Figli dei detenuti mai ascoltati Il Mattino di Padova, 30 maggio 2016 Qualche volta anche i volontari, anche le persone più abituate ad ascoltare la sofferenza delle persone detenute restano turbati e colpiti dal dolore dei figli che hanno un genitore in carcere e dal loro disperato bisogno di ascolto. Per questo vogliamo tornare a parlare della Giornata di Studi "La società del NON ascolto", che di recente ha "aperto" le porte della Casa di reclusione di Padova al mondo esterno, e ha dato un grande e profondo ascolto a questi figli dolenti che hanno voglia di essere rispettati, considerati, capiti. Diamo allora la parola ai figli, a partire da Alexandra Rosati, la figlia di Adriana Faranda, ex appartenente alla lotta armata, e poi anche a un padre che nella Giornate dedicata all’Ascolto ha avuto la possibilità di avere accanto il figlio. Alexandra, figlia di Adriana Faranda, ex appartenente alla lotta armata Io sono Alexandra Rosati, sono figlia di Luigi Rosati e Adriana Faranda. Come tutti sopranno mia madre è una ex terrorista rossa, ha partecipato al rapimento di Aldo Moro, poi successivamente dissociandosi dall’omicidio. Per me oggi è una giornata molto particolare, io rientro in un carcere dopo 25 anni, venivo in carcere come figlia e la prima volta è stato quasi 40 anni fa, io avevo 8 anni e passavo dal braccio maschile del carcere di Rebibbia al braccio femminile dove vedevo prima papà e poi mamma. Adesso vengo messa un po’ dalla parte delle vittime anche se la parola vittima non mi piace molto, però in qualche modo lo sono stata. Credo di esserlo stata, della società soprattutto. Io ho subito delle discriminazioni sociali non indifferenti, ero la figlia di una brigatista rossa quindi ho perso posti di lavoro, venivo esclusa da gruppi, ancora oggi mi capita di subire nella piccola cittadina in cui vivo mobbing sociale, se si può usare questo termine. Per cui è una storia abbastanza complicata anche la mia in qualche modo, fatta anche di molta rabbia, a volte anche di odio. All’inizio noi abbiamo avuto perquisizioni, abbiamo avuto la polizia dentro casa che cercava mamma con giubbotti antiproiettile, caschi, mitra, erano tanti e me li ricordo perfettamente quando correvano per casa, si fermavano nelle camere, compresa la mia. Insomma, io quella notte mi spaventai tantissimo, quella fu una notte delle più terribili della mia vita e, naturalmente, quando mia madre è stata arrestata, mentre a casa mia tutti piangevano io facevo i salti di gioia perché finalmente potevo vederla, c’erano stati gli anni di latitanza dove noi non sapevamo assolutamente dove fosse. Questa occasione di ascolto oggi è stata molto importante, mi ha offerto la possibilità di rientrare in un carcere dopo tanto tempo, che era una cosa che io temevo molto. (…) Quando Irena, la sorella di un detenuto, ha portato la sua storia raccontando dell’arrivo in carcere per incontrare il fratello e del fatto che non l’ha trovato, io mi sono ricordata di quando arrivavamo nel carcere di Avellino per vedere mia madre e mia madre non c’era, l’avevano trasferita, anche noi non venivamo informati dei trasferimenti, i detenuti politici venivano trasferiti continuamente. Quindi la realtà carceraria fa parte anche di tutte queste famiglie che vivono nell’ombra, che non si sa neanche che esistano, nessuno sa. Un detenuto oggi ha raccontato l’esperienza di sua figlia che attaccava le manine al vetro per parlare con lui, anche io ho attaccato le manine al vetro divisorio a un certo punto quando l’avevano messo, perché cercavo il contatto con mia madre, che mi era negato. Fortunatamente poi è intervenuta una psicologa e abbiamo potuto, grazie a un magistrato di sorveglianza molto sensibile all’argomento, ottenere colloqui in parlatori normali. Quindi io vorrei solo ringraziare tutti quelli che oggi hanno parlato di questi temi, ma anche tutti quelli che hanno ascoltato, anzi forse soprattutto loro. Suela, figlia di Dritan, detenuto-redattore di Ristretti Orizzonti Ascoltando Alexandra Rosati (figlia di Adriana Faranda) mi sembrava di ascoltare me stessa, e ho sentito un brivido dentro di me, e ho pensato a ciò che mi sarebbe potuto accadere se, quando ero piccola, i miei compagni di scuola e le loro famiglie avessero saputo la figlia di chi ero, la discriminazione che avrei subito, l’emarginazione, il senso di solitudine e di diversità che sarebbe stato ancora più accentuato. Sono stata fortunata a differenza sua perché la mia storia non la conosceva nessuno, e ora che molti la conoscono ho avuto la possibilità di essere ascoltata e raccontarla io stessa e non farla raccontare da terzi a loro piacimento. Per me la magia più grande, o meglio il miracolo che ho sentito anche quel giorno in carcere è avvenuto su mio papà, il quale grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti, alla grande determinazione di queste persone a non mollare mai, è una persona migliore, un’altra persona, una persona con una grande voglia di vivere e migliorare, una persona con un’intelligenza straordinaria e una capacità di fare sentire gli altri a proprio agio che non tutti hanno. Non esprimo mai parole cosi importanti su di lui, ma questa volta glielo devo perché sono orgogliosa di lui e di quello che sta facendo. Non avevo mai presentato delle mie amiche a mio papà perché pensavo che non fosse pronto, invece penso che io non ero pronta, ma quest’anno l’ho voluto fare, gli ho presentato Stefania, la quale dopo mezz’ora che era con lui mi ha detto "a me sembra di parlare con te, perché tu sei come lui e non so come sia possibile visto che non sei cresciuta con lui. Gli voglio già bene perché ha qualcosa che mi ricorda mio padre". Oriana, figlia di Aurelio, ergastolano Gentile redazione di Ristretti Orizzonti, vi scrivo da Catania mi chiamo Oriana, figlia del detenuto Aurelio Q. del carcere di Padova Due palazzi. Volevo ringraziavi per quanto state facendo per tutti gli ergastolani, compreso mio padre, sto seguendo attentamente tutte le vostre idee e mi sarebbe piaciuto molto essere presente al convegno, avrei tanto voluto dire il mio pensiero al riguardo. C’è tanta sofferenza, ma voi mi state dando una speranza, l’unica che può farci andare avanti. Mio padre l’hanno portato via quando io ero neonata, avevo solo un anno non sapevo niente di lui, la mia mente riscopre immagini bruttissime per una bambina. In questi 20 anni ho visto dei cambiamenti su mio padre, oggi vedo i suoi occhi sempre più stanchi, vedo gli anni passare e lui non tornare. Credo che l’ergastolo sia una PENA DI MORTE PER L’ANIMA. Non è vero che la pena di morte in Italia non esiste, questa è proprio la pena peggiore che ci possa essere per un uomo, per qualsiasi uomo. Ho saputo solo da pochi giorni dell’esistenza del sito Ristretti Orizzonti, volevo complimentarmi con voi, e dirvi che se ci fossero più persone così, questo mondo non sarebbe tanto crudele. Grazie infinitamente a tutta la redazione. Con grandissima stima. Oriana E infine Antonio Papalia, un padre detenuto che per un giorno ha avuto vicino il figlio Fortissima è stata l’emozione di poter trascorrere una giornata con uno dei miei figli, senza essere guardato a vista come accade quando faccio il colloquio settimanale in una piccolissima sala, dove sono costretto a rimanere seduto a un tavolino senza potermi muovere, inoltre questo convegno mi ha dato la possibilità di fare qualche foto insieme a mio figlio, visto che finora non ne ho mai avuto l’opportunità. E tutto ciò è potuto avvenire perché mio figlio è stato autorizzato a partecipare al convegno, cosa che in ventiquattro anni di carcere non era mai successa, oggi invece grazie a questa importante occasione ho potuto trascorrere una giornata diversa e molto bella, una delle più belle della mia vita da quando sono in carcere. A dire il vero un’altra giornata simile l’avevo trascorsa l’anno scorso con mia moglie, mia figlia e una delle mie sette nipotine, grazie ad una iniziativa che ci aveva permesso di fare un colloquio con i familiari di domenica in palestra e poter pranzare insieme con loro, cosa rara, poiché non si è più ripetuta, ma DEVE assolutamente accadere ancora. Secondo me questi convegni, il progetto con gli studenti che la redazione di "Ristretti Orizzonti" porta avanti ormai da anni, gli incontri con le famiglie, il dialogo con il mondo esterno, portano il detenuto al cambiamento e fanno sì che una volta uscito non torni a delinquere, mentre se lo si lascia ad oziare in branda dalla mattina alla sera, oltre che farsi una carcerazione rabbiosa lui e la sua famiglia non faranno altro che vedere le istituzioni come nemici. Carceri: è polemica sull’operazione vendita, che non convince tutti di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 30 maggio 2016 È ragionevole vendere carceri storiche come San Vittore e Regina Coeli per aprirne di nuove in periferia? Il piano del governo irrompe nella campagna elettorale delle amministrative. E divide. "È un progetto giusto che il Comune deve favorire", si schiera subito il candidato sindaco del centrodestra a Milano, Stefano Parisi. "La mia priorità è di trovare una soluzione per mettere a posto quello già esistente - ribatte il suo avversario di centrosinistra, Giuseppe Sala - Una vendita senza vincoli mi fa veramente paura". E dubbi arrivano anche da sindacati e associazioni, oltre che da un esperto del dossier carceri come il senatore dem Luigi Manconi: "Le condizioni strutturali di San Vittore e Regina Coeli sono pessime - premette - ma penso che la soluzione debba essere una profonda opera di risanamento, ristrutturazione e manutenzione degli istituti. Spostarli causerebbe gravi difficoltà per chi deve raggiungerli: familiari dei detenuti, avvocati, personale e associazioni". L’idea dell’esecutivo è di vendere le carceri a Cassa depositi e prestiti, che li destinerà al mercato immobiliare. Un piano non necessariamente da bocciare, sostiene il Garante dei detenuti Mauro Palma: "Per affrontare il problema della qualità della detenzione, è chiaro che la questione dello spazio non è neutrale. Una riflessione su dove collocare il carcere è dunque ineluttabile. L’importante è mettersi d’accordo sul concetto di periferia: l’istituto deve comunque essere parte della città, collegato strutturalmente e concettualmente. Altrimenti non mi trova d’accordo". Cauto, ma senza entusiasmo è anche il primo cittadino di Napoli, Luigi de Magistris: "In questo paese non abbiamo carceri all’altezza di un paese democratico, si è fatto tanto ma ancora tanto va fatto". Anche il mondo politico si schiera. D’accordo con il piano governativo è Maurizio Lupi (Ncd): "San Vittore è ormai obsoleto". Contrari invece la berlusconiana Renata Polverini - "vendere Regina Coeli sarebbe un insulto a Roma" - e Daniele Farina di Sinistra Italiana: "È un disegno di tutti i governi di centrodestra". Marco Cappato, presidente di Radicali italiani, è sulla stessa linea: "La proposta del ministro Orlando sembra più rivolta alla speculazione immobiliare che non a rendere vivibili le carceri, che devono restare dove sono". Non basta insomma spostare gli istituti per migliorare la condizione dei detenuti: "Conosco le difficoltà di alcune carceri storiche - rileva Daniela de Robert, del collegio del Garante dei detenuti - ma per favorire il reinserimento dei detenuti costruisci nuovi istituti fuori dal mondo?". Non la prende bene neanche un’associazione che si occupa di detenuti come Antigone: "Il rischio è creare carceri-ghetto". Chiude il cerchio sempre Manconi: "Alla resa dei conti, si rischia di produrre un’architettura e un’ingegneria della rimozione del male - questo si pensa essere il contenuto del carcere - allontanandolo dallo sguardo dei cittadini. E dunque provocando un’ulteriore separazione". IL PROGETTO - Il progetto del ministro Andrea Orlando prevede di alienare le carceri storiche italiane delle grandi città per realizzarne di nuove in periferia. Tra le carceri inserite nel progetto San Vittore, la storica casa circondariale realizzata su progetto dell’ingegnere Francesco Lucca. A gestire dal punto di vista finanziario il progetto dovrebbe essere la Cassa depositi e prestiti, che si è già occupata di altre operazioni simili come la cessione di diverse caserme. Alla Cdp il compito anche di realizzare le nuove strutture che passerebbero poi al Demanio statale. Carceri, l’originale idea di vendere il patrimonio pubblico left.it, 30 maggio 2016 Che senso ha svendere le carceri storiche come Poggioreale, San Vittore e Regina Coeli? Stando alla dichiarazione del ministro della Giustizia Andrea Orlando l’intenzione del governo sarebbe nobilissima: "C’è bisogno urgente", dice il ministro, "di un modello di carcere diverso, che esca dall’attuale modello passivizzante, in cui stai in branda e non fai nulla in attesa che passi il tempo della pena". Bene, bravo. Non si può non esser d’accordo con Orlando: le attuali carceri sono "il presupposto giusto per la futura recidiva, mentre nei Paesi dove il carcere è studio, lavoro, sport la recidiva cala". Esatto. Su Left abbiamo più volte raccontato esempi di carceri all’avanguardia, di Paesi dove far scontare la pena anche per il più odioso dei reati non ha nulla della vendetta. Ma perché la risposta dovrebbe esser vendere le enormi strutture di Poggioreale, San Vittore, Regina Coeli? In che modo vendere queste grandi e centrali strutture pubbliche, e vendere attraverso Cassa depositi e prestiti dovrebbe avvicinarci alla Svezia - per dire? Anche il dem Luigi Manconi, certo non critico con il governo, dice che forse l’idea non è proprio così lineare, né giusta: "Le condizioni sturtturali di quelle strutture", dice il senatore che in memoria di Pannella ha presentato un ddl per modificare la procedura di richiesta dell’amnistia e dell’indulto, "sono pessime, ma penso che la soluzione debba essere una profonda opera di risanamento, ristrutturazione e manutenzione. Spostargli causerebbe gravi difficoltà per chi deve raggiungerli: familiari, avvocati, personale, associazioni". Non serve dunque andare a cercare tra gli oppositori al governo, né scomodare i Radicali veri e propri per ascoltare delle critiche. Ma è nelle parole di Marco Cappato (che per il Radicali è candidato sindaco a Milano, quindi coinvolto per San Vittore) che troviamo il giusto campanello d’allarme: "La proposta del ministro Orlando", dice Cappato, "sembra più rivolta alla speculazione immobiliare che non a rendere vivibili le carceri". Dovremmo citare pure la forzista Renata Polverini che ricorda come su queste strutture spesso siano state comunque, recentemente, investite importanti risorse. Ma non è neanche quello il punto. Non solo. San Vittore è un carcere dal 1879. Regina Coeli è un convento del 1600 e carcere dal 1881. Poggioreale, il più affollato, è del 1914. Che siano strutture non più adeguate, è evidente. Ma i centri delle nostre città - pur volendo ignorare le ragioni di chi nota l’aggravio logistico per familiari e avvocati nel caso di nuove carceri lontane dall’abitato - siamo sicuri abbiano bisogno di altre "valorizzazioni immobiliari"? Il centro di Roma ha bisogno di allontanare altri ultimi - e altri lavoratori - per accogliere altri turisti e altri immobili di lusso, anche accompagnati da una biblioteca, magari un nido, un modernissimo coworking? E il problema delle carceri, soprattutto, siamo proprio sicuri si risolva costruendone di nuove? Cosa ne è dei buoni propositi di affrontare l’urgenza di chi - e sono i più - è in carcere in attesa di giudizio? E dell’aumento delle pene alternative? Cosa ne è? Carceri in vendita: molti no, poche motivazioni di Luciano Scateni goldwebtv.it, 30 maggio 2016 Ci si vergogna, ma non cambia una virgola, di carceri dove la vita è mortificazione della dignità umana, che in cella finisca un pericoloso malvivente o poveraccio sorpreso a rubare cibo in un supermercato, un pericoloso killer o un commerciante strozzato dalla crisi e costretto alla bancarotta. Marco Pannella, non è il solo, ha violentato il suo corpo malandato con scioperi delle fame e della sete, voce inascoltata di protesta per detenzioni in condizioni disumane agli antipodi rispetto al principio della privazione della libertà come percorso di riabilitazione. Tre nomi di penitenziari, San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale, esemplificano da sempre l’elusione dei principi fondamentali del recupero: sovraffollamento, esclusione da impegni quotidiani di lavoro (retribuito), malversazioni e mille disagi, assenza di strategie riabilitative, sono sintomi di un sistema carcerario da terzo mondo e finora non si ò concretizzato nessun intervento di ristrutturazione pari all’emergenza denunciata. L’ipotesi di vendere le carceri di Milano, Roma e Napoli, e ricavarne risorse per nuovi complessi compatibili con la dignità dei reclusi, appena accennata da fonti governative ha ottenuto alcuni "No", motivati dalla paventata emarginazione dei detenuti e da presunti disagi per la mobilità di familiari e legali dei detenuti. Chi lo afferma finge di ignorare che l’eventuale delocalizzazione, in un contesto progettuale moderno, dovrebbe avvenire in parallelo a soluzioni di viabilità protetta, addirittura più confortevoli rispetto alle difficoltà imposte dal traffico cittadino. Certo, il paragone è irriverente, ma conviene egualmente citare il caso della city parigina, La Defense, dove grattacieli ed edifici adibiti ad uffici sono stati costruiti solo dopo aver ultimato la rete di collegamenti veloci con la città. Il sospetto, considerato il patologico immobilismo decisionale, è che l’idea di nuovi penitenziari italiani sparisca rapidamente dall’agenda di governo, dal dibattito politico e dall’attenzione dei media. Come sempre. Sergio Cusani: "così si nasconde il problema senza risolverlo" di Oriana Liso La Repubblica, 30 maggio 2016 "Ci sarebbero più disagi per tutti, e in una periferia lontana un detenuto si sentirebbe abbandonato". È un vecchio tema che si ripropone, ciclicamente". Non è sorpreso Sergio Cusani, una delle prime "vittime" di Tangentopoli, che dentro a San Vittore c’è rimasto diversi anni: quattro. La tangente Enimont, il primo processo in diretta tv. Un testa a testa con Antonio Di Pietro pm. Oggi, il sessantasettenne Cusani ha cambiato vita e l’esperienza del carcere lo ha avvicinato al volontariato. "Non è un fatto positivo", così bolla l’anticipazione di Repubblica, sulla possibilità di vendere le carceri di San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale, e grazie ai fondi ottenuti, costruirne nuovi, più moderni e civili. "Non voglio prospettare il problema delle speculazioni edilizie. Il tema è un altro. Una volta che una persona viene condannata in questo Paese, viene dimenticata. Se si abbandonassero queste tre strutture, questa sensazione sono sicuro aumenterebbe". Che significa, un carcere in centro città aiuta? "A me ha aiutato durante la mia esperienza. Tranquillizza avere la famiglia vicino. Per non parlare degli avvocati. Se, invece, si percorresse questa nuova linea che prevede la creazione di strutture periferiche, saremmo di fronte a un ulteriore processo d’abbandono anche per il detenuto". Eppure, anche all’estero questa strategia si sta facendo sempre più largo... "E una tendenza che permea il mondo occidentale. Negli Stati Uniti hanno appena finito di costruire un istituto di pena all’interno di una montagna sperduta. Hanno anche pensato di servire i pasti con un nastro trasportatore davanti alle cella. Un altro elemento che impedisce anche quel minimo di socialità che si può respirare in un penitenziario". Pensa che la soluzione proposta dal Ministero, possa avere ricadute sui detenuti? "Ne sono convinto. In un percorso che dovrebbe essere una ristrutturazione dell’individuo, il rischio è che esca puoi fuori un soggetto magari condannato in realtà per un reato minore, una belva incattivita. Ci sarebbe il rischio di creare delle molle compresse, pronte a esplodere una volta usciti". Lei, insomma, è totalmente contrario? "Mi sembra si voglia esaltare il discorso della periferia. Un luogo abbandonato. Non si vede, così non c’è. Come se non si volesse vedere un problema. Ma le ricadute potrebbe essere anche di un altro tipo. Un carcere in una periferia estrema comporta disagi che, da fuori, magari non si possono percepire. Non solo per i familiari, ma anche per i volontari. Il carcere, non dimentichiamolo - conclude Cusani - vive anche di volontari, delle loro istanze che vengono portate all’esterno. Anche in questo caso, questa attività diventerebbe ancora più difficile. La sensazione è che, al di là della volontà politica, che non commento, si voglia un ulteriore allontanamento di un problema, come se non lo si volesse vedere". Vittorio Taviani: a Regina Coeli ho visto l’orrore, ma farci un hotel sarebbe un’offesa di Arianna Finos La Repubblica, 30 maggio 2016 "Togliete le carceri dai centri storici, ma non trasformatele in alberghi e centri commerciali". Vittorio e Paolo Taviani, registi, sono in sintonia con il piano del governo, anticipato ieri da Repubblica, che prevede l’abbandono delle strutture storiche di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale a favore di nuovi penitenziari nelle periferie di Roma, Milano e Napoli, ma a patto che "gli spazi siano destinati al servizio pubblico dei cittadini". Da sempre attivi nelle prigioni, i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro alla Berlinale nel 2012 con "Cesare deve morire", docu-film sulla messa in scena del "Giulio Cesare" di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia. Vittorio, 86 anni, si è appena ripreso dall’incidente dello scorso ottobre, quando fu investito a un’auto in piazza Venezia. E dice: "Per noi di famiglia, parlo anche per mio fratello Paolo, e per il quartiere il carcere di Regina Coeli fa parte dell’orizzonte dei nostri sentimenti. Da cinquant’anni anni conviviamo con quello che ci arriva da là. Le famose grida romantiche dall’alto del Gianicolo e dalle sbarre, messaggi d’amore e di sostegno. Può capitare, e questo è terribile, che di notte improvvisamente arrivi una voce singola, disperata: "Qui non posso vivere". Quando c’è una partita dell’Italia, non abbiamo bisogno di accendere la televisione. Se va bene o va male lo sentiamo dalle grida di orrore o gioia che arrivano da lì dentro". Diverse sono le condizioni di chi è recluso. "Lo sappiamo bene. Con "Cesare…" io e Paolo abbiamo vissuto un’esperienza a Rebibbia, che è un carcere buono ma con problemi di sovraffollamento. Ci capitava, prima o durante le riprese, di camminare per questi lunghi corridoi e vedere attraverso le porte semiaperte uomini vecchi e giovani distesi sui letti a castello. Immersi, per ore, in un silenzio di morte. Uno di loro mi disse: "Non mi deve chiamare detenuto, mi chiami il guardatore di soffitti". In questo senso, in quei luoghi, c’è un nulla che distrugge l’energia della vita. Regina Coeli è molto peggio. Perché almeno il carcere di Rebibbia è stato costruito in modo razionale, nella prigione di Trastevere ho visto celle fatiscenti. Credo che sia venuto il momento che Regina Coeli scompaia, accompagnato, lo dico, dal dolore di tutti noi che viviamo in questo quartiere. È un pezzo della storia di Roma che si fonde con i rumori della città che gli è intorno. Si perderà tutto, ma ben venga se avverrà a favore di un luogo in campagna, con costruzioni innovative progettate da architetti, sociologi e psicologi affinché si trovi il modo per trasformare la pena in un cammino di riscatto. Vivere là dentro è una condizione inconcepibile per un essere umano. Allora, addio Regina Coeli". Tra le conseguenze più gravi dell’inadeguatezza delle strutture c’è l’immobilismo dei detenuti. "Quando i nostri carcerati, attori, uscivano dalle loro celle e venivano per alcune ore da noi, dicevano: "Oggi siamo liberi, ci sentiamo persone. Appena torniamo su, perdiamo l’individualità degli uomini, l’energia della vita". Ci ha sconvolto il loro dover vivere senza un progetto. Alcuni meravigliosi disperati studiavano, prendevano lauree e diplomi, agganciandosi a qualcosa da costruire". Con i detenuti del vostro film avete mantenuto un contatto? "Con i nostri attori abbiamo stabilito un rapporto che oggi, quattro anni dopo il film, è d’amore. Li sento fratelli, vorrei baciarli. Lo scorso marzo ho partecipato a una gara di retorica. Ma questo non cancella l’odio per quel che hanno fatto. Io e Paolo rimaniamo in questa contraddizione. Ci hanno raccontato cose terribili: "Io ho tre orfani sulla coscienza", "io ne ho ammazzati venti". Prima li rifiuti, poi lavorando con loro li vedi tirar fuori il dolore che hanno dentro, senza pudori. Uno ha scritto alla moglie: "Vieni a vedermi quando recito perché mentre recito posso perdonarmi". Il ricordo più bello è la foto che ciascuno di loro ha voluto fare, al centro, tra me e Paolo, con l’Orso d’oro in mano". Il carcere è anche luogo di reclutamento per l’estremismo jihadista. "Questo terribile, spaventoso fanatismo islamico trova proseliti tra chi è in carcere. Se fossi un detenuto penserei: "Sì, ho questa colpa, ma è più grave la violenza che mi fa questo Stato, la tortura che mi infligge giorno e notte". E qualcuno pensa che sia giusto ribellarsi. E il carcere diventa scuola di sopraffazione. Ha presente che significa essere stipato in una camerata che dovrebbe essere per tre e invece ci si sta in sette? Un costringimento della mente e del corpo". Come dovrebbero essere utilizzati gli edifici storici? "Quando arrivammo qui, mezzo secolo fa, ci dissero che il carcere sarebbe diventato una grande biblioteca nazionale. Una biblioteca, un museo. Queste sono le trasformazioni possibili per una struttura nel cuore della città. Non può diventare un grand hotel, un ipermercato. La nuova destinazione deve diventare un omaggio a chi in quel carcere molto ha sofferto. Un destino commerciale per Regina Coeli mi farebbe orrore e il mio quartiere protesterebbe con tutte le forze". Cappellani carcerari europei: prevenire la radicalizzazione dei detenuti Radio Vaticana, 30 maggio 2016 Prenderà il via questo lunedì a Strasburgo l’incontro dei cappellani carcerari europei. Organizzato dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, l’evento, dal titolo "Radicalizzazione in carcere: uno sguardo pastorale", avrà l’obiettivo di individuare strade concrete per evitare lo sviluppo del fondamentalismo tra i detenuti. Federico Piana ne ha parlato con mons. Paolo Rudelli, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa: R. L’incontro intende mettere in contatto l’attività del Consiglio d’Europa sul tema della prevenzione della radicalizzazione nelle carceri e l’attività che la Chiesa svolge in questo campo. C’è una presenza molto importante dei cappellani delle carceri e quindi abbiamo pensato che mettere assieme questi due mondi fosse importante. D. Quanto è importante in questo ruolo il cappellano delle carceri? R. Il cappellano ha un ruolo di accompagnamento nella dimensione spirituale con una sua autonomia; non è legato direttamente all’amministrazione carceraria. Quello che può essere importante è - e anche il nostro incontro lo vuole mettere in luce - la collaborazione tra cappellani o persone incaricate della cura spirituale di diverse confessioni, nel senso che questa collaborazione può contribuire a creare un clima di maggiore rispetto ed anche di dialogo all’interno del carcere. D. Perché probabilmente la collaborazione tra elementi di varie religioni aiuta a prevenire la radicalizzazione e l’estremismo… R. Dovrebbe aiutare soprattutto a mettere in luce l’importanza della dimensione spirituale per la vita umana; è importante anche la tutela della libertà religiosa all’interno delle carceri ma, al tempo stesso, è un fattore di condivisione, di pace, non di violenza o di estremismo. D. Il coordinamento dei cappellani delle carceri a livello europeo, secondo lei, può essere rafforzato anche con queste iniziative che mirano a condividere informazioni ed esperienze? R. Sì. In realtà poi ogni nazione ha una realtà molto diversa per quanto riguarda il servizio in carcere. Comunque questo incontro vuole aiutare a riflettere, anche a livello europeo, su questa realtà e mettere in contatto l’attività della Chiesa e le attività di un’organizzazione internazionale come il Consiglio d’Europa che ha come scopo la difesa dei diritti umani, anche delle persone in carcere. Nello Rossi: "Prescrizione, Casson sbaglia. Un processo non può essere infinito" di Liana Milella La Repubblica, 30 maggio 2016 "Un giudizio non è una spada di Damocle, è necessario che ci sia un limite". "Sì" alla prescrizione chiusa dopo il primo grado. "No" a farla partire dalla scoperta del reato. È l’opinione di Nello Rossi, avvocato generale in Cassazione, toga storica di Md. Il suo giudizio sulle proposte Casson-Cucca? "Vi scorgo spinte e soluzioni di segno diverso e mi chiedo: si vuole razionalizzare, com’è necessario, l’istituto della prescrizione o azzerarlo?". Far partire l’orologio da quando il reato viene scoperto non sarebbe risolutivo? "Più che risolutivo sarebbe distruttivo. La prescrizione è un istituto di segno liberale che offre una fondamentale garanzia. Fatta eccezione per i reati gravissimi, che sono imprescrittibili, la pretesa dello Stato di sottoporre a processo penale la persona accusata di un reato non può protrarsi all’infinito. Dev’esserci un limite al di là del quale si rinuncia a processare e a punire perché "è passato troppo tempo". Altrimenti il processo finisce per rassomigliare alla mitica spada di Damocle che pende a tempo indefinito sulla testa dell’imputato, appesa al filo di un potere perennemente minaccioso ma inerte". Perché la stronca così? Voi toghe avete sempre detto che la corruzione si scopre tardi e si mangia tutta la prescrizione. Con la soluzione Casson il problema sarebbe risolto... "Spostando l’inizio del tempo di prescrizione al momento in cui polizia e pm acquisiscono notizia di un reato diverrebbe possibile - anzi doveroso visto che l’azione penale è obbligatoria - iniziare "oggi" indagini e processo per fatti accaduti magari quindici o vent’anni fa. Creando, tra l’altro, difficoltà spesso insormontabili a chi è chiamato a difendersi da accuse per fatti così remoti. Per questa via non si riforma la prescrizione, ma si vanificano l’istituto e le sue ragioni". Non si può tenere uno sulla tagliola del processo tutta la vita... sarà pure, ma dargli una sorta di grazia non è troppo? "Non corra troppo. Che un processo penale non si concluda con un’assoluzione o una condanna ma con la prescrizione è una sconfitta del sistema giudiziario. Ma da questo a dire che l’imputato "prescritto" è sempre un potenziale condannato o addirittura un "graziato" ce ne corre". Stop definitivo alla prescrizione dopo il primo grado. Questo almeno le piace? "Molto. Perché non demolisce la prescrizione ma la riforma, restituendole senso e misura. Se, come oggi, il tempo di prescrizione corre lungo tutti i tre gradi di giudizio, molti imputati la vedranno come un traguardo raggiungibile. E faranno di tutto - aggiungo legittimamente - per rallentare il corso della giustizia e guadagnare questa meta. Con buona pace della ragionevole durata del processo". E quindi? "Quando lo Stato ha assunto l’iniziativa e si è giunti a una prima sentenza, la garanzia della prescrizione perde la sua ragion d’essere e può cessare. Appello e Cassazione restano diritti dell’imputato, ma egli ha avuto un giudizio e da quel momento non potrebbe più dolersi della minacciosa inerzia del potere pubblico e invocare la garanzia della prescrizione". La soluzione del governo - sospensione e tre anni di bonus - è un compromesso al ribasso? E che pensa del "lodo Ferranti", prescrizione il doppio dell’attuale per la corruzione? Se scendesse a un terzo come chiede Ap basterebbe o saremmo al pannicello caldo? "Immagino le difficoltà che incontra chi, in Parlamento, vuole risanare aree della giustizia penale, incancrenite da anni di leggi ad personam e da interventi estemporanei o strumentali. È su questo terreno che germogliano tentativi di mediazione e lodi non necessariamente deteriori. Attenzione però. Poiché la legge ex Cirielli ha collegato il tempo di prescrizione alla misura della pena prevista per ciascun reato, assistiamo a un singolare capovolgimento. Si aumentano le pene solo per ottenere più tempo per il processo e il sistema penale si trasforma in un patchwork, cui ogni giorno si aggiunge una nuova toppa. Non è un buon modo di procedere nel campo delicato della giustizia penale". Lumia: dico sì all’emendamento Casson, ma bisogna mediare di Dino Martirano Corriere della Sera, 30 maggio 2016 "Per trovare un accordo sulla prescrizione con Ncd, la strada sarà tutta in salita. Ma anche sulle unioni civili sembrava impossibile raggiungere una sintesi con i centristi: eppure, siamo stati capaci di dare al Paese una legge straordinaria che rompe con il passato e fa crescere i diritti civili. Dunque, anche ora, sulla riforma che smantella l’uso scandaloso della prescrizione per non celebrare i processi, dobbiamo applicare lo stesso metodo. Quello che blocca le aspettative dei partiti davanti all’interesse del Paese". Il ragionamento tattico del senatore Giuseppe Lumia, capogruppo In Senato Giuseppe Lumia, 55 anni, senatore del Partito democratico, è membro della commissione Giustizia Pd in commissione Giustizia, parte da un dato oggettivo: "Sulla stepchild adoption, il Pd ha fatto un passo indietro, perché il Paese non è pronto, ma nella legge sulle unioni civili si è lasciata la possibilità al giudice di riconoscerla". Analogamente, il punto di caduta sulla prescrizione potrebbe essere un "passo indietro" rispetto alla proposta più avanzata fatta dai dem: "Per questo dico che i relatori Casson e Cucca devono mantenere i loro emendamenti. La loro proposta non è scandalosa, anzi va guardata con interesse perché introduce uno schema esistente in molti Paesi a democrazia avanzata". La proposta dei relatori dem - giudicata dal ministro Andrea Orlando uno sgambetto a gioco fermo - ha fatto imbufalire gli alleati del Ncd e ha scatenato il tifo dei grillini: il testo Casson-Cucca, infatti, fissa la decorrenza dei termini di prescrizione dal momento in cui i pm vengono a conoscenza "Ripartiamo dal doppio binario che era nel testo presentato alla Camera" della notizia di reato (e non dal giorno in cui è stato compiuto il reato) e prevede lo stop alla prescrizione dopo la condanna di primo grado. "Quella dei relatori è una delle ipotesi, non la soluzione "prendere o lasciare", attacca Lumia. Che poi cala una carta per la "trattativa in salita" con il Ncd: "Certo la posizione espressa dal Pd in molti disegni di legge che io pure ho firmato, è vicina a quella di Casson e Cucca. Ma io dico, facciamo un passo avanti, prendiamo la soluzione più raffinata individuata dal governo e dalla Camera che prevede sospensioni per fasi: due anni dopo la condanna di primo grado, un anno dopo quella di appello". Ecco, si scopre Lumia, "dobbiamo ripartire dal testo della Camera con il "doppio binario" per la corruzione come si fa per mafia e terrorismo. Ce lo chiede un Paese moderno". Il "metodo Lumia-Cirinnà", certo con le correzioni pilotate dal capogruppo Zanda e da Palazzo Chigi, ha prodotto un doppio risultato per le unioni civili: unità della maggioranza e legge approvata. Ora il senatore Lumia ci riprova: "Il miracolo può ripetersi con la prescrizione". La prescrizione, il Pd e il rischio democrazia dimezzata di Giovanni Verde Il Mattino, 30 maggio 2016 Il Partito Democratico della Sinistra da alcuni anni ha cambiato nome. È diventato Partito Democratico. Quando si cambia ci sarà pure una ragione. E il caso di interrogarsi su questa ragione. Alla domanda si può opporre un fine di non ricevere. Infatti, è possibile pensare che la dicitura "della sinistra" sia stata eliminata in quanto pleonastica. Per tradizione il partito democratico è espressione della sinistra. Di conseguenza, non c’era alcuna ragione per enfatizzare nell’intitolazione ciò che fa parte del Dna della ideologia di sinistra. Chi non si accontenta di questa risposta, parte dalla premessa che un grande partito non cambia il suo nome per ragioni di forma; che, se si induce a tanto, lo fa per scelte che riguardano lo stesso modo di essere del partito e che rispecchiano la sua ideologia quale si è andata evolvendo in relazione alle nuove esigenze e al diverso modo di intendere i valori che sono a base della tradizionale ideologia della sinistra. Del resto è discutibile che la democrazia tolleri etichette di destra o di sinistra, se è vero che essa è l’antitesi del regime autoritario e che ha per presupposto che la sovranità spetti al popolo, così che, non essendo praticabili (nelle società complesse dei tempi moderni che riconoscono a tutti i cosiddetti diritti di cittadinanza) meccanismi digestione diretta del potere, la qualità della democrazia si valuta in base alla misura in cui riesce a garantire un corretto rapporto tra i rappresentanti, cui è delegato l’esercizio del potere, e i rappresentati, che sono o dovrebbero essere i cittadini. Insomma, un regime è democratico non perché sia di destra o di sinistra, ma perché costruisce una sufficiente cinghia di trasmissione del potere (che è l’insopprimibile meccanismo di esercizio della sovranità) dai cittadini ai rappresentanti e garantisce il controllo dei primi sui secondi quale si realizza con la temporaneità del mandato e con l’esercizio delle libere elezioni. Lascio da parte l’utopia di chi pensa di costruire nei tempi moderni una sorta di democrazia diretta che dovrebbe fare a meno della rappresentanza politica (il che non è soltanto utopico, ma assai pericoloso, perché nasconde l’insidia dell’autoritarismo mascherato). Mi illudo nel pensare che il cambiamento della denominazione sia espressione di questa nuova sensibilità, in base alla quale l’uomo di sinistra è democratico non per la sua ideologia, ma perché ha fiducia nei meccanismi che sono a base della rappresentanza politica. La domanda da porsi è, tuttavia, se l’uomo di sinistra abbia sufficiente fiducia in questi meccanismi di rappresentanza. E la risposta sembra che debba essere negativa. Egli mostra una sfiducia generalizzata. Troppo spesso non ha fiducia nelle scelte dei cittadini, nelle quali intravede i germi di una diffusa propensione all’illegalità, e non ha fiducia negli stessi rappresentanti, ai quali addebita una tendenza a favorire o, addirittura, a coltivare l’illegalità. Avviene in tal modo che l’uomo di sinistra, oppresso dall’idea che il popolo dei "buoni", che per insopprimibile albagia colloca a sinistra, sia in lotta costante conia moltitudine dei "cattivi", che per definizione sta dall’altra parte, ritiene inevitabile affidare la sorveglianza sulla correttezza dei comportamenti a soggetti esterni. E chi se non il giudice è il soggetto terzo al quale affidare tale controllo? Si dirà che ciò è fisiologico. Anche l’esercizio del potere pubblico in democrazia deve rispettare le regole e, pertanto e anzi a maggior ragione in democrazia, è necessario il controllo della magistratura, potere terzo e autonomo. Il problema è, tuttavia, di limiti. La magistratura deve intervenire dall’esterno per curare la patologia, non deve inserirsi nel circuito del potere, diventandone, anche senza volerlo, parte integrante. L’idea di democrazia propria dell’uomo di sinistra odi una parte degli uomini della sinistra, che inserisce il controllo giudiziario all’interno dello stesso esercizio del potere (è questo il timbro del giustizialismo), è quella di una demo crazia sotto costante e penetrante tutela del giudice, cui si riconosce forza e dignità in quanto è nominato con meccanismi che nulla hanno a che vedere con quelli della rappresentanza democratica. È un paradosso: ma questa idea della democrazia poggia sull’efficacia di un controllo affidato a soggetti la cui legittimazione avviene fuori dal circuito democratico. Nei giorni scorsi è scoppiata la polemica sull’allungamento della prescrizione per alcuni reati, la cui gravità è strettamente connessa all’esercizio o al cattivo esercizio del potere da parte di chi ha ricevuto un’investitura democratica. Stabilire che un delitto si prescrive dopo venti anni (ossia a distanza di generazioni rispetto al tempo in cui è stato commesso), o che la prescrizione decorre non dal momento in cui il reato è stato commesso, ma da quello in cui è stato scoperto (e il giorno della scoperta è, purtroppo, nel limbo delle situazioni di cui non si ha mai certezza) significa prorogare all’infinito il controllo dei giudici sul corretto esercizio del potere. Il che nulla ha a che vedere con l’esercizio della funzione punitiva. Dopo venti anni la collettività, spesso rappresentata da una generazione successiva rispetto agli eventi, non avverte il significato della condanna, che è subita dal condannato come una vendetta, più che come una sanzione. Ciò che è a base di queste richieste di riforma non è l’esigenza di punire il colpevole. Le ragioni sono altre: si pensa che in tale modo si possano dissuadere gli inclini a delinquere dall’insistere in comportamenti antigiuridici (il che è non più che una speranza e finisce con l’alzare il prezzo della corruzione) e, più ancora, si pensa di poterli condizionare con la minaccia del processo o con la pendenza del processo. Così che il processo, quello che si celebra nelle aule giudiziarie e, più ancora, quello mediatico, finisce con l’essere, esso, la pena vera e principale. Ma il processo molto spesso è un trituratore che distrugge le persone (e con le persone può distruggere anche le istituzioni) prima e molto più della condanna. Si obietta: altrove neppure esiste la prescrizione. Altrove, però, non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, che spesso è affidata ad organi collegati al potere esecutivo, così che nell’esercizio dell’azione si tiene anche conto dell’interesse attuale della collettività alla punizione. Coloro o parte di coloro che si iscrivono al partito democratico e più ancora coloro che si illudono di potere gestire la democrazia in diretto collegamento con i cittadini, dovrebbero riflettere su alcune loro proposte e chiedersi se le stesse siano in linea con l’idea della democrazia (non importa se di destra o di sinistra) o se non finiscano piuttosto per dare fiato ad una democrazia dimidiata, affidata all’acribiosa tutela di una magistratura, che è e non può non essere politicamente irresponsabile. La responsabilità civile dei magistrati va alla Consulta di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2016 Tribunale di Genova, ordinanza del 10 maggio 2016 Il sospetto dell’incostituzionalità porta la riforma della responsabilità civile dei magistrati alla Consulta. Con un’ordinanza del 10 maggio scorso, il Tribunale di Genova (presidente Costanzo, relatore Lucca) ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’articolo 3, comma 2, della legge 18/2015, che ha abrogato l’articolo 5 della legge 117/88, cioè la norma che disciplinava il "filtro" di ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’esercizio di attività giurisdizionale. In base alla norma abrogata, dopo la prima udienza, subito e con decreto impugnabile, il tribunale doveva dichiarare inammissibile la domanda se non erano rispettati i termini o i presupposti di legge o se era manifestamente infondata. Se invece la domanda veniva ritenuta ammissibile, il tribunale doveva disporre la prosecuzione del processo. Ora, la legge 18/2015 ha cancellato questa fase preliminare. La domanda arrivata al Tribunale di Genova, relativa all’azione di responsabilità civile dei magistrati degli uffici di Firenze, è stata presentata da un imprenditore al quale era stata estesa la dichiarazione di fallimento di una società, della quale era socio illimitatamente responsabile. Secondo l’imprenditore, i giudici di Firenze avrebbero commesso un errore di diritto nel conteggio dei giorni liberi effettivamente decorsi tra la data di perfezionamento della notifica, fatta in base all’articolo 140 del Codice di procedura civile, e quella della prima udienza. Nemmeno la Corte di appello aveva accolto l’eccezione su questo punto perché aveva ritenuto che l’uomo si fosse sottratto volontariamente alla notifica. Ma la Cassazione aveva poi annullato la sentenza. Frattanto il fallimento era stato chiuso e l’imprenditore lamentava la riduzione del suo credito commerciale. Tutto accadeva prima del 2015. Il Tribunale di Genova, competente per le controversie che hanno come parti i magistrati di Firenze, aveva affermato, in pronunce precedenti, che l’abrogazione del filtro ha natura sostanziale e che quindi non vale per gli illeciti eventualmente commessi dai magistrati prima della riforma. Ma la Cassazione ha poi chiarito che l’abrogazione del filtro è norma solo processuale e si applica ai giudizi di responsabilità iniziati dopo la riforma, a prescindere dall’epoca dei fatti (sentenza 25216/2015). I giudici di Genova, però, dubitano della costituzionalità di questa norma. Il fatto che il legislatore elimini il "filtro" in un "processo sul processo", come è quello in cui si ipotizza la responsabilità del magistrato, mentre è ora previsto in tutti i giudizi di impugnazione, contrasterebbe con l’articolo 3 della Costituzione; inoltre incentiverebbe la "giurisprudenza difensiva", sottraendo i cittadini alle garanzie effettive e si renderebbe irragionevole la durata del giudizio di responsabilità, in contrasto con l’articolo 111 della Costituzione. Senza il "filtro" il magistrato non sarebbe più sottratto a pressioni indebite e sarebbe indotto all’astensione nel giudizio nel quale avrebbe commesso l’illecito, con violazione del principio del giudice naturale (articolo 25) e della sua sua soggezione solo alla legge (articolo 101). Adesso la parola passa alla Consulta. Misure cautelari personali: condotta ostativa al riconoscimento dell’indennizzo Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2016 Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Condotta gravemente colposa - Potenziale induzione in errore dell’autorità giudiziaria - Necessità di uno specifico riferimento al reato fondante il vincolo cautelare. Osta al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta detenzione la condotta gravemente colposa e potenzialmente idonea a indurre in errore l’autorità giudiziaria in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di reità con specifico riguardo al reato che ha fondato il vincolo cautelare. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 31 luglio 2015 n. 33830. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Colpa dell’imputato ostativa al risarcimento - Colpa concretantesi in comportamenti di tipo processuale o extraprocessuale. La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione) o processuale (auto-incolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi), in ordine alla cui attribuzione all’interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il giudice è tenuto a motivare specificamente. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 29 gennaio 2015 n. 4372. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo - Sussistenza di dolo o colpa grave dell’instante - Condotta idonea a trarre in errore l’autorità giudiziaria - Necessità - Esclusione. La colpa grave, ostativa alla riparazione della detenzione subita, non deve consistere necessariamente in una condotta che, gravemente imprudente o negligente, sia idonea a indurre in errore l’A.G. specificamente in relazione al reato per il quale si è patita la detenzione, sempre che la trasgressione sia stata giuridicamente idonea a sostenere una misura cautelare detentiva. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 10 settembre 2014 n. 37401. Misure cautelari personali - Indennizzo per l’ingiusta detenzione - Errore giudiziario - Necessità - Esclusione - Condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo - Condotta gravemente colposa o dolosa dell’instante - Condotte precedenti e successive all’emissione della misura - Valutazione - Necessità. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un "errore giudiziario", venendo in considerazione soltanto l’antinomia "strutturale" tra custodia e assoluzione, o quella "funzionale" tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi "ingiusta", in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la "ratio" solidaristica che è alla base dell’istituto. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 24 dicembre 2013 n. 51779. Atti processuali: obbligo di traduzione degli atti Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2016 Processo - Atti processuali - Obbligo di traduzione in favore dell’imputato alloglotta - Atti anteriori alla modifica dell’art. 143 cod. proc. pen. L’obbligo di traduzione degli atti processuali in favore dell’imputato alloglotta che non comprende la lingua italiana, ai sensi dell’art. 143 cod. proc. pen. (come modificato dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32) è configurabile - in relazione agli atti processuali anteriori alla novella - solo se detto obbligo risulti funzionale a un diritto ancora esercitabile; ne deriva che il diritto alla traduzione non è configurabile con riferimento a una sentenza già impugnata, né in relazione a un provvedimento per il quale siano già decorsi i termini di impugnazione. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 19 ottobre 2015 n. 41834. Processo - Atti processuali - Imputato alloglotta irreperibile o latitante - Notificazione presso il difensore - Traduzione degli atti - Necessità - Esclusione. L’obbligo di traduzione degli atti processuali in favore dell’imputato alloglotta che non comprende la lingua italiana, anche a seguito della riformulazione dell’art. 143 cod. proc. pen.,è escluso ove lo stesso si sia reso, per causa a lui imputabile, irreperibile o latitante, con conseguente notificazione degli atti che lo riguardano al difensore. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 23 marzo 2015 n. 12101. Processo - Atti processuali - Traduzione degli atti - Imputato alloglotta - Impossibilità di notificazione presso il domicilio eletto o dichiarato - Notificazione presso il difensore - Traduzione degli atti - Necessità - Esclusione. L’obbligo di traduzione degli atti in favore dell’imputato alloglotta è escluso ove lo stesso si sia posto nella condizione processuale per cui gli atti devono essergli notificati mediante consegna al difensore, non verificandosi in tale ipotesi alcuna lesione concreta dei suoi diritti. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 19 novembre 2014 n. 47896. Processo - Atti processuali - Obbligo di traduzione degli atti - Atti già formati da acquisire al procedimento - Esclusione. L’obbligo di usare la lingua italiana si riferisce agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al processo, per i quali la necessità della traduzione si pone solo qualora lo scritto in lingua straniera assuma concreto rilievo rispetto ai fatti da provare, essendo onere della parte interessata indicare ed illustrare le ragioni che rendono plausibilmente utile la traduzione dell’atto nonché il pregiudizio concretamente derivante dalla mancata effettuazione della stessa. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 18 settembre 2014 n. 38343 Furto in palestra, possibile l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione IIV penale - Sentenza 22 aprile 2016 n. 17001. È ravvisabile l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede nel caso del furto commesso nello spogliatoio di una palestra, essendo irrilevante, in senso contrario, che l’accesso ai locali della palestra sia riservato ai soci muniti di badge, perché l’esposizione del bene alla pubblica fede è ravvisabile anche quando la sorveglianza è esercitata in modo non continuativo ed è quindi inidonea a impedire il libero accesso da parte del pubblico, assumendo rilievo, per la configurabilità dell’aggravante, la facilità di raggiungere la cosa oggetto di sottrazione. Lo hanno detto i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 17001 del 22 aprile 2016. L’esposizione alla pubblica fede - Da queste premesse, è stata ravvisata l’aggravante di cui all’articolo 625, numero 7, del Cp, relativamente al tentativo di furto di un paio di scarpe nei locali spogliatoio di una palestra, sul rilievo che l’accesso a tali locali era accessibile senza particolari difficoltà a qualsiasi socio della palestra, cosicché doveva ravvisarsi l’esposizione alla pubblica fede dei beni ivi lasciati dai soci che fruivano dei bagni o delle docce nell’orario di normale fruizione dei locali suddetti. In termini, sezione V, 8 gennaio 2014, Fusari, secondo cui integra il reato di furto aggravato dall’esposizione alla pubblica fede della cosa la condotta di chi sottrae alcune racchette da tennis e alcuni capi di abbigliamento all’interno dei locali di un circolo sportivo privato dotato di sistema di video sorveglianza a circuito chiuso, quando la sorveglianza è esercitata in modo non continuativo ed è quindi inidonea a impedire il libero accesso da parte del pubblico, atteso che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, assume rilievo non la natura, privata o pubblica, del luogo di esposizione del bene, ma la facilità di raggiungere la res oggetto di sottrazione. "Caro Pannella, grazie di aver lottato per noi detenuti" Il Centro, 30 maggio 2016 Non si smorza l’eco della scomparsa di Marco Pannella, soprattutto tra le persone per le quali il leader radicale combatteva le proprie battaglie politiche. È il caso dei detenuti. Dalla casa circondariale di Castrogno, mittente l’antagonista teramano Davide Rosci in carcere per scontare sei anni per gli scontri di piazza San Giovanni del 2011, ci arriva questa lettera che pubblichiamo integralmente. "I detenuti delle sezioni 3ª Sud e 3ª Nord del carcere di Castrogno esprimono il loro più profondo cordoglio per la morte del leader radicale Marco Pannella. Un uomo che in tutta la sua vita ha sempre lottato con coraggio per i diritti degli ultimi, soprattutto noi detenuti, e che ha insegnato a tutti noi cosa significhi la parola umanità. Potremmo citare tutte le sue battaglie per ricordare che grande persona è stata, ci limitiamo ad immaginarlo con il suo immancabile sigaro e sorriso mentre ci incoraggia ad avere fiducia nel futuro". La lettera si chiude rivolgendosi direttamente a Pannella: "Che il tuo esempio sia d’insegnamento ai politici di oggi e del domani, e che il tuo appello ad un sistema carcerario umano, così come l’esigenza di un’amnistia, siano finalmente ascoltati. Allora sì che riposerai in pace". Sicilia: rapporto sull’inferno carceri, celle strapiene e niente lavoro per i detenuti di Claudio Reale La Repubblica, 30 maggio 2016 Dodici carceri sovraffollate su 23. Secondo il ministero della Giustizia, i penitenziari siciliani scoppiano di detenuti: nelle due case circondariali di Catania e in quelle di Siracusa, Piazza Armerina, Gela, Caltanissetta, Castelvetrano, Agrigento, Augusta, Termini, Giarre e Sciacca i reclusi superano la capienza regolamentare. Secondo l’associazione Antigone, il carcere catanese di Bicocca è il quinto più affollato d’Italia, con cinque metri quadrati a testa. In totale nell’Isola ci sono 5.789 detenuti, prevalentemente italiani: i migranti sono il 21 per cento, meno della media nazionale. Il neo-garante dei detenuti Giovanni Fiandaca annuncia un giro di visite nei penitenziari: "Cercheremo risorse per formazione e lavoro in carcere". Dodici carceri sovraffollate su 23, 5.789 dietro le sbarre. E un picco nella casa circondariale catanese di Bicocca, che con cinque metri quadrati per detenuto è il quinto penitenziario più sovraffollato d’Italia secondo l’associazione "Antigone". I dati del ministero della Giustizia sugli istituti di detenzione siciliani tracciano una mappa nella quale il rispetto delle condizioni di vita dei carcerati è un optional: se infatti secondo il Dap ciascun ospite dei penitenziari dovrebbe avere a disposizione nove metri quadrati, la capienza teorica viene rispettata da meno della metà delle strutture. Con un dato sorprendente: i detenuti siciliani, sulla carta, sono meno degli spazi disponibili, con il paradosso che vede alcune istituti semivuoti (ad esempio l’ex ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, la casa di reclusione dell’Ucciardone o la casa circondariale di Ragusa) e altri oltre il livello di vivibilità. E come se non bastasse, al poco spazio si sommano le difficoltà organizzative: "Quasi nessun carcere - spiega il referente di Antigone in Sicilia, l’ex parlamentare Pino Apprendi - ha un mediatore culturale. È carente anche la dotazione di medici e psicologi". Celle invivibili - Stando ai dati del ministero aggiornati al 30 aprile il carcere più sovraffollato è appunto Bicocca: gli spazi permetterebbero di ospitare 138 persone, ma ce ne sono 249. "Le celle - annotava Antigone dopo l’ultima visita, che risale però al 2014 - sotto delle dimensioni di 3,8 per 3,7 metri con vano bagno incluso e parecchie di queste ospitano fino a 3 detenuti (alloggiati in letti a castello a 3 piani). Siamo quindi al limite delle dimensioni minime previste dalla Corte europea dei diritti umani". La segue Siracusa con 469 detenuti contro una capienza di 330. "Le celle ospitano due, tre detenuti per ogni reparto - scriveva Antigone dopo l’ultimo sopralluogo - ma nella sezione degli imputati il numero può salire a 4 per cella". Più o meno nelle stesse condizioni si trovano Piazza Armerina (64 detenuti contro una capienza di 46), Gela (66 contro 48), Caltanissetta (246 nello spazio per 181), Castelvetrano (59 ospiti in celle adeguate per 44 persone) e il "Petrusa" di Agrigento (361 detenuti presenti contro una capienza di 276). "Le celle - racconta Apprendi, che ha visitato il penitenziario agrigentino ad aprile - ospitano letti a castello a tre posti, con condizioni di vivibilità molto basse. Si fa fatica a respirare. Il problema riguarda soprattutto le celle per i "protetti": collaboratori, pedofili, ex uomini delle forze dell’ordine, insomma i detenuti che potrebbero essere aggrediti dagli altri, vivono nelle celle più anguste". Dell’elenco dei penitenziari sovraffollati fanno parte solo case circondariali, che - a differenza delle case di reclusione - ospitano i detenuti con sentenza non definitiva o con pene lievi. Della lista delle "peggiori" fanno parte anche Augusta (455 contro 372), Termini Imerese (99 contro 84), Giarre (64 contro 58) e l’altro carcere catanese, quello di Piazza Lanza (341 contro 313). "I camminamenti per i protetti - scrive Antigone su Termini - sono dei ‘cubico-lì: larghi un paio di metri, lunghi otto, forse ancora meno. Mura scrostate e verdi delimitano uno spazio che in un angolo ospita un gabinetto alla turca. Date le condizioni materiali, l’amministrazione non vi porta mai più di sei detenuti per volta". Pochi immigrati in cella - La popolazione carceraria siciliana è per lo più di passaporto italiano: a fronte di una media nazionale che si aggira intorno al 33 per cento di immigrati, nell’Isola proviene dall’estero poco più di un detenuto su cinque. Il carcere a più basso tasso di italiani è quello di Ragusa: gli immigrati sono più della metà, 69 su 134. La seguono Enna (64 immigrati su 152), Gela (25 su 66), Piazza Armerina (24 su 64) e Sciacca (30 su 84). Quello con la più alta percentuale di italiani è ancora una volta Bicocca: solo il 4 per cento dei detenuti, cioè 10, sono stranieri. Pochissime anche le donne: sono in totale 117, recluse ad Agrigento (40), Piazza Lanza (22), Barcellona Pozzo di Gotto (8), Messina (5) e Pagliarelli (42). In carcere non si lavora - Le condizioni materiali, poi, sono a tratti drammatiche. A partire dal lavoro: Enna, con un tasso di occupazione del 15 per cento e a pari "merito" con Brindisi, è secondo Antigone il carcere italiano con il minor numero di detenuti occupati. I problemi, però, si manifestano anche altrove: all’Ucciardone, ad esempio, secondo l’associazione "sono 80 i detenuti che occupano i posti interni. Non ci sono detenuti occupati in attività lavorative esterne. La richiesta per le attività lavorative è alta, ragion per cui si segue il criterio della rotazione. Per i lavori generici questa avviene ogni 3 mesi, per quelli specializzati ogni 6". Ci sono, ovviamente, delle eccezioni: a Caltagirone, ad esempio, tutti i detenuti lavorano almeno due mesi all’anno. Problematica anche l’offerta di altri servizi. A partire dalla mediazione culturale. "Nelle nostre carceri - commenta Apprendi - le guardie penitenziarie sono costantemente in difficoltà, perché non riescono a capire cosa dice un detenuto su cinque. È come se dovessimo spiegare al medico cosa ci fa male soltanto a gesti". Non solo. "Al Pagliarelli - annota ancora Apprendi - il personale mi ha riferito che le coperte vengono fornite solo su richiesta". Sicilia: il Garante dei detenuti Fiandaca "cerco fondi per il recupero delle persone" La Repubblica, 30 maggio 2016 Nell’ufficio del Garante dei detenuti, Giovanni Fiandaca si è insediato solo venerdì. L’ordinario di diritto penale dell’università di Palermo chiamato da Rosario Crocetta alla guida dell’autorità che vigila sulle condizioni di vita dei carcerati, però, ha già le idee chiare sui punti da affrontare. "La priorità assoluta - spiega - è promuovere istruzione, formazione professionale e attività lavorative per i detenuti". Dal mese prossimo, il giurista avvierà un calendario di visite nelle carceri, proprio per verificare con i suoi occhi le condizioni di vita all’interno dei penitenziari siciliani. Il ministero della Giustizia segnala 12 carceri sovraffollate su 23... "È proprio per questo che voglio controllare dal vivo. Prima di parlarne voglio avere una visione d’insieme. La conoscenza dell’ordinamento penitenziario fa parte della mia esperienza professionale, quello che mi manca è un po’ di esperienza sul campo". Su quali linee intende muoversi? "Sono ben consapevole dell’esistenza di alcuni problemi di ordine amministrativo-burocratico. Bisogna creare una rete virtuosa fra i sistemi dell’istruzione, della sanità, della formazione e dello sviluppo economico per rinvenire quante più risorse possibili. Bisognerà fare ricorso ai fondi europei". Già, i soldi. Ma molte delle competenze attengono al ministero della Giustizia: cosa può fare, in concreto, il suo ufficio, ad esempio sulla mediazione culturale? "Il ministro Andrea Orlando ha una grande attenzione alle carceri. La sua sensibilità al tema può essere utile per rinvenire risorse di vario genere. La Regione, dal canto suo, può mettere a disposizione qualche risorsa per attività collaterali". Commemorando la strage di Capaci, Orlando l’ha detto esplicitamente: le carceri devono essere sempre più luoghi di rieducazione... "Proprio su questo voglio battermi: in una prospettiva volta alla rieducazione dei detenuti. L’istruzione, e più in generale l’attività formativa e culturale, sono strumenti fondamentali. Sono però attività per le quali servono risorse". Le associazioni segnalano anche carenza di medici e psicologi... "Il funzionamento dei servizi sanitari all’interno degli istituti è un altro dei punti da verificare. Ad esempio fra le prime visite in programma ce n’è una a Barcellona Pozzo di Gotto: voglio vedere se è stata avviata la nuova struttura sanitaria prevista sulla carta. C’è un grande lavoro sul campo da fare. Passo dopo passo, verificheremo ogni dettaglio". Milano: vendesi San Vittore, Parisi applaude la sinistra dice no di Oriana Liso La Repubblica, 30 maggio 2016 Pesa anche la posizione di Pisapia che, citando il cardinale Martini, puntava sul riammodernamento. Tra le possibilità citate da Beppe Sala la realizzazione di un parco, vista la concentrazione di edilizia abitativa nell’area. È un evergreen, una proposta di cui quasi non si ricorda la primogenitura. Chiudere San Vittore, trasferendo il carcere fuori città, lontano da piazza Filangieri. Adesso, come anticipato ieri da Repubblica, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ci pensa seriamente, con un progetto studiato con Cassa depositi e prestiti che prevedrebbe la chiusura di alcuni istituti penitenziari con la loro valorizzazione economica - come residenze, alberghi, spazi collettivi - e la costruzione di nuove strutture. Certo, San Vittore appartiene allo Stato, è un bene demaniale. Ma difficilmente una decisione del genere potrebbe passare sopra la testa di chi governa la città. Giuliano Pisapia oggi preferisce non commentare. Ma due anni fa, quando Orlando aveva solo ipotizzato lo spostamento era stato netto: "Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire e accelerare l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata". Più volte il sindaco ha parlato di San Vittore come di "un quartiere di Milano: o meglio, come ricordava il cardinale Martini, il cuore di Milano". Ma non è solo per affetto che ha sempre difeso l’idea che restasse in centro, ma anche per motivi più pratici: la difficoltà e i costi delle traduzioni dei detenuti in tribunale, il rischio di rendere ancora più dura la trafila per i colloqui con i parenti. E la sua specificità, che ricorda Mirko Mazzali, consigliere di Sel e avvocato: "San Vittore è una struttura circondariale per imputati non definitivi". Nessuno mette in dubbio che una struttura dell’Ottocento sia inadeguata, nonostante i lavori costanti di questi anni, per garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti. Ma è il punto di caduta diverso, anche tra i candidati sindaco: uno di loro, tra poco, potrebbe trovarsi a discuterne con Orlando e a dover approvare o meno la decisione. E qui le posizioni coprono tutto lo spettro, dall’entusiasmo al no secco. Che Stefano Parisi sia "molto d’accordo" sembra scontato, visto che proprio il centrodestra ha sempre voluto lo spostamento. Cosa fare di quell’area? Su questo Parisi lascia il campo molto aperto: "Ci sono tante possibilità, è un’area talmente pregiata". Lo è, di sicuro, per questo la giunta Pisapia aveva vincolato la destinazione, per sottrarla al cemento. Per questo Basilio Rizzo di Milano in Comune fa un distinguo, ricordando anche che non si può poi spostare il problema sulla Città metropolitana, che già ha tante difficoltà: "Se il tema è fare cassa non ne parliamo neanche, ma se dovesse diventare una struttura a uso pubblico, sociale, che coinvolga anche i detenuti, allora ne discutiamo". Al centro dello spettro c’è un cautissimo Gianluca Corrado dei 5 Stelle ("bisogna valutare la strada migliore"), prima di Beppe Sala, che decide di non allinearsi alla linea governativa ma a quella di Pisapia. "La mia priorità è di trovare una soluzione per metterlo a posto. Se non si potesse, ne ragioniamo". Ma è sul futuro dell’area che dice netto: "La vendita senza vincoli mi fa veramente paura, a quella zona non serve altra edilizia, c’è City Life non lontano. Al limite si potrebbe pensare a un parco". Al capo opposto di Parisi c’è il radicale Marco Cappato, che sulle carceri ha fatto tante battaglie:. Dice no alla speculazione immobiliare e fa notare un possibile, futuro conflitto di interessi: "Il ministro vorrebbe affidare l’operazione è Cassa depositi e prestiti, nel cui cda siede ancora Sala". Milano: San Vittore spazio aperto alla città, ogni giorno entrano operatori e volontari di Alessandra Corica La Repubblica, 30 maggio 2016 La presidente del tribunale di Sorveglianza De Rosa "Con un trasloco si isolano i reclusi dai parenti". Nelle canzoni della "ligera", la mala milanese, lo chiamano "al du". Ovvero, "al due", perché si trova al civico 2 di piazza Filangeri, in una zona che se nel 1879, anno in cui la struttura fu completata, era periferia, adesso è nel cuore di Milano. Eccolo qui, San Vittore, da decenni alle prese con un sovraffollamento che nel 2006 si è aggravato per la chiusura per problemi strutturali di due reparti. Finora, mai riaperti. Oggi nella struttura ci sono 910 detenuti uomini e 94 donne, di cui dieci affidate all’Icam, la struttura per le madri detenute. Oltre 500 gli operatori per un migliaio di reclusi che sette volte su dieci sono stranieri, e in un caso su quattro tossicodipendenti. Sull’ipotesi di vendere la struttura alla Cdp per costruirne una nuova in periferia prende subito posizione la Camera penale di Milano che esprime la sua "preoccupazione". Visto che San Vittore è un "simbolo" della città: "Il carcere si è aperto verso la società civile proprio grazie al fatto che luoghi come San Vittore siano frequentati ogni giorno da volontari, operatori, studenti - spiega il consiglio direttivo della Camera penale - Il solo fatto simbolico di avere un carcere nel cuore della città ricorda a tutti i cittadini come il tema dell’esecuzione penale e del recupero alla società di chi è in carcere non possa essere rimosso con l’allontanamento fisico e mentale del problema". Quello di avere, a Milano, un carcere nel cuore della città, è un tema su cui si discute da anni: meglio realizzare una struttura in periferia, moderna e all’avanguardia, o mantenere la vecchia casa circondariale in centro, con il vantaggio di permettere ai detenuti di mantenere rapporti con familiari e associazioni? "In Lombardia San Vittore non è un caso isolato: anche a Mantova e Sondrio il carcere è in città - ricorda Luigi Pagano, provveditore delle carceri di Lombardia, Piemonte e Liguria - Nel corso degli anni si è parlato molte volte di spostare San Vittore in periferia: vedremo come il progetto adesso sarà realizzato". Secondo la presidente facente funzioni del tribunale di Sorveglianza di Milano, ed ex consigliere del Csm, Giovanna De Rosa, i penitenziari storici come San Vittore "hanno mantenuto viva l’idea del carcere dentro la città. Certo, si tratta di edifici fatiscenti, spesso in condizioni terribili. Ed è difficile realizzare strutture moderne dentro la città. Però portare le carceri fuori significa isolare i parenti dei reclusi, rendere più difficile la presenza delle associazioni di volontariato". In piazza Filangeri il turn over tra i detenuti è frequente, e il tempo medio di permanenza è di 100 giorni: "Questo perché San Vittore non è una casa di reclusione, ma "circondariale" - spiega la direttrice, Gloria Manzelli - nella quale ci sono soprattutto imputati in attesa di giudizio da parte del Tribunale". Di qui, il vantaggio della sua collocazione in centro, che permette di spostare facilmente i detenuti dalle aule giudiziarie alle celle, e viceversa. "San Vittore - ricorda Manzelli - è un pezzo di storia della città. Ed è un luogo della memoria, visto che durante il Nazifascismo qui venivano rinchiusi i prigionieri ebrei prima di essere portati al Binario 21 e, dopo, deportati. Uno spazio simbolo, inserito nel territorio cittadino grazie a diversi progetti con associazioni di volontariato: una rete importante, da preservare". Roma: lo scandalo Regina Coeli, quel carnaio tra le sbarre che già il Duce non voleva più di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 30 maggio 2016 Via della Lungara, al numero 29. C’è sempre stata una certa simpatia, ma anche parecchia retorica del genere oleografico attorno a quel monumento alla romanità carceraria che è Regina Coeli. Al culmine dell’automatismo stucchevole si collocano di norma alcuni versi di un celebre stornello secondo cui chi non "salisce" un certo gradino non ha titoli per considerarsi romano, tanto meno trasteverino. Ora, quel fatidico scalino non esiste proprio, essendo tre in realtà i ripiani d’accesso al carcere; in compenso il testo della canzone offre diversi spunti sulle particolari attitudini dei più assidui detenuti capitolini: da un certo vittimismo sulla scarsità del cibo, tali da ridurre il malcapitato "tutt’ossa", fino alla pronta risolutezza con cui quest’ultimo accoglie la presenza di una campana: "Possi morì ammazzato chi la sona!". Ma l’interpretazione strozzatissima di Gabriella Ferri è davvero molto toccante. A lei si deve anche quella de "Le Mantellate", dal nome delle monache che governavano il plesso contiguo all’antico convento per molti anni adibito a penitenziario femminile. Pregevole, sempre all’insegna di malinconiche campane e amori infelici, il "canto dei carcerati" eseguito Lando Fiorini. Mentre ad aggiornata conferma della musicalità che da sempre ispira il luogo è giusto ricordare "Via della Lungara" di Renato Zero: "E nel corridoio ormai/ cambia il passo del piantone,/ la Lungara corre là/ lunga per chi sconterà"; così come si segnala, anche per esperienza diretta dell’autore "Impronte digitali" di Franco Califano: "Foto contro il muro, un numero sul petto/ e addio, diventa tutto nero". Infossata rispetto al Lungotevere, la zona della prigione appare in effetti ancora più cupa di quanto lascino immaginare le finestrone da cui si può vedere solo il cielo. Quanto di peggio è ovviamente accaduto lì dentro, ma anche lì fuori, e in questo senso spaventoso - e per questo forse rimosso - fu il linciaggio del direttore del carcere Donato Carretta che nel 1944, per uno scambio di persona fu prelevato dalla folla durante un processo per le Fosse Ardeatine, quindi buttato a Tevere e infine appeso nudo a testa in giù da una inferriata al piano terra. Commovente, nella sua caritatevole intensità, la visita di Giovanni XXIII pronto ad abbracciare un anziano detenuto che fuori programma gli si era buttato ai piedi. Mezzo secolo dopo, quando venne Papa Wojtyla, come in uno soggetto pasoliniano il carcerato che gli teneva la croce morì la notte stessa nella sua cella, per overdose. La vita, l’aria, la luce e il verde cominciano sul lato opposto del fiume, inerpicandosi verso il faro del Gianicolo. Qui la notte è ancora vigente un primordiale sistema di comunicazione a squarciagola fra i detenuti e l’esterno. Il cinema ha raffigurato spesso questi poetici scambi. Per il resto la prigione dell’Urbe compare in diversi film, da "I soliti ignoti" a "Detenuto in attesa di giudizio". Considerati gli odierni sviluppi, è irresistibile menzionare anche "Scuola di ladri", là dove Lino Banfi cerca di vendere Regina Coeli a un ricco americano. A Roma, d’altra parte, la truffa sconfina con la realtà, e a volte l’orrore stinge nella commedia stralunata alimentandosi di rivolte, suicidi, eroismi, compromessi, evasioni, sforzi anche letterari di sopravvivenza. In questo senso, fra le mille testimonianze, una delle più spassose e pacificate si trova in un "quasi romanzo" dell’ex finanziere Florio Fiorini ("Dall’Eni, alla Sasea, alla prigione", Foedus, 1997) che contro ogni gastronomico pregiudizio sostiene di aver mangiato benissimo: "E qui che si conosce la vera cucina regionale italiana". Ma come documentano le foto di Valerio Bispuri pubblicate ieri da Repubblica, non c’è nulla che sollevi Regina Coeli dall’essere uno scandalo anacronistico, "un magazzino di carne umana" come l’ha definito Laura Boldrini, e tuttavia anche uno scandalo rinforzato dal fatto che detto carnaio continua a funzionare a dispetto di una perenne, annunciatissima, ma finora vana smobilitazione. Basti pensare che già Mussolini voleva abbattere il carcere per innalzare al suo posto una trionfale scalinata verso il Gianicolo; e che negli anni 70, aperta Rebibbia, l’antiquata struttura fu data per morta; tanto che nel 1993 il Guardasigilli Conso voleva chiuderla "al più presto"; e che l’anno dopo il ministro della Sanità Costa minacciò un’ordinanza terminale; e che in seguito il sindaco Rutelli incluse la chiusura fra le opere da effettuarsi per il Giubileo del 2000; e che poi ancora se riparlò, anche su questo giornale, nel 2003. Ma poi niente, o forse tutto. Nel paese che fra i vari suoi scandali ne contempla uno intitolato addirittura alle "carceri d’oro" (1987-88), lo scetticismo, malattia dei romani, oscura un po’ il giudizio; però anche li tormenta e insieme li chiama al bene, senza troppo rassicurarli. Roma: no di sindacati e politici alla cessione di Regina Coeli di Luca Caso Il Tempo, 30 maggio 2016 "Vendere San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale, in cambio di penitenziari nuovi, dove scontare la pena non sia una punizione aggiuntiva per via delle strutture antiche e del sovraffollamento. Un progetto più volte vagheggiato, ma che adesso, per mano del Guardasigilli Andrea Orlando, sembra poter diventare realtà". Dal ministero affermano che si tratta di una proposta di Cassa depositi e prestiti adesso al vaglio degli uffici di via Arenula. Per la Fns Cisl Lazio, il progetto "è da escludere, considerata la storia recente e passata dell’istituto romano di Regina Coeli - questo carcere durante il fascismo ospitò oppositori politici - e considerata anche la vicinanza, per tradurre i detenuti, sia per il Tribunale che per gli ospedali che vi sono nelle vicinanze". La Fns Cisl Lazio aggiunge che "grande attenzione aveva mostrato il ministro della Giustizia nel 2014 il quale si era recato nel carcere trasteverino dopo la ristrutturazione avvenuta per ammodernamento dello stesso istituto oltre che del reparto centro clinico, ricordando che con tale struttura si costruisce un sistema penitenziario in linea con quanto previsto costituzionalmente, con standard in linea con strutture ospedaliere esterne e utili a far sì che le scorte non escano dal carcere per espletare cure esterne che, invece, possono essere svolte in carcere. In questi anni - continua il sindacato - l’Istituto è stato oggetto di innumerevoli interventi all’interno dei reparti che hanno migliorato le condizioni detentive dei detenuti e anche sulla struttura per il personale. Nel carcere - ricorda La Fns Cisl Lazio - lavorano 613 agenti di polizia penitenziaria, 13 educatori, 67 amministrativi, 849 detenuti a fronte di 624 previsti". Le polemiche provengono anche dal mondo della politica. La più dura è l’ex presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, oggi deputata di Forza Italia: "La ventilata vendita di Regina Coeli per tappare l’ennesimo buco nel bilancio del governo Renzi - dice - sarebbe un insulto a Roma e un danno per l’amministrazione pubblica oltre che per le famiglie dei reclusi. Spostare il carcere in periferia rappresenterebbe, infatti, un appesantimento delle condizioni già difficili in cui vivono le famiglie che hanno una persona reclusa. Oltretutto, durante la mia presidenza in Regione - ricorda - abbiamo riqualificato con ingenti risorse le strutture ospedaliere di Regina Coeli e assieme al direttore generale della Asl Roma, Camillo Riccioni, abbiamo creato i reparti al servizio delle camere operatorie esistenti. L’allora ministro di Giustizia, Paola Severino, visitò assieme a me il carcere. Spero che la vendita di Regina Coeli sia solo l’ennesima boutade di un governo alla disperata ricerca di soldi per tappare le falle aperte dai bonus profusi in campagna elettorale da Renzi". Diverso parere il capogruppo di Area popolare alla Camera e capolista di Milano popolare, Maurizio Lupi: "Non posso che essere d’accordo con la proposta del ministro Orlando, ripresa anche dal candidato sindaco di Milano Parisi, di cedere ai Comuni le vecchie carceri e costruirne di nuove, più moderne e funzionali, lontane dai centri delle città ma ben servite da infrastrutture, in cui la funzione di riabilitazione del carcerato sia prioritaria. Anche San Vittore - precisa - è un carcere in pieno centro e ormai obsoleto. Mi auguro che, dopo anni e anni di discussioni, si giunga a una soluzione che sarebbe anche sinonimo di riqualificazione di strutture prestigiose, patrimonio della città". Roma: Regina Coeli, da luogo di suore e di preghiera a inferno con nove reclusi a cella di Stefano Liburdi Il Tempo, 30 maggio 2016 "A via della Lungara ce sta ‘n gradino chi nun salisce quello nun è romano e né trasteverino". Seguendo l’antico detto popolare romano, sono stati tanti a salire quel gradino, fin dal 1881, quando un antico convento è stato convertito in carcere ereditando il nome dalla struttura religiosa. Di romani al Regina Coeli ne passano ormai pochi, seguendo una tendenza nazionale che vede la popolazione carceraria composta per circa il 70% di cittadini stranieri. L’edificio che si affaccia sul Lungotevere, nel pieno centro di Roma, è un carcere di "passaggio", che ospita i detenuti uomini appena fermati, in attesa di giudizio e di essere trasferiti in altre strutture. Il passaggio però non è mai veloce e a volte dura diversi anni. Questa è proprio la fase più critica che un detenuto si trova ad affrontare nella sua esperienza di recluso. L’impatto con la detenzione è forte e violento. Gli spazi diventano limitati, al contrario i tempi si allungano fino a diventare infiniti. L’incertezza della pena e di quando arriverà il giudizio sono fattori destabilizzanti. Ogni giorno sale l’angoscia per quella che sarà la destinazione definitiva, problema non di poco conto soprattutto per chi non vuole perdere il contatto con la propria famiglia. In questo periodo è forte il rischio di suicidio per i nuovi arrivati. Alcuni di questi episodi si sono verificati anche nel carcere romano. "La struttura del Regina Coeli è più adatta per essere un museo che un carcere", ci dice un volontario. Gli spazi sono piccoli e inadatti. Il sovraffollamento poi rende tutto più complicato. "La media è di nove detenuti per ogni cella che in realtà potrebbe contenere quattro persone" ci svela Nunzio, campano sulla cinquantina. "Il bagno è uno solo, dai letti a castello si può scendere solo a turno, altrimenti non riusciamo neanche a muoverci. Poi c’è un ambiente che dovrebbe essere adibito a cucina e che invece viene sfruttato per mettere posti letto e così le provviste bisogna metterle in uno spazio all’interno del bagno". Il racconto di Nunzio è un colpo al cuore. Ci dice della mancanza di aria nelle celle. Alle finestre ci sono le "gelosie", che ai tempi del convento servivano a non far vedere fuori, ma che non fanno neanche passare l’aria e l’estate la situazione diventa ancora più difficile: "Per fortuna le guardie carcerarie ci consentono di tenere la porta della cella aperta con un braccetto che lascia una fessura di trenta centimetri per respirare". Valerio è un giovane padre. Sono parecchi mesi che si trova a Regina Coeli e ancora non ha voluto incontrare suo figlio: "Ho proibito a mia moglie di portarlo. Non voglio che entri qua dentro". Nel carcere, infatti, non ci sono luoghi adatti ad accogliere dei bambini, gli spazi verdi non esistono. Solo stanze dove l’aria è pesante e sa di cemento e la luce fa fatica a farsi strada. Sono molti i padri che hanno fatto la stessa scelta di Valerio. Per fortuna all’interno del penitenziario non mancano i volontari che portano la loro energia e la loro positività, contagiando chi è costretto a rimanere tra queste quattro mura. Attraverso la musicoterapia, la lettura, il teatro e lo yoga, i detenuti riescono ad affrontare lo scorrere lento delle giornate. "Cerchiamo di aiutarli risolvendo problemi pratici - ci spiega Giovanna, volontaria nelle carceri da più di un decennio - Quando arrivano qui, le persone non sanno niente su quello che gli accadrà e su quello che devono fare. Poi negli ultimi anni, sono tanti gli stranieri che hanno problemi con la lingua e la nostra cultura. Per loro l’inserimento in questa nuova realtà risulta ancora più complicato. Quando sanno che andiamo a trovarli, sono contenti e ci abbracciano come se fossimo loro parenti. Con le nostre attività cerchiamo di rendere più vivibile questo carcere e di costruire un ambiente familiare. Grazie agli stimoli positivi che ricevono, gli ospiti del Regina Coeli cominciano ad intraprendere il lento percorso che porterà ad abbandonare e sostituire la cultura criminale con la quale sono entrati qui dentro, con una cultura della legalità, preambolo per un reinserimento definitivo nella società". Roma: "vi racconto la galera di passaggio, con tanti, troppi, clienti abituali" di Silvia Mancinelli Il Tempo, 30 maggio 2016 Parla il decano delle guardie carcerari. Lui, Giovanni Passaro, vicesegretario regionale del sindacato Sappe, è una guardia carceraria. I famosi tre scalini di Regina Coeli li sale e li scende da un quarto di secolo e conosce ogni scritta e ogni crepa sui muri dell’istituto penitenziario nel cuore di Trastevere. La memoria storica, vivente, della galera dei romani. È d’accordo col piano del Governo di vendere tre carceri? "L’idea di spostare le carceri in periferia significa escluderle dalla società, considerandole alla stregua di contenitori di rifiuti umani da allontanare. Oltretutto un’ubicazione centrale permette una maggiore e più agevole presenza di avvocati, magistrati, politici e rappresentanti della comunità esterna che ogni giorno frequentano le strutture". Quanti detenuti sono rinchiusi a Regina Coeli? "Novecento dieci circa, ma il numero è variabile trattandosi di una casa circondariale. Ogni persona arrestata e in attesa di giudizio passa di qui, prima dell’eventuale trasferimento in un’altra struttura". Si parla di sovraffollamento. "Il problema c’è, ovvio. In una cella convivono in media tre persone. I soldi per fare i corsi, per insegnare a tutti un mestiere provando a reintegrarli nel tessuto sociale, mancano". Una leggenda metropolitana narra che le carceri siano sature per la sempre maggiore presenza di stranieri. È così? "Altroché. Il 58% dei detenuti non è italiano: romeni per lo più, ma anche albanesi, nordafricani. Ma alla fine a Regina Coeli ci sono sempre le stesse facce". "Clienti" abituali? "Più che altro "affezionati". D’altronde, ironia a parte, il problema più grande quando si parla di sistema penitenziario è la recidiva. Fatta eccezione per i criminali incalliti, chi delinque il più delle volte lo fa per mancanza di alternative reali. L’italiano cresciuto ai margini, senza possibilità lavorative, senza appoggi, che si inventa rapinatore o scippatore per sfamare la famiglia o per comprarsi la dose, se tossicodipendente. Poi c’è lo straniero, arrivato da poco e abbandonato a se stesso che sceglie di rubare per tirar su qualche soldo facile". Recentemente sono evase due persone, due detenuti si sono suicidati a distanza di poco tempo e voi agenti penitenziari avete subito aggressioni. Qual è l’intoppo? "Per prima cosa la scelta scellerata di lasciar libere le celle 10,12 ore al giorno, lasciando l’intero corridoio a uso e consumo dei detenuti. Noi poliziotti siamo sempre meno, in servizio nelle sezioni detentive siamo 130. Oltretutto non possiamo stare sul piano, i controlli sono difficili e chi sta commettendo qualcosa di illecito può sempre avvalersi di un palo. Il libero arbitrio li porta a imbrattare le celle, a sporcare i muri. Il fatto che in carcere finiscano sempre più stranieri rende anche complicato per noi relazionarci con loro. Negli ultimi tempi siamo stati aggrediti più volte. Due mesi fa un mio collega si è preso un pugno sul naso. Quanto ai suicidi non ne vedo tantissimi. Quando l’assassino del gioielliere di Prati si impiccò ero di turno io, lo ricordo bene. Ma ora abbiamo un livello di accoglienza che viene applicato proprio in relazione a questo rischio". In che senso? "Si lavora diversamente a seconda che la sorveglianza sia grandissima, a vista o a rischio. Nel primo caso è la stessa direzione o il personale medico a provvedere, nel secondo un poliziotto viene messo di guardia davanti alla cella del detenuto h24, nell’ultimo e più grave il letto e il tavolino sono fissati a terra, sulle sbarre viene messo del plexiglass per evitare atti di autolesionismo e le lenzuola sono di carta". Cos’è che non funziona a Regina Coeli? "Facciamo prima a dire cosa funziona. Il problema fondamentale è l’aspetto economico. Ogni anno il budget per la manutenzione ordinaria viene ridotto. Alcune opere vengono realizzate dai detenuti, utilizzando le loro esperienze lavorative. Ma se un lavandino si rompe per tre volte di fila e va sostituito, i soldi non bastano. Tra l’altro, come detto prima, non tutti sono assicurati per lavorare ed è un cane che si morde la coda. I poliziotti in servizio sono sempre meno. Se i detenuti volessero davvero evadere, potrebbero farlo dalla porta principale". Ricorda qualche detenuto "vip"? "Ero di turno quando arrivò Fabrizio Corona. Era al solito arrogante, spocchioso, ma imparò presto che i comportamenti che aveva fuori in carcere doveva evitarli. Un po’ come successe a "Batman", Franco Fiorito. Pretendeva di non dividere la cella con altri: quando gli feci notare che Regina Coeli non era un albergo e che avrebbe dovuto liberare la branda accanto alla sua, minacciò di denunciarmi. Poi Priebke, ma in quel caso si trattò di una detenzione in isolamento, protetta". L’oggetto più strano trovato durante una perquisizione? "Una macchinetta per i tatuaggi". Napoli: carcere di Poggioreale in vendita, coro di no di Stella Cervasio La Repubblica, 30 maggio 2016 La garante dei detenuti: "Se si sposta in periferia tornerà invisibile". Mettere in vendita Poggioreale, San Vittore e Regina Coeli destinandole ad uso del turismo, e spostare fuori dal centro città le carceri per battere gli svantaggi di strutture antiche e sovraffollate. Non è la prima volta che se ne parla, ma ora il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha manifestato la volontà di dare una svolta definitiva. Delocalizzazione la parola d’ordine, la costruzione, previa modifica dei Prg, di nuovi penitenziari lontani dai centri metropolitani. A realizzarla, la Cassa depositi e prestiti: con i ricavi delle vendite, la ricostruzione altrove. I tre principali penitenziari includono Poggioreale, che conta circa 2.000 detenuti (contro i 3.000 di due anni fa). Il progetto di Orlando sembra in sintonia con quello di un nuovo carcere a Nola, annunciato quando a Napoli è venuto con i colleghi Giannini e Alfano. Nola potrebbe ospitare al massimo 1.500 detenuti. C’è molto da approfondire. Gli operatori non nascondono i dubbi. "Il 31 giugno incontreremo il garante nazionale Palma - spiega Adriana Tocco, garante regionale dei detenuti - Negli stati generali chiusi di recente il ministro non aveva parlato di questa possibilità. Anche se è chiaro che istituti così vecchi si prestino poco a essere ammodernati. A Poggioreale con la facoltà di Architettura si è fatta una bellissima esperienza tra studenti e detenuti, rivisitando con un progetto un corridoio e un cortile di passeggio. È in corso anche l’installazione delle docce in ogni cella, ma si tratta di piccoli interventi. Bisognerà capire che si intende per periferia: se è allontanarsi molto dalla città non sarei d’accordo. In questi anni abbiamo lavorato per togliere le carceri dall’invisibilità. Si creerebbe disagio ai familiari, molti dei quali indigenti. il 15 giugno il ministro riunirà i coordinatori dei 18 tavoli per fare un’ulteriore sintesi e ne sapremo di più". Preoccupato il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella: "Finora si è parlato spesso di chiusure e riaperture, ma non si è mai concretizzato nulla. Se da un lato può esserci un miglioramento nella qualità delle strutture, spostare le carceri nelle periferie può anche renderle più abbandonate e isolate, come negli anni Ottanta. Gli avvocati ci andrebbero meno volentieri. Non dev’essere una rimozione". Contrario alla periferia Samuele Ciambriello, un’intensa attività di volontariato a Poggioreale con la sua associazione La Mansarda: "Più che un nuovo carcere ci vuole un carcere nuovo, con misure alternative e invece che in periferia, in aree dove il verde esiste davvero e si può coltivare: si toglie la libertà ma non la dignità. E non dismetterei Poggioreale, che si trova al centro della città e potrebbe contenere 1000 detenuti, riducendo il sovraffollamento". Riccardo Polidoro, avvocato fondatore dell’associazione Il carcere possibile, e responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali concorda sulle pene alternative: "Ok la vendita ma vanno rese possibili, con i ricavi della dismissione delle vecchie strutture, le misure alternative". Un progetto che verrà, ha detto Orlando al primo punto nell’agenda dei sindaci appena saranno eletti. Commenta Luigi de Magistris: "Credo che un paese democratico si misura dalla capacità di dare diritti a chi diritti non ha e anche a chi ha violato il diritto. In questo paese non abbiamo ancora carceri all’altezza. Questo paese deve costruire luoghi in cui si punta alla rieducazione della pena e di fare in modo che le persone possano poi trovare un’altra strada possibile: questo deve essere l’impegno dello Stato non tanto di ragionare sulla vendita delle carceri". E sul riutilizzo della struttura: "Siamo stati sempre dell’idea che i luoghi della detenzione devono diventare quelli della liberazione". Napoli: ma il vero nodo è trovare posto per ospitare oltre duemila detenuti di Antonio Mattone Il Mattino, 30 maggio 2016 Vendere le vecchie carceri italiane situate nei centri storici delle città per costruirne di nuove nelle periferie. È il nuovo piano del Governo per rendere più umana e nello stesso tempo efficace la permanenza dei detenuti che scontano la pena all’interno di quattro mura chiuse. Si tratta di edifici decadenti e fatiscenti, strutture architettoniche nate con il proposito di sorvegliare in modo permanente piuttosto che rieducare. Cosa succederebbe se si dovesse rinunciare alla capienza offerta dal carcere di Poggioreale? Dove verrebbero collocati i 2mila detenuti presenti attualmente nell’istituto di recente intitolato alla memoria del vicedirettore Giuseppe Salvia? Il sistema carcerario in Campania ospita al momento seimila755 reclusi, distribuiti in 15 istituti, a fronte di una capienza di seimila105, di cui 344 sono le donne e 843 gli stranieri. A Napoli ci sono due carceri: quello con più estensione territoriale (Secondigliano) e quello con il maggior numero di carcerati (Poggioreale) dell’Europa occidentale. Il primo, costruito negli anni 80 è ormai quasi interamente dedicato alla detenzione di alta sicurezza, se si eccettua lo spazio lasciato dal dismesso Opg dove è stata collocata una sezione sperimentale di detenuti comuni. Qui non ci potrà mai essere sovraffollamento, in quanto ogni cella prevede per lo più due posti letto. Poggioreale, invece, dopo aver sfiorato le tremila presenze, ha raggiunto livelli più accettabili, anche se negli ultimi periodi il numero di detenuti sta riprendendo a salire. Bisogna sottolineare che questo istituto, circondato negli anni passati da una fama sinistra, sta realizzando un processo di cambiamento significativo. Una evoluzione che come tutte le mutazioni culturali richiede tempi lunghi e grande tenacia. E a proposito di trasformazioni, appena verrà trasferito l’ultimo internato da Aversa, questa struttura diventerà una reclusione per chi dovrà scontare brevi condanne, con particolare attenzione ad anziani, malati e persone che hanno un forte disagio sociale. Carinola, invece, dopo aver ospitato terroristi ed appartenenti alla criminalità organizzata rappresenta un modello di carcere a custodia attenuata su cui l’Amministrazione Penitenziaria punta molto. Poi ci sono piccole realtà come quella di Eboli, dedicata ai tossicodipendenti, Vallo della Lucania per i sex offender e Sant’Angelo dei Lombardi dove vengono realizzate interessanti attività produttive. Desta qualche perplessità lo smembramento del carcere di Lauro, specializzato per la reclusione dei tossicodipendenti, che con lavori che sono costati un bel po’ alla collettività, sarà destinato ad ospitare donne che hanno bambini con sé. Se pensiamo che attualmente in Campania i piccoli che scontano una pena assieme alle madri si contano sulle dita di una mano e che il Ministro Orlando aveva affermato che in poco tempo di minori in galera non ce ne sarebbero più stati, credo che questa sia stata una realizzazione inutile e dispendiosa. Certo, se verrà venduto Poggioreale bisognerà trovare un’alternativa. Proprio alcune settimane fa il Guardasigilli aveva annunciato la costruzione di un nuovo penitenziario a Nola da circa 1000 posti, ma questo non basterà. In ogni caso le nuove strutture dovranno essere pensate con criteri innovativi per essere davvero funzionali alla rieducazione di chi commette reati. Oggi non è più pensabile un carcere infantilizzante, dove viene considerato un detenuto modello chi non disturba e non crea problemi. Il tempo della pena - ha affermato Glauco Giostra agli Stati Generali - non può essere una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Solo un carcere così può cambiare realmente le persone. Brescia: nuovo carcere a Verziano. Orlando "resta una priorità, i fondi ci sono" di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 30 maggio 2016 Lo assicura il ministro della Giustizia ma resta l’incognita dei tempi. Già a bilancio i fondi per un concorso pubblico per assumere nuovo personale. La presenza a Brescia del ministro della Giustizia Andrea Orlando per il 42esimo anniversario della strage di piazza Loggia non poteva che essere occasione, l’ennesima, per i sindacati e non solo per richiamare alla memoria i problemi annosi che riguardano il carcere e gli organici in tribunale. Il Piano carceri rivisitato prevede meno risorse a livello nazionale (la popolazione carceraria è calata di oltre 10 mila unità negli ultimi anni) ma "Brescia resta una priorità - ha assicurato il ministro - e i fondi ci sono". La questione è quindi all’ordine del giorno, e le problematiche di sovraffollamento e di inadeguatezza di Canton Mombello sono ben chiare anche a Roma. Di qui a parlare di tempi certi ce ne passa però parecchio. "Il tavolo con il ministero delle Infrastrutture è già insediato", ha comunque confermato Orlando. Il progetto è quello della chiusura di Canton Mombello e dell’ampliamento di Verziano, struttura che dovrebbe diventare molto più ospitale e arrivare ad ospitare fino a 400 detenuti. Un progetto di massima esiste già. Ancora da capire però se l’ampliamento comporterà anche terreni aggiuntivi, questione non da poco e che potrebbe complicare l’iter di approvazione tra espropri di terreni e permute. L’impressione è che l’ipotesi ventilata a gennaio di un iter di approvazione molto rapido e addirittura di una possibile inaugurazione di "Verziano 2" per il 2019 sia stata probabilmente molto ottimistica. Aperture da funzionari del ministero della Giustizia sono arrivate sul fronte organici. Ieri i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil hanno consegnato una lettera al ministro nella quale sottolineano che "il sottodimensionamento degli organici nella giustizia a Brescia assume carattere di emergenza sia per gli uffici giudiziari che per gli uffici penitenziari, compreso l’ufficio per le esecuzioni esterne. Servizi che se non implementati con personale adeguato potrebbero dare ricadute negative sul tessuto sociale". A riguardo pare si stia predisponendo un concorso pubblico, con fondi già messi a bilancio, per l’assunzione di nuovo personale, così come qualche novità potrebbe arrivare dagli spostamenti di personale in esubero da altri enti, come ad esempio le Province. Si vedrà ma, da fonti ministeriali, qualcosa potrebbe muoversi in tempi non lunghi. I sindacati hanno infine ricordato la questione del contratto scaduto da anni, comune a tutta la Pubblica Amministrazione, e dello sblocco delle progressioni professionali, ferme da vent’anni. Se ne parlerà in un prossimo incontro a Roma tra funzionari del ministero e sindacati bresciani. Bari: carcere e disabilità, urgente un’equipe di salute mentale stabile di Teresa Valiani superabile.it, 30 maggio 2016 Una nuova struttura e personale specializzato per migliorare l’assistenza: la direttrice Lidia de Leonardis apre le porte del carcere, che ha un secolo di vita: "Al lavoro con la Asl per una intensificazione della telemedicina". Un vecchio carcere nel cuore di Bari, con un secolo di vita sulle spalle e 355 detenuti nelle celle, il 70 per cento dei quali non ha una condanna definitiva. Un centro clinico importante e progetti all’avanguardia che però hanno bisogno di una struttura che segua il passo e tenga il ritmo. Il progetto Caregiver compie un anno e conferma che la formazione professionale è la strada giusta. Ma cosa si può fare per migliorare ulteriormente l’assistenza dei detenuti disabili? La direttrice della Casa circondariale, Lidia de Leonardis, apre le porte del suo istituto, tra progetti, carenze e la presenza, sempre più pressante ed urgente, della tecnologia. La Casa Circondariale è una vecchia struttura, operativa ormai da un secolo, con 2 sezioni di alta sicurezza, 2 di media sicurezza, un reparto per i detenuti precauzionali e sex offender, il reparto Sai di assistenza sanitaria integrata, l’ex centro clinico, con tre piani due di degenza, uno destinato a paratetraplegici, un altro per gli ammalati cronici e per diagnosi e cura ed un altro piano destinato a fisioterapia, ambulatori diagnostici, gabinetti radiografici e visite specialistiche. Nella struttura c’è anche una distinta sezione femminile per la quale è programmata la completa ristrutturazione. "Sul piano strutturale Bari avrebbe bisogno di un nuovo carcere, concepito con canoni moderni. - spiega la direttrice - L’attuale struttura è stata costruita nel 1914 ed è operativa dal 1926. I molteplici adattamenti strutturali eseguiti e programmati non potranno mai soddisfare appieno le esigenze della medicina penitenziaria in materia di disabilità croniche. Nel campo dell’offerta sanitaria la Regione Puglia dovrebbe ancora adeguarsi agli standard delineati negli stessi accordi Stato/Regioni, potenziare le strutture di accoglienza e riabilitazione di carattere socio/sanitario dove collocare, ove ammissibile sul piano giuridico penitenziario, i detenuti con disabilità; adeguare il personale: a Bari in modo particolare sarebbe urgente la piena operatività di un’equipe di salute mentale stabile, che prenda in carico il detenuto, sul modello dei centri d’igiene mentale sul territorio, modello operativo specificatamente previsto dalla stessa Regione per Bari. L’assistenza alle numerose disabilità mentali oggi è gestita con la sola attività di consulenza di psichiatria e psicologia". "Sul piano strutturale - prosegue la direttrice - stiamo lavorando con la Asl per una intensificazione della telemedicina, come per esempio la possibilità di lettura a distanza di referti radiologici ed elettroencefalici, oltre il cardio on line già attivo. Molteplici sono i progetti proposti, alcuni in corso col Comune e l’Area Metropolitana di Bari, con la Regione Puglia, con l’Università di Bari e con molte istituzioni ed agenzie anche del volontariato che operano nel territorio per quell’impegno alla cultura della egalità ed al processo di inclusione sociale che la Costituzione ci chiede". Per la de Leonardis "solo differenziando, concentrandosi sulla persona, aprendosi con opportunità concrete al territorio è possibile realizzare il dettato costituzionale". "I nostri progetti sono molteplici. - sottolinea - Per rimanere nell’ambito della stessa Azienda universitaria del Policlinico di Bari, c’è un altro progetto in attuazione per il quale è stata già sottoscritta una convenzione che riguarda un miglior utilizzo del reparto ospedaliero detentivo all’interno dello stesso Policlinico di Bari in modo da velocizzare e migliorare gli inquadramenti diagnostici e terapeutici complessi, riducendo così le degenze nel Sai e le visite specialistiche portando di volta in volta il detenuto presso gli ambulatori e reparti esterni". I detenuti. Attualmente sono presenti 335 detenuti, in linea con i parametri minimi della Corte Europea (Cedu), avendo superato il problema del sovraffollamento che registrava 659 detenuti nel 2010. I detenuti presenti sono per il 70 per cento circa non ancora definitivi (57 per cento in attesa di giudizio) e per il 30 per cento condannati definitivi in espiazione di pena. Il 27 per cento è di nazionalità straniera. Tra gli stranieri la percentuale dei non definitivi sale al 75 per cento. I reati. La prevalenza dei reati commessi è contro il patrimonio. Estorsioni, ricettazioni, rapine e varie fattispecie di furti sono le principali attività criminose, insieme allo spaccio organizzato di sostanze stupefacenti. "Queste due aree di reati - sottolinea la direttrice - sono da incrociare col dato dell’associazione a delinquere organizzata, il 461/bis, che è abbastanza rilevante nelle fattispecie presenti in Bari. Abbastanza consistente anche il dato relativo alla violenza sessuale su minori e donne". Reggio Calabria: il Garante dei detenuti, un laboratorio per i diritti delle persone cmnews.it, 30 maggio 2016 "Ho ascoltato con grande interesse la relazione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Agostino Siviglia, audito nei giorni scorsi nell’ambito dei lavori della Commissione Politiche Sociali e del Lavoro, presieduta dal Presidente Antonino Nocera". È quanto dichiara in una nota il Consigliere Delegato alla Città Metropolitana Riccardo Mauro. "Il lavoro portato avanti dal Garante in questi mesi costituisce una grande ricchezza in termini sociali per l’Amministrazione e per la Città. Il nuovo Regolamento istitutivo della figura del Garante, voluto fortemente dal Sindaco Falcomatà, suggella la centralità che quest’esperienza amministrativa ha inteso dare al tema del recupero e del reinserimento sociale delle persone provenienti dai circuiti penali". "Attraverso questa meritoria esperienza - ha aggiunto Mauro - il nostro Comune intende accorciare le distanze tra il carcere e la società, contribuendo a rendere più umana la pena e supportando significativi percorsi di cambiamento personale e sociale, con importanti riflessi in termini di abbattimento della recidiva del reato, di sicurezza per la comunità e di sottrazione di terreno alla sottocultura criminale. Un contesto all’avanguardia sul piano nazionale, quindi, all’interno del quale la nostra Città si innesta in virtuosa conformità rispetto alle direttrici riformatrici fortemente volute dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando". "In tal senso - ha spiegato ancora il Consigliere - si segnala la Convenzione che il Comune di Reggio Calabria ha già sottoscritto lo scorso aprile con il Presidente del Tribunale Luciano Gerardis in tema di lavoro di pubblica utilità per gli imputati di reati minori e, in particolare, il Protocollo che sarà sottoscritto il prossimo 7 giugno, tra il Comune, la Casa Circondariale di Arghillà, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza e i Servizi Sociali della Giustizia, che consentirà, nell’immediato, ai detenuti del carcere di Arghillà, con l’approvazione della magistratura di sorveglianza, di svolgere lavoro volontario e gratuito in favore della collettività: manutenzione del verde pubblico, custodia dei siti archeologici e dei beni culturali della nostra Città, solo per citarne alcuni". "Nelle intenzioni del Garante - ha continuato il Consigliere Mauro - vi è ancora la volontà di sottoscrivere una terza Convenzione con il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, al fine di completare il quadro di riferimento normativo con l’inclusione della formazione socio-lavorativa dei minori e dei giovani adulti, in modo da strutturare e consolidare una nuova governance della pena, all’interno della quale il Comune svolge un ruolo centrale di supporto e coordinamento, interistituzionale e sociale". "Le buone prassi innescate con le convenzioni e i protocolli contribuiscono dunque a conformare il "sistema giustizia" territoriale reggino con le realtà più evolute a livello nazionale ed europeo, con la particolare rilevanza che, queste latitudini, simili prassi possono davvero generare positivi avvenimenti di cambiamento sociale". "Obiettivo dell’Amministrazione - ha concluso il Consigliere Mauro - è sostenere ed incentivare questi processi cambiamento, attraverso una sempre più virtuosa collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, con la Direzione del carcere di Reggio Calabria e più in genere con l’intero "sistema giustizia", offrendo risposte credibili, capaci di consentire a chi ha rotto un patto legale con la società di riscattare il proprio errore mediante la "restituzione" volontaria e gratuita alla società stessa, con attività lavorative di rilevanza sociale, che "riparano" e "riconciliano" con se stessi e con la comunità più vasta". Latina: carcere fuori dal centro abitato, appello del candidato Sindaco Calandrini latinaoggi.eu, 30 maggio 2016 Il Governo Renzi sta per affrontare un piano di ristrutturazione delle carceri italiane. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha approntato un piano che in sostanza prevede lo spostamento degli istituti penitenziari fuori dai centri abitati. Roma, Milano e Napoli saranno interessate da questi provvedimenti. Ma è probabile che anche Latina rientri in questo progetto. Nel frattempo il candidato sindaco del centrodestra Nicola Calandrini lancia un appello. La proposta, al momento in fase di elaborazione, parte dall’idea di vendere alla Cassa depositi e prestiti tre famosi e maestosi penitenziari come Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale, in cambio dei quali il Demanio otterrebbe la realizzazione di moderne strutture da collocare in periferia. Una soluzione che a detta di Calandrini potrebbe essere perfettamente applicata anche a Latina e alla casa circondariale di via Aspromonte. "Mi auguro che il Governo ed in particolare il ministro Orlando possano prendere in considerazione anche le richieste e le aspettative della seconda città del Lazio: se sarò eletto, mi impegnerò ad avviare un dialogo relativo a tale progetto e all’eventuale intervento di riqualificazione della struttura di via Aspromonte. Una nuova casa circondariale a Latina comporterebbe innanzitutto un miglioramento delle condizioni del regime di detenzione, con moderni accorgimenti sulla vivibilità e la sicurezza dei locali e con la realizzazione di nuovi spazi per attività lavorative e culturali mirate al reinserimento dei detenuti nella società. Trasferendo il carcere in una zona periferica, inoltre potremmo individuare insieme al Ministero una nuova destinazione d’uso: parliamo di uno stabile di notevoli dimensioni, situato a ridosso del centro e del polo sportivo della città". Una riconversione del carcere di via Aspromonte contribuirebbe dunque al progetto di un nuovo centro da ripopolare, con svariate nuove funzioni: "Le idee relative a quell’immobile sono molteplici: vista la sua vicinanza al cuore di Latina potremmo impiegarlo come punto di riferimento per una serie di servizi e attività da mettere a disposizione dei cittadini. Le prospettive sono dunque innumerevoli, a patto che si provveda ad avviare subito un dialogo". Cagliari: Caligaris (Sdr); liberato dopo 48 ore il bimbo di 15 mesi in cella con mamma Ansa, 30 maggio 2016 Associazione, vicenda in istituto Cagliari-Uta risolta in 48 ore. È durata meno di 48 ore la permanenza del bimbo di pochi mesi e della madre 30enne in una cella della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Il piccolo, di 15 mesi, che è asmatico, è uscito dal carcere assieme alla mamma. "La vicenda, risoltasi repentinamente grazie alla sensibilità dei magistrati non può tuttavia far dimenticare che i bambini non possono e non devono entrare in una struttura detentiva", lo ha affermato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritto Riforme. "La norma prescrive che solo ed esclusivamente per esigenze cautelari gravi - ha sottolineato Caligaris - una madre con un bimbo almeno fino a 6 anni può stare in una struttura alternativa al carcere. Non in un penitenziario. Le assicurazioni fornite dal Ministero e dal Dipartimento in merito però spesso non vengono rispettate e così i piccoli finiscono dentro le celle rappresentando una sconfitta delle istituzioni che devono farsi carico di trovare strutture esterne a custodia attenuata". Isernia: Bottiglieri (M5S) in visita al carcere "fare dei detenuti una risorsa per la città" ilgiornaledelmolise.it, 30 maggio 2016 Duplice l’obiettivo della visita al carcere di Isernia dei consiglieri del Movimento 5 Stelle Patrizia Manzo e Antonio Federico: da un lato hanno voluto riaccendere i riflettori sull’importanza di un presidio di sicurezza messo a rischio dalla spending review, dall’altro lanciare una proposta, inserita anche nel programma del candidato sindaco Mino Bottiglieri: impiegare i detenuti in attività lavorative, in modo che possano risarcire la comunità attraverso la realizzazione di lavori di varia natura: "Nessuno - ha detto il candidato sindaco del M5S - pensa al loro reinserimento e a iniziative che possano coinvolgerli, semplicemente perché non portano voti. Noi ragioniamo diversamente e pensiamo a far sì che diano un loro contributo a favore della collettività". Ma questo è solo uno dei punti del programma dell’amministrazione a 5 stelle. In città ci sono molte emergenze da affrontare, a a partire dalla ricostruzione di un tessuto socio-economico letteralmente smembrato: "La città - si legge nel programma - versa in una grave congiuntura economica, aggravata dalla crisi del tessile (It Holding) e del comparto edile, che, con l’indotto, davano occupazione a una percentuale significativa di popolazione attiva isernina, oggi disoccupati e inoccupati, risultato anche di una cattiva politica locale e regionale, oltre che di gestioni speculative. Sul territorio si registra una notevole perdita della capacità di spesa che si è riverberata negativamente sul commercio, determinando la cessazione di molte attività; ancor più grave sarà la condizione economica al termine delle casse integrazioni. In tale fase di forte recessione è urgente, quindi, intervenire con un piano di sviluppo sostenibile che interessi le componenti ambientali, economiche e sociali della città, orientato a stimolare la nascita di nuovi posti di lavoro, a generare occupazione in settori nuovi e rispondenti alla innovazione tecnologica e alle esigenze del mercato locale/globale. Le peculiarità della città di Isernia e la posizione geografica rispetto alle limitrofe aree, mete di un discreto flusso turistico in crescita, ma assolutamente insufficienti a soddisfare in termini di recettività, servizi ed accoglienza il potenziale flusso turistico, sono alla base di un’idea di sviluppo di Isernia, secondo il Movimento 5 Stelle, come HUB Turistico di area vasta, di tipo sostenibile". Verona: esiliato da Montorio, il progetto "Carcere e scuola" chiude con polemica L’Arena di Verona, 30 maggio 2016 Il bilancio dell’ideatore Ruzzenenti: "Eppure gli alunni partecipano con interesse a questi incontri". Chiude non senza polemica l’anno didattico di "Carcere e scuola", progetto che fece nascere gli incontri tra studenti e detenuti della Casa circondariale di Montorio. "Non c’è stata la sua naturale conclusione, almeno qui a Verona, con l’incontro in carcere fra i giovani e la popolazione reclusa per scelta della direttrice che preferisce seguire altre strade costringendo le scuole che vogliono incontrare effettivamente i detenuti e fare qualche cosa per loro a emigrare a Vicenza. Quest’anno sono state tre le scuole che hanno affrontato l’obbligatoria trasferta", dice Maurizio Ruzzenenti il responsabile del progetto amareggiato e anche un poco arrabbiato. "Nonostante tutto, noi perseveriamo e continuiamo l’opera di formazione nelle e per le scuole perché crediamo fortemente in questo progetto. In totale la nostra proposta è stata accolta in dieci scuole ed ha prodotto dieci corsi (di cui 2 alle scuole medie inferiori e 8 a quelle superiori) per un totale di 49 incontri in complessive 45giornate d’impegno interessando 425ragazzi in totale (suddivisi in 117 alle medie e 308 alle superiori). Nelle scuole superiori alla lezione dedicata a: "Il carcere e poi…" hanno partecipato alcuni detenuti in permesso premio, o persone, oggi in libertà, che hanno sofferto l’esperienza del carcere. "Soprattutto a queste ultime vanno i nostri più sentiti ringraziamenti per la generosa e sofferta partecipazione alle nostre iniziative", commenta Ruzzenenti, "tutto questo ha comportato un impegno molto gravoso per l’associazione che noi riteniamo di grandissima utilità didattica e sociale. Da rilevare poi che anche quest’anno abbiamo partecipato al progetto "Volo tra i banchi" promosso dal Centro di Servizi al Volontariato di Verona, aggiungendo al classico tema della legalità quello dello stimolo alla solidarietà sociale che le associazioni nostre partner (in primis, per la costanza e presenza, l’associazione "Essere clown Verona") hanno ben rappresentato con gli studenti, invogliandoli a offrire il loro tempo libero in attività volontarie utili alla società". Livorno: appello per l’isola di Gorgona, tra firmatari Paolo De Benedetti e Stefano Rodotà di Susanna Tamaro Corriere della Sera, 30 maggio 2016 L’ex veterinario della colonia penale al largo della Toscana e la richiesta: "Non uccidete gli animali con cui lavoravano i detenuti". Nel 2016 è tornato in attività il mattatoio. Pochi giorni fa mi è capitato di vedere un filmato su Raidue, nell’ambito del programma Cronache animali, che mi ha profondamente turbato. Illustrava le condizioni dei cani della colonia penale dell’isola di Gorgona - protagonisti fino a un anno fa di un coraggioso e importante progetto di rieducazione terapeutica dei detenuti - trasformati ormai in macilenti scheletri chiusi in un recinto. Conosco questa realtà da diversi anni grazie all’amicizia con Marco Verdone, per venticinque anni coraggioso veterinario dell’isola, e alle fotografie di un’altra mia cara amica austriaca, Rachele Zecchini, che ha saputo testimoniare su giornali italiani ed europei questo meraviglioso esperimento di cooperazione tra umani e animali che aveva dato, seppure per poco tempo, risultati davvero sorprendenti, con un tasso di recidiva e un consumo di farmaci e psicofarmaci tra i detenuti assai inferiore alle carceri "chiuse". Una delle ultime colonie penali agricole - L’isola di Gorgona, infatti, oltre ad essere un paradiso naturalistico inserito nel parco dell’Arcipelago Toscano, è stato fino al 2015 - quando la gestione del carcere, da realtà autonoma è diventata una Sezione distaccata del carcere di Livorno - anche un paradiso penitenziario. A Gorgona infatti si trova una delle ultime colonie penali agricole italiane, colonia che, negli ultimi anni, è stata oggetto di una profonda riflessione sugli esiti della violenza in campi rieducativo. Violenza non sui detenuti, ma sugli animali da loro accuditi. È giusto, ci si è chiesto, se persone che hanno avuto a che fare nella vita, a livelli diversi, con la violenza, si trovino, nel loro percorso rieducativo, a esercitarla ancora una volta, macellando gli animali a loro affidati? Da questo percorso è nato il progetto L’isola che c’è (ondamica.it) ispirato alla non violenza e al rispetto dell’alterità umana e animale, che ha portato alla chiusura nel 2014 - anche per grosse carenze igienico sanitarie - del macello presente da sempre sull’isola, chiedendo in contemporanea un decreto di grazia per gli animali sopravvissuti. Animali che, nel tempo, sarebbero stati "adottati" da varie scolaresche toscane per rendere ancora più consapevole la tutela e il rispetto di queste creature. La scelta di firmare - Ma questo idillio, purtroppo, è durato poco. Nel 2015, dopo cinque lustri di attività, Marco Verdone è stato trasferito, seguito subito dopo dal direttore del carcere, Carlo Mazzerbo, che appoggiava entusiasticamente l’esperimento. Con la nuova direzione, a Pasqua 2016 il macello è tornato in attività. Gli animali dunque sono tornati ad essere da "cooperatori della rieducazione" a normale carne da consumo. Non posso non chiedermi: che senso ha tutto questo? In un Paese come il nostro che riceve continue ammonizioni dall’Europa per il trattamento diseducativo del nostro sistema carcerario, avevamo un progetto pilota da ammirare e copiare. Ora questo gioiello lo abbiamo annullato per mere questioni economiche. "Gli animali che non producono, costano", sostiene la nuova direzione. Ma non tutto nel mondo può essere economia. Certo pensare di far morire tutti gli animali di morte naturale ha il sapore di un’utopica follia ma forse, in una realtà piccola e motivata come questo, l’utopia potrebbe trasformarsi in segnale di speranza. Per questo avevo deciso di firmare l’appello che accludo, che aveva trovato sostenitori in molti politici di tutti gli schieramenti, ricevendo già diversi appoggi a livello istituzionale. Ma, malgrado le buone intenzioni, come spesso accade in Italia, tutto sembra essersi di nuovo fermato. Peccato. Prima o poi bisognerà riuscire a capire perché, quando facciamo qualcosa di buono, in poco tempo lo rendiamo vano. Pescara: spettacolo teatrale in carcere con gli studenti del Liceo Marconi bcrmagazine.it, 30 maggio 2016 Martedì 31 maggio presso il carcere San Donato si chiuderà la sesta edizione del progetto "Il due di picche", realizzato dall’associazione Ad hoc onlus in collaborazione con il liceo statale delle Scienze umane Marconi e la Casa circondariale e patrocinato dal Comune. Si tratta di uno spettacolo di chiusura del progetto Libera-mente, che si terrà durante la mattina in due distinti spettacoli., "Una strada aperta da tempo", ha affermato Manuela Tabassi dell’associazione Ad Hoc Onlus, che organizza lo spettacolo dal 2011. "L’ottica è quella dell’apertura mentale attraverso la scuola, che ringraziamo per l’apporto che ha dato. L’apertura mentale è importante perché se non sai qual è la tua strada fai fatica a inserirti in un contesto sociale, o a tornarci dopo l’esperienza del carcere. Noi cerchiamo di spostare lo sguardo, è un lavoro necessario per reinserirsi nella realtà. Ringraziamo l’Amministrazione anche per la visibilità che viene data a questo lavoro silenzioso e gratuito che facciamo". L’associazione si autofinanzia e svolge il proprio lavoro senza alcuna sovvenzione istituzionale. "Abbiamo iniziato cinque anni fa questo percorso", dice Maria Di Dedda, docente del Marconi. "L’obiettivo è partire dalla cultura e poi trasferirla nel territorio. È necessario superare questi luoghi comuni e andare avanti, una via che consente di conoscere se stessi attraverso gli altri. Il risultato credo che lo abbiamo ottenuto: restituire e dare alla società attraverso un percorso di educazione e formazione o rieducazione. Una sinergia nata per questo che ha portato le ragazze nell’istituto e che porterà i detenuti a scuola a raccontarne gli effetti". "In carcere teniamo molto al teatro", ha aggiunto il direttore Franco Pettinelli, "è un particolare tipo di laboratorio quello che nasce dal progetto che propone uno spettacolo che è uno psicodramma, che ci consente di lavorare con la persona del detenuto e il suo reinserimento sociale. Un’opera che portiamo avanti da tempo e per questo ringrazio l’associazione perché lo fa liberamente e gratuitamente". "È di buon auspicio perché negli anni passati ogni volta che abbiamo portato avanti questa iniziativa i detenuti hanno avuto un percorso di reinserimento più agevole. Ringrazio le ragazze del liceo Marconi che con grande disponibilità sono entrate nell’istituto e hanno lavorato con i nostri attori. Non è un lavoro facile, ma di certo porta benefici a tutte le parti coinvolte. Ci saranno due spettacoli nella stessa giornata, uno per detenuti e uno per la comunità esterna, lo facciamo per far vedere in che modo portiamo avanti il nostro discorso di rieducazione sociale". L’Associazione Ad hoc onlus nasce nel 2004 e diventa Onlus nel 2009, si occupa della prevenzione e del recupero del disagio. Ha collaborato e collabora con attività e progetti di formazione con le scuole e il carcere; ha organizzato per 5 anni il Convegno ‘Empatià, l’unico nel genere, per il quale è stata assegnata la Medaglia del Presidente della Repubblica. Con la Compagnia teatrale stabile, l’associazione organizza spettacoli e laboratori teatrali per autofinanziarsi. Galbiate (Lc): in mostra "I colori della libertà", opere dei detenuti del carcere di Bollate di Elena Toni leccoonline.com, 30 maggio 2016 Uno schieramento di autorità è intervenuto nel pomeriggio di venerdì 27 maggio, all’inaugurazione della mostra "I colori della libertà" presso Villa Bertarelli a Galbiate. L’esposizione, che rimarrà nella suggestiva cornice affacciata sui laghi della Brianza fino al 5 giugno, mette in mostra le opere dipinte dai detenuti del secondo reparto del carcere di Milano Bollate nell’ambito del percorso di arte-terapia condotto dall’artista Luisa Colombo, sostenuto dal Questore della Camera dei Deputati Stefano Dambruoso e interamente finanziato dal Centro Studi Culturale "Parlamento della Legalità" presieduto dal dottor Umberto De Matteis. Come ha spiegato il dottor Vito Potenza, coordinatore del progetto, l’idea di applicare l’arteterapia in carcere è nata dall’incontro con Luisa Colombo all’Ospedale San Gerardo di Monza in occasione della preparazione di alcuni biglietti di auguri nel reparto di Oncologia Pediatrica: "potrebbe sembrare strano che il progetto sia promosso dall’associazione Carabinieri nei confronti dei carcerati che le stesse forze dell’ordine hanno arrestato: si tratta di una contraddizione solo apparente, perché oltre all’idea iniziale che puntava a migliorare le condizioni dei detenuti il progetto si è evoluto in tanti modi diversi - come la pubblicazione di un libro, l’esposizione delle opere e la collaborazione con le scuole - trasmettendo messaggi positivi ma anche un monito alla legalità da parte di persone che hanno sbagliato ma stanno recuperando terreno". L’arte e la creatività hanno rappresentato un modo alternativo di comunicare per dare voce ai sentimenti e al proprio vissuto senza forzature o imposizioni, con una modalità che non fosse esclusivamente quella verbale. Un progetto condiviso che ha permesso ai partecipanti e successivamente a tutti coloro che si sono avvicinati in maniera diretta o indiretta al percorso di crescere, prendersi cura di sé e degli altri e affrontare un processo di confronto e cambiamento. Ospite d’onore della cerimonia è stato proprio l’Onorevole Dambruoso, che ha sottolineato come il recupero dei detenuti sia tra i principi costituzionali: "è la Costituzione che ci impone di recuperare queste persone. Hanno senz’altro sbagliato, ma il carcere serve per punire e recuperare, non per vendicare. È da questo spunto che ci siamo avviati, ma recuperare i fondi non è stato facile perché per questo tipo di attività non si trovano mai soldi, così come per costruire carceri dignitose con standard minimi in termini di spazio. Entrare in un carcere è un girone dantesco, dobbiamo metterci d’impegno: ciò non significa sentirsi compassionevoli ma cittadini di un paese civile. Essendo un magistrato sono il primo a credere che la punizione sia importante ma so benissimo che le persone che escono dal carcere senza aver avuto alcuna opportunità di cambiare tornano a delinquere: per questo oggi è un giorno importantissimo per dare l’occasione ai detenuti di sedere accanto a persone civili e per ripensare a loro come soggetti non solo da punire ma che conviene riaccogliere nel nostro quotidiano come persone migliorate". Il progetto, iniziato da oltre due anni, è ancora in corso e ha coinvolto finora una ventina di detenuti, che sono anche andati nelle scuole medie e superiori aderenti a progetti di legalità - tra cui l’Istituto Maria Ausiliatrice di Lecco - per parlare di prevenzione e giustizia riparativa. Come ha chiarito l’artista e arte-terapeuta malgratese Luisa Colombo si è trattato di un percorso lungo, a volte difficile ma ricco di soddisfazioni: "il carcere è un’esperienza che ti cambia la vita e per me è stata una grande opportunità di crescita e arricchimento. Certo non tutti i detenuti sono uguali, ma sicuramente il rapporto costruito su fiducia e rispetto dà i suoi frutti: abbiamo seminato, annaffiato, siamo caduti, ci siamo rialzati, adeguando il passo l’uno all’altro e il risultato è esposto nelle sale della villa: non sono solo dipinti ma pezzi di vita". Un arricchimento personale testimoniato da Benedetto, un ex detenuto che ha voluto portare la propria esperienza anche al pubblico di Galbiate: "la cosa più grande che ho imparato è la pazienza. Sono fuori da un anno e non sono andato a delinquere perché grazie a Luisa e a ciò che il carcere di Bollate mi ha offerto ho gli strumenti per non farlo". L’inaugurazione è stata molto partecipata sia da semplici cittadini che da rappresentanti delle istituzioni che hanno patrocinato l’esposizione vera e propria a Villa Bertarelli come Regione Lombardia, Provincia di Lecco, Comunità Montana Lario Orientale- Valle San Martino, Parco Monte Barro e soprattutto comune di Galbiate e Biblioteca civica "Giuseppe Panzeri". Il sindaco Benedetto Negri si è detto particolarmente orgoglioso di ospitare nel proprio comune una mostra "dall’enorme valore culturale e sociale, un processo di nuovo umanesimo che permetta a chi ha commesso degli errori di prendere coscienza di sé". Altrettanto soddisfatta la presidente della biblioteca civica Rita Corti, che ha voluto fortemente la mostra a Galbiate: "il progetto è veramente meritevole sia per il proposito riabilitativo nei confronti dei detenuti sia per l’avvicinamento alle scuole con progetti sulla legalità particolarmente incisivi grazie alla viva voce di chi ha vissuto il carcere; colgo l’occasione per invitare i cittadini e in particolare i genitori a partecipare all’incontro a tema legalità che si terrà il 1 giugno proprio insieme a Luisa Colombo e a un detenuto" ha concluso, ringraziando tutte le associazioni del paese che hanno collaborato insieme alla biblioteca per la buona riuscita dell’evento. L’amore in carcere: un "Fiore" che sboccia di Federico Raponi L’Opinione, 30 maggio 2016 È proprio toccando il fondo nel loro luogo di condanna che due giovani detenuti trovano il sentimento più alto. Il regista Claudio Giovannesi - classe 1978, alle spalle due documentari e due opere di finzione - ci parla del suo nuovo film, da poco presentato al Festival di Cannes e uscito ora in sala. Soddisfatto di come è andata in Francia? "Il film è stato accolto con molto affetto, c’è stato un bellissimo applauso, molto lungo, e anche la stampa ci ha voluto bene. Era la nostra prima volta, eravamo molto emozionati, spaventati, e invece è piaciuto". Come mai la scelta di ambientarlo nella struttura di Casal del Marmo a Roma? "È un carcere misto, dove maschi e femmine hanno divieto assoluto di incontro e comunicazione: ci sono due palazzine che si guardano ma non possono interagire. Dafne e Josh si innamorano in un luogo dove questo è proibito, il desiderio si scontra con la legge. In qualche modo i cattivi sono i poliziotti, le sbarre e tutti coloro che impediscono l’amore di questi giovani rinchiusi". Da dove viene l’idea del film? "Dal voler continuare a raccontare gli adolescenti. Anche se sono criminali, colpevoli davanti alla legge, l’innocenza dei loro sentimenti è qualcosa che non si cancella, a prescindere. Fanno anche cose terribili, ma allo stesso tempo hanno la purezza sempre addosso, negli sguardi e nei comportamenti. Dopo "Alì ha gli occhi azzurri" (il suo film precedente, del 2012, ndr), "Fiore" rappresenta un punto di vista femminile, perché è ambientato tutto nella palazzina del carcere riservata alle ragazze". Com’è stata la fase di scrittura e poi il lavoro con chi ha interpretato il film? "Con gli sceneggiatori ho passato dei mesi a Casal del Marmo. Quando conosci i personaggi che racconti, la prima cosa è evitare ogni forma di giudizio morale, invece ci deve essere una vicinanza nella quale poi trovare la storia. Alla fine eravamo arrivati ad un livello di confidenza tale per cui i ragazzi ci facevano leggere le lettere che si scrivevano tra una palazzina e l’altra; ci hanno insegnato come si vive l’amore in carcere, e quindi tutto questo lo abbiamo messo nel film. All’inizio lavoravamo sulle loro biografie: da dove venivano, cosa era successo fuori, il modo di stare in carcere, la quotidianità in cella. In una fase successiva abbiamo iniziato a mettere in scena con i ragazzi quello che scrivevamo, un po’ come un corto circuito: loro ci raccontavano una scena, noi la sistemavamo, gliela facevamo recitare, la riprendevamo, e tutto questo diventava sceneggiatura. Nel momento in cui si è trattato di girare il film, però, è stato impossibile farlo a Casal del Marmo, perché conciliare gli orari di una troupe con quelli della detenzione era impossibile. Allora abbiamo realizzato tutto a L’Aquila, dove c’è un carcere minorile svuotato dopo il terremoto, ristrutturato e mai più riconsegnato: una tipica storia italiana. Ci abbiamo portato un po’ di detenuti che nel frattempo erano usciti, poliziotti da Casal del Marmo e Rebibbia, qualche attore vero e abbiamo ricreato un carcere, come fosse un teatro di posa". Le sue considerazioni sulla detenzione minorile, in rapporto a quest’esperienza? "Secondo il mio punto di vista, ormai non sono il primo a dirlo, il carcere è un luogo inutile, perché effettivamente è come quello degli adulti. E costa allo Stato molti soldi, che potrebbero essere utilizzati per proposte educative. Ci sono, sì, degli educatori pazzeschi che fanno un lavoro bellissimo, però comunque è bello pensare che oltre al castigo ci possa essere la possibilità di un nuovo inizio, cosa che tra l’altro spesso accade. Il protagonista maschile del mio film, ad esempio, veniva da tre anni di carcere al "Beccaria" di Milano, e lì aveva fatto teatro. Quindi io ho trovato sia la verità di un detenuto che la preparazione di un attore. Lui ora è libero, perfettamente "inserito", bruttissima parola però è così, perché ha un lavoro e probabilmente farà anche l’attore, quindi nel suo caso - conclude Giovannesi - il processo di rinascita è avvenuto". Migranti, il nuovo piano per l’accoglienza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 maggio 2016 Circolare del Viminale: 70 profughi per ogni provincia. C’è l’ipotesi di ricorrere ai beni demaniali. Coinvolto anche il Friuli Venezia Giulia, fino a oggi escluso dalla distribuzione. Il sistema rischia di andare in tilt. Una distribuzione equa con il trasferimento di 70 migranti per provincia in modo da non gravare solo su Regioni e Comuni. La circolare urgente diramata dal Viminale dopo gli sbarchi degli ultimi giorni, si fa carico di fronteggiare una situazione eccezionale. E infatti coinvolge anche il Friuli Venezia Giulia, generalmente escluso dalla distribuzione in quote, visto che deve far fronte agli arrivi dal Nord. Quanto basta per comprendere quanto alto sia il livello di emergenza. Negli ultimi tre giorni in Italia c’è stata una vera e propria invasione di stranieri partiti dall’Africa. Migliaia di persone sono salpate da porti e spiagge della Libia. Eppure nessuno aveva segnalato quanto stava per accadere: nonostante la presenza di 007 italiani nello Stato africano e l’attenzione massima, anche internazionale, che in questo momento viene dedicata alla possibilità di stabilizzare quel Paese, non c’è stato alcun allarme specifico indirizzato ai vertici del Viminale. E adesso il sistema rischia di andare in tilt. Per questo si stanno pianificando nuovi interventi, misure in vista di un’estate che si annuncia drammatica. Il flop dell’intelligence - Da mesi gli osservatori internazionali lanciano allarmi sull’intenzione di centinaia di migliaia di migranti pronti a raggiungere l’Europa. Persone provenienti dalla fascia subsahariana che affrontano viaggi massacranti lunghi settimane. Un mese fa, di fronte alle commissioni Esteri e Difesa del Senato, era stato il direttore centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere Giovanni Pinto a confermare che "800 mila stranieri, se non di più" erano in attesa di imbarcarsi. Un dato che avrebbe dovuto mettere in stato di allerta l’Aise, la struttura di intelligence che ha il compito di monitorare la situazione all’estero anche per le ripercussioni che può avere sul nostro Paese. E invece non è accaduto nulla. Da mercoledì, quando il primo peschereccio è salpato da Zwara con a bordo circa 600 persone ed è stato soccorso dalla Marina Militare dopo aver fatto naufragio a poche miglia dalle coste libiche, altre decine di imbarcazioni sono partite. Sabrata, Tripoli, ancora Zwara sono state al centro dei movimenti dei trafficanti e dei migranti che avevano pagato per partire: ma nessuna segnalazione specifica è stata trasmessa. Per far fronte all’emergenza e salvare il maggior numero di vite sono intervenute altre navi della Marina e di Frontex, la Guardia costiera è stata costretta a utilizzare qualsiasi tipo di mezzo. Le difficoltà sono state causate proprio dal fatto che al di là del Mediterraneo nessuno abbia diramato l’allerta. Eppure è plausibile ritenere che i mezzi stracarichi di persone fossero ben visibili. Quindi bisognerà scoprire che cosa non ha funzionato. Distribuzione più equa - Il risultato sono più di 700 vittime in mare e 13 mila arrivi in una settimana. Un dato che supera il totale raggiunto nello stesso periodo del 2015: nei primi cinque mesi dell’anno scorso gli "ingressi" dal Mediterraneo furono infatti 41.485, ora siamo oltre i 42 mila. Una situazione resa drammatica dal fatto che il sistema di accoglienza messo a punto dal Dipartimento guidato dal prefetto Mario Morcone ha già in carico oltre 105 mila stranieri che hanno fatto richiesta di asilo oppure sono in attesa del rimpatrio. Tra di loro ci sono migliaia di donne e bambini e moltissimi minori non accompagnati. Si è così deciso, almeno in questa prima fase di emergenza, di non seguire la distribuzione per quote regionali, ma di assegnare a ogni provincia il compito di sistemare 70 persone. Al momento - in accordo con le prefetture - vengono utilizzate le strutture private già disponibili: residence, edifici delle amministrazioni locali, organizzazioni non governative, stabili di enti religiosi. Ma non durerà a lungo. Caserme e tendopoli - Ormai si è al limite della capienza, dunque se gli sbarchi dovessero continuare bisognerà mettere a punto un nuovo piano. E utilizzare quelle strutture demaniali che finora si è preferito evitare, prime fra tutte le caserme. Anche perché la maggior parte devono essere ristrutturate, oppure si devono trasformare in tendopoli e con l’arrivo della stagione calda i rischi sono altissimi. Tra le ipotesi allo studio in queste ore c’è anche quella che prevede l’uso dei beni confiscati alle organizzazioni criminali. Immobili già pronti per ospitare gli stranieri, preferibilmente le donne con figli o intere famiglie. La sensazione è che tutto si deciderà a fine mese, al termine della campagna elettorale per le amministrative nelle principali città. Migranti: le tragedie, Favour, le lacrime di coccodrillo di Francesco Lo Piccolo felicitapubblica.it, 30 maggio 2016 "Non c’è più posto", "siamo al completo, è emergenza", "no, non è emergenza". E poi ancora: "gli occhi di Favour… tutti gli italiani vogliono adottare la piccola Favour", "parte la mobilitazione per la bimba di nove mesi arrivata a Lampedusa dopo la morte della madre - incinta di un altro bambino - avvenuta durante la traversata nel Canale di Sicilia". Titoloni, allarmi e smentite… commozione e buonismo. Ecco come siamo: tutto e il contrario di tutto. Lacrime facili, lacrime di coccodrillo. Ricordiamo tutti il piccolo Aylan, la faccia in giù, le braccia abbandonate, immobile nella morte, era un profugo, aveva 3 anni, lì davanti alla spiaggia di Bodrum, paradiso turistico della Turchia, quella maglietta rossa e quei pantaloncini scuri, le scarpe allacciate. Quanto tempo è passato? Quanti altri Aylan prima e dopo? Quante altre volte ci siamo commossi? E quante volte poi ce ne siamo dimenticati? Presi da tutt’altre faccende: dalle polemiche tra i partiti, dagli scandali o dalle nuove retate di corrotti, dalle liti ora su questo e ora su quello, dai partigiani veri o dai partigiani falsi. Pretesti in realtà, perché tutto continui come prima, mentre io, tu, tutti, continuiamo a girarci dall’altra parte. E qualcuno pensa di tirare su qualche muro, come se la sicurezza fosse solo un confine da difendere armi in pugno. Intanto la tragedia, quella vera, non si ferma e i numeri sono un impietoso atto di accusa: dall’88 fino al febbraio 2016 lungo le frontiere dell’Europa sono morte 27.382 persone. Gabriele Del Grande tiene il conto di questa carneficina nel suo Fortress Europe. Lo fa da anni, aggiorna di mese in mese, e ogni volta nuove tragedie, barche e gommoni che affondano: 4.273 morti nel 2015 e 3.507 nel 2014. Ma sono dati per difetto: in un mare che è il Mediterraneo, che è solcato da miriadi di imbarcazioni, che è controllato da radar e velivoli e infine osservato dall’alto dei satelliti…che una nave di disperati sta affondando si scopre sempre troppo tardi. "In cammino" è un saggio edito da Il Mulino scritto da Massimo Livi Bacci, docente di demografia a Firenze. In una pagina di questo bellissimo lavoro si legge così: "Nelle navi negriere che trasportavano oltre 10 milioni di schiavi dalle coste africane a quelle dell’America perdevano la vita tra il 10 e il 20 per cento dei disgraziati passeggeri. Nella seconda metà del Settecento le navi in partenza dal Senegal e dall’Angola e dirette nei Caraibi persero "solo" il 2 per cento del loro carico umano". "Il 2 per cento - aggiunge ancora Livi Bacci - è peraltro il tasso di mortalità dei disgraziati migranti che hanno tentato la traversata del Canale di Sicilia e dello Stretto di Gibilterra per approdare in Europa fra il 2002 e il 2008". Nel ventunesimo secolo come nel Settecento! Altro che tecnologie e satelliti. Altro che informazione 24 ore su 24. Uniti da scambi e globalizzati. O quanto è bello. In realtà spettatori più o meno distratti di tante nuove e continue pubbliche esecuzioni. Cito Noam Chomsky nel suo "Requiem for the American Dream": "Disinformati da un’informazione che da cane da guardia del potere si è trasformata in cane da guardia al servizio del potere". "In acqua 40 bambini. Nessuno di loro è riuscito a salvarsi" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 maggio 2016 Le voci dei superstiti del barcone in avaria e il racconto delle torture in Libia. "Prigionia, gravidanze dagli stupri, ossa fratturate dai colpi delle spranghe". Voci e parole dai confini della morte. Il verbale di un ragazzo eritreo di 23 anni descrive prima l’occupazione: soldato; poi le condizioni di vita: scarse. Infine il racconto. "Io viaggiavo sulla barca trainata con la cima ed ero sistemato sotto coperta. Fin dall’inizio nella nostra barca l’unico motore che funzionava era quello della pompa per far uscire l’acqua che entrava dal fondo della stiva. Eravamo quasi tutti eritrei, più o meno 450 persone. So che a bordo c’erano 130 donne e almeno 35 bambini. Quando è finito il carburante che faceva andare la pompa abbiamo cominciato tutti quanti a svuotare la stiva dall’acqua che entrava. Con qualsiasi cosa, soprattutto con le taniche da cinque litri dell’acqua potabile". Una catena umana per passare le taniche a chi stava in coperta perché le svuotasse. Qualcuno aiutava con le mani, un pugno d’acqua alla volta. Sempre più veloci, sempre più stanchi. Avanti così per sei ore, a resistere, a pregare e a sopravvivere. Le richieste di aiuto - Il ragazzo racconta che "eravamo spinti dalla speranza di farcela, finché non siamo più riusciti a tenere basso il livello dell’acqua: ci è arrivata all’altezza della vita e allora abbiamo cominciato a urlare e chiedere aiuto ai passeggeri dell’altra barca. Gridavamo: fermatevi, dateci un po’ di carburante per far ripartire la pompa". Si sono fermati ma la risposta è stata "no" niente carburante. "È stato a quel punto che la nostra barca ha cominciato ad affondare, in modo lento ma continuo. Ci avrà messo almeno un’ora... Io ero vicino al boccaporto che andava in coperta, sono riuscito a salire e a mettermi in salvo perché ho raggiunto la fune della barca che ci trainava. Quelli che stavano sotto coperta non sono nemmeno riusciti a salire per tuffarsi in acqua, perché sopra eravamo tantissimi e non c’era più spazio. Sono colati a picco con la barca". "Annegati uno dopo l’altro" - Dall’altra carretta, quella raggiunta poi dai soccorritori, tanti hanno sentito e visto. Grida disperate, corpi senza vita fra chi cercava di rimanere a galla. "C’erano almeno una quarantina di bambini in acqua e nessuno si è salvato" racconta un sopravvissuto. "Il capitano li ha abbandonati lì con altre centinaia in mare, lasciandoli annegare uno dopo l’altro". Secondo gli uomini della Squadra mobile di Ragusa "il capitano" è Adam Sarik, sudanese di 29 anni. I testimoni dicono che sia stato lui a "dare l’ordine di tagliare la cima". Qualcuno ha sentito gridare "un coltello, presto, un coltello", mentre la fune si tendeva sempre più. Ed è stato proprio "il suo rapido tendersi", dice un altro, "a colpire al collo una donna a bordo della barca che trainava. È rimasta incastrata dalla cima, credo sia morta". Sull’altra imbarcazione, se si può chiamare così quel guscio di noce in balia del mare, chi era in coperta si è ritrovato ad annaspare fra le onde. Tutti gli altri - più o meno 300 - sono scomparsi assieme allo scafo. Le botte con spranghe di ferro - Chi è riuscito a toccare terra racconta che tutto questo orrore è soltanto la parte più recente di mille e mille storie fatte di disperazione e barbarie. Le storie di vite in fuga, costrette (quasi sempre in Libia) a sopportare mesi, a volte anni di torture, prigionia e botte, prima di affrontare il mare con il rischio altissimo di morire. Una ragazzina salvata in quest’ultimo naufragio è stata stuprata ed è rimasta incinta. E non è un caso isolato. Paola Mazzoni, di Medici senza frontiere, ha intercettato il suo sgomento: "È terrorizzata, e sono sicura che non solo le donne siano vittime di stupro ma anche ragazzi, spesso giovanissimi". Violenze sessuali e non, nei referti medici della dottoressa: "Ho refertato casi di torture come le deformazioni da fratture per le botte subite con spranghe di ferro". Le sbarre alle finestre - Nel verbale di un poliziotto siriano di 44 anni, c’è un passaggio dedicato a un "centro" libico per migranti che sognano l’Europa: "Ci sono stato per due giorni. Si trova a Om Araneb e somiglia a un carcere, con sbarre alle finestre e libici armati alle porte. Lì dentro ho visto gente morire di stenti o per le violenze subite". Un luogo spaventoso ma lui aveva più coraggio per rimanere in quel luogo che per tornare in Siria. Anche il suo verbale si apre come quello del ragazzo eritreo. Condizioni di vita in Siria: "scarse". Immigrazione. Nel Cas di Matera due donne e oltre cento uomini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 maggio 2016 La denuncia di "Lasciatecientrare", dopo l’ultima ispezione. Due donne sole insieme a oltre 100 uomini, giro di prostituzione, nessuna forma di inclusione sociale. A denunciarlo è stata la delegazione della campagna LasciateCIEntrare durante una visita effettuata sabato scorso nel Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Matera. Hanno pubblicato un report, il primo di una serie, dopo le visite effettuate per la prima volta in Basilicata. Il Cas si trova in aperta campagna. Nel report il centro di accoglienza viene definito una vera e propria cattedrale nel deserto: in perfetta contrapposizione a quanto scritto negli stessi bandi prefettizi che sottolineano il "non inserire Centri di accoglienza in zone periferiche con difficoltà socio-ambientali (?) e favorire processi di inclusione sociale". Per raggiungere il centro abitato, gli immigrati lo fanno a piedi, oppure in bici. Ed è pericoloso. Nel report viene raccontato un episodio di un anno fa, quando venne investito un ragazzo nigeriano del centro, entrato in coma. Uscito dall’ospedale, venne trasferito in un altro centro. Ma di lui non si hanno più notizie. Il ragazzo percorreva, come ogni giorno, in bici quella stessa strada, che all’imbrunire diventa pericolosa. Troppi sono gli accessi poderali o ai capannoni dai quali sbucano vetture in velocità. Inoltre, proprio a seguito di questa vicenda, i ragazzi del centro avevano messo in atto una protesta, con tanto di marcia a piedi sino dinnanzi alla questura, per avanzare delle richieste ben precise. Richieste che, ad oggi, non sono state accolte, e quella protesta è caduta nel dimenticatoio. Molteplici furono le polemiche e gli insulti razzisti sui vari gruppi social a livello locale, poiché la cittadinanza mal tollerava anche la sola remota possibilità che dei migranti potessero avere dei diritti da rivendicare. Il report poi descrive il centro, riportando delle testimonianze. La palazzina ha un ampio pian terreno dove è situato un bar (aperto al pubblico), e dove i ragazzi entrano a comprare le sigarette con i soldi del pocket money, che gli viene somministrato cash; altrimenti nel bar non entrano, o meglio non possono entrare secondo il racconto di A., un immigrato che si trova lì da oltre un anno. Le loro stanze invece si trovano al primo piano. Il pasto lo consumano quasi sempre nelle stanze, dopo la distribuzione ad opera della ditta che ha l’appalto di fornitura. Ricevono, due volte al giorno, cibo confezionato e prodotto dalla holding Ladisa. Si tratta di un’azienda di Bari che rifornisce centinaia di mense tra scuole, uffici di polizia, ferrovie e Rai, in tutt’Italia. Essa è ben nota, tanto nel materano quanto nel barese, soprattutto alle mamme di bambini di asilo e scuole elementari, che hanno più volte denunciato cibo avariato, presenza di vermi, frutta non fresca. Questa situazione comporta che molti dei ragazzi del centro si sono procurati dei piccoli fornelletti e cucinano in camera. Oltre a non essere igienico, è anche molto pericoloso. Ma il tutto ? sempre secondo il report di LasciateCIEntranre - viene avallato con il silenzio dalla cooperativa che gestisce il cas. Nel centro, di sabato mattina, non ci sono operatori o mediatori presenti, ma solo qualche addetto alle pulizie. Non vengono svolte attività ricreative e formative. Eccezione fatta per un corso di italiano, due volte a settimana, con due insegnanti. Tuttavia, non è stato previsto un corso di alfabetizzazione: molti degli ospiti non sanno né leggere né scrivere, e per tale ragione vengono automaticamente esclusi dalla frequenza al corso di italiano. Nel centro, sono presenti cittadini nigeriani, gambiani, maliani e senegalesi. Circa 125 persone - un numero anche destinato a crescere - con solo due donne nigeriane. Dal report esce fuori una pesante denuncia: almeno una delle due donne è inserita nel giro della prostituzione, per questo motivo un’associazione che si occupa delle vittime di tratta avrebbe sollecitato più volte la cooperativa che gestisce il centro di poter seguire le donne in un percorso di recupero. Ma sempre secondo LasciateCIEntrare, le richieste sono state sistematicamente disattese. Dal report esce fuori un quadro disarmante: il centro di accoglienza straordinaria diventa un luogo "perfetto" per entrare nello sfruttamento lavorativo, nella prostituzione e nell’ abbandono totale. Immigrazione. Migliaia di sbarchi disperati e Alfano scopre "l’Africa" di Gilda Maussier Il Manifesto, 30 maggio 2016 Un’altra settimana da incubo, nel Mediterraneo, quella che si conclude oggi. Oltre 70 vittime e 12 mila migranti raccolti nel Canale di Sicilia sono il bilancio, purtroppo provvisorio, dei tre naufragi degli ultimi giorni. Secondo il racconto di alcuni sopravvissuti, sarebbero dispersi in mare almeno 400 persone, solo tra coloro che sono naufragati giovedì scorso e che viaggiavano a bordo di due grandi pescherecci partiti dalle coste libiche trasportando circa 500 passeggeri ciascuno. Nella giornata di ieri si sono susseguiti gli sbarchi nei porti siciliani ma anche in Calabria e Puglia; oggi altri arriveranno in Sardegna. Decine le operazioni di soccorso condotte principalmente dalle navi della Marina militare italiana e spagnola che pattugliano il mar Mediterraneo e coordinate dalla capitanerie di porto. Centinaia di persone, decine di minorenni, molti sotto l’anno di vita; 45 i cadaveri recuperati. Eppure non sono cifre record. Anche se il ministro dell’Interno Angelino Alfano, da Lecce dove ieri ha firmato un accordo per la sicurezza e per lo sviluppo del territorio di Gallipoli, in linea con lo spirito da campagna elettorale lancia l’ennesimo allarme. E, dimenticando che l’Europa ha fatto fin troppo e male per l’Africa, con i risultati che abbiamo appunto sotto gli occhi, dice: "Tutte le vittime che stiamo raccogliendo in mare sono la prova di quanto ancora l’Europa sia lontana e indietro nel rapporto con i Paesi dell’Africa. Va bene il soccorso in mare, ma se non si agisce in Africa, dando aiuti e sostegni a quei Paesi che possono darci una mano nell’impedire, nell’evitare le partenze, sarà sempre un’azione come quella di un portiere a cui arrivano tanti palloni in porta e qualche gol lo prende sempre". Sono un "gol" dunque, per l’Ncd Alfano, gli oltre 400 profughi arrivati ieri a Trapani, tra cui 55 minori e 234 donne (altri 150, soccorsi nel Canale di Sicilia, attesi per oggi). Come lo sono gli 890 salvati con otto diverse operazioni e giunti a Catania. E le 526 persone (34 donne e 69 minorenni) provenienti da Eritrea, Gambia, Sudan, Etiopia e dall’Africa sub sahariana, tratte in salvo dai due gommoni e dalle due imbarcazioni di legno sulle quali viaggiavano e trasportate, insieme ad un cadavere, a Porto Empedocle (Ag) dal pattugliatore "Rio Segura" della Guardia civil spagnola. Sono un "gol" pure i 657 sbarcati a Pozzallo dal pattugliatore "Asso 29" tra i quali sei donne in gravidanza, 13 bambini piccoli, una donna scompensata con diabete, un’altra ferita alla testa, una terza con ferite da arma di fuoco, diverse persone disidratate e centinaia affetti da scabbia. E i 550 uomini, 148 donne e 7 bambini - somali ed eritrei - salvati dalla Marina militare spagnola e destinati all’hotspot di Taranto. E chissà se sono solo un "gol" o c’è anche qualche responsabilità per i 217 migranti, tra cui 15 minori non accompagnati, partiti una settimana fa da Alessandria d’Egitto e provenienti da Eritrea, Etiopia, Egitto, Sudan e Darfur, approdati nel porto di Vibo Marina sulla nave della Guardia di finanza "Montesperone" che li ha raccolti in mare. Infine - ma l’elenco rischia di essere incompleto - è attesa per domani in Sardegna una nave con a bordo 470 naufraghi partiti dalla Libia, che da Olbia è stata deviata a Porto Torres. Numeri che, per quanto impressionanti, sono in linea, come riconosciuto anche il ministro Alfano, con "i dati dello scorso anno". "Questo però non ci fa dire che tutto va bene, ci mancherebbe - ha aggiunto il titolare del Viminale - Ci fa dire invece che queste continue azioni di soccorso stanno a dimostrare che occorre un accordo rapido con la Libia e con i Paesi africani da parte dell’Europa. Ora in Libia c’è un governo - ha concluso, anche se un governo c’è, a malapena, in Tripolitania - e dunque serve un accordo serio per riuscire ad arginare le partenze. Se faremo funzionare meglio gli strumenti internazionali e anche i soldi che mettiamo a disposizione dell’Africa, le cose potranno migliorare, sapendo che dall’altra parte c’è guerra, c’è persecuzione e tanta fame". Un attimo di resipiscenza che si dissolve presto nella stessa ricetta di sempre: per affrontare "l’emergenza", così la chiama Alfano, è necessario anche "organizzare i rimpatri" e creare "i campi profughi in Africa". Sbarchi, ora l’Italia è la meta di Leonard Berberi Corriere della Sera, 30 maggio 2016 Nell’ultima settimana ci sono stati oltre 13mila arrivi contro i 180 migranti approdati sulle isole greche. I dati dell’Alto commissariato Onu e il nodo rimpatri. Lunedì 23 maggio. Migranti giunti in Grecia, isole comprese: 6 (sei). In Italia, lo stesso giorno: 319. Martedì 24 maggio: 0 (zero) in territorio ellenico, 1.960 da noi. Mercoledì 25 maggio: 1 (uno) di là, 1.568 di qua. Giovedì 26 maggio, ultimo dato disponibile su tutta Europa: 104 (centoquattro) arrivati dalle parti di Lesbo e Chios, 2.741 nel Sud Italia. Dalle istantanee ai numeri. Dai barconi - fotografati mentre galleggiano a fatica, poi si rovesciano, quindi affondano - ai dati ufficiali del ministero dell’Interno e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Spiegano, quelle cifre, che il "fronte ellenico" del 2015 quest’anno è diventato quello italiano. Con la differenza che mentre i nostri vicini "godono" dell’accordo dell’Unione europea con la Turchia sul rimpatrio di chi non ha diritto d’asilo, qui chi arriva ci resta per un bel po’. In attesa di capire se può beneficiare dello status di rifugiato oppure no. Il trend ellenico - Basterebbe leggersi i bollettini giornalieri dell’Unhcr per capire come il trend si sia consolidato verso il nostro Paese e si sia indebolito, di molto, dall’altra parte. Se nella settimana 15-21 febbraio 2016 la media quotidiana degli sbarchi in Grecia era di 2.700, nel periodo 16-22 maggio si è passati a 45 che si riducono a 2 (due) nella finestra temporale 23-25 maggio. "Il che si traduce in una riduzione del 95% rispetto al trend della settimana precedente", spiega il dossier. Che traccia anche un bilancio delle persone rimandate in Turchia, proprio in virtù di quegli accordi siglati il 18 marzo. Dall’8 marzo, invece, l’agenzia Onu non registra alcun passaggio dalla Grecia alla Macedonia: il dato è 0 (zero) ogni singolo giorno da allora. Mentre qualcuno - poche decine - si sposta man mano verso la Serbia, quindi mette piede in Ungheria e poi da lì verso l’Austria e la Germania. Gli accordi Ue-Turchia - Il 4 aprile - spiega l’Alto commissariato Onu per i rifugiati - Atene ha consegnato ad Ankara 202 migranti che non avevano i requisiti minimi per chiedere alla Grecia (e quindi all’Europa) il diritto di asilo. Altri 124 sono stati riconsegnati ai turchi l’8 aprile. Diciassette giorni dopo è toccato a 36 stranieri, fino ad arrivare al 20 maggio - l’ultimo giorno di "rimpatri" - con 51 individui accompagnati con una nave. Da quando gli accordi sono entrati in vigore la Turchia ha ricevuto 491 extracomunitari. In tutto. Cioè, calcolatrice alla mano, 6,9 di media al giorno. Il "fronte" italiano - E nel nostro Paese? Nell’ultima settimana sono arrivati in dodicimila, quasi duemila ieri, a cui andranno aggiunti altri 1.351 che sbarcheranno oggi e che andranno ad aumentare il numero ufficiale. Oltre 13 mila, contro i 180 arrivi in Grecia negli stessi giorni: un rapporto di circa 70 a 1. Nel suo ultimo bilancio giornaliero pubblicato online il Viminale fa sapere che dal 1° gennaio al 27 maggio i migranti arrivati (quindi registrati e inseriti nel sistema consultabile dai governi europei) sono stati 40.660. Tanti, ma in calo rispetto allo stesso periodo dell’anno prima (41.485, -1,99%) quando il flusso massiccio era quello sulla rotta Grecia-Turchia, ma in aumento rispetto al 2013 (39.538, +2,8%). Più nel dettaglio, dal 1° gennaio di quest’anno il porto di Augusta registra il numero più alto di ingressi (7.543) seguito da Pozzallo (6.342) e Lampedusa (5.151). E sono per la maggior parte nigeriani, eritrei, gambiani, somali. Cannabis: si parte in aula, ma la strada è in salita di Carlo Bertini La Stampa, 30 maggio 2016 La novità è che sul tema-tabù della cannabis la conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha fissato una data, il 27 giugno, per l’inizio del rodeo in aula. Cosa succederà poi è tutto da vedere. C’è da scommettere che la battaglia sarà aspra e che nessuno degli schieramenti risparmierà colpi, come per gli scontri andati in onda sulle unioni civili. Si preannuncia una campagna di quelle che lasceranno il segno, con la maggioranza sulla graticola comunque, con discussioni feroci nelle case, nei bar, dentro e fuori le aule parlamentari, insomma un momento che segnerà una svolta per il paese messo di fronte a un tema largamente divisivo. Che però a sorpresa nei riscontri parlamentari lo è meno del previsto, a leggere lo schieramento trasversale di firme in calce al testo lanciato un anno fa su iniziativa dall’ex radicale Benedetto Della Vedova, oggi sottosegretario del governo Renzi. Il testo vede come primo firmatario il vicepresidente della Camera e candidato sindaco di Roma, Roberto Giachetti, altro ex radicale. Ed è stato sottoscritto da 220 deputati e 70 senatori di quasi tutti gli schieramenti (Pd- M5S-Sinistra Italiana, Forza Italia, Scelta Civica, Psi, fuoriusciti grillini) tranne Lega e Ncd-Ap. Un primo giro di audizioni di esperti nelle commissioni Giustizia e Affari sociali è già partito, il secondo "giro" è previsto alla ripresa dei lavori dopo il primo turno delle amministrative. Ma se la capigruppo ha fissato l’avvio della discussione in aula per il 27 giugno, lo ha fatto mettendo il progetto di legge all’ordine del giorno insieme a vari altri provvedimenti: come la legge europea, una proposta di legge sulla separazione tra banche d’affari e banche commerciali, una sulla video sorveglianza degli asili nido e la riforma della contabilità. Come a dire che le priorità vanno ancora decise. Insomma che la strada sia tutta in salita, lo sanno bene i promotori di questa iniziativa. "Nulla è scontato, dobbiamo conquistarci centimetro per centimetro la nostra battaglia", dice Della Vedova. "Vogliamo che entro l’estate si arrivi al voto della Camera, perché pensiamo che un disegno di legge che ha la firma di 220 deputati debba essere discusso e votato". Stati Uniti: le celle trasformate in affari, negli Usa il boom dei privati di Alberto Flores D’arcais La Repubblica, 30 maggio 2016 In America 2,2 milioni di detenuti, in proporzione il numero più alto al mondo. Negli Stati Uniti l’8,7 per cento dei detenuti è recluso in carceri gestite da aziende private. Dal 1990 al 2010 questi detenuti sono aumentati del 1600 per 100. Tra il 2000 e il 2010 il numero di queste prigioni è raddoppiato. Le chiamano "for-profit prison" e già questo dice molto. Il business delle prigioni private negli Usa sta vivendo da anni un vero e proprio boom, in controtendenza rispetto agli sforzi federali che da un qualche tempo tentano (con pene alternative) di ridurre il mostruoso numero di carcerati (circa 2,2 milioni, in percentuale sulla popolazione il più alto numero al mondo) che affollano le prigioni Usa. Sono già 138, con 133mila detenuti, diffuse in tutti gli States, altre ne stanno costruendo. Poco conosciute (salvo quando scoppiano incidenti come quelli di "Ritmo", la Guantanamo di Raymondville in Texas), poco controllate, teatri di abusi peggiori di quanto già avviene negli "inferni" federali e statali, sono gestite in modo da prolungare con tutti i mezzi (anche illeciti) la detenzione dei prigionieri. Nel decennio 2000-2010 i privati hanno individuato un terreno di caccia privilegiato, quello degli immigrati clandestini che tentano di evitare arresti e deportazioni (oggi gli "stranieri" detenuti sono circa 400mila e un quarto sono nelle mani dei privati). E si sono facilmente arricchiti. Le due più grandi società di "for-profit prison" (il Geo Group e Corrections Corporations of America) insieme hanno incassato nel 2015 la bellezza di 3,3 miliardi di dollari. Se consideriamo tutto il giro d’affari (comprese le piccole prigioni a condizione familiare molto diffuse) arriviamo attorno ai 5 miliardi di dollari. Nel budget federale le spese per il cosiddetto criminal justice system sono ormai seconde solo a quelle per la sanità. In dieci anni Geo e Cca hanno più che raddoppiato il numero di detenuti che hanno "in carico" e a Wall Street le loro azioni non risentono di crisi. Nel 2015 solo per lobbying al Congresso hanno speso 32 milioni di dollari (in proporzione un incremento annuale più alto di quello di Big Oil, Big Pharma e della lobby per le armi), nel 2016 hanno finanziato diversi candidati repubblicani alla Casa Bianca. Un business che nei prossimi anni potrebbe moltiplicarsi ulteriormente. Dipenderà tutto da chi vincerà a novembre, visto che Hillary Clinton e Donald Trump (con rispettivi partiti) hanno visioni diametralmente opposte. La prima decisa a invertire la rotta delle incarcerazioni di massa riformando il sistema delle prigioni, il secondo che vuole la deportazione di tutti i clandestini ed è pronto a finanziare (anche con soldi federali) i privati. In prima fila contro Geo, Cca e gli Stati (soprattutto del sud) che usano il pugno di ferro e finanziano (abbondantemente) i privati, combatte l’American Civil Liberties Union (Aclu), la più importante organizzazione non-governativa per la difesa dei diritti umani con il suo "National Prison Project". Carl Takei, legale dell’Aclu si affida a una vittoria di Hillary: "Il destino dell’industria delle prigioni private e quello delle incarcerazioni di massa sono inevitabilmente legati tra loro. Se queste ultime cesseranno verrà meno la ragione stessa per cui esistono le for-profit prison". Israele: 200 ex generali contro Netanyahu "subito negoziati con i palestinesi" di Michele Giorgio Il Manifesto, 30 maggio 2016 Militari e agenti dei servizi segreti condannano chi, nel governo, ripete che non c’è un partner palestinese con il quale negoziare e chiedono il ritiro dai Territori occupati per far nascere lo Stato di Palestina. Oltre 200 ex generali ed ufficiali delle forze armate ed agenti dei servizi segreti, che si definiscono "Comandanti per la sicurezza di Israele", criticano pubblicamente la mancanza di iniziativa da parte del governo Netanyahu e hanno elaborato un "piano" per sbloccare la situazione di stallo con i palestinesi. Non si tratta di una proposta particolarmente avanzata e rispettosa di tutti i diritti dei palestinesi. Chiede però un ampio ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 per consentire ai palestinesi di costruire un loro Stato indipendente. Il presidente del gruppo, Amnon Reshaf, ha condannato i "mercanti di paura" secondo i quali non ci sarebbe un partner palestinese per trattare un accordo. Un riferimento evidente agli esponenti della maggioranza di destra che negano l’esistenza di una controparte per eventuali negoziati e descrivono il presidente dell’Anp Abu Mazen come un nemico e un sostenitore del terrorismo. Il piano chiede uno stop della costruzione di insediamenti ebraici nei Territori occupati, l’accettazione dell’iniziativa di pace araba del 2002 e il riconoscimento di Gerusalemme Est, la parte araba della città, come capitale dello Stato palestinese. L’iniziativa allarga la spaccatura tra i militari e il governo Netanyahu che si è fatta ancora più profonda nei giorni scorsi dopo l’improvvisa nomina dell’ultranazionalista Avigdor Lieberman a ministro della difesa al posto di Moshe Yaalon, un ex comandante delle forze armate. Intanto la Francia si prepara ad ospitare, il 3 giugno, un incontro con i ministri degli esteri di diversi Paesi finalizzato alla convocazione, in autunno, di una conferenza internazionale per rilanciare il negoziato israelo-palestinese. L’iniziativa francese è stata respinta da Netanyahu che si è detto disposto solo ad incontrare Abu Mazen. Iran: almeno 22 detenuti sono stati messi a morte in Iran negli ultimi 10 giorni agenziaradicale.com, 30 maggio 2016 Il 16 maggio, un prigioniero è stato impiccato nel carcere Dastgerd di Isfahan, nell’Iran centrale. È stato identificato come Malek Salehi, di 35 anni. Due detenuti sono stati impiccati per omicidio il 18 maggio nel Carcere Centrale di Urmia, hanno riportato l’agenzia di stampa Hrana e il Kurdistan Human Rights Network. I due prigionieri impiccati sono stati identificati come Dariush Farajzadeh e Ghafour Ghaderzadeh. Il 20 maggio, cinque attivisti curdi per i diritti umani sono stati giustiziati in pubblico a Urmia, nel nord-ovest dell’Iran, hanno riportato funzionari e attivisti locali. Naji Kiwan, Ali Kurdian, Haidar Ramini, Nadir Muhamadi e Ruhman Rashidi erano stati arrestati il 18 maggio con l’accusa di "cospirazione contro la Repubblica Islamica dell’Iran". Sono stati giustiziati in pubblico nel centro cittadino, con i loro familiari che sono stati costretti dalle autorità ad assistere alle esecuzioni. "I giustiziati erano attivisti per i diritti umani che documentavano le violazioni da parte delle forze di sicurezza contro i civili nella città curda di Urmia", ha dichiarato ad Ara News il membro del Partito Democratico del Kurdistan Dara Natiq. "Giustiziando gli attivisti, il Governo iraniano cerca di impedire la denuncia delle violazioni dei diritti umani", ha aggiunto. Altri tre prigionieri sono stati impiccati il 24 maggio nel carcere Qezelhesar di Karaj, a nord-est della capitale iraniana Teheran, dopo aver trascorso gli ultimi quattro anni dietro le sbarre. Uno dei tre giustiziati è stato identificato come Ruhollah Roshangar, che aveva moglie e due figli. Il 25 maggio, 11 prigionieri, incluso uno che aveva 16 anni all’epoca del crimine, sono stati giustiziati nel carcere Gohardasht (Rajai-Shahr) di Karaj. Il minorenne è stato identificato come Mehdi Rajai mentre altri otto giustiziati, di età compresa tra 22 e 25 anni, si chiamavano Mohsen Agha-Mohammadi, Asghar Azizi, Farhad Bakhshayesh, Iman Fatemi-Pour, Javad Khorsandi, Hossein Mohammadi, Masoud Raghadi e Khosrow Robat-Dasti.