. Già nel 2006 - con un protocollo di intesa tra il comune di Milano e il ministero della Giustizia - si era ipotizzato lo spostamento del carcere e la costruzione di una "cittadella giudiziaria" nell’estrema periferia. Ma c’era stato un problema: per vendere il carcere di San Vittore bisognava comunque ristrutturarlo e servivano circa 2,5 milioni di euro. Soldi mai trovati. Adesso ci si riprova con modalità diverse. Il ministro Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla "decarcerizzazione" ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di ridimensionare numericamente la popolazione carceraria-anche se ora di nuovo in aumento - e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte dí Strasburgo. Spiega il ministro della Giustizia: "Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dícotomia del dentro-fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto "di transizione", in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando". E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza della Cassa Depositi e Prestiti. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture, in cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. In questo modo la Cdp - alla quale andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i comuni e la conseguente ristrutturazione - potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche. Orlando comunque riassicura chi sospetta aria di privatizzazioni: "È del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestite dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante". La proposta di spostare le carceri in periferia ha sollevato un coro di no passando dalle Camere penali locali, i Radicali, fino ad alcuni sindacati di polizia penitenziaria. "Il carcere in centro è un valore per i detenuti, per gli operatori e per tutta la città", spiega Francesco Spadaro, candidato per la lista radicale milanese di Marco Cappato. Le carceri non sono, o non dovrebbero essere, un qualcosa di estraneo alla società. La storia ci racconta che l’avvicinamento delle prigioni nei centri cittadini ha costituito un momento significativo anche per l’evoluzione della disciplina legale. E infatti Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha commentato il nuovo piano carceri: "Bisogna usare cautela nello spostare un carcere dal centro della città alla periferia, perché spesso è successo di creare carceri-ghetto, abbandonate, mal servite, dove familiari e volontari vanno con difficoltà e si mettono a rischio i diritti delle persone". Mauro Palma: trasferire le vecchie prigioni sì, ma non in una periferia-deserto di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 31 maggio 2016 "Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?". Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti. "Le faccio un esempio che non c’entra con il carcere: a Roma c’è il Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo". Cosa conta per un carcere in periferia? "Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano, che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l’urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona". Quindi non boccia a priori il piano? "Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo". E dove porta questa strada? "Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva". In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio. "Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta: intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare". Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali. "Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio". E allora come li immagina? "Con una funzione sociale: una parte dedicata all’accoglienza, un’altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà". Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l’idea stessa del male? "Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il "rimosso" c’era". Per concludere: l’importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche "cattedrali nel deserto"? "Esatto. Tra l’altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri "tecnologiche" europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione". Mauro Palma: "prima di vendere le carceri ripensiamo il modello di pena" di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 maggio 2016 Il Garante nazionale dei detenuti commenta il progetto del ministero della Giustizia che prevede la vendita di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale, e la loro sostituzione con nuove strutture penitenziarie in periferia. "Prima di ragionare su quali spazi carcerari utilizzare, occorrerebbe riflettere su quale modello di esecuzione penale sia più utile per i detenuti". Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, commenta con il Foglio il discusso progetto del ministero della Giustizia - ancora in fase di gestazione ma svelato da Repubblica venerdì scorso - che prevede la vendita delle tre carceri storiche di Regina Coeli (Roma), San Vittore (Milano) e Poggioreale (Napoli), e la loro sostituzione con nuove strutture penitenziarie nella periferia delle città. Il piano, la cui esistenza è stata confermata dal ministro Andrea Orlando, mira a trasformare gli istituti carcerari italiani in strutture all’avanguardia, dove scontare la pena non costituisca più una punizione aggiuntiva in virtù del sovraffollamento carcerario (un problema negli ultimi anni certamente ridimensionatosi, anche se di recente si registra una preoccupante inversione di tendenza), e ha suscitato riflessioni contrastanti. "Sulla situazione carceraria non ci sono soluzioni già determinate - dice Palma - però ciò che va evitato è il concetto di ‘periferià in quanto tale, concettuale. Va evitato, cioè, che ci sia una rimozione del problema carcerario: il carcere deve rimanere un pezzo della città, sia concettualmente che fisicamente". A gestire dal punto di vista finanziario il progetto dovrebbe essere la Cassa depositi e prestiti, che si è già occupata di altre operazioni simili come la cessione di diverse caserme. Esso riguarderebbe inizialmente le tre carceri-simbolo Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale (costruiti tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso), ma potrebbe estendersi ad almeno una dozzina di penitenziari, sempre secondo lo schema, ancora piuttosto generale, di vendita e decentralizzazione. Si tenta insomma, come dichiarato dallo stesso Orlando, di "superare i moloch ottocenteschi", cioè strutture penitenziarie con costi di manutenzione altissimi e realizzate secondo logiche abitative che inducono, non solo al sovraffollamento (Poggioreale ospita 2.035 detenuti, nonostante la capienza regolamentare sia di 1.640; San Vittore 991 detenuti, per 750 posti; Regina Coeli 911 detenuti, contro 624 posti), ma anche alla passività degli stessi carcerati e all’annientamento della logica riabilitativa. Il punto su cui bisognerà porre l’attenzione, ribadisce Palma, è l’approccio di fondo: "Non è che vi sono degli spazi dati e su quelli dobbiamo costruire un modello di detenzione". Bisognerebbe, al contrario, "prima ragionare su quale modello di esecuzione penale vogliamo, e poi vedere in quali spazi organizzarla". Il ministro Orlando: sulla riconversione delle vecchie carceri decidano le città Agi, 31 maggio 2016 Per risolvere la questione sovraffollamento e riconvertire un patrimonio ormai vecchio "abbiamo dato la possibilità perché abbiamo bisogno di carceri concepite in maniera diversa: sta agli enti locali verificare se ci sono i presupposti e le indicazioni urbanistiche adatte". Lo ha detto il ministro della Giustizia Orlando, a margine di un convegno a Genova. "Questa è l’unica strada per riconvertire un patrimonio di istituti penitenziari che è stato costruito in un’altra stagione, con persone che parlavano stessa lingua e avevano la stessa religione. Questa ipotesi può valere per molte citta laddove sia utile: possono cambiare le modalità di finanziamento, ma quel che non può cambiare è che è la città che deve dire se si deve intervenire e cosa fare di quegli spazi che non servono più". Intanto il carcere di Genova resta uno dei carceri più sovraffollati del Nord Italia:" Abbiamo iniziato a ragionare su come alleggerire questa situazione anche in relazione col Piemonte che invece ha una percentuale più bassa di detenuti. Poi stiamo andando avanti anche con operazioni di rafforzamento del percorso della realizzazione del piano carceri, è prevista uno nuova struttura a Savona che permetterà di alleggerire Marassi e poi dobbiamo andare avanti con la strada che abbiamo intrapreso che è quella dello sviluppo delle pene alternative, aumento del numero dei rimpatri per i detenuti stranieri e attuazione dei protocolli che abbiamo firmato con gran parte delle regioni italiane affinché i tossicodipendenti possano scontare la pena in comunità. Cosa su cui torneremo alla carica nelle prossime settimane perché molte regioni hanno firmato i protocolli, ma in realtà hanno fatto abbastanza poco", ha concluso Orlando. Hiv, epatiti e tubercolosi in carcere: al via un monitoraggio sperimentale superabile.it, 31 maggio 2016 Diffusione più alta nei penitenziari che fuori dal carcere. Strumento pensato per operatori, associazioni e garanti, Scandurra (Antigone): stiamo cercando di individuare un target ristretto e utilizzare lo strumento su quattro o cinque istituti. L’avvio della sperimentazione nella seconda metà del 2016. Hiv, epatiti e tubercolosi più diffuse tra la popolazione detenuta che tra i liberi cittadini e per l’epatite C la diffusione è tre volte più alta all’interno dei penitenziari che fuori. Che le carceri (non solo italiane, ma di tutto il mondo) siano ambienti dove il rischio di trasmissione di queste patologie è più alto non è una novità, tuttavia ad oggi non è facile avere un quadro nazionale dello stato di salute dei detenuti. Ad affermarlo è Alessio Scandurra, dell’associazione Antigone, tra i curatori di un report realizzato con il supporto della Direzione generale Giustizia dell’Unione europea e coordinato da Harm Reduction International in cui sono raccolti gli ultimi dati disponibili a livello nazionale . Uno studio che è parte di un progetto più ampio promosso proprio da Harm Reduction International che ha messo a punto un nuovo strumento per il monitoraggio dell’Hiv, dell’epatite C, della tubercolosi e delle politiche di riduzione del danno nelle carceri. Ad oggi, si legge nel report, al 7,4 per cento dei detenuti è stata diagnosticata una infezione da epatite C, al 2 per cento una infezione da Hiv ed al 0,6 per cento da tubercolosi, quando in Italia, al di fuori degli istituti di pena, queste percentuali sono rispettivamente attorno al 2 per cento per l’epatite C, allo 0,2 per cento per l’Hiv ed inferiore allo 0,01 per cento per quanto riguarda la tubercolosi. I dati, in realtà, sono quelli raccolti dall’Agenzia regionale di sanità della Toscana e pubblicati nell’aprile del 2015. Tuttavia, ad oggi restano ancora i più aggiornati, nonostante il rischio per la salute dei detenuti e di quanti lavorano negli ambienti non siano da sottovalutare. Gli ultimi dati provenienti dall’amministrazione penitenziaria, infatti, sono fermi al 2009. "Finché la sanità penitenziaria era al ministero della Giustizia era facile avere un quadro nazionale delle condizioni di salute dei detenuti - spiega Scandurra -. Passata alle Asl, ora è diventato più difficile avere un quadro nazionale. Non esiste ancora un sistema che elabori centralmente i dati". La ricerca condotta dalla regione Toscana, tuttavia, ha coinvolto un campione significativo di detenuti, oltre 15 mila e sono dati che confermano "quello che già si sapeva - continua Scandurra, che cioè l’incidenza di queste patologie è particolarmente elevata. Come conseguenza, il carcere diventa un posto pericoloso dal punto di vista della diffusione di queste malattie perché c’è una percentuale di popolazione malata elevata e poi è un luogo pericoloso in generale, dove gli standard igienici non sono quelli che ci sono in un ospedale, ad esempio, e la promiscuità, la vita densa che si fa in carcere è un elemento di rischio non comune". I dati raccolti dalla regione Toscana, inoltre, parlano di detenuti transgender come i più colpiti sia dall’epatite C che dalla B (12,8 per cento e 6,4 per cento rispettivamente). Analizzando i dati per fascia d’età, i detenuti tra i 30 e i 49 anni risultati quelli maggiormente colpiti dalle epatiti, ma ci sono dati "allarmanti" anche per i detenuti con età inferiore ai 30 anni, dove l’epatite B è al 17,2 per cento. Per quanto riguarda i tassi di infezione da Hiv, invece, l’Italia è in linea con gli altri paesi dell’Europa occidentale e anche in questo caso, i detenuti transgender sono i più colpiti. Tra i diversi fattori che determinano questa maggiore diffusione c’è l’uso delle droghe per via iniettiva, ma anche un difficile rapporto con i servizi territoriali. "La popolazione detenuta - spiega Scandurra, da un punto di vista sanitario è una popolazione particolare perché hai un’alta concentrazione di persone che in precedenza hanno intercettato poco i servizi sanitari territoriali. L’uso di droghe iniettive, poi, è un comportamento ad alto rischio per epatite e Hiv, per cui si sa che è una popolazione critica da questo punto di vista". Da parte del Dap e dei servizi, però, l’attenzione a questo tipo di problematica è elevata. "Tradizionalmente c’è attenzione da parte dell’amministrazione penitenziaria perché sono malattie che rappresentano un rischio sia per i territori quando esci dal carcere, ma ancora di più per i detenuti e chi ci lavora - aggiunge Scandurra. Mentre nel mondo dove viviamo nessuno si preoccupa della tubercolosi perché ha tassi di diffusione bassissimi, il carcere è una realtà dove da sempre la tubercolosi è un tema, perché si sa che c’è un tasso di diffusione diverso. Da noi come altrove, da sempre si fa non solo terapia, ma anche prevenzione". Il punto, spiega Scandurra, è capire la qualità e la capillarità degli interventi e lo strumento a cui ha lavorato, tra gli altri, anche Antigone vuole fornire un supporto soprattutto a quanti si occupano della tutela dei diritti dei detenuti. "Lo strumento vorrebbe aiutare in questa direzione e capire quali servizi ciascuna Asl mette in campo su questi temi - aggiunge Scandurra. I protocolli, il livello di informazione di operatori e detenuti. Tra chi si occupa della tutela delle persone detenute, quello della salute è un grande tema, rispetto al quale però non sono attrezzati, non ci sono competenze sanitarie, e questo strumento è stato pensato per essere a disposizione di associazioni, garanti locali, regionali e nazionale. Noi faremo delle sperimentazioni e stiamo cercando di individuare un target ristretto e utilizzare lo strumento su quattro o cinque istituti nella seconda metà del 2016. Ora si tratta di promuoverlo". Il Papa ai cappellani delle carceri: difendete la dignità dei detenuti La Stampa, 31 maggio 2016 Il messaggio del Pontefice, a firma del segretario di Stato Parolin, inviato ai partecipanti all’incontro europeo che si tiene oggi e domani presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo. Papa Francesco assicura "a tutti coloro che sono al servizio delle comunità carcerarie la sua solidarietà nella preghiera e la sua profonda gratitudine per i loro sforzi nel difendere la dignità umana di tutti coloro che si trovano in carcere". È quanto si legge nel messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, inviato dal Pontefice ai partecipanti dell’incontro europeo dei cappellani carcerari, dal titolo "Radicalizzazione nelle carceri: una visione pastorale", che si tiene oggi e domani presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo. Allo stesso modo, il Papa "ringrazia anche i cappellani carcerari per assistere i detenuti nel celebrare l’Anno Giubilare della Misericordia fruttuosamente: "Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà". (Lettera con la quale si concede l’indulgenza in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 1 settembre 2015)". "Insieme a un apprezzamento rivolto al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, alla Commissione Internazionale della Pastorale nelle Carceri e alla Missione Permanente della Santa Sede per aver organizzato questo importante evento, il Santo Padre invia il suo cordiale saluto a tutti i partecipanti", si legge ancora nel messaggio. "Con questi sentimenti - conclude il testo, Papa Francesco invoca di cuore su di voi e su tutti coloro che sono riuniti con voi le benedizioni divine della pace e della gioia". Enrico Zucca, il pm della Diaz: "un pool per i diritti umani nelle procure italiane" di Marco Preve La Repubblica, 31 maggio 2016 "L’Anm parla di Costituzione ma è del tutto assente dal dibattito sulla tortura". "Abbiamo dei pool che si occupano di reati ambientali, incidenti sul lavoro, corruzione. Credo sia giunta l’ora che nelle procure vengano creati dei pool dedicati alle violazioni dei diritti umani". La proposta, che arriva all’interno di un’articolata riflessione sul tema, arriva da Enrico Zucca, oggi sostituto in procura generale ma per lunghi anni pm del processo per le violenze e i falsi alla scuola Diaz del G8 2001. Zucca ha lanciato la proposta nel corso della presentazione del libro "Per uno Stato che non tortura" edizioni Mimesis che raccoglie gli scritti di sociologi, psicologi, giornalisti. A Zucca sono affidate le conclusioni e sollecitato anche dal precedente intervento dell’avvocato Emanuele Tambuscio uno dei legali del Genoa Legal Forum sottolinea come "Nonostante sia autonoma e indipendente in alcuni casi la magistratura che indaga su ausi delle forze dell’ordine si è dimostrata in contiguità con gli indagati". Quindi una bordata all’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati. "E poi va ricordato come la magistratura associata sia totalmente assente dal dibattito sulla tortura. Eppure non si sottrae, legittimamente, alle discussioni sui temi più disparati, ultimo quello sul referendum Costituzionale. Però della tortura non parla". Nel corso del convegno lo stesso Zucca ha ripercorso la storia "rallentata" della legge sulla tortura, ferma in Parlamento. Ha ricordato come l’attuale formulazione oltre a tenere fuori dal reato alcuni comportamenti verificatisi proprio nel G8 di Genova alla Diaz e Bolzaneto, preveda tempi di prescrizione non in linea con le direttive europee. "Perché si è scelta questa strada? Su richiesta di chi? Nell’interesse di chi?" chiede Zucca. Ha anche stigmatizzato il fatto che nella proposta di legge firmata da Roberto Giachetti attuale candidato sindaco di Roma vengano citati i fatti di Abu Ghraib "Ma neppure un cenno a Diaz e Bolzaneto. Sempre la tortura degli altri, mai quella di casa nostra. Perché?" Va ricordato come sulla legge in discussione sia da tempo calato il silenzio, in primis quello del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che non ha mai neppure risposto a chi gli chiedeva conto dell’opportunità di delegare ad occuparsi della legge il sottosegretario Cosimo Ferri, fratello di Filippo, uno dei funzionari condannati per i falsi della Diaz che coprirono le torture e che sono costati la condanna dell’Italia da parte della Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2015, proprio per l’ignavia con cui il tema tortura è stato trattato dallo Stato. Riforma della prescrizione, la soluzione resta lontana Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2016 L’allungamento dei tempi di prescrizione proposto dai relatori Pd nel ddl sul processo penale in commissione Giustizia al Senato sembra destinato ad arenarsi. Nessun subemendamento è arrivato ieri, alla scadenza dei termini, da Area popolare (Ncd-Udc). "Non emendiamo ipotesi personali", spiegano fonti centriste, richiamando la presa di distanza giunta subito dopo la presentazione dell’emendamento dal presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda, che aveva parlato di "ipotesi personali". A gettare acqua sul fuoco era intervenuto anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, preoccupato che imprudenti fughe in avanti possano far saltare l’intera riforma. L’emendamento della discordia - che fa decorrere la prescrizione da quando scattano le indagini e la fa interrompere dopo la sentenza di primo grado - ha già perso in corsa la firma di uno dei due relatori (Luigi Cucca) e resta sottoscritto dal solo Felice Casson. Ieri, alla scadenza dei termini, i subemendamenti ai due emendamenti dei relatori sulla prescrizione sono stati 46: 23 del M5S, 9 di Forza Italia, 5 dei Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto, 4 del Misto, 2 del Pd, due delle Autonomie e uno dei verdiniani di Ala. Tutta la partita è stata comunque rinviata a dopo le amministrative. Perché nella maggioranza c’è aria di tregua, non di accordo. Il Nuovo Centrodestra continua a chiedere che il testo di riferimento sia quello varato dal Consiglio dei ministri, senza il raddoppio della prescrizione per i reati di corruzione introdotto alla Camera e con uno stop al decorso scaglionato per ogni grado di giudizio, comunque mai eccessivo. Il Pd ragiona su possibili soluzioni alternative. Scelta civica incalza, con Andrea Mazziotti che definisce il dibattito "stucchevole" e invita a chiudere sul testo di Montecitorio. È Orlando, di nuovo, a ricordare l’obiettivo finale: "Entro l’estate ci sarà l’approvazione complessiva della legge che vede solo in uno degli oltre 40 articoli il tema della prescrizione: in ballo c’è di più". I magistrati al lavoro e l’infermiera di Piombino di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 maggio 2016 Quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare in Italia a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive. Il neopresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo sostiene che la magistratura italiana, malgrado le apparenze e le interminabili ferie che ne allietano le estati, lavori più dei colleghi sparsi in tutti gli angoli del mondo. Chissà se nel conteggio finale, a corroborare questa ardita tesi, debbano essere anche incluse le ore, i giorni, le settimane (poche) che i giudici del Riesame di Livorno hanno dovuto adoperare per smontare le ore, i giorni, le settimane (moltissime) con cui la Procura aveva motivato un’accusa terribile nei confronti di un’infermiera di Piombino, indicata, con il concorso del sistema corrivo dei media, come una sterminatrice di 13 anziani (anzi 14). Avessero lavorato qualche ora di più, magari avrebbero tenuto conto di tutte le valutazioni con cui il Riesame ha considerato inconsistenti gli indizi a carico dell’infermiera. Magari l’infermiera non sarebbe stata additata al pubblico ludibrio come un’acclarata assassina seriale prima che un processo regolare ne confermasse l’innocenza, costituzionalmente tutelata fino a sentenza definitiva ma irrisa come una favoletta da tutti i forcaioli d’Italia che in questi anni hanno demolito le fondamenta stesse dello Stato di diritto. Magari le analisi scientifiche avrebbero potuto scagionare chi in pochi giorni ha dovuto subire il processo con condanna incorporata di un’opinione pubblica affamata di mostri. Ed ha subito l’onta e l’angoscia di una carcerazione preventiva usata in Italia con una frequenza da record (questo sì), magari impegnando con un lavoro inutile e supplementare l’attività della polizia penitenziaria. Sono conteggiate, nel calcolo suggerito dal dottor Davigo, anche tutte le pratiche giudiziarie che finiscono regolarmente nel nulla, che vengono indicate all’opinione pubblica con grande dispendio di strumenti comunicativi e che poi si perdono, tutte le mega-inchieste, le super-inchieste che non riescono a cavare un ragno dal buco. Quanto lavoro, quante ore da aggiungere alla diuturna attività dei magistrati italiani presi da Davigo come un modello mondiale di produttività e di abnegazione. E quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive. Errori fisiologici? O non piuttosto, la smania di apparire, di avere un ruolo da protagonisti, di giocare di concerto con i media? Anche a costo di costruire mostri che mostri non erano. Altra assoluzione per Claudio Marchiandi, nuova sconfitta per la famiglia Cucchi di Pina Sereni Il Tempo, 31 maggio 2016 La prima sezione penale della Corte d’Appello di Roma ha nuovamente assolto (con la formula perché il fatto non sussiste) Claudio Marchiandi, il funzionario del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, coinvolto nell’inchiesta legata alla morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato per droga il 16 ottobre del 2009 e deceduto sei giorni dopo mentre era ricoverato nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Erano già stati definitivamente assolti anche tre agenti della polizia penitenziaria, tre infermieri del Pertini e un medico. Per Marchiandi questo era il secondo processo d’appello: condannato a due anni nel 2012 in abbreviato dal gup Rosalba Liso per falso ideologico, abuso d’ufficio e favoreggiamento personale, il funzionario del Prap venne assolto nel giudizio di secondo grado l’anno successivo. Sentenza poi annullata nel 2014 dalla Cassazione che ordinò un nuovo processo. Secondo l’originaria impostazione accusatoria, ribadita anche oggi in udienza dal sostituto procuratore generale Eugenio Rubolino che ha chiesto la stessa condanna decisa in primo grado, Marchiandi si sarebbe attivato, contribuendo ad alterare la cartella clinica, per far ricoverare Cucchi in una struttura protetta "da orecchie e occhi indiscreti", per coprire di fatto gli autori di chi lo aveva pestato, pur sapendo che un paziente come lui che presentava patologie non stabilizzate non dovesse essere trasferito al Pertini. Alla Corte, presieduta da Andrea Calabria, è bastata un’ora scarsa di camera di consiglio per recepire le argomentazioni dell’avvocato Oliviero De Carolis, difensore dell’imputato, secondo cui la prima sentenza di appello che assolveva Marchiandi era "pienamente coerente e in linea con le assoluzioni definitive, certificate dalla Cassazione, degli agenti di polizia penitenziaria, cui era stato inizialmente attribuito il pestaggio di Cucchi, dei tre infermieri e di uno dei medici in servizio al Pertini". Tutto ciò per dire che la tesi del complotto, di cui avrebbe fatto parte il funzionario del Prap per tenere nascosti i responsabili del pestaggio di Cucchi, "era già venuta meno". E che era tutto da dimostrare che Marchiandi fosse consapevole delle reali condizioni di salute di Cucchi quando arrivò al Pertini. Per l’imputato il procuratore generale Eugenio Rubolino aveva chiesto la condanna a due anni. La decisione fu annullata dalla Corte d’Appello che mandò assolto l’imputato. Da qui il ricorso in Cassazione. Nel 2014 la Cassazione annullò la sentenza disponendo un altro giudizio d’appello, concluso ora con la piena assoluzione perché il fatto contestato non sussiste. Un nuovo carcere o carceri nuove? questo è il dilemma di Michele Passione (Avvocato penalista) Corriere Fiorentino, 31 maggio 2016 Caro direttore, la notizia di sabato, circa il piano del governo di vendere carceri situate in centri storici (Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale), ha scatenato una ridda di commenti. Dal 2010 al 2014 ho fatto parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali e ho visitato 45 tra carceri, Cie e Opg. Nel dicembre 2015, quale componente del Tavolo 13 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, ho preso parte alla visita di due carceri danesi, uno situato in città, a Copenaghen, l’altro in un’isola, Ringe, a circa due ore dalla capitale. Queste brevi riflessioni, dunque, nascono da una lunga esperienza sul campo. Come si sa, il progetto annunciato dal Ministro è quello di favorire la detenzione in "luoghi di transizione", aperti verso il rientro nel contesto sociale. Secondo il Ministro, che ha subito precisato come sia "del tutto avveniristico pensare a carceri di proprietà e gestiti da privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti", aggiungendo di essere "contrario alla privatizzazione, per via dei vincoli costituzionali sulla esecuzione della pena, che non può essere delegata a un altro soggetto", un nuovo carcere presuppone carceri nuove. Va da sé che laddove dovessero essere "liberati" spazi urbani (lo stesso tema si pone da anni a proposito del futuro della splendida villa Medicea che ospita l’Opg di Montelupo Fiorentino) essi dovrebbero essere restituiti alla collettività, attraverso forme di (co)housing sociale, e non per finalità turistico alberghiere. Ciò detto, appare utile segnalare che nel 2011, nel decreto Salva Italia, è stato inserito l’articolo 43, che prevede la possibilità di affidamento ai privati dell’edilizia carceraria (con finanziamento ad opera di fondazioni bancarie per almeno il 20 per cento) e la gestione dei servizi necessari alle infrastrutture per almeno 20 anni (project financing); è quanto si sta realizzando a Bolzano. Occorre riconoscere, come ha rilevato il Garante nazionale, che "l’istituto deve comunque essere parte della città, collegato strutturalmente e concettualmente". E la cosa indispensabile è far sì che la detenzione si svolga nel pieno rispetto della dignità dell’Uomo (si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti), assicurando a chi è privato della libertà personale l’esercizio di tutti i diritti (anche quello all’affettività) uti cives, consentendo così di riflettere (quanto meno per i condannati in via definitiva) sul disvalore del proprio agito, recuperando una progettualità e rifuggendo da logiche infantilizzanti. Al contempo, però, è necessario considerare come il carcere odierno si regga sempre più sull’apporto di esterni, senza i quali cesserebbe la propria funzione. Esistono carceri, tutt’oggi, collocati in lande desolate, ove per familiari, volontari, avvocati è difficilissimo arrivare e il detenuto è abbandonato a se stesso; penso a San Gimignano, spostata dal centro dell’incantevole cittadina, e poi edificata in una valle sperduta, violentando la campagna. Penso a Sollicciano, che nessun autobus cittadino raggiunge e che nessun cartello stradale indica, quasi a volerlo allontanare dallo sguardo dei cittadini, così come accade per il limitrofo "Solliccianino", istituto a custodia attenuata ove di sera rientrano anche i semiliberi, con buona pace degli orari cui sono soggetti. Come si vede non appare possibile pensare che il carcere costituisca un mondo a parte, perché ci appartiene, appartiene all’idea che nessuno è escluso per sempre, che non esiste un dentro e un fuori, che occorre abbattere pregiudizi, muri, stigmi, creare ponti, e mettere in relazione mondi altrimenti distinti e distanti. Occorre ripensare al concetto stesso di città, che non perpetui la dicotomia centro/periferia, spostando a margine ciò che il centro non vuole, garantendo viceversa un rapporto biunivoco e virtuoso tra spazi e tempi del vivere urbano. Per quanto riguarda il tema che ci occupa, infine, pare perfino superfluo ricordare (ed i numeri sulla recidiva, duri come il marmo, lo dimostrano da anni, senza tema di smentita) come piuttosto che pensare a nuovi carceri serva lavorare per una presa in carico territoriale, affidando alla comunità, e al nuovo dipartimento, le tante persone che ancora oggi si trovano recluse, favorendone il pieno reinserimento sociale. Verona: detenuto muore suicida nel carcere di Montorio di Maurizio Mazzi Ristretti Orizzonti, 31 maggio 2016 Venerdì 27 maggio si è impiccato in carcere il sig. Gianluca Brunelli molto conosciuto da alcuni soci dell’Associazione La Fraternità e dal Gruppo famiglie, da fra Beppe e fra Angelo. Io non lo conoscevo ma ho ricevuto il 22.03.2016 la richiesta da parte della direzione del carcere di poterlo inserire in attività di volontariato nel canile sanitario. Il servizio veterinario, dopo alcune mail di chiarimento susseguitesi nei giorni successivi per definire l’orario di servizio, ha dato l’assenso il 22.04.2016. dopodiché silenzio. Io ho avuto la notizia oggi dal cappellano, fra Angelo, che costernato ne ha dato comunicazione a messa in terza sezione. Roma: De Lillo (Roma Popolare) "convertire Regina Coeli con project financing" romadailynews.it, 31 maggio 2016 "Vogliamo consegnare ai romani e ai turisti Regina Coeli, per poterlo vivere e renderlo un luogo degno di trovarsi nel cuore della città più bella del mondo. Al contempo vogliamo che Roma si doti di una casa circondariale moderna, dove i detenuti possano lavorare e dare un contributo alla società, una struttura più adatta a rispondere alle finalità educative della pena. Con strutture adeguate per la foresteria e accoglienza". Con queste parole Stefano De Lillo, portavoce e capolista di Roma Popolare - per Marchini sindaco, lancia la proposta di riqualificare l’antico carcere di Regina Coeli (edificio risalente al 1654, inizialmente un convento e convertito all’uso attuale nel 1881) cambiandone la destinazione d’uso. "Questo centro, come altri obsoleti presenti in diverse città d’Italia, evidenzia notevoli problemi strutturali. Potrebbe contenere solo 624 detenuti, oggi ne sono ospitati circa 900. Ma il numero oscilla costantemente, nel recente passato si è toccata anche quota 1.200 detenuti. E ogni anno costa decine e decine di migliaia di euro di manutenzione straordinaria - osserva De Lillo proponendo di attuare la riqualificazione attraverso un project financing -. Vogliamo chiudere e trasferire fuori dal Gra il carcere di Regina Coeli. E vogliamo farlo a costo zero. Chiederemo agli imprenditori di realizzare nel centro di Roma, al posto dell’attuale carcere, un albergo e un centro congressi, un polo artistico-culturale, nonché un museo sulla ‘Bellezza di Romà. È questa una delle nostre sfide: mettere in mostra le bellezze che offre al mondo la città eterna trasformando quello che da decenni è un luogo di reclusione e di patimento. Del resto a Roma non esiste ad oggi un museo sulla storia dell’Urbe, dalla sua fondazione ai giorni d’oggi. Per quanto riguarda il sottosuolo sarà invece possibile la realizzazione di un parking interrato all’avanguardia. Il project financing - conclude De Lillo - impegnerà inoltre gli imprenditori nella realizzazione come opera a scomputo di una casa circondariale moderna, ben servita dalle infrastrutture, dotata di laboratori in cui apprendere e perfezionare arti e mestieri e di una foresteria per i familiari. Un luogo, insomma, dove i detenuti possano vivere in modo più dignitoso". Genova: "pronto, qui Marassi"; un call center in cella, il carcere si fa azienda con i privati di Erica Manna La Repubblica, 31 maggio 2016 E il Ministero vende anche le Case Rosse. Il progetto prevede laboratori anche all’esterno, attraverso il micro-credito. Ieri, per la prima volta sono stati i detenuti a dire la loro alle istituzioni. Le imprese private entrano in carcere. Per investire, per dare lavoro: ai detenuti. È un piano ambizioso eppure molto concreto, quello che sta mettendo in campo la casa circondariale di Marassi. L’incontro tra gli imprenditori, i vertici della casa circondariale e il terzo settore è in programma dopo l’estate. Ma sul tavolo ci sono già due progetti pronti: il primo è la nascita di un call center dentro il carcere per un’azienda privata. A essere impiegati saranno proprio i detenuti: che lavoreranno come telefonisti in una sala dedicata. E poi, un laboratorio per riparare biciclette. "L’idea è di un imprenditore genovese titolare di un’azienda a Milano, che sta costituendo una fondazione per formare i detenuti - spiega Maria Milano, neodirettore della casa circondariale di Marassi - il primo gruppo è già stato individuato: saranno in sette. All’inizio lavoreranno all’interno del carcere. Ma il progetto prevede laboratori anche all’esterno, in un’ottica di reinserimento sociale attraverso il micro-credito". Mentre al Ministero della Giustizia si studia un nuovo modello carcerario, e prende corpo l’idea del ministro Andrea Orlando di vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi, anche le strutture genovesi sarebbero sotto la lente di ingrandimento di via Arenula. Ma in attesa di un progetto unico a livello nazionale, a Marassi - dove il sovraffollamento è ormai cronico, con 651 detenuti a fronte di una capienza di 400 posti - si fanno le prove di una "rivoluzione culturale", come spiega Maria Milano: che ha messo in atto un primo restyling del carcere impiegando anche i detenuti a ripitturare i muri. "Abbiamo dieci progetti di riqualificazione della struttura penitenziaria che saranno finanziati dalla Cassa delle Ammende - precisa Milano - rifaremo le docce e l’area verde". L’obiettivo, "creare un ambiente decoroso e pulito, presupposto indispensabile di qualsiasi operazione di reinserimento". Ieri, per la prima volta sono stati i detenuti, a dire la loro alle istituzioni: sono saliti sul palco del Teatro dell’Arca all’interno di Marassi all’incontro "Aiutati che il ciel ti aiuta?", organizzato da Cineclub Nickelodeon, Comunità di Sant’Egidio, Ceis, Cvx/Lms Liguria, Teatro Necessario, Centro di Solidarietà della Compagnia delle Opere. Per ragionare di reinserimento sociale e autoaiuto, e del ruolo delle istituzioni. Con l’assessore alla Legalità Elena Fiorini che ha lanciato una proposta: "Anni fa esisteva il Comitato carcere e città che dialogava su questi temi: ripristiniamo un dialogo permanente sul tema carcere, perché non venga percepito come un luogo lontano dalla città, spersonalizzato". "Pensare di compiere un’opera di riabilitazione con la maggior parte dei detenuti è certo un’utopia. Eppure è proprio perseguendo questa utopia che riusciamo ad andare avanti - sottolinea il direttore Maria Milano - il presupposto però è un carcere dignitoso e pulito. Bisogna infrangere un cliché purtroppo radicato nell’opinione pubblica: quello secondo cui migliorare le condizioni di vita in carcere sia uno scandalo, perché i detenuti devono scontare una pena. Ma questo non significa certo che debbano vivere in un girone infernale!". Ecco, allora, che uno dei primi atti della nuova gestione è stato, appunto, ripulire la struttura: "Abbiamo cominciato dall’igienizzazione - racconta Milano - una mano di bianco, i vetri rotti riparati, i materassi e i guanciali più rovinati sostituiti. Tutte attività svolte dalle persone detenute coordinate dal personale di Polizia penitenziaria. Per veicolare anche un altro messaggio: gli agenti fanno parte di un unico corpo che lavora nella stessa direzione". A Marassi, al momento sono attivi i progetti di lavori all’esterno, come la pulitura del cimitero di Staglieno in collaborazione con il Comune, e poi i laboratori di teatro, una panetteria, il centro cottura, la falegnameria, la fabbrica delle magliette, i programmi di reinserimento in comunità, come quelle di Trasta e Fassolo. Nella Comunità di Trasta di Ceis, a Cà dei Trenta, adesso vive Luca. Che ieri è tornato in carcere per la prima volta: da uomo libero. "Non ho avuto una vita da persona libera per cinque anni - racconta, gli occhi bassi e la voce malferma - ora sono in reinserimento. Per dire che ce l’ho fatta è presto. Non è facile: questa è un’occasione importante, ma devi riuscire a coglierla. Fare un grosso lavoro su te stesso, non pensare al fuori. E non avere fretta, perché tutto subito non arriva. Sei lì, ti relazioni con venti, trenta sconosciuti. Dici di te cose pesanti, che non hai mai confessato nemmeno ai tuoi genitori, e questi sconosciuti diventano fratelli. Ma per farcela, deve scattare qualcosa". Poi c’è Tonino, che ora ha iniziato una borsa lavoro, "devo ricominciare tutto da capo", e ha tenuto il conto: "Sono sobrio da 4 anni e quasi 3 mesi. Il legame tra dipendenza e reati? È forte. Per me fondamentale è aver smesso di bere. Vi consiglio questo: se avete necessità, chiedete una mano. Solo così si riesce a uscirne fuori". Salerno: all’Icatt di Eboli sport e solidarietà di Rita Romano (direttrice dell’Icatt di Eboli) Ristretti Orizzonti, 31 maggio 2016 Lo sport come modello per educare ad una vita sana ed equilibrata e quale strumento di integrazione fa ingresso all’Icatt di Eboli. L’emozionante giornata realizzata dall’Associazione "Banzai" dentro le mura del castello Colonna che ospita la Casa di Reclusione di Eboli ha visto coinvolti tutti i detenuti che hanno preso parte all’evento con grande entusiasmo e gratitudine. Nel corso dello stesso gli ospiti dell’Icatt si sono sentiti pienamente partecipi e coinvolti grazie soprattutto alla partecipazione dei "piccoli campioni" che si sono esibiti in una dimostrazione di arti marziali esaltandone i caratteri essenziali ed i valori su cui le stesse si fondano quali l’autodisciplina, l’equilibrio e la conoscenza di se stessi, la rettitudine e la riconoscenza, la lealtà e la spontaneità. Particolarmente apprezzata dagli ospiti dell’Icatt la partecipazione dei fratelli Nigro. Fausto ed Angelo, rispettivamente Campione del Mondo Full Contact categoria medio-massimi (1994) Wkf (Word Kickboxing Federation) imbattuto e campione del Mondo Semi Contact categoria medio-massimi (2009) Wkf (Word Kickboxing Federation) nonché campione di Karate, hanno voluto far sentire, con questo evento, la loro vicinanza a chi pur trovandosi a scontare una pena per gli errori commessi non deve sentirsi abbandonato da quella parte della società che è riuscita con impegno e sacrificio ad ottenere risultati e soddisfazioni, dimostrando che gli stessi non sono preclusi a quanti vogliono impegnarsi nella vita ed altrettanta disciplina ed abnegazione. A loro il grazie della Direzione per aver voluto dimostrare che l’Icatt non è realtà avulsa dal territorio ma, al contrario, perfettamente integrata nel contesto con cui opera e grazie al quale può realizzare numerose iniziative in favore dei propri ospiti. Ancona: il carcere attuale e quello possibile, un viaggio nell’universo carcerario marchenotizie.info, 31 maggio 2016 Un convegno ha riflettuto sulla riforma del sistema sanzionatorio e sulla depenalizzazione dei reati. Un viaggio nell’universo carcerario, tra presente e futuro possibile, passando obbligatoriamente per la riforma del sistema sanzionatorio, anche attraverso l’imprescindibile attenzione ai cambiamenti che caratterizzano il contesto socio economico. È quello proposto nel corso del convegno "Dei Delitti e delle Pene", organizzato ad Ancona dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, con la collaborazione della Camera penale di Ancona e del Coordinamento delle Camere penali marchigiane, nonché il patrocinio di Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Consiglio e Regione Marche. Una nuova frontiera, una prospettiva "illuminata", tanto per restare a Cesare Beccaria, che nei due giorni di dibattito ha esaminato proposte e progetti in corso d’opera. La riforma del sistema sanzionatorio - Aprendo la seconda giornata dedicata alla riforma del sistema sanzionatorio, Nobili ha sottolineato come il convegno faccia seguito alla conclusione degli "Stati Generali dell’esecuzione penale", iniziativa di grande rilevanza voluta dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "L’intento - ha proseguito - è quello di pensare una dimensione della pena più vicina ai dettami della Costituzione e agli standard europei, che punti al reale reinserimento dei detenuti nella società ed alla concretizzazione di una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi è ristretto e per chi ci lavora. Occorre fare il possibile per ricordare a tutti che il carcere è parte della società, con la consapevolezza che se quest’ultima offre un’opportunità ed una speranza alle persone che ha legittimamente condannato, si dà anche la prospettiva di diventare migliore". Per il Presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, la riforma del sistema sanzionatorio "è un’esigenza etica non eludibile, ma anche parte essenziale della soluzione del problema più generale, soprattutto in tempo di crisi. Carceri affollate, pene sproporzionate, limitate garanzie per gli imputati, tempi processuali spropositati, problematiche del reinserimento nella società, sono questioni di civiltà da affrontare in maniera specifica e attraverso un forte investimento pubblico". Da parte di Mastrovincenzo anche un richiamo alla depenalizzazione dei reati minori, agli spazi e alle opportunità per la effettiva rieducazione e il recupero dei condannati. Eppoi una ricognizione di quanto c’è da fare nelle Marche: "Il sistema carcerario regionale deve risolvere diverse criticità. Il Consiglio regionale si è fatto portavoce di esigenze e proposte di soluzione, approvando una specifica mozione che ho presentato personalmente, dopo le visite nei penitenziari organizzante dal Garante. Aspettiamo risposte dal Governo nazionale. Nello stesso tempo cercheremo di rendere possibili il rifinanziamento della legge regionale 28 del 2008 per garantire la continuità delle attività trattamentali". Stati generali e riforma del sistema sanzionatorio - Doverosamente al centro dell’attenzione i risultati degli "Stati generali dell’esecuzione penale", un percorso di riflessione ed approfondimento, con l’apertura di 18 tavoli tematici e la partecipazione di oltre 200 esperti, concretizzato con l’obiettivo di portare al centro dell’attenzione la questione della pena e della sua attuazione e procedere verso una sostanziale modifica dell’attuale legislazione in materia, risalente al ‘75. Le tematiche dell’insicurezza sociale e dell’informazione nell’intervento di Glauco Giostra, coordinatore per il comitato scientifico degli "Stati generali", che ha evidenziato la necessità di educare la collettività ad una diversa cultura della pena, costituzionalmente orientata: "Se non viene ribaltato il concetto che tutto si può risolvere limitando i diritti dei condannati ed aumentando le stesse pene, ogni riforma può correre il rischio di essere vanificata". Per Santi Consolo, Capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, per costruire il carcere del futuro occorre "confrontarsi con tutte le energie positive, attivare una programmazione corretta e nuovi investimenti". Tra i settori più delicati, quello dei minori. Francesco Cascini Capo del dipartimento giustizia minorile e di comunità, intervenuto in videoconferenza, si è soffermato soprattutto sulla percezione della pena da parte dell’opinione pubblica e sulla filosofia alla base del sistema penitenziario. Del carcere attuale e di quello possibile si è parlato, invece, nella prima giornata del convegno, coordinata da Fernando Piazzolla della Camera penale di Ancona. Interventi dedicati alla situazione generale degli istituti penitenziari, all’esecuzione penale nel contesto europeo, al legame tra carcere e multiculturalismo, ai problemi direttamente legati alla salute dei detenuti. Apertura del dibattito con il Vicepresidente del Consiglio regionale, Renato Claudio Minardi che ha annunciato la presentazione di una proposta di legge, nella quale si prevede l’esonero dal pagamento della tassa regionale per il diritto allo studio. La fotografia della situazione carceraria è stata fornita dal Presidente dell’associazione "Antigone", Patrizio Gonnella, mentre il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, ha richiamato l’attenzione sulla qualità della vita in carcere, sui diritti dei detenuti e sulla necessità di nuove figure professionali. Tra gli interventi quello di Donato Antonio Telesca, ispettore capo della Polizia penitenziaria, che ha affrontato il tema della multiculturalità e dell’identità islamica nelle carceri. Parma: "Leggere in libertà" e il teatro del Regio arrivano in carcere: parmadaily.it, 31 maggio 2016 Protocollo d’intesa tra Comune e Istituto Penitenziario. Il Comune di Parma - Servizio Sistema Bibliotecario - ha sottoscritto un Protocollo d’intesa con l’Istituto Penitenziario di Parma, che discende dal più ampio accordo tra il Ministero della Giustizia, l’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) e l’AIB (Associazione Italiana Biblioteche), per promuovere per il biennio 2016-2018 un progetto finalizzato a riorganizzare e rinnovare le biblioteche dell’Istituto Penitenziario di Parma e a dar vita ad un rapporto di collaborazione stretto e duraturo tra Biblioteche Comunali e il carcere di Parma. Nel contempo anche il Teatro Regio, con la rappresentazione "Trame di Rigoletto", ha fatto il debutto dentro le mura dell’Istituto Penitenziario di Parma. Entrambe le iniziative sono state presentate insieme in sala di rappresentanza del Municipio dal sindaco Federico Pizzarotti insieme al viceministro Gennaro Migliore. Presenti al tavolo anche Carlo Berdini, direttore degli istituti penitenziari di Parma, Anna Maria Meo, direttore del Teatro Regio e Laura Maria Ferraris, assessore alla cultura. "Il carcere - ha esordito Federico Pizzarotti - è una città nella città, troppo spesso dimenticata. Noi da sempre ci prestiamo attenzione e cerchiamo di essere vicini sia a chi sconta una pena sia agli operatori che spesso lavorano in condizioni difficili. Con iniziative come queste il dialogo fra carcere e città diventa concreto". "Apprezzo molto lo spirito collaborativo fra istituzioni - ha affermato Gennaro Migliore - oggi in carcere abbiamo goduto una rappresentazione molto bella grazie al Teatro Regio, è stata una grande dimostrazione di attenzione all’esistenza di una struttura che definisco come "grande rimosso dalla società" e sarà utilissima per ricostruire legami sociali e fare uscire le persone meno pericolose di quando sono entrate. Il tempo trascorso in carcere - ha continuato il viceministro - serve a dare maggiore sicurezza fuori dalle mura del penitenziario, perché rende umana la pena e riduce il rischio di recidiva, soprattutto se si innescano percorsi di dialogo, di formazione e di possibili futuri inserimenti lavorativi". Anna Maria Meo ha ricordato "il ruolo sociale che il Teatro Regio intende rivestire, e il carcere ne è un luogo fondamentale". Piena soddisfazione è stata espressa anche dal direttore Carlo Berdini, mentre l’assessore Laura Maria Ferraris ha ricordato che "il Teatro è un bene comune al servizio della collettività", ed ha sottolineato la passione e l’attenzione con cui il mondo bibliotecario del Comune di Parma sta realizzando un progetto che riscuote notevole apprezzamento. Leggere in libertà - Con il progetto "Leggere in libertà" il Comune e l’Istituto penitenziario di Parma intendono perseguire un progetto formativo e rieducativo duraturo finalizzato alla crescita dell’individuo in condizione di detenzione, alla creazione di un legame tra quest’ultimo e la società esterna e alla formazione professionale dei detenuti stessi. Il progetto, curato dal personale della Biblioteca Civica, ha avuto avvio a fine aprile 2016 e si articola in tre fasi principali: un corso di formazione in biblioteconomia rivolto ad un gruppo selezionato di detenuti delle sezioni di media e alta sicurezza; lo sviluppo delle raccolte interne attraverso donazioni da parte delle Biblioteche Comunali e l’estensione del prestito inter-bibliotecario alle biblioteche carcerarie. L’attività formativa, a cura di Giovanni Galli e Silvia Piancastelli, è stata preceduta dall’installazione di un software per consentire la catalogazione e la gestione dei prestiti all’interno delle due biblioteche, una situata all’interno della sezione di media sicurezza l’altra in quella dell’alta sicurezza. Il corso, della durata di due mesi, vede impegnati due gruppi di cinque detenuti per sezione, con cadenza settimanale, cui vengono trasferite competenze e metodologie (formazione raccolte, acquisto selezione e scarto volumi, gestione informatica di una biblioteca, attività di catalogazione e prestito) necessarie a ricoprire il ruolo di bibliotecari all’interno del carcere stesso. Dopo la fine del corso i ‘nuovi bibliotecarì continueranno comunque ad essere affiancati da personale esperto delle Biblioteche comunali. Nella seconda fase del progetto l’attenzione è rivolta alla costruzione di nuove raccolte e all’implementazione di quelle preesistenti all’interno delle due biblioteche carcerarie, così da incrementare il patrimonio librario/documentario presente, offrendo ai detenuti, anche a gruppi linguistici minoritari e persone con ridotte capacità visive, una valida opportunità per informarsi, studiare e coltivare i propri interessi personali. Il materiale librario presente nelle biblioteche del carcere si arricchirà di opere generali, di documentazione giuridica e legale, narrativa e saggistica di recente pubblicazione, poesia, fumetti e testi di supporto alle attività scolastiche che si svolgono all’interno dell’Istituto penitenziario. Le Biblioteche comunali Civica e Internazionale Ilaria Alpi, che stanno contribuendo in modo significativo alla realizzazione del progetto, si sono già attivate per donare alle biblioteche carcerarie materiale aggiornato e in ottimo stato proveniente da donazioni, dall’acquisto di testi nuovi, grazie anche al contributo di associazioni e privati. Infine, la terza fase si concretizza nell’attivazione e nella promozione del prestito inter-bibliotecario attraverso cui si è reso fruibile, e accessibile al prestito interno al carcere, l’intero patrimonio librario delle biblioteche comunali, mettendo a disposizione dei detenuti registri cartacei, bollettini delle novità e bibliografie tematiche per far conoscere la disponibilità e la varietà di volumi presenti all’interno delle Biblioteche comunali. Per arricchire ulteriormente di significato il progetto "Leggere in libertà", accrescendone il valore, il Sistema Bibliotecario del Comune di Parma ha indetto un avviso pubblico, con scadenza il prossimo 18 giugno, rivolto a tutte le realtà culturali ed economiche (pubbliche o private) territoriali interessate a partecipare fattivamente alle iniziative di promozione della lettura all’interno del carcere, promuovendo attività o contribuendo con donazioni. Trame di Rigoletto - Nell’ambito del Protocollo d’intesa recentemente siglato, il Teatro Regio di Parma inaugura la collaborazione con gli Istituti Penitenziari di Parma con Trame di Rigoletto, uno speciale concerto-spettacolo, un’inedita e originale riscrittura di una delle opere più amate e popolari di Giuseppe Verdi, andato in scena lunedì 30 maggio 2016 alle ore 13.30 nel teatro degli Istituti penitenziari. L’attore Bruno Stori, che firma la drammaturgia dello spettacolo, rievoca la tragica storia di Rigoletto e di sua figlia Gilda, lasciando spazio ai brani più celebri dell’opera interpretati dal soprano Giovanna Iacobellis (Gilda), dal tenore Raffaele Abete (Il Duca) e dal baritono Luis Choi (Rigoletto), accompagnati al pianoforte da Kayoko Ikeda. Oltre 70 i detenuti che hanno assitito allo spettacolo nell’auditorium degli Istituti Penitenziari di Parma, alla presenza del Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, in visita al carcere di Parma dopo la conclusione degli Stati generali della Giustizia che hanno avviato un processo di rinnovamento del sistema penitenziario voluto dal Governo. Trame di Rigoletto inaugura la collaborazione tra gli Istituti penitenziari di Parma e la Fondazione Teatro Regio di Parma, che hanno recentemente firmato un protocollo d’intesa per l’elaborazione di progetti e attività rieducative e formative che possano concorrere al reinserimento sociale e professionale dei detenuti coinvolti in percorsi di approfondimento, laboratori creativi, seminari e attività didattiche legati ai mestieri del Teatro e al mondo dell’Opera, pensati e condivisi dal direttore della Fondazione Teatro Regio di Parma Anna Maria Meo e dal direttore del carcere Carlo Berdini, con la collaborazione del Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri. Napoli: Mazzotta (Radicali); è ora di cambiare, la reclusione non sempre è la risposta Il Mattino, 31 maggio 2016 "Nonostante il grande impegno del direttore Guerriero e del personale, la nostra giustizia continua a essere ammalata come gli ammalati richiusi nel carcere di Secondigliano. Qui ne abbiamo trovati con tumori e che devono attendere anche 6-8 mesi per ima tac, perché se il sistema sanitario delle Asl non funziona fuori, figuriamoci dentro. È, tra l’altro, inconcepibile tenere un detenuto attaccato alla bombola d’ossigeno in cella, sono casi evidentemente incompatibili con la reclusione". Così ha commentato a caldo, ieri mattina, Luigi Mazzotta, presidente dell’associazione "Per la Grande Napoli" e membro del comitato nazionale di Radicali italiani, all’uscita dell’istituto di via Roma verso Scampia dopo ima visita ispettiva con il senatore Luigi Compagna (Conservatori e Riformisti). Quest’ultimo, co-presentatore del ddl Pannella, ha sottolineato la necessità di un cambio di direzione amori te per risolvere il problema sovraffollamento. "Secondigliano certamente non è Poggioreale, è un carcere più decongestionato, c’è più spazio - ha detto Compagna, ma se non ci sarà un provvedimento di svuotamento delle carceri, la riforma è preclusa". Poi ha spiegato meglio: "Servo-no amnistia e indulto, che diventano condizioni ineludibili per una vera riforma della giustizia, Ricordo sì gli abusi negli anni passati, quando amnistia e indulto erano addirittura due per ogni legislatura". Quasi 1.500 detenuti, compresi i semiliberi, di cui 900 in regime di alta sicurezza, su una capienza regolamentare di 898 posti, il centro penitenziario di Secondigliano, pochi giorni fa intitolato a Pasquale Mandato, con i suoi 40 ettari è uno degli istituti di pena più grandi d’Italia. "Amnistia, indulto, legalizzazione delle droghe leggere, abrogazione della custodia cautelare sono necessari - ha ribadito Mazzotta. Sì a pene alternative attraverso educatori, assistenti sociali e psicologi". Napoli: per il Governo il carcere a Nola come succursale di Poggioreale ilgiornalelocale.it, 31 maggio 2016 Carcere a Nola come succursale di Poggioreale. È questo il quadro che sta emergendo sul piano carceri del Governo. La struttura penitenziaria che dovrà sorgere nella zona di Boscofangone dovrebbe andare a sopperire alla chiusura di Poggioreale, carcere che, come è filtrato nei giorni scorsi, sarebbe destinato alla vendita ed alla chiusura. Poggioreale, così come San Vittore e Regina Coeli, infatti, sarebbero avviati verso la soppressione e gli edifici che li ospitano, tutti palazzi storici, alla vendita ed alla destinazione turistica. La volontà di imprimere questa svolta al piano carceri è stata espressa dallo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando, che punta sulla delocalizzazione con costruzione dei nuovi penitenziari "di provincia". A Nola, per esempio, dovrà essere costruito un carcere da massimo 1500 posti: praticamente la maggior parte dei detenuti di Poggioreale (oggi se ne contano circa 2mila). Su questo progetto non mancano polemiche anche se è ancora in fase embrionale e nuovi sviluppi si conosceranno solo da metà giugno. Dubbiosi i sindacati e le associazioni che da anni operano a Poggioreale, che non vedono di buon occhio per famiglie, avvocati e gli stessi detenuti uno spostamento "in periferia" di un carcere così importante. Ma reazioni si attendono anche a Nola. Qui all’inizio si era parlato di carcere "non di massima sicurezza" che ospitasse 900 detenuti "non pericolosi" (lo disse lo stesso sindaco Biancardi nel consiglio comunale di avvio del secondo mandato): ora spunta l’ipotesi di una struttura penitenziaria che sostituisca in tutto Poggioreale che di certo non è un carcere "minore" ed ospita detenuti con reati e grado di pericolosità diverso. Lanciano (Ch): detenuto aggredisce un’infermiera, insorge la Uil abruzzolive.it, 31 maggio 2016 Nella tarda mattinata del 26 maggio un detenuto di origini pugliesi ristretto nel carcere di Lanciano ha aggredito un’ infermiera del servizio di medicina penitenziaria colpendola con un violentissimo schiaffo tanto che la stessa è dovuta ricorrere alle cure del pronto soccorso con una prognosi di 15 giorni. La notizia è stata resa nota dal segretario provinciale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Ruggero Di Giovanni. "Per motivi in corso di accertamenti il detenuto, già noto per la sua indole particolarmente violenta - scrive il sindacalista in una nota - si è scagliato contro l’infermiera senza dare alcun segnale che potesse presagire l’insano gesto; tanto che il sovrintendente e l’assistente presenti, operando con il coraggio e la professionalità che da sempre contraddistingue la Polizia Penitenziaria, si sono dovuti frapporre fisicamente tra il detenuto e l’operatrice sanitaria per evitare ulteriori e più gravi conseguenze. Il problema sicurezza è noto, ma a tutt’oggi non ci risulta che siano stati adottati provvedimenti idonei a tutelare i lavoratori che operano nell’istituto penitenziario frentano. Non vorremmo che con la recente istituzione di un nuovo provveditorato a Roma, che adesso dirige gli istituti di Lazio-Abruzzo e Molise, i problemi degli istituti vengano risolti in maniera inversamente proporzionale all’aumentata distanza dai centri di ‘poterè; è ormai evidente che quei detenuti che ‘non sono ancora pronti al regime apertò sono di difficilissima gestione tanto che, come più volte la Uil-Pa ha lamentato, viene messa a rischio la sicurezza dei lavoratori, che siano essi poliziotti o altri operatori penitenziari". Per Di Giovanni "È ormai indiscutibile la necessità di prevedere, al momento del trasferimento/assegnazione, l’associazione di questa particolare tipologia di detenuti ad istituti attrezzati per la loro corretta gestione e che piaccia o meno il carcere di Lanciano al momento non può gestire questa tipologia di ristretti. È quasi superfluo ricordare che l’organico di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Lanciano è del tutto inadeguato alle necessità dell’istituto; la Uil-Pa Polizia Penitenziaria - prosegue il segretario provinciale - torna a chiedere l’avvio dei lavori di riorganizzazione del lavoro, riorganizzazione indispensabile per fronteggiare la carenza di Poliziotti Penitenziari, le mutate modalità di gestione dei detenuti ed il continuo distogliere agenti dal servizio d’istituto operato dalla direzione; la sicurezza dei lavoratori - conclude Di Giovanni - non può e non deve passare in secondo piano rispetto agli altri obiettivi dell’amministrazione penitenziaria". Augusta (Sr): detenuti e studenti in scena con "Povero Piero" di Achille Campanile siracusanews.it, 31 maggio 2016 Si è svolta ieri mattina la prima rappresentazione della commedia di Achille Campanile "Il povero Piero" portato in scena da detenuti della casa di reclusione e da studenti del liceo Arancio Ruiz nell’ambito di un progetto di tutela della legalità giunto al suo sesto anno consecutivo. Molteplici le finalità, arte, integrazione, rapporto con il territorio. Dopo la prima alla quale hanno assistito duecento studenti del liceo Arangio Ruiz accompagnati dagli insegnanti, si terranno altre tre repliche che avranno come spettatori, autorità cittadine militari e civili, attori dell’Inda, rappresentanti dei club service, associazioni, comuni cittadini, che avranno modo oltre che di assistere alla commedia, di ascoltate le riflessioni degli studenti, che, dopo essersi accostati alla realtà del carcere timidamente e a volte con timore, hanno stretto legami ed hanno creato con gli "altri " attori un sodalizio prima che artistico, umano. Il valore sociale dell’iniziativa è stato poi sottolineato dal regista Davide Sbrogiò e dai tutor il Professor Cannarella e le Professoresse Lisi e Baffo che, nell’occasione hanno anche espresso un doveroso quanto sentito ricordo di Giorgio Albertazzi recentemente scomparso. Da parte della direzione della casa di reclusione si sottolinea come il teatro sia diventato un elemento del trattamento risocializzante particolarmente importante, incluso tra le attività che contribuiscono alla realizzazione della personalità del detenuto. La cultura ed il teatro nel contesto del carcere rappresentano, come ricorda il direttore della casa di reclusione Antonio Gelardi nella sua presentazione, una sorta di isole galleggianti, quelle che non cambiano il mondo ma possono cambiare chi le pratica. Ed è questo l’auspicio che si fa e la finalità dell’iniziativa realizzata da parte della scuola e dell’istituto penitenziario nell’ambito di un progetto di educazione alla legalità. Migranti. Dalla "governance" è nato il caos, la Fortezza Ue al guinzaglio turco di Guido Viale Il Manifesto, 31 maggio 2016 Cresce nella governance dell’Unione lo stato confusionale sul problema dei profughi, e non solo. Otto anni di austerity non hanno dato ai cittadini europei nessuno dei risultati promessi, ma i suoi fautori non possono ammetterlo: così si barcamenano tra "flessibilità", sforamenti dei deficit e moneta facile senza ottenere il minimo effetto su occupazione, redditi, investimenti. Anche l’altalena di dichiarazioni e smentite sulle richieste alla Grecia è prova di confusione: vorrebbero strangolarla, ma non vanno a fondo per paura, con la minaccia del Brexit alle porte, di innescare fughe a valanga. Ma otto anni di austerity hanno reso un problema insolubile, in un continente che perde tre milioni di abitanti all’anno, anche l’arrivo di un milione di profughi: tanti quanti erano i "migranti economici" che arrivavano ogni anno in Europa. E si sistemavano, prima che i cordoni della borsa venissero stretti con il fiscal compact. Ma il campanello di allarme sono state le elezioni austriache. L’elettorato si è spaccato: metà per i respingimenti, metà per l’accoglienza. Con i due partiti che avevano governato il paese per settant’anni dissolti nello spazio di pochi mesi. In questo esito i partiti che, insieme o alternandosi, hanno governato finora i rispettivi paesi e l’Unione, impediti a schierarsi con gli uni, per non esserne divorati, e incapaci di dare una risposta agli altri, per la ristrettezza mentale che li divora, hanno letto il proprio futuro. Così si cercano di barcamenarsi anche su questo terreno, mentre migliaia di profughi continuano a morire, a perdersi, a soffrire. Angela Merkel si è adoperata per imporre un accordo con la Turchia che dovrebbe liberare la Germania e i suoi vassalli dall’"incubo dei profughi" lungo la rotta dei Balcani. Ma accortasi che Erdogan la teneva ormai al guinzaglio, ha accennato a una marcia indietro. Lo stesso ha fatto Schulz, dichiarando che l’Unione non abolirà mai i visti di ingresso finché la Turchia non rispetterà "tutte" le regole della democrazia (ma non ne sta rispettando nessuna); in compenso è sicuro che i profughi rispediti a Erdogan sono trattati molto bene (lo avrebbe constatato di persona, in una visita ad hoc). Alfano progetta hot spot galleggianti per rispedire subito in Libia i naufraghi raccolti in mare, proprio mentre è evidente che in Libia, come in tutti gli Stati africani con cui sono stati conclusi o si vuol concludere accordi di rimpatrio, quei profughi vengono massacrati, torturati e rapinati in ogni modo. Il tutto sullo sfondo dello "strepitoso" (parole sue) migration compact messo a punto da Renzi, che non propone altro che l’estensione del vacillante accordo con la Turchia a tutti i paesi di origine o transito dei profughi in arrivo dall’Africa; a un costo dieci volte superiore a quello che i governi dell’Ue già rifiutano di pagare alla Turchia; mentre nessuno accetta di rilocalizzare i profughi sbarcati in Grecia e in Italia, contando di scaricare sui due paesi il peso dei nuovi arrivi presenti e futuri. È ora di dire che la questione dei profughi non è un’emergenza; ma non, come sostiene Renzi, perché il numero degli sbarchi di quest’anno non è eccezionale (ma lo è il numero dei morti, che già era intollerabile gli anni scorsi). Ma, al contrario, perché non è un fenomeno temporaneo, ma è destinato a durare per decenni con pari se non maggiore intensità. Ma non è un problema italiano; riguarda tutta l’Unione europea. Che o si attrezza per accogliere tutti i nuovi arrivati, senza distinguere tra profughi e migranti economici, per inserirli nel tessuto sociale e nel sistema economico con una svolta di 360 gradi nelle politiche fiscali, e imboccando definitivamente la strada della conversione ecologica; oppure si dissolverà insieme ai partiti che l’hanno governata finora, spalancando la strada alle forze che vogliono trasformarla non solo in una fortezza verso l’esterno, ma anche in una caserma all’interno. Oppure alle forze, ancora tutte da costruire, da raccogliere intorno alle migliaia di volontari che hanno capito l’importanza della posta in gioco, e che sanno che alle politiche di accoglienza non ci sono alternative; perché i respingimenti sono sì un crimine contro l’umanità, ma sono anche impraticabili. I migranti e il conto tragico della storia di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2016 Per affrontare i flussi migratori bisogna capire il problema. Se il Mediterraneo continuerà a essere una tomba liquida dei profughi la colpa non sarà soltanto delle guerre e delle disastrose condizioni dei Paesi africani e del Medio Oriente. Questa è una parte della storia, al momento preponderante, ma non è tutta la storia. È una questione politica e di sicurezza che investe tutta l’Europa e l’Occidente, Stati Uniti e Nato compresi. La tragedia ha la misura devastante di un conflitto di portata epocale che rimanda non solo a cifre ma anche a dimensioni umanitarie che non si vedevano dalla seconda guerra mondiale, con una violenza enorme esercitata su esseri umani indifesi. Questa non è soltanto una fuga dalle guerre e dalla povertà: è il conto che ci presenta il fallimento della redistribuzione delle ricchezze a livello globale, è l’ingiustizia mondiale che bussa alle porte di casa. Sigillata la rotta balcanica, dal Sud arrivano gli africani: tra il 2010 e il 2015 ne sono sbarcati due milioni con un incremento del 10% rispetto ai cinque anni precedenti. Da dove vengono? Da un continente che è un sorta di rebus demografico ed economico. Da qui al 2050 la popolazione potrebbe raddoppiare raggiungendo i 2,4 miliardi di persone prima di assestarsi nel 2100 intorno ai quattro miliardi. Queste proiezioni dell’Onu sconvolgono le prospettive di sviluppo. Il rapporto dell’African Development Bank prevede che il tasso medio di crescita del Pil quest’anno si manterrà intorno al 4,5 per cento. A prima vista una performance notevole ma se si guarda al Pil pro capite la crescita scende all’1,6% nell’Africa subsahariana, dove oltre alla povertà si estende la destabilizzazione del terrorismo islamico e una violenza urbana diffusa. Non basta la missione Eunavfor, non sono sufficienti le dichiarazioni del presidente della Commissione europea Juncker sugli Stati che non collaborano alla redistribuzione dei profughi e le reprimende all’Italia. "Non riesco a credere che un continente come l’Europa di 500 milioni di abitanti non sia in grado di accogliere 2 milioni di profughi", ha detto qualche giorno fa. Eppure è così che stanno le cose, anzi peggio, perché i numeri potranno essere a breve molto più alti. Cosa vogliamo fare? L’anno scorso in Italia sbarcarono 150mila profughi, i luoghi di accoglienza sono sottodimensionati e lo stesso quadro legislativo non è adeguato, soprattutto quando sono i minori ad arrivare, sempre di più: un aumento del 170% rispetto all’anno scorso. Ci dobbiamo mettere a regime per affrontare la gestione di migliaia di persone ma anche l’Unione europea non può continuare a voltare la testa dall’altra parte. Non siamo di fronte a un’emergenza, anche se ne ha tutte le caratteristiche, ma a una crisi di lungo periodo e non illudiamoci che si possa esportare domattina lo sviluppo per limitare le migrazioni: è un’idea vecchia, balzana quasi quanto l’export della democrazia con la guerra di Bush junior. L’Africa, 54 nazioni, conta per meno del 2% del commercio mondiale e per l’uno per cento della produzione industriale globale. Se vogliamo sostenere gli africani abbassiamo i dazi sulle importazioni, il che significa dare più del fondo fiduciario da 1,8 miliardi proposto al vertice di Malta, in discussione a Bruxelles con il migration compact italiano. Se si sono varate risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu per fare la guerra a destra e manca, formando nel tempo coalizioni di "volonterosi" per abbattere questo o quel regime, si dovrebbe costituire anche una "grande alleanza umanitaria". Serve un summit operativo sulle migrazioni al quale devono partecipare anche la Nato, gli Usa e gli alleati dell’Occidente, Onu inclusa, dove i leader escano con impegni precisi: chi si rifiuta deve essere colpito da sanzioni non da procedure che fanno ridere i polli. I Paesi dell’Est sono i più riottosi: smettano di chiedere di spostare la Nato per contrastare la Russia e pensino alla vera emergenza che abbiamo di fronte. E non bisogna storcere troppo il naso quando i libici di Tripoli si mostrano disponibili a rimettere in vigore l’accordo del 2009 con l’Italia: si è negoziato con Erdogan, bisogna farlo con la Libia se si vuole fermare i traffici umani. Francesi, egiziani, Emirati, sostengono il generale Khalifa Haftar in concorrenza con il governo di Tripoli che boicottano costantemente: si prendano dunque le loro responsabilità anche per i morti in mare. Una rilievo geografico che è pure politico: i migranti non muoiono soltanto nel Canale di Sicilia ma anche sulle coste libiche. Affermare che le tragedie avvengono sempre nel Canale di Sicilia appare strumentale a circoscrivere il dramma e a darne una connotazione locale: l’Europa e gli Stati Uniti, con la loro potenza militare ed economica, devono capire che questa non è la nostra vasca da bagno dove affogano essere umani. Per il governo la vera sfida è sul nodo immigrazione di Massimo Franco Corriere della Sera, 31 maggio 2016 Nel Pd continua la guerra fredda, ma il governo accredita una rimonta in vista delle Amministrative di domenica. Tra maggioranza di Matteo Renzi e minoranza le tensioni rimangono alte: sebbene più per il referendum istituzionale di ottobre che per il voto nelle grandi città. Il tentativo è di proiettare lo scontro oltre quelle elezioni; se è possibile, di rimandarlo al futuro congresso del partito. Ma non è chiaro se a mobilitare gli avversari interni del premier a favore dei candidati sindaci sia la convinzione che tanto la vera battaglia sarà quella referendaria. Sta di fatto che almeno alcuni esponenti della minoranza come Gianni Cuperlo cercano di congelare le polemiche: un appello rivolto anche a Palazzo Chigi. E il vertice del Pd sembra accogliere l’invito con il presidente Matteo Orfini. "Devono calmarsi tutti", dice, pur ammettendo che la "tregua di sei mesi" non ha funzionato, finora. Strappare un buon risultato rafforza Renzi, certo. Chi lo contesta, però, non può permettersi di essere accusato di scarso impegno, o peggio di avere giocato per perdere. Insomma, l’impressione è che non sia solo il premier a ritenere le Amministrative un passaggio "minore": nonostante il rischio di un’astensione enorme. Nella doppia sfida voto-referendum si annidano insidie interne e esterne. Una sconfitta del Pd lungo l’asse Milano-Roma-Napoli indebolirebbe il governo e accentuerebbe il carattere di sfida finale della consultazione autunnale: se dovessero prevalere i No, Renzi ha già ribadito che getterebbe la spugna. Con un risultato positivo almeno nel capoluogo lombardo, invece, la speranza di una vittoria dei Sì sarebbe più fondata. "Sarà lo spartiacque tra passato e futuro", ribadisce il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, in Germania a spiegare i risultati del governo Renzi. Ma è uno spartiacque che ha bisogno anche del Pd. Il vicesegretario Lorenzo Guerini evoca, negandolo, un conflitto che potrebbe riemergere. "Tutto il partito", riconosce, "sta lavorando per le elezioni... Sono certo che sarà così anche per il referendum costituzionale". È una certezza meno diffusa e convinta di quanto appaia. Le condizioni che personaggi storici del Pd come l’ex segretario Pier Luigi Bersani hanno posto a Renzi sono destinate a diventare più stringenti: a cominciare da un ripensamento del sistema elettorale. E poi, l’asse con Denis Verdini, transfuga berlusconiano, rimane una spina nel fianco della sinistra. Al gruppo dirigente si imputa di essere asserragliato dentro Palazzo Chigi; e di sospettare di chiunque non mostri assoluta fedeltà. Renzi respinge la critica, sostenendo invece di essere a capo dell’ "unico partito in Italia che non butta fuori quelli che non la pensano come loro". L’allusione è ai regolamenti di conti nel M5S. Ma anche lo scontro nel Pd appare solo rinviato: al 6 giugno e, soprattutto, a ottobre. Con immigrazione e crisi economica come convitati di pietra. Migranti, incentivi ai Comuni che accettano di accoglierli di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 31 maggio 2016 Salvini sul 2 Giugno: "Repubblica invasa". Renzi: "Parole meschine". Ci saranno incentivi per i Comuni che fanno accoglienza. Lo annuncia a Radio Vaticana il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione. Intanto prosegue l’offensiva diplomatica italiana per portare il tema all’attenzione dell’Europa. Il ministro Maria Elena Boschi, tornata da Berlino, assicura che "la Germania appoggia il Migration compact nella sua struttura", anche se non condivide il suo finanziamento attraverso gli eurobond. Ma Renzi vuole accelerare. In particolare si aspetta che il Consiglio europeo del 29 e 30 giugno faccia dei concreti passi avanti e vorrebbe che in quella sede si decidessero iniziative "immediatamente operative". Ma intanto gli sbarchi di migranti non si fermano, con un picco negli ultimi giorni che ha fatto arrivare gli arrivi a quota 47.740, ovvero il 4 per cento in più rispetto allo scorso anno. E non si placano neanche le polemiche politiche. Il leader della Lega Matteo Salvini coglie l’occasione della festa della Repubblica per attaccare: "Il 2 Giugno? Cosa c’è da festeggiare? La fu Repubblica? La Repubblica invasa e occupata?". Parole alle quali replica subito il presidente del Consiglio: "Chi urla all’invasione di migranti è meschino". Non è affatto un’invasione, secondo Matteo Renzi: "I numeri sono sempre gli stessi, più o meno. Il fenomeno durerà anni e necessita di un’azione in Africa a livello europeo. Ovvero, investimenti in infrastrutture e cooperazione". Tra l’altro, ricorda il premier, la risposta concreta a chi dice "aiutiamoli a casa loro" arriva dai Paesi del G7, "che condividono l’impostazione del Migration compact". Controreplica di Salvini: "Sarò meschino, ma non schiavista, complice o fesso" . Si inserisce a distanza nella polemica il presidente dell’Inps Tito Boeri: "Per l’Italia gli immigrati non sono un costo previdenziale. Ogni anno gli immigrati contribuiscono per 5 miliardi al sistema di protezione sociale, perché versano otto miliardi di contributi e ricevono 3 miliardi in prestazioni previdenziali o assistenziali". Che non si tratti di un’invasione, lo dice anche il presidente della Camera Laura Boldrini: "Non è un’invasione, non è un fenomeno inaspettato: fino a che ci saranno guerre e violazioni dei diritti umani ci saranno fughe". Non la pensa così il capogruppo alla Camera Renato Brunetta: "Le cifre spaventose degli ultimi giorni dicono un sonoro e tragico "basta!" al modo con cui si sta affrontando l’emergenza immigrazione. Non possiamo guardare con sguardo distratto i bambini che annegano". Che la questione degli sbarchi sia complessa e di difficile gestione lo conferma anche il rapporto annuale dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali. Secondo l’organismo Ue, "in Italia e in Grecia va verificato l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, per quanto riguarda i trattamenti e l’accoglienza ricevuti negli hotspot, i centri di registrazione dei migranti". Manzione, nel promettere "incentivazioni" ai Comuni - "appena saremo in grado di quantificare anche l’intesa con il ministero dell’Economia e delle Finanze" - ha anche parlato della questione degli hotspot: "Sono operativi tutti e quattro. Non c’è nessuna difficoltà eventualmente a ipotizzarne altri". Anche perché gli sbarchi proseguono. La Marina libica ammette che non riesce a fermare i barconi "perché in Libia manca un adeguato controllo a terra: controllare le frontiere del Paese esige uno Stato forte, in grado di affrontare i trafficanti". Rifugiati, Europa in balìa di Ankara di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 31 maggio 2016 Crisi Ue. Schultz critica la Turchia e le minacce all’accordo con Bruxelles. Il Migration Compact al Consiglio del 28-29 giugno. Proposte sui finanziamenti. Le derive politiche nei paesi membri. Il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, alza la voce con Ankara, dopo le minacce del 24 maggio di Erdogan su una possibile "denuncia" dell’accordo con la Ue in vigore il 20 marzo, che prevede il rinvio in Turchia dei migranti arrivati sulle isole greche, in cambio di soldi (6 miliardi a termine) e dell’abolizione dei visti per i cittadini turchi che vengono in Europa. Per Schultz, in un’intervista a Welt am Sonntag, "la minacce non riusciranno a impressionare gli europei, al contrario". Schultz prevede però che se il Parlamento turco non inizia subito a discutere sulle richieste Ue - 72 condizioni da rispettare, tra cui la modifica della legge contro il terrorismo e la protezione dei dati - sarà difficile togliere i visti a ottobre. "Le minacce non sono i migliori strumenti diplomatici", aveva già reagito Jean-Claude Juncker, che ha assicurato, ai margini del G7 in Giappone: "In ogni caso, non avranno effetto". Angela Merkel, all’origine del controverso accordo con la Turchia, non è "inquieta", ma ammette che "è possibile che certe questioni prendano più tempo ma sul fondo, in ogni caso, rispetteremo gli accordi". Che per ora sembrano aver frenato molto gli arrivi in Grecia (dai dati dell’Ufficio internazionale migrazioni, 3.360 arrivi ad aprile, contro 26.971 a marzo), ma non hanno permesso i rinvii previsti sul suolo turco, il deal di cui l’Europa si vergogna (meno di 400 persone, poi imprigionate nella cittadina portuale di Dikili). Il nodo dei rifugiati, che paralizza i paesi Ue e ha già prodotto guasti politici importanti e ne minaccia di peggiori, sarà discussa al Consiglio europeo del 28-29 giugno. Sul tavolo ci sarà la proposta italiana di un Migration Compact, un piano in 4 punti per aiutare i paesi di origine e limitare le partenze, anche attraverso Bond specifici di aiuto allo sviluppo. Dalla Germania c’è la proposta di destinare il 10% del budget della Ue, circa 10 miliardi di euro, alla crisi dei rifugiati. Il ministro dello sviluppo Gerd Müller al summit di Istanbul ha affermato che la Ue "non può passare da un vertice all’altro con promesse che poi non manteniamo". L’idea di Müller è di nominare un commissario che riunisca le competenze sparpagliate tra Dimitris Avramopulos, commissario alle migrazioni, il vice-presidente della Commissione Frans Timmermans, primo interlocutore dell’accordo Ue-Turchia e Mrs. Pesc Federica Mogherini, che guida la lotta ai passeurs. La Commissione ha pensato a un recupero dei fondi strutturali non spesi nel periodo 2007-2013, da destinare all’aiuto ai rifugiati invece di restituirli agli stati membri: è una somma tra i 2 e i 10 miliardi (su un totale dei Fondi strutturali di 430 miliardi), una cifra da precisare a inizio 2017. C’è anche l’idea di inviare qualche centinaio di "lavoratori sociali" europei nei punti di maggiore crisi, per aiutare gli stati in prima linea. La lista delle tentate azioni Ue sui rifugiati è già lunga: azione contro i passeurs, approvata nell’aprile 2015 e iniziata a settembre, praticamente fallita; promessa di ricollocazione di 120mila rifugiati da Grecia e Italia, realizzata a meno dell’1%; a gennaio sono stati promessi soldi ai paesi del Medio Oriente, ma solo un sesto delle somme stanziate è stato inviato e a marzo c’è stato il controverso accordo con la Turchia, oggi minacciato da Erdogan. In Europa, il mondo politico soccombe. Per 31mila voti, l’Austria ha evitato l’elezione di un presidente di estrema destra il 22 maggio. Ma le idee estremiste guadagnano terreno. L’Olanda, fino a luglio presidente a rotazione del Consiglio Ue, difende l’idea tedesca della ricollocazione dei rifugiati, ma per le legislative del 2017 il partito di Geert Wilders è in testa ai sondaggi. In Finlandia, i Veri Finlandesi sono al governo, in Danimarca l’esecutivo regge solo grazie al sostegno dell’estrema destra. In Austria, è la politica di chiusura dell’ex premier socialdemocratico Werner Faymann che ha spianato la strada all’Fpö. Per non parlare dell’Ungheria di Viktor Orbán, della Polonia o della Slovacchia (Spd alleato con l’estrema destra), che si sono opposti alla redistribuzione dei rifugiati. La Francia, a un anno da presidenziali e legislative, vive con la minaccia di un successo del Fronte nazionale (in Germania nei sondaggi l’Afd è al 15%). Un confine per l’accoglienza di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 maggio 2016 Migranti, chiesa, Merkel e utopie. All’origine dello smarrimento provato quando si avvicina l’estate e si osservano i barconi c’è un grande conflitto: la politica delle emozioni contro la politica delle intenzioni. Il caso italiano. Siamo tutti lì fermi a guardare le immagini, i numeri, gli articoli sui giornali, i dati sugli sbarchi, le parole dei politici, i gesti dei parroci e gli occhi dei neonati arrivati a destinazione dopo lunghe traversate in mare in cui hanno perso i propri genitori. Siamo tutti lì fermi a cercare di capire se la nuova ondata di sbarchi è un’ondata anomala oppure no, se la chiusura della rotta balcanica trasformerà l’Italia in un grande centro di accoglienza oppure no, se il governo libico riuscirà a fare con l’Italia quello che la Turchia ha fatto con la Germania sui flussi migratori oppure no e siamo tutti lì fermi a cercare di capire qual è il limite dell’accoglienza: se a un certo punto bisogna dire basta, stop, fermatevi, non vi prendiamo più; o se il limite invece non esiste, come suggerisce la dottrina sans frontières di Papa Francesco, e se dunque il modello giusto da seguire sia quello suggerito dal parroco di Ventimiglia, che ha scelto, modalità Fuocoammare, di aprire le porte della sua parrocchia a tutti i migranti della città, senza badare troppo a chi ha davvero il diritto di restare in Italia. Eppure, quando parliamo di immigrazione, c’è qualcosa che va al di là dei numeri e delle immagini e che si trova all’origine dello smarrimento provato da molti di noi ogni volta che ci si avvicina all’estate e si osservano i barconi affondare in mare prima di arrivare in Italia. Qualcosa che gira attorno a una domanda precisa: può esistere sull’immigrazione una politica delle intenzioni in uno scenario dominato dalla politica delle emozioni? La politica delle emozioni è quella che ti chiede semplicemente di chiudere gli occhi, di aprire i cuori, di spalancare i confini e di accogliere un fratello in difficoltà che arriva disperato da un’altra parte del mondo. A fronte di un flusso di migranti regolare, la politica delle emozioni potrebbe persino essere sostenibile. Alla lunga, però, una politica che omette alcune questioni cruciali genera inevitabilmente insicurezza, anche in presenza di statistiche non ancora allarmanti. Se guardiamo i numeri degli sbarchi essi ci dicono infatti che l’emergenza migranti è una emergenza relativa rispetto a un anno fa: 45.900 sbarchi nei primi cinque mesi del 2015, 46.500 sbarchi nei primi sei mesi del 2016, ma 12 mila solo nell’ultima settimana. Ma la non emergenza diventa nuovamente emergenza se la si guarda da un altro punto di vista e si prova a rispondere a una domanda semplice: esiste o no un limite oltre il quale il nostro paese non può andare nell’accoglienza dei migranti? La risposta a questa domanda, che è negativa, e dunque no, niente, non esiste un limite, è la vera radice del nostro smarrimento e merita di essere approfondita. Come è possibile che non ci sia un limite? E come può essere giustificabile una politica che non sceglie da che parte stare e si limita a portare avanti la logica dell’accogliamo chi ce la fa? La nostra naturalmente è una piccola provocazione perché, come è noto, in teoria esistono delle norme che regolano il flusso dei migranti. Le norme dicono che possono rimanere in Italia solo i rifugiati che hanno diritto a una protezione in base alla quale può essere accettata una richiesta d’asilo. Ma anche qui non esistono limiti e se i 12 mila arrivi della scorsa settimana dovessero diventare la prossima settimana il triplo non si può fare nulla: la marina militare, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, deve portare i naufraghi che vengono avvistati nel porto prossimo più sicuro e avvenendo tutti i naufragi a cavallo tra le acque italiane e quelle internazionali i porti sicuri più vicini saranno sempre e comunque quelli italiani. Naturalmente, molto potrebbe cambiare nel momento in cui un governo libico pienamente legittimato dovesse decidere di dare alla nostra marina la possibilità di accedere alle acque territoriali libiche e in quel caso sarebbe più semplice sia arrestare gli scafisti (che oggi non superano mai i confini delle acque libiche) che) sia riportare l in Libia tutti coloro che non hanno diritto ad arrivare in Italia. Nell’attesa che ci sia un governo pienamente legittimato in Libia (ma anche il governo italiano non sembra avere particolare fretta ad accelerare questo processo politico) resta da mettere a fuoco quello che è il vero buco nero della nostra politica di immigrazione. Un buco nero che si lega a una percentuale nota al ministero dell’Interno: il 45 per cento. Solo il 45 per cento dei migranti che arriva in Italia ottiene infatti il diritto d’asilo. Significa che sui 153 mila arrivi dello scorso anno solo 68 mila avevano il diritto di rimanere in Italia. E gli altri 85 mila? Circa 10 mila sono stati rimpatriati in modo coercitivo e altrettanti sono stati rimpatriati in modo assistito. Ne restano fuori circa 65 mila che non sarebbero mai dovuti entrare in Italia. Non un numero enorme ma che rappresenta comunque la metà di coloro che arrivano in Italia e che hanno diritto a restare nel nostro paese. Il problema allora è evidente: si può essere credibili nell’accoglimento delle richieste di protezione umanitaria senza tetti numerici se non si è efficaci nell’espulsione di chi non ha titolo all’asilo o non ha neanche presentato la domanda? Districarsi in un mondo dominato dalla politica delle immagini e delle emozioni, in un mondo egemonizzato dal pontificato senza frontiere di Papa Francesco, in un’Europa in cui persino l’inflessibile Angela Merkel ha condannato la politica del tetto di ingresso dei rifugiati non è facile. Ma per un paese come l’Italia, esposto sul mare e senza barriere naturali, aver scelto semplicemente di accogliere chi ce la fa può funzionare solo in presenza di piccoli numeri e di fenomeni transitori. Se poi il flusso dovesse aumentare e i migranti dovessero moltiplicarsi, come è possibile che accada nei prossimi mesi, tutti i limiti del modello di immigrazione-integrazione verrebbero alla luce e sarebbe finalmente chiaro che è semplicemente una non scelta seguire il modello "viva il parroco" dell’accoglienza sans frontières. I rozzi e gli zoppi di Riccardo Redaelli Avvenire, 31 maggio 2016 È comprensibile che l’opinione pubblica possa sentirsi minacciata, che si senta spalle al muro, vittima di eventi unici ed eccezionali. Soprattutto se mass media e politici suonano rozzamente la grancassa populista dell’"invasione", della "minaccia islamica" e delle nuove "orde di barbari" che si abbattono sui troppo civili e fragili confini "Impero Europeo", speculando sulle paure dell’altro per qualche copia (che magari non arriva) e qualche voto (che forse non dura) in più. A maggior ragione perché, quando si ragiona di tematiche come queste, la "percezione" vince facilmente sui dati reali. Proprio per questo bisogna reagire guardando ai fatti, cercando di inquadrarli in un’ottica più solida e in un’analisi più lucida del semplice allarme quotidiano. Oggi ciò vale soprattutto per le migrazioni, con migliaia di vite drammaticamente in gioco ogni giorno. Non si tratta di un fenomeno che colpisce solo l’Europa, bensì di un fattore sistemico e strutturale globale - non legato solo a questi decenni - di spostamento dalle zone più svantaggiate a quelle privilegiate e dalle regioni in conflitto verso i Paesi vicini non in guerra. Vi sono, quindi, milioni di migranti dall’America centro-meridionale verso gli Stati Uniti, dall’Asia sud-orientale verso l’Australia; dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Ma milioni di rifugiati in fuga dalle guerre stanno anche in Pakistan, Iran, Giordania, Libano. In quest’ultimo Paese rappresentano quasi il 50% della popolazione. Come se in Italia avessimo 30 milioni di profughi. Invece facciamo i conti con i 170 mila arrivati nel 2014, i 140 mila del 2015 e un 2016 relativamente "tranquillo" fino al mese di maggio. È questa l’"invasione"? Il problema si ingigantisce per via della cattiva gestione europea e della mancanza di solidarietà: per paura delle proprie opinioni pubbliche, vi è una corsa di quasi tutti i governi dell’Unione Europea ad attuare risposte meramente reattive e di breve respiro che gestiscono in problema in chiave contingente e locale. Con il risultato di non fermare i flussi, ma semplicemente di spostarli in continuazione, con un gioco a rimpiattino, sperando che i migranti seguano altre rotte. Se poi si guarda ai Paesi di provenienza di chi è arrivato in questi mesi in Europa, si vede la preponderanza di iracheni, siriani, afghani. Ossia di persone che sfuggono agli orrori di guerre civili e del fanatismo jihadista. È evidente come per prosciugare quei flussi sia fondamentale passare da risposte puramente reattive a politiche di medio-lungo periodo di stabilizzazione: per prima cosa, fare di più e fare meglio per sconfiggere il Daesh e fermare il conflitto siriano. E insieme far finire l’infinito sacco dell’Africa di corrotti e corruttori travestiti da mercanti. In questi anni, invece, abbiamo fatto poco e male, per i soliti meschini calcoli di realpolitik nazionale e perché alleati di Stati e governi che hanno ambiguamente giocato o con l’estremismo islamista, con la vita dei propri "sudditi", con le nostre paure e attese. Ma il flusso di barconi carichi di disperati e le centinaia di donne, uomini e bambini tristemente morti annegati nel nostro Mediterraneo in queste settimane dimostrano altre cose ancora. Innanzitutto, la necessità - per noi italiani davvero prioritaria - di favorire il processo di stabilizzazione della Libia, il miglior strumento per gestire meglio il fenomeno migratorio e condizione imprescindibile per pensare di creare campi profughi sotto il controllo delle Nazioni Unite lungo la sponda sud. Poi, guardando al rapido aumento delle partenze dalle coste egiziane, registrato nelle ultime settimane, si capisce l’uso strumentale delle migrazioni fatto dai regimi della costa sud. Dopo la crisi nei rapporti Italia-Egitto per il caso Regeni, sembra che il Cairo ci mandi dei segnali, riducendo i controlli sulle partenze e ricordandoci l’importanza della loro "amichevole" collaborazione. Il rischio è che con la chiusura della rotta balcanica e la riapertura di quella egiziana, aumentino esponenzialmente i flussi nel Canale di Sicilia. A maggior ragione, allora, è necessario ripensare le risposte europee, con politiche che non puntino solo a "fermare" i migranti, sperando che se ne vadano nel Paese più vicino (e lì restino), rilanciando iniziative comuni di stabilizzazione e di miglioramento degli scenari geopolitici e geoeconomici in Medio Oriente e in Africana. Impresa inavvicinabile a tutti coloro che sfornano rozze invettive e politiche arcigne e sempre zoppe. Armi e business per la tangente. Finmeccanica, i guai non finiscono mai di Vincenzo Comito Il Manifesto, 31 maggio 2016 Finmeccanica sarà dunque posta nella lista nera del governo indiano e quindi tutti i suoi contratti in essere, nonché le sue partecipazioni alle gare in corso e a quelle future, saranno sostanzialmente bloccati (tranne le attività relative alla manutenzione e alla fornitura di pezzi di ricambio sulle commesse già in essere) e il tutto almeno per diversi anni. Si tratta di attività non da poco per l’azienda e che vanno da una fornitura per siluri ad una per i sistemi radar e, ancora, dalla partecipazione ad un progetto di fabbricazione di mitragliatrici navali ad uno nel campo dei sottomarini. Il gruppo Finmeccanica, come è noto, ha avuto una vita molto travagliata sin dalla nascita, ma si può dire che molte delle sue disgrazie sono state nel tempo autoinflitte. Dopo vicende molto tortuose durate vari decenni, il gruppo romano sembrava aver trovato un suo equilibrio strategico avendo deciso di concentrare le proprie attività in una nicchia relativamente importante del settore militare; questo a danno delle sue produzioni civili, dai trasporti all’energia, business tutti ormai ceduti a imprese cinesi e giapponesi. La cosa ha prodotto certamente danni rilevanti al nostro sistema industriale. Ma a parte la scelta infelice di collocare gran parte delle sue opzioni nel mercato della morte, stare adeguatamente nel business mondiale delle armi è un’impresa quasi disperata per una struttura originaria del nostro paese, che non possiede né la forza globale degli Stati Uniti, né la credibilità politica e il peso militare di paesi quali la Francia, che ha vinto da poco grandi commesse in India, la Gran Bretagna, la Russia e, in misura crescente, la Cina. E quindi, di fronte alle difficoltà di bilancio dei paesi occidentali, l’azienda sta cercando disperatamente di penetrare i mercati di quelli emergenti, in piena crescita nel settore, ma lo scandalo dell’India e quello, se ricordiamo bene, della Tunisia, mostrano che le tangenti da sole non bastano per conquistare quelle contrade, anche in presenza di un mercato che registra da sempre un elevato livello di corruzione. La vicenda appare grave per il gruppo, che a questo punto vedrà aumentare le sue difficoltà di mercato nei paesi emergenti, nonché per la stessa economia italiana. Non dimentichiamo in effetti che la Finmeccanica è rimasta orami una delle poche grandi imprese a controllo nazionale, anzi la più grande di tutte, con importanti attività produttive e di ricerca nel nostro paese. Del resto il governo indiano, portato al potere anche sulla base di una forte spinta nazionalistica, oltre che in ragione della cattiva gestione del governo precedente guidato dal Partito del Congresso, trova anche comodo "scatenare le folle" contro lo straniero, soprattutto quando quest’ultimo non ha alcuna forza né capacità contrattuale, come hanno mostrato anche le recenti vicende dei due marò. Questo anche in relazione al fatto che le promesse fatte a suo tempo dal partito al potere non sembrano essersi sino ad ora materializzate in importanti atti concreti. In ogni caso, il governo del paese asiatico sta puntando fortemente sulla crescita del budget militare, in relazione anche alle malcelate gelosie nei confronti del cugino che è riuscito, la Cina. Intanto si riduce il peso della Russia nelle forniture belliche e si aumenta invece quello dei paesi occidentali, nonché delle grandi imprese nazionali, che si stanno precipitando sul business, anche nel caso di alcuni conglomerati che non sono certo noti nel paese per essere esenti da vicende di corruzione anche più spinte di quelle dell’azienda romana. Il sociologo Fabrizio Battistelli: "così le periferie abbandonate producono egoismi" di Luca Liverani Avvenire, 31 maggio 2016 "Ua vicenda inaudita, che mi indigna. Ma purtroppo non mi meraviglia". Fabrizio Battistelli, docente di Sociologia alla Sapienza, le periferie romane le ha studiate a lungo. E dunque non si sorprende per il disinteresse complice degli automobilisti che, alla Magliana, hanno ignorato la disperata richiesta di aiuto di Sara Pietrantonio, uccisa col fuoco dall’ex. Professor Battistelli, perché non si meraviglia? Non posso non pensare all’imbarbarimento delle nostre città. Una serie di fattori, il primo dei quali l’estensione stessa delle metropoli come Roma, sta facendo perdere la dimensione della convivenza tra le persone. Un’involuzione che si è già verificata nelle città non europee, ma ormai è un modello globale: la città come luogo di estraneità. Luoghi in cui viene meno la reciprocità, che ancora nei centri medi e piccoli fa ritenere a ciascuno di noi di poter avere già incontrato l’altro o di poterlo incontrare. Sto parlando della base dello scambio della socialità: condividere assieme una situazione comune. Intende dire: succede a questa ragazza, ma potrebbe succedere anche a me, a mia moglie, a mia figlia? Esatto. Una reazione primordiale dell’individuo, che è oggi spesso è totalmente soffocata, una luce che è in ognuno di noi, ma che ormai tende a spegnersi per colpa dell’isolamento, dell’alienazione e della paura. Era evidente che di trattava di un’assoluta emergenza: una persona fragile che chiede aiuto alle 3 di notte. Le reazioni di chi assiste a un episodio del genere possono essere diverse. C’è quella altruistica: è di chi decide di intervenire, anche mettendo in conto una percentuale di pericolo, per un beneficio grande per l’altro. Oppure c’è la reazione normale di chi prende il telefono e fa il 113. Qui non si è verificata nemmeno quest’ultima. Per una mancanza tipica di questo tempo - e di questo spazio, l’Italia - di cultura delle istituzioni, preposte alla sicurezza di tutti e di ciascuno. Consapevolezza che, devo dire, esiste più in altre società, quelle che nutrono più fiducia nelle istituzioni, che hanno più senso civico. Siamo tutti costantemente connessi, sempre col cellulare in mano, ma nessuno ha pensato di chiamare la Polizia. Gli automobilisti, individuati, hanno detto che non avevano capito. Non c’era possibilità di fraintendere. Non si trattava di una rissa tra extracomunitari o di un regolamento di conti. Nemmeno lo sforzo di fare una segnalazione anonima alle forze dell’ordine... Come si è potuto arrivare a una tale chiusura a riccio? Le città storicamente sono nate perché le persone hanno deciso di vivere assieme, proprio per difendersi dai pericoli esterni. Oggi però il deserto, che una volta veniva chiuso fuori dalle mura, si è trasferito dentro. È un processo di tutte le grandi città. Colpa di uno scarso capitale sociale, di una insufficiente fiducia reciproca che caratterizza un Paese come l’Italia. Anche la moltiplicazione delle differenze non ha aiutato l’omogeneità di condominio e di quartiere che esisteva fino a 30 anni. Gestire le differenze è un’operazione complessa: scontiamo l’assenza di politiche di integrazione? È proprio così. A tutto questo dobbiamo aggiungere amministrazioni che negli anni sono state sempre più lontane, sempre più inefficienti e ciniche... La Chiesa, presente fin dall’inizio nelle borgate e nei quartieri poveri, già nel 1974 aveva fatto la sua diagnosi sui "mali di Roma". Precoce ma lucida. Troppi sindaci invece hanno ignorato il tema della coesione sociale. E questa è una responsabilità che interpella chi si candida a governare Roma Capitale. Fatiche di Ercole. Le responsabilità dei comportamenti però sono individuali: non si può criminalizzare un quartiere... Questo è evidente, perché assieme agli automobilisti "indifferenti" ci sono anche le persone che si fermano e pensano all’altro. Però non sono quelle che più spesso girano alle 3 di notte. Quella legge francese contro la prostituzione di Dacia Maraini Corriere della Sera, 31 maggio 2016 Si tratta di una normativa rivoluzionaria che non tollera e sanziona la compra-vendita di corpi umani. È lecito mettere in vendita e comprare un corpo umano? Non si tratta, come scriveva Victor Hugo, di pura e semplice schiavitù? C’è chi sostiene che sono le prostitute stesse a volerlo: è un commercio come un altro, perché non vendere ciò che è tanto richiesto? La risposta è che anche in tempi di schiavitù legale, uomini e donne si offrivano sul mercato perché era uno dei modi più rapidi, anche se brutali e spicci, di procurarsi da vivere. E comunque se una cultura e uno Stato accettano che esista un mercato di corpi umani, ci sarà sempre chi venderà e chi comprerà, senza farsi scrupoli. Il denaro circola e molti si arricchiscono. Queste non sono le elucubrazioni di una femminista, ma il pensiero comune di molte nazioni europee come Svezia, Islanda, Norvegia, Irlanda del Nord, Canada e, in parte, il Regno Unito, che hanno già proibito o stanno elaborando leggi del tutto nuove che vietino "l’acquisto di atti sessuali". Strano che sia passato completamente sotto silenzio la nuova legge francese, entrata in vigore dallo scorso 15 aprile. Una legge rivoluzionaria che non si propone di regolamentare la prostituzione, come si fa di solito, ma vuole proprio abolirla. I principi su cui si basa questa legge vengono spiegati così: 1) una società civile non può tollerare la vendita dei corpi umani; 2) l’idea dei "bisogni sessuali incontenibili" dei maschi appartiene a una concezione arcaica e degradante della sessualità che favorisce lo stupro; 3) la prostituzione non può in alcun modo essere considerata un’attività professionale, a motivo dello stato di costrizione che per lo più è all’origine dell’ingresso in essa, della violenza che la caratterizza e dei danni fisici e psicologici che provoca; 4) è fondamentale, da parte delle politiche pubbliche, offrire alternative credibili alla prostituzione, garantire i diritti fondamentali alle persone che si prostituiscono, contrastando decisamente la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale. La legge sanziona l’acquisto di un atto sessuale e riafferma il principio di non-patrimonialità del corpo umano, prevedendo a carico del cliente una contravvenzione di 1.500 euro, che, in caso di recidiva, può trasformarsi in multa di 3.750 euro. L’uomo recidivo viene costretto, a sue spese a un corso di rieducazione sessuale. Come vi spiegate che in Italia non se ne sia nemmeno accennato? Il vero nodo nel "caso marò". Non c’è alcun eroismo, ci sono due morti di Ferdinando Camon Avvenire, 31 maggio 2016 Con la stima che tutti dobbiamo avere verso le nostre Forze Armate, con l’affetto che dobbiamo mostrare verso i nostri soldati in missione, con tutta la comprensione verso lo spinoso caso dell’incidente tra i nostri marò e i pescatori indiani uccisi al largo sulla loro barca, mi permetto di dire che è incauto che politici e autorità istituzionali tributino onori ai due fucilieri rientrati in patria. Ribadisco così una posizione che è sempre stata di questo giornale, sin dall’inizio del ‘caso marò’ e del contenzioso tra New Delhi e Roma. Noi gente comune, noi lettori di giornali, noi popolo, siamo stati a lungo sviati (non dico ingannati, ma tenuti all’oscuro) nella comprensione del punto centrale di questo intricato e doloroso incidente internazionale. Il punto centrale non è quale dei due Stati, India o Italia, abbia il diritto di celebrare il processo. Non è quale organismo super-nazionale possa stabilire dove debbano risiedere nel frattempo gli imputati. Il punto centrale è un altro: questi nostri soldati, in missione, lontano dalla patria, hanno ucciso? Era inevitabile? E perché? Loro dicono che hanno sparato in mare, sull’acqua, non ad altezza d’uomo, in direzione di una barca che gli veniva addosso con intenzioni ostili, con uomini a bordo che alzavano armi dalla canna lunga: hanno uno straccio di prova? Hanno scattato una foto di quella barca? Degli uomini armati? No? E perché no? Queste domande ce le poniamo perché le autorità indiane hanno eseguito perizie balistiche sulle mitragliette Minimi dei marò, e hanno stabilito che sono state proprio quelle a sparare i proiettili rimasti poi nel corpo delle vittime e nel legno della barca. La maggior parte di noi italiani non ha più la cultura per capire come ogni fucile ‘firmà i colpi che spara, in modo tale che poi, se recuperi un proiettile, puoi risalire alla singola arma che l’ha sparato. Le armi da guerra (a differenza delle armi da caccia) hanno la canna rigata all’interno. La rigatura serve a far ruotare il proiettile su se stesso. Solo così, ruotando, il proiettile perfora l’aria in linea retta. Come un trapano. Altrimenti subisce spostamenti, come una freccia o un sasso. E non va più sul bersaglio. Ogni singolo fucile ha un suo modo di rigare le pallottole che spara, diverso da tutti gli altri fucili, anche dello stesso lotto di fabbricazione. Una della perizie balistiche effettuate in India ha indicato che a sparare furono le mitragliette di due marò. Non quelle dei due arrestati, ma è possibile che nella concitazione della sparatoria chi va sulla rastrelliera ad afferrare le armi prenda le prime che trova. Particolare importantissimo: alla perizia erano presenti i tecnici dei nostri Carabinieri. Non hanno pubblicato alcuna contestazione. I marò dicono di aver sparato in mare, in acqua, colpi di avvertimento. Ma i pescatori risultano colpiti al petto. Com’è possibile una tale deviazione della traiettoria? Inoltre: la mastodontica petroliera su cui erano imbarcati i marò era molto più veloce del barchino indiano, poteva raggiungere i 20 nodi, mentre il barchino arrivava a 10 al massimo. Allora la grande nave non poteva allontanarsi e sparire senza far fuoco? Queste domande dovrebbero già avere avuto risposta, e l’avrebbero avuta, se da parte indiana ci fosse stata la cura che il caso merita e si fosse andati al processo. Il continuo rinvio, perfino dell’imputazione (che non è stata ancora formulata), è uno sfregio a tutte le vittime, che a questo punto sono sia i pescatori morti che i marò prigionieri. Perché se l’impostazione indiana reggesse, come l’abbiamo esposta, allora si dovrebbe appurare se il fuoco aperto dalla nave fosse un atto d’avvertimento che doveva finire in mare, e invece erroneamente e tragicamente è finito sulla barca. Questo è il punto. Da qui potrebbe venir fuori che i nostri marinai non volevano uccidere e non sono colpevoli. Ma questo non basta a farne degli eroi. E non cambia il destino dei pescatori indiani, che in definitiva sono morti perché erano poveri. Poveri pescatori, non pirati. Non solo marò: i detenuti all’estero dimenticati dall’Italia di Guido Mariani lettera43.it, 31 maggio 2016 Provvisionato in Mauritania. Galassi in Guinea Equatoriale. Pieroni in Colombia. Rinchiusi in carceri straniere, denunciano violazioni. Ma Roma non fa nulla. Ne torna uno, ne restano 3 mila. Il previsto rientro in patria di Salvatore Girone è l’ultimo capitolo del caso della Enrica Lexie, che rischia ora di essere imbrigliato in una lunga contesa giudiziaria internazionale. Ma se il fuciliere della Marina potrà finalmente aspettare l’esito dell’arbitrato tra i suoi cari, ci sono circa 3 mila italiani detenuti nelle carceri di Paesi esteri, lontano dai riflettori mediatici, alcuni dei quali stanno affrontando peripezie giudiziarie kafkiane o si stanno confrontando con sistemi legali che non riconoscono i più elementari diritti e le basilari garanzie. Il caso più recente è quello di Cristian Giuliano Provvisionato. Quarantaduenne di Cornaredo, in provincia di Milano, è stato fermato nell’agosto 2015 in Mauritania, con l’accusa di essere parte di una banda internazionale di truffatori informatici che avrebbero attentato alla sicurezza dello Stato. Provvisionato ha scritto nelle scorse settimane al presidente della Repubblica, raccontando la concatenazione degli eventi che lo ha trasformato in un detenuto di un Paese in cima alle classifiche mondiali per violazioni dei diritti umani. Nella sua lettera a Mattarella sostiene di esser stato mandato allo sbaraglio in Mauritania dalla società straniera per la quale lavorava, che è specializzata nella fornitura di software finalizzati alla protezione dalle minacce informatiche e che avrebbe architettato, a sua insaputa, una truffa contro il governo africano. Provvisionato era convinto di sostituire un collega, ma è stato arrestato due settimane dopo il suo arrivo. Da allora è iniziata una detenzione senza garanzie. Solo lo scorso 17 maggio l’uomo è stato portato davanti a un giudice. Non si sa se sia stato formalizzato un capo di imputazione. Sofferente di diabete, Provvisionato avrebbe già perso più di 30 chili senza aver mai avuto la possibilità di accedere ad assistenza medica. La Mauritania è una Repubblica islamica che formalmente ha firmato la dichiarazione dei diritti dell’uomo, ma in cui le condizioni dei detenuti sono state più volte denunciate da organismi internazionali come inumane. La situazione di Provvisionato è resa anche più difficile dal fatto che l’Italia è priva di una rappresentanza in Mauritania: la sede diplomatica più vicina è in Marocco. La Onlus Prigionieri del Silenzio, nata nel 2008, cerca di tenere viva l’attenzione sui detenuti italiani all’estero, rilevando gli episodi in cui le violazioni dei diritti sono più clamorose. Un caso seguito dall’associazione è quello di Enrico "Chico" Forti, ex campione internazionale di windsurf e poi produttore televisivo. Nel 2000 è stato condannato per omicidio negli Stati Uniti. Secondo le accuse, avrebbe ucciso a Miami il figlio di un uomo d’affari con cui era in trattativa per l’acquisto di un hotel a Ibiza. Ma il caso fu chiuso con troppa fretta affidandosi a un teste che ha beneficiato di un condono di pena. Il processo lampo, durato appena tre settimane, condannò l’italiano sulla base di indizi circostanziali e senza che venisse individuato un movente logico. Il giallo è complicato dal fatto che Forti aveva poco tempo prima realizzato un documentario sull’omicidio di Gianni Versace in cui aveva messo sotto accusa la polizia di Miami, la stessa che l’ha indagato. In Italia, la vicenda ha suscitato l’interesse anche di due ministri degli Esteri, Giulio Terzi ed Emma Bonino. L’obiettivo sarebbe quello di chiedere la revisione del processo in base a una serie di nuove evidenze emerse nel corso del tempo. Ma il tribunale della Florida ha rigettato ogni istanza e Forti rimane rinchiuso nel Dade Correctional Institution, un carcere che è stato al centro di casi di corruzione e violenze che hanno coinvolto i secondini. "Che [gli italiani detenuti] siano innocenti o colpevoli, non sta a noi dirlo", spiegano gli esponenti di Prigionieri del Silenzio, "è nostro compito ricordare che la maggior parte di loro versa in condizioni che ledono profondamente i diritti umani fondamentali". Circa l’80% dei detenuti italiani all’estero si trova in carceri europee (più di 1.000 solo in Germania). Il 15% nel continente americano e il resto in Paesi asiatici e africani. In alcuni casi l’attenzione dei media può essere decisiva. Roberto Berardi, imprenditore di Latina arrestato in Guinea Equatoriale nel 2013, è stato detenuto per due anni e mezzo. In affari con il figlio del presidente della Guinea, Teodoro Obiang Nguema Mbasog, è stato condannato per truffa e appropriazione indebita. Nel febbraio 2014 riuscì a far pervenire ai tg italiani un video choc della sua detenzione in cui testimoniò le torture che aveva subito. L’attenzione sul caso ha costretto lo Stato africano a rimandarlo in patria nel luglio 2015. Tuttavia nello stesso Paese, soggetti al medesimo trattamento carcerario crudele e purtroppo all’oscuro dei riflettori dell’opinione pubblica ci sono oggi due connazionali, Fabio e Filippo Galassi (padre e figlio), arrestati nel marzo 2015 a Bata e condannati a 33 e 21 anni di reclusione con l’accusa di essersi appropriati di fondi e beni di proprietà della società General Work. L’azienda è partecipata dal presidente Obiang, un autocrate al potere dal 1979 che - come testimonia Humar Rights Watch - "esercita un controllo arbitrario sul sistema giudiziario". Nella città di Palmira in Colombia sta invece scontando una pena di 21 anni e quattro mesi Manolo Pieroni, arrestato nel luglio 2011 all’aeroporto di Cali con sette chilogrammi di cocaina. Trentenne originario di Lucca, Pieroni ha sempre dichiarato di essere stato incastrato. Durante la sua permanenza in custodia, come ha rilevato un’interrogazione parlamentare, gli sono state negate sia le visite consolari sia gli aiuti umanitari che periodicamente richiede. Il carcere in cui si trova, Villa las Palmas, è un penitenziario sovraffollato in cui comandano le gang criminali ed è al centro di denunce da parte delle stesse autorità politiche locali, che hanno definito disumane le condizioni di vita dei prigionieri. Ma anche nei Paesi Ue non mancano storture. Francesco Stanzione è in carcere in Grecia dal 2001 per traffico di stupefacenti. Per anni ha denunciato le dure condizioni di vita nel penitenziario di Larissa, e ha richiesto l’applicazione della Convenzione di Strasburgo che consente di scontare la pena nel Paese d’origine. La Grecia si è però sempre opposta al trasferimento, chiedendo il pagamento di una pena pecuniaria che non era nelle disponibilità della famiglia del prigioniero. Alcuni casi, poi, finiscono in tragedia. Il bancario leccese Simone Renda morì nel 2007 in una cella di Cancun, dopo essere stato arrestato per un banale episodio di ubriachezza molesta. Dapprima ricattato dalla polizia, fu rinchiuso poi in una cella rovente senza possibilità di accedere ad alcuna assistenza né legale né medica. Morì per disidratazione dopo due giorni di privazioni e violenze. A Lecce si è tentato di istruire un processo contro i responsabili della detenzione: otto imputati in contumacia per omicidio e violazione dell’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura. Si tratta di un giudice, il responsabile dell’ufficio ricezione del carcere, tre guardie carcerarie, due vicedirettori del carcere e due agenti della polizia turistica, tutti messicani. Tre di essi sono però irreperibili e il processo non è ancora partito. Russia-Ucraina: sulla scia dello scambio di detenuti, altre richieste di grazia Nova, 31 maggio 2016 I cittadini ucraini Gennadij Afanasev e Jurij Soloshenko, condannati in Russia, hanno scritto una domanda di grazia al presidente Vladimir Putin Lo scorso 25 maggio, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato un decreto di indulto per l’ex pilota ucraina Nadija Savchenko, condannata a 22 anni di carcere per il coinvolgimento nell’omicidio di due giornalisti nel Donbass. Putin ha motivato la decisione con la richiesta di perdono pervenutagli dai parenti delle vittime, ed ha espresso la speranza che tale decisione possa aiutare a stabilizzare la situazione nel sud-est dell’Ucraina, versione che il presidente russo ha tenuto a ribadire in occasione della sua successiva visita in Grecia. "Non c’è nessuna relazione con l’accordo di Minsk. Perché negli accordi Minsk si parla di individui arrestati in Donbas ed Ucraina, usciti dal territorio del Donbas", ha detto Putin nel corso della conferenza di Atene. Nel frattempo, a Mosca sono giunti dall’Ucraina i due cittadini russi condannati per terrorismo, Aleksander Alexandrov de Evgenij Erofeev. Successivamente il presidente francese Francois Hollande ha riferito che la decisione sullo scambio di detenuti era stata presa nel corso della conferenza telefonica tenutasi la notte tra il 23 ed il 24 maggio dai vertici del "formato Normandia". Nel mese di agosto 2015, il tribunale militare del Distretto del Caucaso del Nord ha ritenuto Gennadij Afanasiev colpevole della pianificazione di attacchi terroristici in Crimea e lo ha condannato a sette anni di carcere. Differente il caso del 73enne Juri Soloshenko, classificato come "segreto". Secondo i media, Soloshenko ha cercato di entrare a far parte dei gruppi armati in Ucraina. È stato arrestato a Mosca in un incontro con un proprio contatto nel ministero della Difesa, secondo quanto dichiarato da alcuni enti stampa. Svizzera: morte di due detenuti in poche ore rsi.ch, 31 maggio 2016 Un 35enne, arrestato durante la notte, dopo che la moglie aveva avvertito le forze dell’ordine per denunciarne l’aggressività, è morto lunedì mattina in una cella di un posto di polizia a Zurigo. L’uomo, che aveva reagito con violenza anche nei confronti della pattuglia che aveva risposto all’appello, era stato rinchiuso in attesa della visita di un medico. Quando gli agenti sono ripassati per un controllo, aveva praticamente già smesso di respirare. Un’inchiesta dovrà chiarirne le ragioni. Un decesso, questa volta di un detenuto 51enne, s’era verificato domenica anche nel carcere di Deitingen. Il ministero pubblico del canton Soletta indaga. Egitto: Al-Sisi schiaffeggia la stampa, arrestato il presidente del sindacato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 maggio 2016 Il regime egiziano sfida i giornalisti ribelli: in carcere Qalash, insieme al segretario e al vice segretario. Otto fratelli musulmani condannati a morte, il leader spirituale Badie ad un altro ergastolo. La battaglia tra Ministero degli Interni e sindacato della stampa egiziani ha toccato un apice mai raggiunto in 75 anni: nella notte tra domenica e lunedì il presidente del sindacato, Yehia Qalash, diventato in due mesi il punto di riferimento di media indipendenti e società civile, è stato arrestato con l’accusa di aver dato rifugio ai due giornalisti di January Gate, Amr Badr e Mahmoud el-Sakka, detenuti dopo un violento raid il primo maggio. "Nascondere sospetti contro i quali pendeva un mandato di arresto e pubblicazione di notizie false che minacciano la pace" sono i due crimini che Qalash avrebbe commesso e che lo hanno costretto a 13 ore di interrogatorio. Secondo il membro della segreteria del sindacato Hanan Fekry contro Qalash ci sarebbe la testimonianza di altri membri, di cui non fa i nomi. Di certo si sa che a metà maggio il sindacato si era spaccato tra chi aveva optato per la linea dura di Qalash e chi per la morbida proposta "Correggere il cammino" del quotidiano governativo al-Ahram. Il procuratore ha imposto il pagamento di una cauzione di 10mila sterline egiziane, più di mille euro. Il sindacalista ha rifiutato di pagare e resta in stato di fermo alla stazione di polizia di Qasr al-Nile. Con lui, dietro le sbarre, sono finiti altri anche il segretario generale Abdel-Reheem e il vice segretario el-Balshy: anche loro, accusati di diffusione di notizie false in merito al raid contro la sede del sindacato, hanno rifiutato di pagare la cauzione. Fuori dalla caserma si sono ritrovati decine di reporter e attivisti per protestare contro gli arresti mentre il sindacato si riuniva di urgenza per "discutere quali misure prendere". Una formula che scandisce da settimane i sit-in e le lotta dei media egiziani, tra attacchi più o meno velati al ministro Ghaffar ai banner neri su siti e quotidiani. A sostenere ieri la battaglia della stampa è stata Amnesty International che ha condannato quello che definisce "l’attacco più sfacciato ai media da decenni". Ma la repressione di Stato non si ferma alla stampa, una tra le tante prede dell’attuale regime che tenta di nascondere sotto il tappetto la palese frustrazione del popolo egiziano. Ieri le ennesime condanne a morte sono state pronunciate dallo scranno di una corte militare: 8 membri dei Fratelli Musulmani pagheranno con la vita l’uccisione di 11 poliziotti durante l’assalto alla stazione di polizia di Kersada al Cairo nel 2013. Per Amnesty confessarono sotto tortura. Fine pena mai per Mohammed Baide, guida spirituale della Fratellanza Musulmana imputato per i fatti di Ismailia, il 5 luglio 2013, due giorni dopo la deposizione del presidente Morsi: 3 morti negli scontri esplosi fuori dalla sede del governo locale. La sentenza di ergastolo si aggiunge alle due pene capitali già spiccate nei suoi confronti. Il Cairo è irrefrenabile e la sua scure si abbatte all’interno, dove l’impunità è assoluta eccezion fatta per i movimenti critici che alzano la voce nonostante il pericolo. Ma si abbatte anche fuori, ferendo gli alleati che si attendono dall’Egitto obbedienza. Se il brutale omicidio di Giulio Regeni ne è esempio lampante, il cadavere dell’insegnante francese Eric Lang racconta una modalità di comportamento identica. Ieri è toccato agli Stati Uniti, seppure in misura decisamente meno grave: una cittadina Usa e ricercatrice universitaria, Ada Petiwala, è stata bloccata all’aeroporto del Cairo e deportata dal paese per "ragioni di sicurezza". La notizia arriva a pochi giorni dalla consegna di 762 veicoli blindati Mrap nell’ambito dei 1,3 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari mandati da Washington. Se il presidente Obama aveva inizialmente proposto di legare il pacchetto di aiuti al rispetto dei diritti umani, la minaccia del terrorismo islamista e il rapido ingresso del Cairo nel ruolo di alleato strategico in Nord Africa hanno cancellato ogni precondizione. Zimbabwe: carceri sovraffollate, il governo libera duemila detenuti tpi.it, 31 maggio 2016 Alla base di questa decisione c’è la volontà di arginare il sovraffollamento delle carceri che affligge il paese e promuovere migliori condizioni di vita. Il governo dello Zimbabwe presieduto da Robert Mugabe ha concesso la grazia a duemila detenuti. Alla base di questa decisione c’è la volontà di fronteggiare il problema del sovraffollamento delle carceri che affligge il paese e l’intento di promuovere migliori condizioni di vita. Lo ha reso noto giovedì 26 maggio il quotidiano nazionale Herald. Ma come ha precisato l’agenzia di stampa Reuters, la decisione è stata presa anche per far fronte alla scarsità di cibo dovuta alla mancanza di finanziamenti da parte del governo. Il provvedimento deciso da Mugabe riguarderà almeno duemila detenuti, compresi "tutti i minori indipendentemente dalla gravità dei loro crimini e tutte le detenute donne, fatta eccezione per coloro rinchiusi nel braccio della morte o condannati all’ergastolo". L’amnistia vale invece per i condannati all’ergastolo prima del 1995, per coloro che dovranno scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni, per i malati terminali e per quelli condannati per il furto di bestiame. Non saranno inclusi in questo provvedimento che prevede una cancellazione del reato, i detenuti condannati per omicidio, tradimento, stupro, rapina a mano armata e reati sessuali. "Le 46 prigioni del paese sono sovraffollate. Sulla carta possono contenere fino a un massimo di 17mila detenuti, quando in realtà ne ospitano 19mila", ha precisato Priscilla Mthembo portavoce del servizio di correzione penitenziaria all’Herald. La continua carenza di cibo ha alimentato dei conflitti all’interno delle carceri, secondo quanto riferito da Reuters. "Nel marzo del 2015 cinque prigionieri sono morti dopo essere stati colpiti dalla polizia durante una protesta scoppiata per la mancanza di cibo, poi degenerata in scontri violenti". L’ultimo indulto di massa concesso dal presidente Mugabe risale al 2014, sempre per gli stessi motivi: ridimensionare il massiccio sovraffollamento dei penitenziari del paese e fronteggiare la mancanza di cibo. Prima che questo decreto venisse varato, un rapporto del 2013 stilato dall’ambasciata degli Stati Uniti a Harare ha descritto le condizioni di detenzione terribili vissute dai detenuti. Tra gennaio e novembre del 2013, oltre 100 prigionieri sono morti in carcere a causa della malnutrizione e per altre cause naturali aggravate dalle cattive condizioni sanitarie, che hanno contribuito alla diffusione di malattie virali come il morbillo e la tubercolosi, e in casi più gravi anche all’Aids. Inoltre, i detenuti non hanno avuto accesso all’acqua potabile, molti di loro sono stati costretti a dormire sul pavimento per la mancanza di materassi. Nei mesi invernali, i prigionieri non hanno potuto indossare vestiti caldi. I penitenziari del paese non ricevono dei finanziamenti da parte del governo, e nella maggior parte dei casi sopravvivono grazie alle donazioni di enti benefici, primo fra tutti la Croce rossa internazionale che fornisce coperte, vestiti e cibo. Ciad: crimini di guerra, ergastolo all’ex dittatore Hissene Habre La Stampa, 31 maggio 2016 L’ex presidente-dittatore del Ciad Hissene Habre è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità e stupro. A giudicarlo un tribunale speciale africano a Dakar in Senegal. È la prima volta nella storia dell’Africa che un politico di alto rango viene giudicato da giudici tutti africani e che il processo si sia svolto in un Paese del Continente Nero, invece che a L’Aja presso il Tribunale penale internazionale. Scappato dal Ciad in Senegal ne11990 dopo aver governato lo Stato africano da11982 al 1990, nel 2005 un tribunale belga aveva emesso un mandato di cattura internazionale. Da allora sette anni di limbo fino all’ordine del Tribunale de L’Aja a iniziare il processo in Senegal, pena l’estradizione in Olanda. Sette mesi di processo e 93 testimoni in aula, mentre l’ex Presidente Habre assisteva avvolto nel suo turbante bianco e indossando occhiali da sole per non far trasparire il suo sguardo. Durante il dibattimento il dittatore africano non ha mai risposto alle domande dei giudici. Al momento della lettura del verdetto in aula, alcune delle vittime presenti hanno intonato canti di gioia e ululati in segno di festa.