Roverto Cobertera di nuovo in sciopero della fame di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 2 maggio 2016 Sembra poco credibile che la stragrande maggioranza dei detenuti si dichiari innocente e qualcuno storce anche il naso. Eppure i dati e i numeri confermano che comunque molte persone che vengono arrestate, in seguito risultano innocenti. Si può essere condannati e mandati in carcere per tanti motivi: per scelte di vita sbagliate, per difetti caratteriali, per cattiveria, per sopravvivenza, per amore, per ignoranza, per solidarietà, per ingiustizia sociale, per depressione, e per tante altre cose che abitano nell’animo umano. Roverto è stato condannato un po’ per tutti questi motivi, ma è anche vittima lui stesso di un errore giudiziario: lui si è sempre dichiarato innocente dell’omicidio per cui è stato condannato all’ergastolo. E per dimostrarlo è disposto a lasciarsi morire di fame. Dopo la dichiarazione del suo accusatore, reo confesso di quell’omicidio, ha iniziato diversi digiuni che gli sono costati un paio di ricoveri in ospedale. Da diversi mesi, i suoi legali hanno presentato la richiesta di revisione del processo, ma se i tempi della giustizia italiana sono lunghi quando ti condannano, lo sono ancora di più quando devono ammettere che si sono sbagliati. L’altro giorno, durante l’ora d’aria, ho incontrato Roverto, segnato nel fisico da questo nuovo sciopero della fame. Nei suoi occhi ho visto la tristezza, la sofferenza, la disperazione e la rabbia perché i giudici non gli hanno ancora fissato l’udienza per decidere la revisione del suo processo. Mi ha confidato che non vuole più continuare a vivere da colpevole, ma vuole morire da innocente. E da venti giorni ha ripreso lo sciopero della fame e ha già perso dieci chili di peso. Ho tentato di convincerlo che è troppo presto per morire. Lui ha sorriso. E ha scrollato la testa. Poi mi ha risposto che, probabilmente, è troppo tardi per non farlo. A mia volta mi sono chiesto: che posso fare per Roverto Cobertera? Credo di poter fare ben poco. Forse, però, potete fare qualcosa voi del mondo libero. E lancio un appello alla società civile per indirizzare al Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia un’email a questo indirizzo ca.brescia@giustizia.it o una cartolina a questo indirizzo postale via Lattanzio Gambara, 40, 25121 Brescia, con scritto "Si sollecita pronuncia su richiesta di revisione per Roverto Cobertera". Grazie per tutti quelli che si attiveranno per fare sentire fuori e dentro la voce di Roverto, perché lui non ne ha più. Un sorriso fra le sbarre. Mettiamo le mani sulle nostre prigioni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 maggio 2016 Le carceri italiane costano ai contribuenti tre miliardi di euro l’anno e generano uno dei tassi di recidiva tra i più alti d’Europa. Ora il governo ha promesso novità. "L’utopia è come l’orizzonte. Cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana dieci passi. E allora a che cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare". Poche volte come in questa citazione dello scomparso Edoardo Galeano - evocata dal professor Glauco Giostra nei due giorni nel carcere romano di Rebibbia a conclusione degli "Stati generali dell’esecuzione penale", dei cui 18 Tavoli di studio Giostra è stato per un anno il coordinatore scientifico - gli omaggi letterari non sono leziosi. Anzi, sono quanto mai pertinenti ai grandi passi avanti compiuti dall’evoluzione del discorso pubblico sul carcere. Ancora pochi anni fa, infatti, venivano guardati come marziani l’assistente sociale o il docente universitario, l’agente penitenziario o il giornalista che provassero a mostrare un curioso strabismo sociale: e cioè quello per il quale un’opinione pubblica, che sarebbe giustamente insorta a pretendere la rivoluzione di un ospedale nel quale fossero morti 7 pazienti su 10, o di una scuola nella quale fossero bocciati 7 studenti su 10, accettava invece come del tutto insignificante il fatto che nelle carceri 6 detenuti su 10 tornassero poi a delinquere, a minacciare la sicurezza delle persone e ad aggredirne il patrimonio. Oggi invece - e di questo va dato atto ai primi due anni di governo di Andrea Orlando - è addirittura il ministro della Giustizia (e un ministro con un peso politico nel suo partito, diversamente dai pur individualmente sensibili ex ministri Severino e Cancellieri in governi però tecnici) a martellare sul concetto che il sistema penitenziario italiano "costa ogni anno ai contribuenti quasi 3 miliardi di euro ma genera uno dei tassi di recidiva (56 per cento di media, 67% tra gli italiani) tra i più alti d’Europa", mentre al contrario la recidiva di coloro che non scontano l’intera pena in carcere ma vengono in parte ammessi a una misura alternativa "è di circa il 20%, drasticamente inferiore". Diventa cioè linea di governo quella che prima era solo pungolo scientifico, la linea del non-per-buonismo-ma-per-convenienza. "Se non cambiamo il carcere, se non lo adeguiamo e umanizziamo, il carcere rischia di funzionare come un fattore moltiplicatore dei fenomeni che pretendiamo di combattere esclusivamente attraverso di esso. Un carcere che preveda trattamenti individualizzati e l’utilizzo integrato di pene alternative non è un regalo ai delinquenti, come gridano gli imprenditori della paura, né è la dimostrazione del lassismo dello Stato", ma al contrario è qualcosa che conviene ai cittadini, troppo spesso ingannati dalla "pretesa di affrontare problemi sociali con il ricorso al diritto penale: l’illusione securitaria ha pensato che la segregazione e l’inasprimento delle pene potesse compensare l’indebolimento dello stato sociale". Risorse insufficienti - Adesso però arriva per il Guardasigilli il banco di prova più difficile: quello delle risorse. È vero che l’emergenza del sovraffollamento carcerario, che era costata all’Italia anche due condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è stata tamponata (pur con qualche escamotage a basso "prezzo" come il rimedio compensativo da 8 euro al giorno per i detenuti ristretti in passato in 3 metri quadrati) sino a far scendere le presenze in cella dai 67.971 detenuti del dicembre 2010 ai 53.495 del marzo 2016. Ma sono pur sempre ancora 4mila più della capienza regolamentare, e la tendenza mensile è di nuovo a un sensibile aumento. Ma soprattutto, per quel che più conta nella qualità del trattamento rieducativo, se è pur vero che nel 2010 era in misura alternativa al carcere 1 solo condannato ogni 4 carcerati, mentre adesso la proporzione è migliorata sin quasi all’1 a 1 (41.000 condannati in misura alternativa contro 53.000 in cella), è però anche vero che ancora non adeguate sono le risorse finanziarie impiegate in questo che tecnicamente è un vero investimento sulle "sanzioni e misure di comunità", destinato cioè a spendere oggi per produrre domani dividendi sociali di maggiore sicurezza per i cittadini attraverso la minor recidiva dei detenuti. Su questo versante il ministro ha annunciato che la dotazione degli Uffici dell’esecuzione penale esterna verrà potenziata con "almeno 10 milioni di euro" il prossimo anno: una promessa impegnativa, su cui misurarsi. La corruzione in Italia e l’Europa spaccata e moritura di Eugenio Scalfari La Repubblica, 2 maggio 2016 Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana. Ci sono molte magagne in Italia e in Europa ed una delle principali, specialmente nel nostro Paese, è l’affievolirsi della democrazia e l’accrescersi della corruzione. Sono due fenomeni diversi ma interconnessi. Per chiarire la natura del primo cito qui un passo del mio libro intitolato "L’allegria, il pianto, la vita", uscito un paio di anni fa. "La democrazia declina e declina anche la separazione dei poteri costituzionali che Montesquieu mise alla sua base. Da noi quella preoccupante esperienza ebbe inizio nei primi anni Novanta e non si è più fermata. Quel declino ha colpito il potere giudiziario e quello legislativo, rafforzando il potere esecutivo che ormai accentra su di sé la forza del governare con il minor numero di controlli. Il processo è ancora in corso ma un primo obiettivo è già stato realizzato e consiste nel completo stravolgimento della democrazia parlamentare e dei partiti. I partiti sono ormai tutti "liquidi"; riflettono società ed economie altrettanto liquide: un Capo, un gruppo dirigente a lui devoto, un’attenzione particolare ai potenziali elettori, la scomparsa della democrazia politica all’interno dei partiti". La corruzione diffusa purtroppo in tutte le classi sociali, dai più abbienti al ceto medio fino a quelli sulla soglia della povertà, ha come condizione preliminare il declino della democrazia partecipata. Di fatto è la scomparsa dello Stato come soggetto riconosciuto dai cittadini e quindi la scomparsa, nella coscienza delle persone, del concetto di interesse generale. L’effetto è il sovrastare degli interessi particolari, delle lobby economiche, delle clientele regionali, dei singoli e del loro circondario locale. La corruzione dilaga, le mafie si affermano con le loro regole interne, i loro ricatti, il denaro illegale e gli illegali profitti che se ne ricavano, il mercato nero e il lavoro nero. Il popolo sovrano che dovrebbe essere la fonte dei diritti e dei doveri di tutti, ripone la sua affievolita sovranità nella corruzione. Corrisponde alla conquista d’un appalto, un posto di lavoro, un incarico importante nel mondo impiegatizio o imprenditoriale, si conquista insomma un potere. Quel potere conquistato con la capacità di corrompere dà a sua volta la possibilità d’esser corrotti. I corruttori diventano corrompibili e viceversa: questa è la società nella quale viviamo. Non solo in Italia e non solo in Europa, ma in tutti i Paesi dell’Occidente. Negli Stati Uniti d’America si toccarono le punte massime nella Chicago del proibizionismo e del gangsterismo, ma c’era già prima ed è continuata dopo. È il vero e più profondo malanno della democrazia, fin dai tempi dell’antica Grecia che è all’origine della nostra civiltà. L’impero ateniese fu la città della democrazia e contemporaneamente la culla della corruzione, molto più diffusa di quanto non lo fosse a Sparta e a Tebe. E così nella Roma antica, corrotta nelle midolla dai tempi della tarda Repubblica e a quelli dell’Impero. Accade talvolta che le dittature blocchino la corruzione. Quando il potere politico è interamente nelle mani di pochissimi o addirittura di uno soltanto, la corruzione scompare: il potere assoluto sopprime al tempo stesso la corruzione e la libertà. Egualmente accade che la corruzione non c’è o è ridotta ai minimi termini quando il popolo è veramente sovrano. In quel caso - purtroppo poco frequente - il massimo della libertà, della separazione dei poteri, delle istituzioni che amministrano l’esercizio dei diritti e dei doveri, dello Stato di cui il popolo sovrano costituisce la base e che persegue l’interesse generale del presente in vista del futuro, della generazione dei padri che godono il presente e operano per le generazioni dei figli e dei nipoti; in quel caso l’onestà la vince. Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana. Fasi tuttavia assai transitorie, specialmente in Italia e la ragione non è certo di natura antropologica. Gli italiani non sono per natura un popolo di corrotti e di ladri, ma è la nostra storia che ha ridotto a plebe il popolo sovrano. Machiavelli lo teorizzò nei suoi scritti e nel suo "Principe" in modo particolare. Le Signorie erano un covo di intrighi e quindi di corruzione. Per di più lo Stato non esisteva, fummo per secoli servi di potenze straniere che facevano i propri interessi e non certo quelli d’un popolo schiavo. Ma ci furono anche dei periodi di luce, di lotta per la libertà e per la costruzione dello Stato d’Italia, di assoluta onestà privata e pubblica. Pensate al trio di Mazzini, Cavour, Garibaldi, in dissenso tra loro ma uniti da diverse angolazioni per la libertà e l’indipendenza del nostro Paese. Ed anche alla guerra partigiana e alla Resistenza che coinvolse l’intera Italia centro-settentrionale, dai nuclei combattenti a gran parte del Paese che ad essi faceva da scudo. E così pure, ai tempi della ricostruzione materiale, morale e politica sulle rovine che la sciagurata guerra ci aveva lasciato in eredità. Conclusione: la corruzione è figlia della scomparsa d’un popolo sovrano e d’una democrazia non partecipata di partiti "liquidi", dell’affievolimento dell’interesse generale e dello Stato che dovrebbe rappresentarlo e perseguirlo. Questa è la situazione in cui già da molti anni ci troviamo e che con lo scorrere del tempo peggiora. E questa è anche la situazione europea dove i fenomeni deleteri sono per certi aspetti ancor più gravi. Domenica scorsa scrissi a lungo sull’Europa "a pezzi", sul patto di Schengen violato da un numero sempre più esteso di Paesi membri dell’Unione, sulla situazione greca, sulla anomalia sempre più evidente della Turchia di Erdogan con l’Europa democratica e infine sulla Libia, la Tunisia e l’Is che imperversa sempre di più sulla costiera mediterranea e in particolare sulla Cirenaica che ci fronteggia. Ma dopo appena sette giorni da allora la situazione è ancor più grave e più chiara nella sua gravità: esistono ormai tre diverse Europa che si fronteggiano, alle quali va aggiunto il terrorismo del Califfato, potenziale soprattutto, che aggrava sempre di più i malanni e il solco che divide le tre parti del nostro Continente. Esistente anzitutto l’anti-Europa: movimento di estrema destra, xenofobo e antidemocratico, con tinte razziste e nazionaliste, sia politicamente sia economicamente. Molti di questi anti-europei vigoreggiano in Paesi dell’Unione che non fanno parte dell’Eurozona, ma alcuni sono nati e stanno costantemente rafforzandosi in Paesi che hanno la moneta comune. Così avviene in Austria, in Danimarca, nei Paesi baltici, nei Balcani. Alcuni di questi movimenti sono ancora di modeste dimensioni, ma altri, per esempio in Austria, hanno raggiunto dimensioni preoccupanti e alcuni sono addirittura arrivati a raggiungere il primo posto scavalcando i partiti che avevano finora governato. L’esempio più lampante è quello austriaco, ma anche in Francia il lepenismo è il movimento che i sondaggi collocano in prima posizione. La seconda spaccatura dell’Europa è tra il Nord e il Sud e il suo aspetto più preoccupante è rappresentato dalla Germania. È il Paese egemone dell’Unione e soprattutto dell’Eurozona e finora si era mostrato in equilibrio su alcuni temi fondamentali, a cominciare da quelli dell’immigrazione, della flessibilità adottata dalla Commissione di Bruxelles, sia pure con modalità moderate, e nel rapporto tra la Cancelliera Angela Merkel - ufficialmente sostenitrice del rigore economico - e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea e fautore d’una politica monetaria espansiva e anti-deflazionistica. In questi ultimi giorni tuttavia la Merkel sembra aver abbandonato il suo equilibrio tra il rigore anche monetario della Bundesbank e la politica espansiva della Bce. Nei giorni scorsi Weidmann, governatore della Bundesbank, è venuto a Roma con un pretesto privato ma in realtà allo scopo di attaccare scopertamente la politica di Draghi, rendendo pubblico quell’attacco con un’intervista data proprio al nostro giornale. Weidmann non è nuovo a quest’opposizione alla politica di Draghi, gli vota regolarmente contro in tutte le riunioni del Consiglio della Bce di cui la Bundesbank fa naturalmente parte; ma la novità di questa volta è che c’è stata l’approvazione piena delle dichiarazioni di Weidmann da parte del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, e nessuna parola di riequilibrio da parte della Merkel. Sarà la necessità di posizionarsi adeguatamente in vista delle prossime elezioni politiche tedesche, con una Cdu minacciata dagli xenofobi antieuropei e anche dall’alleato attuale, la Csu bavarese; ma comunque è un fatto nuovo e fortemente preoccupante questo atteggiamento "separatista" della Germania. Infine la terza spaccatura europea riguarda la politica estera, la guerra contro l’Is in Siria, l’amicizia senza remore di sorta con la Turchia, l’assoluta "neutralità" nei confronti dell’eventuale intervento europeo sulla situazione libica. Queste tre spaccature sono micidiali per l’Europa: allontanano il suo rafforzamento istituzionale e quindi rinforzano il nazionalismo dei singoli Paesi membri, anche di quelli che non condividono le posizioni tedesche in tema di rigore economico e proprio per questo svalutano le regole comunitarie contribuendo così da opposte sponde alla disgregazione politica ed anche ideale dell’Europa unita. Sono gli effetti delle democrazie non partecipate, liquide e senza alcun controllo dai diversi poteri costituzionali; è sempre meno esistente la parvenza d’un rafforzamento europeo e le prospettive pessime di questa situazione in una società globale. Barack Obama ha cercato nel suo viaggio europeo dei giorni scorsi, di patrocinare un radicale mutamento di rotta, ma non sembra sia stato molto ascoltato. L’Europa è a pezzi ma non cerca affatto di ricostruirli. Se continuerà così andrà dritta al cimitero e noi tutti con lei, Germania in testa. "Ave, Caesar, morituri te salutant". Petizione di Ilaria Cucchi "Necessario introdurre il reato di tortura in Italia" di Paolo Borrello agoravox.it, 2 maggio 2016 Il reato di tortura non è stato ancora introdotto nel codice penale italiano, nonostante il nostro Paese abbia ratificato, fin dal 1989, la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Un disegno di legge, i cui contenuti peraltro non sono pienamente condivisibili, è da tempo fermo in Parlamento. Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ha quindi deciso di promuovere una petizione per chiedere l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento entro il 2016. Ecco il testo della petizione: "Mi chiamo Ilaria, ho 42 anni e due figli. Vivo a Roma e di Roma è tutta la mia famiglia. È qui che sono cresciuta: non da sola, ma insieme a mio fratello Stefano, quello "famoso"". Stefano Cucchi, "famoso" perché morto tra sofferenze disumane quando era nelle mani dello Stato e, soprattutto, per mano dello Stato. Mio malgrado, sono molte le persone che mi conoscono in questo Paese. Sanno come sono fatta. Sanno - perché da sette anni ormai non mi stanco di ripeterlo - che sono in ottima forma fisica e che sono viva. Al contrario di mio fratello, che pesava quanto me ma che vivo non è più. Nell’ottobre del 2009 non sono stata picchiata. Non mi hanno pestato, non mi hanno rotto a calci la schiena, non ho avuto per questo bisogno di cure mediche. Non mi hanno torturato. Sono viva. Sono viva e combatto con una giustizia che ha dimenticato i diritti umani. Sono viva e da allora mi batto per non smettere di credere. Ecco perché chiedo che Parlamento e Governo approvino finalmente, ed entro quest’anno, il reato di tortura in Italia. Stiamo chiedendo all’Egitto verità per Giulio Regeni. Dobbiamo farlo. Ma ricordiamoci che lo facciamo dall’alto del fatto di essere l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato. La corte di Strasburgo ha già condannato l’Italia per gli orrori del G8 di Genova nel 2001. E ci ha imposto l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura. Che aspettiamo? Nonostante tutto io alla giustizia ci credo ancora. In questi giorni di preparazione alle elezioni amministrative in grandi città come Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, ho lanciato delle provocazioni. Ho provato a richiamare l’attenzione della politica di qualsiasi colore su qualcosa che da sette anni fa parte della mia vita. Perché da sette anni sono una donna che chiede giustizia per l’abuso di cui è stato vittima suo fratello. E da sette anni sono una cittadina che chiede che la sfera pubblica dia finalmente risposte di civiltà. Ho sempre creduto e continuo a credere nonostante tutto all’uguaglianza sostanziale di ognuno di noi di fronte alla legge. Vedo la politica litigare con la magistratura, i giudici scontrarsi con i governi ma non vedo, continuo a non vedere la base. E la base può essere solo quella di ripartire dai diritti umani. Voglio che si riaccendano le luci non solo su questioni che riguardano la memoria di Stefano, ma che hanno a che fare con tutti noi. Penso a Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini. Tutte queste storie, tutte le persone dietro a queste storie ci testimoniano, con la loro morte che è una morte di Stato, che uno Stato di diritto senza diritto è una banda di predoni. In questo nostro Stato manca un fondamento: quello del reato di tortura. Non è uno Stato di diritto quello che permette che un uomo, Andrea Cirino, venga torturato in carcere. E che permette che per questo orrore disumano non ci sia alcuna condanna, perché il reato di tortura non c’è. Per quale motivo l’associazione nazionale magistrati che è sempre così giustamente sensibile ai problemi che la legislazione in materia di lotta alla corruzione e alla mafia può creare, mai e dico mai, è intervenuta sul tema degli abusi e della violazione dei diritti civili e della mancata approvazione di una legge sulla tortura? Se non si parte proprio da questo a nulla può portare il confronto tra le istituzioni: sono scontri di potere a danno dei cittadini, che vengono schiacciati, non tutelati. Ogni tassello rimesso a posto rende più vicina la verità. Per Stefano, per Giuseppe, per Marcello, per Giulio, per Riccardo e per tutti gli altri: approviamo il reato di tortura in Italia entro il 2016!". "L’orco" pestato in carcere: una barbarie a cui dobbiamo ribellarci di Angela Azzaro Il Dubbio, 2 maggio 2016 Nessuna presunzione di innocenza per R.C.: l’accusa di avere ucciso e violentato Fortuna Loffredo è diventata subito una condanna. Senza appello. Il linciaggio nei confronti di R.C., l’uomo accusato di aver violentato e ucciso Fortuna Loffredo, si poteva prevedere. Il giorno in cui all’uomo, già in carcere sempre con l’accusa di pedofilia, è arrivata la nuova accusa, un gruppo di persone a Caivano ha tentato di dare fuoco alla casa della moglie che è ai domiciliari. Si poteva prevedere perché l’accusa si è immediatamente tradotta, sui giornali e nell’opinione pubblica, in una condanna senza appello. Il mostro, l’orco è stato sbattuto in prima pagina, con una violenza inaudita. Da tempo assistiamo a condanne ancora prima che i processi inizino. Basta un avviso di garanzia perché si venga ritenuti colpevoli. Qui c’è l’aggravante di un reato che suscita giustamente particolare indignazione. Ma è proprio perché si tratta di un caso molto delicato che giornali, procura e forze dell’ordine avrebbero dovute essere molto caute. Ancora più attente a non dare vita a linciaggi, condanne premature, aggressioni. I linciaggi in carcere nei confronti di coloro che sono accusati di pedofilia ci sono sempre stati. Nessuna sorpresa. L’uomo avrebbe dovuto essere messo subito in isolamento, protetto. Ma oggi, molto più di ieri, è cambiato il modo di fare informazione: i processi si fanno sui giornali ancora prima che nelle aule dei tribunali, si scrivono le sentenze senza passare dai tre gradi di giudizio. La condanna è immediata e deve essere fondata sulla vendetta, sulla gogna, sul linciaggio. L’informazione soffia sul fuoco, cavalca questa barbarie incitando gli animi. Ma questa è giustizia? No, questa è un’incultura che coinvolge tutti, nessuno escluso. Ancora più nei confronti di reati così odiosi come quello di pedofilia bisogna vigilare, rispettare le regole della buona giustizia e della buona informazione. Ma ogni volta l’asticella della civiltà scende sempre più giù, scende verso il basso. Ogni volta di più. Ma se continua così dove arriveremo? Aggredito in cella il presunto assassino di Fortuna Un gruppo di detenuti voleva "fare giustizia" e punire R.C. il 43enne indicato da stampa e procura come l’assassino della piccola Fortuna. Salvato dalla polizia penitenziaria. Gli altri detenuti di Poggioreale, dove R.C. è detenuto, hanno voluto "fare giustizia" da sè. Le botte, le urla e l’intervento, provvidenziale, delle guardie carcerarie. Secondo il racconto che arriva dal carcere, l’uomo avrebbe subito un vero e proprio linciaggio dai detenuti che erano in stanza con lui. L’episodio - che viene confermato al "Mattino online" da una fonte autorevole - è accaduto lo stesso giorno in cui il presunto assassino della bimba di sei anni è stato portato in carcere. Ad evitare che l’uomo finisse ammazzato sono stati due agenti della Polizia Penitenziaria, che hanno sottratto alla furia degli aggressori il 43enne. Il procuratore - Il procuratore capo di Napoli Nord, Francesco Grego, ha detto che "non può definirsi un linciaggio. Abbiamo solo saputo che si è trattato di un tentativo di aggressione sul detenuto, che peraltro era già in carcere da tempo per un’altra accusa di abusi su minore". "I detenuti del padiglione che ospita nel più sovraffollato e antiquato carcere italiano - scrive Il Mattino, hanno decretato la loro sentenza nei confronti di R.C.: "colpevole". E non hanno aspettato per eseguirla: l’uomo è stato violentemente pestato dai suoi stessi compagni di cella. Tra loro c’è anche il giovane che un anno fa venne arrestato per le sevizie commesse ai danni di un ragazzino a Pianura. A salvare R.C., come detto, sono stati gli agenti della Penitenziaria, allarmati dalle urla che provenivano dalla cella al terzo piano del padiglione Roma, che ospita i cosiddetti "sex offenders", autori di reati gravi legati alla sfera sessuale. La direzione del carcere è immediatamente intervenuta attivando un’indagine interna per identificare gli aggressori. Presto anche la Procura di Napoli potrebbe aprire un facicolo sul’accaduto. Nel frattempo R.C. è stato trasferito in altra cella, in isolamento" Caccia all’orco. Ma se l’orco fosse innocente? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 2 maggio 2016 Speriamo che sia colpevole, questo disoccupato napoletano che è stato incriminato ieri, accusato di pedofilia e di omicidio volontario. Perché se invece è innocente allora ci troveremmo di fronte a una vera e propria mostruosità giudiziaria. Gli hanno consegnato il mandato di cattura l’altra mattina. Accusandolo di avere violentato e ucciso una bambinetta di sei anni. Poi hanno dato il suo nome ai giornalisti e lo hanno indicato come bersaglio per chi volesse dare il via al linciaggio. Nome cognome, indirizzo di casa e indirizzo di casa della sua compagna. Il linciaggio è iniziato immediatamente. Sui network, sui siti dei giornali (impressionante il linguaggio medievale che si legge sul sito di un giornale moderno e progressista come Repubblica, dove su centinaia di commenti uno solo, firmato da un certo "nonstoconoriana", aveva le caratteristiche della ragionevolezza e del minimo rispetto del diritto). Poi è iniziato il linciaggio vero e proprio. Fisico. Un gruppo di giustizieri è andato a casa della compagna di questo signore e ha lanciato delle molotov, rischiando di provocare un incendio e una tragedia. Noi non trascriveremo il nome dell’imputato, anche se tutti i giornali lo hanno scritto e hanno anche spiegato che è colpevole. Ci limitiamo a raccontare la storia. Anzi, quel poco che riusciamo a sapere della storia e delle accuse. Nel giugno del 2014 a Caivano, in provincia di Napoli, una ragazzina di sei anni, Fortuna Loffredo, vola giù da un balcone del sesto piano e muore. Si pensa a un incidente. Poi invece la polizia sospetta che sia omicidio. Fortuna abitava in un condominio molto grande e dove pare ci fosse un tasso alto di criminalità. I giornali sostengono anche che ci fosse un tasso alto di pedofilia. Chissà se è vero, o se è leggenda metropolitana. Dal punto di vista statistico è un fatto curioso che molti pedofili siano raggruppati in uno stesso edificio. Fatto stà che molti sospettavano di questo disoccupato che viveva lì con la sua compagna e con i figli suoi e della sua compagna. E sospettavano di lui perché qualche anno prima era successo un incidente simile ed era successo proprio alla bambina della compagna di questo signore. Che era morta anche lei cadendo da un balcone. Però sembra che all’epoca i due ancora non si conoscessero. E comunque nessuno fu indiziato di omicidio. I sospetti contro il disoccupato sono cresciuti quando, qualche mese fa, è stato accusato di molestie e violenza sessuale nei confronti della propria figlia. Una ragazzina di 12 anni. Ed è stato arrestato. Poi nei giorni scorsi la svolta sulla morte di Fortuna. Gli inquirenti ritengono di avere raccolto sufficienti indizi e di avere abbattuto quello che definiscono il muro dell’omertà. Come? Nessun adulto ha visto niente, ma hanno visto qualcosa tre bambini. E dopo un anno questi tre bambini hanno ricordato alcuni episodi, e lo hanno detto alla polizia e al magistrato che ha fatto scattare il mandato di cattura. Si sa talmente poco su questa vicenda, che è insensato dire se le accuse possono avere o no un fondamento. Anche se così, d’istinto, viene da osservare che se le prove stanno tutte nel racconto tardivo di tre bambini, beh, allora praticamente è un castello sull’acqua. Vi ricordate della famosa inchiesta sulle maestre di Riano, vicino a Roma, seppellite in una mare di fango e di orrore e poi assolte con formula strapiena? Ecco, magari proprio questo precedente - o se vi piace di più ci sarebbe il precedente del povero Girolimoni, annientato dalle calunnie quasi un secolo fa e poi riabilitato - avrebbe dovuto spingere a un po’ di prudenza. Chi ricorda le "orchesse" di Rignano Flaminio? di Davide Varì Il Dubbio, 2 maggio 2016 Tre maestre e un bidella vennero accusate di abusi da un gruppo di bambini. Dopo la gogna furono assolte. Chi si ricorda di Rignano Flaminio? Chi ricorda quel gruppo di maestre gettate in pasto alla fiera mediatica? Nessuno a quanto pare. Anche ieri, come oggi capita R.C., l’uomo accusato di aver violentato e ucciso la piccola Fortuna, le maestre furono incastrate dalle "testimonianze" di un gruppo di bambini. E anche allora i verbali di quegli "interrogatori pediatrici" furono consegnati ai giornali che, naturalmente, pubblicarono ogni singola virgola ed emisero la sentenza di colpevolezza. A dire la verità in quel caso fu un po’ peggio. Allora le testimonianze che travolsero tre maestre, una bidella e un autista, erano state "estorte" a bimbi di appena 4-5 anni. Si trattava di "deposizioni" filmate da genitori a caccia dell’orco e consegnate agli inflessibili pm. Eccone un esempio: "Fa vedè papà, fa vedè. E come si chiamava la maestra che te insegna queste cose?". La bimba non risponde. "E diglielo un po’ a papà. Chi ti insegna? Parla cò papino. Te devi mette davanti alla telecamera. E parla. E dillo che dopo se rivedemo (nella telecamera ndr)". "Il giochino che fate a scuola come si chiama?". La bimba: "Non me lo ricordo". "Come non te lo ricordi?". La bimba: "Non mi va di dirlo". Quindi simula la masturbazione. "Lo devi fare pure agli altri bambini? A chi glielo fai? Chi te lo ha insegnato?". La bimba non risponde. "Senti, chi te lo ha insegnato il giochino a mamma? Dove spingi? Alla patatina o al sederino?". La bimba: "Al sederino". "Al sederino. E allora come si chiama questo giochino?". La bimba continua a non rispondere. "Come non lo sai? Me fai vedè? Me fai vedè?". Il video si interrompe per riprendere con le stesse insistite domande della madre. La bimba dice: "Il giochino del dottore". "Diglie un po’ a papà, dov’è che lo facevate sto gioco?". La bimba: "Lasciami stare". "Non parla più, porco zio". Ancora un’interruzione. "Stamme a sentiì! Hai capito che me devi sta a sentì?". "Tu dovevi toccà la patatina a Patrizia". La bimba cerca il padre per giocare. "Chi è sta Patrizia?". La bimba: "Una bidella". "Sai pure come ha le sise? Come?". La bimba: "Grandi". "Come?". "Grandi". "Di che colore?". "Blu". E grazie a queste testimonianza la bidella dalle grandi zinne blu divenne una violentatrice di frugoletti. E l’inesorabile penna di Isabella Bossi Federigotti fu ospitata sulla prima del Corriere della Sera: "Quando si sentono vicende come questa di Rignano, di maestre che narcotizzano e abusano dei loro piccoli e anche piccolissimi alunni, non si può non evocare la macina di mulino che farebbero meglio a legarsi al collo - e andare poi ad annegarsi - coloro che approfittano di un bambino". Ma questo è il meno. Le parole del Gip, infatti, fecero ben più danni e trascinarono davanti ai giudici le povere maestre: "La credibilità delle dichiarazioni dei bambini sottoposti a violenze non è dubitabile", stabilì infatti il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Tivoli. Del resto il trauma vissuto dai bimbi era del tutto evidente. Un esempio? "Alla visita presso l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù il bambino C.R. ha avuto una reazione di disorientamento e irrigidimento con pianto angosciato alla valutazione dei genitali". Insomma, quando i medici hanno spogliato il povero bimbo per toccargli i testicoli(ni), lui mostrava un’inspiegabile insofferenza. E tanto bastò a spedire in gattabuia preventiva gli indaganti, quali si ritrovarono tra le mani un’ordinanza condita da stravaganti analisi psichiatriche: "I fatti illegali descritti (dai bimbi) sono gravissimi ed allarmanti, ripetuti nel tempo e dotati di una carica tale - in termini di violenza e assenza di ogni remora o freno alle azioni turpi poste in essere verso bambini così piccoli che ne hanno riportato anche conseguenze irreversibili sul piano psicologico - da dimostrare la forte pericolosità degli indagati che supera il dato, questa volta meramente formale, della loro apparente incensuratezza. Il contesto scolastico e di affidamento in cui si è verificata la violenza sessuale di gruppo, in una con gli inquietanti e pericolosi aspetti di rituali satanici che l’accompagnavano e la probabile partecipazione di altri soggetti, avvalora siffatto giudizio prognostico". Risultato? Le maestre sono state tutte assolte in primo e secondo grado. Fu assolta anche la bidella dalle grandi zinne blu. Ma di tutto queste, evidentemente, non ricordiamo nulla. Campania: oggi la relazione annuale sulle carceri con la Garante Adriana Tocco Il Velino, 2 maggio 2016 Presente consigliere regionale Beneduce (Fi): "Sanità penitenziaria, un’urgenza per tutelare salute". La relazione annuale sulle condizioni delle carceri campane sarà presentata oggi dal Garante dei Detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, presso la Casa circondariale di Secondigliano. A rappresentare il Consiglio regionale, Flora Beneduce, componente della commissione Sanità e sicurezza sociale, in prima linea per la tutela del diritto alla salute all’interno dei penitenziari. Tra i partecipanti, il provveditore regionale all’amministrazione penitenziari, Tommaso Contestabile, e il sottosegretario di Stato alla Giustizia, l’on. Gennaro Migliore. "Di recente ho portato all’attenzione del commissario ad acta, Joseph Polimeni, tutte le criticità legate alla medicina penitenziaria - ha spiegato Flora Beneduce. Il sovraffollamento, i disagi psicologici, la percezione di ostilità che i detenuti avvertono nei confronti del personale, le lunghe attese per le visite specialistiche per i malati, l’assenza di figure professionali con formazione specifica rendono le condizioni dei reclusi particolarmente gravi. Nella struttura sanitaria del centro penitenziario di Secondigliano, il personale medico e paramedico è insufficiente e le strumentazioni sono inadeguate o assenti. Non sono garantite le attività specialistiche. Risultano del tutto inadeguate le ore assegnate ad altri specialisti. Assente anche la diagnostica per immagini. Gli esami di laboratorio, ivi compresi quelli di routine, non sono effettuati in sede e prevedono una lunga trafila. Condizioni simili persistono anche al centro clinico di Poggioreale. La presenza dei medici, che subentrano a tempo determinato e cambiano ogni mese, è discontinua e non consente al detenuto di avere riferimenti stabili con gravi danni alla salute. La richiesta al Cup di una visita specialistica genera lunghissime liste d’attesa, prassi burocratiche complesse e trasferimenti che impegnano risorse umane e mezzi". Per la Beneduce, l’incontro di oggi è importante per ribadire la necessità di riattivare tutti gli organismi precipui già previsti per legge, così come aveva già indicato il commissario ad acta. Il consigliere di Forza Italia, infine, solleverà ancora una volta il problema della stabilizzazione del personale precario del comparto. "Alcune figure professionali sono state assunte dall’allora ministero di Grazia e Giustizia e lavorano con contratti a partita Iva - ha concluso a Beneduce - Hanno dunque, alle spalle, un vissuto ventennale di precariato. La stabilizzazione, a questo punto, è indispensabile per assicurare un elemento di sicurezza psicologica in un contesto di lavoro spesso ostile". Liguria: Vaccarezza (FI): carceri che scoppiano, serve intervento per risolvere le criticità di Giò Barbera riviera24.it, 2 maggio 2016 Un ordine del giorno sulle criticità del sistema carcerario ligure, compresi gli istituti di Sanremo e Imperia. Lo ha presentato questa mattina il presidente del gruppo consiliare Forza Italia Angelo Vaccarezza. Il documento, sottoscritto anche dal Segretario del Consiglio Regionale Claudio Muzio, chiede una pronta attivazione del Governatore della Liguria Giovanni Toti, anche in sede di conferenza stato regioni per ottenere un maggiore impiego di personale di Polizia Penitenziaria presso le case circondariali liguri, riuscendo così a far fronte ad una seria carenza di organico; ottenere garanzie concrete per la costruzione di un nuovo carcere nel territorio savonese, dopo la chiusura di quello di Savona; chiedere il rispetto dell’applicazione degli accordi bilaterali che prevedono, per i detenuti stranieri con condanna definitiva, la possibilità di poter scontare la pena nei loro paesi d’origine; infine, la richiesta di prosecuzione dell’Iter per costruire nel minor tempo possibile la una Rems (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza) struttura destinata ai detenuti psichiatrici, oltre alla possibilità di sviluppare percorsi alternativi alla detenzione. "La situazione si trascina ormai da molti mesi - ha commentato il capogruppo - sono ormai quasi quotidiane le aggressioni all’interno del carcere di Marassi ai danni dei poliziotti penitenziari, spesso alcuni di loro sono costretti a fare ricorso alle cure dei medici. La sicurezza è un diritto fondamentale e garantirla a chi la nostra sicurezza garantisce è un argomento la cui soluzione non può più essere rinviata. Gli episodi non sono più casi isolati, la preoccupante frequenza con cui si verificano Questi episodi non sono più ormai casi isolati, ma si verificano quasi quotidianamente, mettendo a rischio la salute e la vita di chi ha scelto di lavorare all’interno di queste strutture. Inoltre si opera in condizioni di carenza di organico ed esubero di detenuti; privando le forze dell’ordine anche delle minime regole di sicurezza che permettono di affrontare con la necessaria lucidità le emergenze. "Spina nel fianco del carcere di Marassi - ha continuato il consigliere - è anche la forzata convivenza con i detenuti psichiatrici, sprovvisti di un’adeguata assistenza specialistica e quindi a rischio per se stessi e per gli altri; realtà non più tollerabile, nostro dovere è agire in maniera concreta per risolvere la situazione in maniera definitiva". Gorizia: Garante dei detenuti e volontari chiedono più chiarezza sulla gestione del carcere Il Piccolo, 2 maggio 2016 I volontari delle associazioni che operano all’interno del carcere di Gorizia chiederanno un incontro alla direttrice per un confronto sulle tante criticità ancora irrisolte. È uno degli elementi emersi dall’incontro che si è tenuto ieri in Provincia convocato da don Alberto De Nadai, garante dei diritti dei detenuti, e dall’assessore al welfare Ilaria Cecot. Si è parlato dello stato di attuazione del Piano d’istituto che ogni penitenziario deve avere e che definisce le azioni predisposte dalla direzione per favorire la riabilitazione sociale e lavorativa dei detenuti, oltre al rispetto della dignità della persona. All’incontro hanno partecipato una trentina di volontari e di rappresentanti di associazioni che, a diverso titolo di occupano dei detenuti del carcere di Gorizia. Presenti anche la senatrice Laura Fasiolo, don Paolo Zuttion, cappellano del carcere e Massimo Bevilacqua della Cisl funzione pubblica. Oltre alle ormai note criticità strutturali che condizionano pesantemente le attività di riabilitazione sociale e di formazione "le diverse realtà associative denunciano una assoluta difficoltà nella comunicazione e nella condivisione progettuale con la direzione penitenziaria. Il Piano d’istituto è sconosciuto al garante ed ai volontari e questo aspetto rende complesso e difficile ogni tentativo di collaborazione. Particolare preoccupazione desta anche la precarietà lavorativa degli operatori di polizia penitenziaria, che lavorano ad organico ridotto in condizioni di assoluta difficoltà. Impellente la necessità di tutelare il lavoro della polizia e di favorire momenti di formazione condivisa tra agenti e volontari, al fine di attuare una sinergia positiva capace di far crescere rapporti di collaborazione. Non desta inoltre poche perplessità anche la tematica relativa alle problematiche relative alla salute dei detenuti e alle modalità di cura attuate, in passato risultano essere stati sottovalutati alcuni aspetti sanitari significativi e degni di diversa attenzione". Altro importante argomento trattato riguarda la sezione omosessuali, "che se da una parte trova il favore dei detenuti, dall’altra mette in ulteriore evidenza come l’organico ridotto ed i limiti della struttura, di fatto portano ad uno stato di isolamento i detenuti della sezione speciale". Secondo l’assessore Cecot "la Regione dovrà prevedere politiche serie e strutturate di inclusione, poiché nonostante il lavoro importantissimo del volontariato è impensabile credere che lo stesso possa sostituirsi ad un welfare regionale fatto di servizi permanenti, abbandonando la logica delle progettualità a spot, lasciate alla buona volontà ed alle sensibilità dei singoli". Gorizia: visita dei Radicali in via Barzellini "necessario potenziare il numero di agenti" Il Piccolo, 2 maggio 2016 "I detenuti omosessuali si sentono protetti in questo carcere. Ci sono da migliorare ancora alcuni aspetti organizzativi ma la situazione è sostanzialmente positiva". Così gli esponenti del Partito Radicale - Anna Benardelli, Michele Migliori e Lorenzo Cenni - dopo la visita al carcere di via Barzellini effettuata ieri mattina. I radicali hanno spiegato che in questo momento all’interno del carcere sono detenute una quarantina di persone. Gli omosessuali che si sono dichiarati tali sono quattro, suddivisi in due stanze nell’ala nuova della struttura. "La nuova sezione - ha detto Migliori - garantisce loro maggior sicurezza e incolumità. Dispongo di un cortile separato per l’ora d’aria e hanno l’accesso alla biblioteca. Purtroppo non possono ancora accedere ai corsi di istruzione organizzati per gli altri detenuti. È un problema organizzativo che dipende soprattutto dalla grave carenza d’organico della polizia penitenziaria". I radicali hanno inoltre confermato che l’ala nuova del carcere è consona a una più che dignitosa detenzione con "celle che sono veri e propri mini appartamenti dotati di cucina, televisore, bagno e doccia". Tuttavia la mancata ristrutturazione dell’altra ala del carcere rende ancora molto precaria la condizione dei detenuti lì ospitati. Secondo quanto affermato da Migliori, Benardelli e Cenni i lavori di ristrutturazione dovrebbe cominciare a settembre per un importo di oltre un milione di euro. Ma il problema principale, come segnalato dai servizi proposti da Il Piccolo, resta quello della drammatica carenza di personale "calibrato per una dozzina di detenuti, quanti erano alcuni anni fa, e ora saliti a oltre quaranta senza che sia stato aumentato l’organico". I radicali hanno dato agli agenti di polizia penitenziaria "di svolgere al meglio il loro compito, profondendo impegno e umanità". Ricordiamo che tra le conseguenze della nuova sezione omosessuali c’è quella di garantire frequenti traduzioni dei detenuti in tribunali di città molto lontane da Gorizia. Viterbo: cercansi maestri di pittura per i detenuti di Mammagialla tusciaweb.eu, 2 maggio 2016 La direttrice Teresa Mascolo racconta l’altra faccia della vita dietro le sbarre: "Chi ci aiuta a dipingere il mare sulle pareti del carcere?". "Mi manca il mare". Me lo dice la maggior parte dei detenuti. Vorrei farglielo pitturare sulle pareti del carcere ma non trovo nessuno che gli insegni a dipingere". Come portare la vita in un penitenziario. Alla direttrice di Mammagialla Teresa Mascolo le idee non mancano. Il problema, spesso, è realizzarle, tra mille ostacoli. "È frustrante per chi ha voglia di fare e ci mette il cuore", ha commentato giovedì la direttrice del carcere in tribunale, alla presentazione del libro "Sensi ristretti" dell’ex detenuto Federico Caputo. Due punti di vista sull’universo carcerario. Immagini opposte e complementari, tra punizione e rieducazione. Da un lato, la durezza della vita dietro le sbarre, raccontata da Caputo nel suo libro. Un’esperienza che azzera perfino i cinque sensi - da qui il titolo del libro - tra colori spenti, sapori perduti e poco calore umano. Dall’altro, la fotografia di Mammagialla secondo Teresa Mascolo: una struttura che vuole farsi trasparente come un acquario e che si sforza di migliorare, in linea con il cambio di rotta imposto dalla sentenza Torreggiani, sul trattamento degradante dei detenuti. Molti dei ricorsi contro Mammagialla per cattive condizioni di reclusione sono stati respinti: tutto a regola d’arte, dall’acqua calda alla metratura delle celle. Un carcere che funziona e rispetta i diritti umani. E una realtà inaspettatamente dinamica dentro quei ‘casermonì: perfino dietro le sbarre c’è un’opportunità. "Su 400 detenuti della media sicurezza, 104 lavorano mensilmente - spiega la direttrice -. Abbiamo una turnazione di detenuti che, due per volta, lavorano all’orto botanico dell’Università della Tuscia. Un’esperienza che ha rimesso al mondo molti, a contatto con la natura e, quindi, con la vita. Si fa il possibile per concedere chance di lavoro fuori dal carcere, ma ci scontriamo spesso con difficoltà oggettive. Enti che pretendono di far lavorare i detenuti gratis. A quel punto, alcuni hanno rinunciato alle ore fuori dal carcere per lavorare dentro: almeno prendevano lo stipendio". Mammagialla ha due grandi laboratori di falegnameria e sartoria. Tanti i detenuti che studiano: 9 sono iscritti alla scuola secondaria di primo grado; 29 alla scuola secondaria di secondo grado; 10 all’università; 40 a corsi di formazione, come quello di informatica alla sala multimediale del carcere. Servirebbero mediatori linguistici e culturali: "Spesso non sappiamo come comunicare - continua Mascolo -. Soprattutto, siamo a corto di conoscenze su culture diverse dalla nostra. Su quella islamica siamo più preparati, ma per il resto, non conosciamo né la cucina, né gli sport di molti paesi e, invece, sarebbe importante per creare un ambiente multiculturale e azzerare le discriminazioni. Il 55 per cento dei detenuti a Mammagialla sono stranieri: non vogliamo lasciare che si sentano stranieri in carcere". Nel penitenziario viterbese entrano anche i ministri di culto di molte religioni: cattolici, testimoni di Geova, ortodossi, buddisti. I musulmani pregano da soli: fino a non molto tempo fa, il carcere non gli comprava i tappetini da stendere a terra per pregare. "A volte ci spaventiamo dell’ombra - ammette la direttrice -. Lo scenario attuale, con i recenti attentati, impone massima allerta. Serve un equilibrio tra l’impegno a consentire la libera professione di fede e la vigilanza sulla propaganda al terrorismo. Negare i tappetini a chi prega è solo inutile". Parola d’ordine: umanità. Che passa anche per una riqualificazione degli spazi del carcere. Dalla ludoteca, per far incontrare padri e figli in un ambiste sereno, tra i giocattoli, alla possibilità di colloqui persino con gli animali domestici: "In molte carceri si fa già; a Mammagialla ancora no, ma non ci poniamo limiti". Nemmeno per portare il mare dentro le mura del carcere: maestri di pittura cercansi. Gli interessati possono contattare Tusciaweb. Frosinone: relazione dei Radicali sulla visita alla Casa circondariale di Cassino radicali.it, 2 maggio 2016 In data 16 aprile 2016, noi militanti dell’Associazione Radicale Pasolini della provincia di Frosinone Michele Latorraca, Arianna Colonna, Pierangela Sebastiani, Fabrizia Tumiati e Sandro Di Nardo ci siamo recati presso la Casa Circondariale di Cassino per l’ennesima visita di approfondimento della realtà carceraria ciociara. Arrivati intorno alle 10.00, come da autorizzazione, ed espletate le normali procedure di controllo, siamo entrati all’interno della struttura. Accompagnati dal Vice Comandante Facente Funzioni Roberto Rovello e dalla Vice Direttrice ci siamo immediatamente recati a visitare le sezioni detentive, anche se prima abbiamo voluto dare una fugace occhiata allo stanzone adibito a cappella interna, che ospita le opere pittoriche di un detenuto argentino da tempo recluso nella struttura e alle cucine dove già stavano preparando il pranzo del sabato e quindi, visto il da farsi, abbiamo cercato di non disturbare più del necessario ed abbiamo proseguito nella visita. Ci siamo portati quindi nella seconda sezione. In regime di "celle aperte" vi era in effetti un gran via vai nei corridoi ed erano presenti diversi capannelli di detenuti. Questi, riconosciutici, ci sono venuti incontro e ci hanno nuovamente fatto presente le molte problematicità che allignano nella struttura. "Certamente l’Istituto detiene una nomea di carcere decente e dignitoso pur tuttavia", ci ripetono" però è doveroso ricordare che manca un vero e costante rapporto con la Direttrice quasi mai presente nelle sezioni detentive, e poi quella, ancor più sentita, della latitanza del Magistrato di Sorveglianza. E della "scomparsa" delle domandine per i colloqui interni che si può dire? Non parliamo poi delle "punizioni" ai detenuti che solo osano protestare contro ciò che si considerano "ingiustizie", aderendo a scioperi della fame". In questo profluvio di parole, di indicazioni, di accenni a mezza voce che da loro si riversava su di noi in visita, non poteva non mancare il richiamo a quella "rigidità", presente nel solo carcere di Cassino, nel non poter acquistare tabacco sfuso, completamente vietato in Istituto ed a quella dell’impossibilità di poter accedere alla saletta ricreativa occupata da strumenti ed attività altre e non utilizzabile per la destinazione per cui era stata progettata. Le docce comuni, aggiungiamo noi, per metà non funzionano (lo abbiamo visto ed assodato con i nostri occhi), così come non funziona l’ascensore per il vitto, nonostante le riparazioni ed il funzionamento per un solo giorno. Avvicinandosi poi l’estate e visto che non si possono utilizzare i classici strumenti antizanzare (considerata l’umidità dell’area) sarebbe opportuno che si installassero zanzariere alle finestre delle singole celle. Successivamente, soffermandoci in infermeria, abbiamo potuto parlare con il responsabile medico della struttura, che, dall’alto della sua esperienza trentennale interna alle carceri, seppur con svariate connotazioni non tutte proprio condivisibili, ci ha tra l’altro detto di ritenere che il carcere, cosi com’è, non è utile alla riabilitazione dei detenuti, e che, anzi, è spesso criminogeno. Per poter meglio recuperare alla società chi si è macchiato di reati anche gravi sarebbe doveroso utilizzare diverse ed altre forme di pena. Condividiamo ogni singola parola di questo ragionamento che è da sempre nostro e della galassia radicale e provenendo poi da chi con il carcere ha a che fare da una vita ci fa sentire anche noi dalla parte di chi comprende la grave situazione carceraria italiana e tenta, per le vie giuste, di risolverla. Prima di raggiungere la prima sezione, quella che ospita i sex offenders, abbiamo anche avuto la possibilità di interloquire con il criminologo che presta servizio nella struttura. Abbiamo chiesto delucidazioni circa l’attività da lui svolta e dal confronto sono emerse anche interessanti osservazioni sul trattamento dei detenuti. L’attività del criminologo durante l’esecuzione della pena detentiva consiste nell’osservazione del singolo detenuto - così da poter attagliare il modo di esecuzione della pena alla personalità dello stesso -, nonché nel coadiuvare gli altri operatori e il magistrato di sorveglianza nello svolgimento delle proprie mansioni. Trattandosi di una casa circondariale nel quale sono presenti in una sezione speciale anche i cd. sex offenders, abbiamo chiesto al dottore quale fosse il regime trattamentale riservato agli stessi. Ci è stato risposto che quella appena citata è una categoria di soggetti che, nonostante il pensiero comune, presenta un’ampia eterogeneità al suo interno: i reati sessuali non sono tutti la manifestazione di una difficoltà del soggetto a domare la propria libido, ma possono essere anche il frutto di una situazione in cui il reo non sa di essere tale perché magari, ad esempio, crede che la sua condotta non sia produttiva di un fatto di reato. Il criminologo ha fatto l’esempio dell’uomo che, all’atto di consumare un rapporto sessuale con un individuo inizialmente consenziente, nonostante tale consenso venga meno un attimo prima del momento clou, non frena i propri impulsi sessuali pensando che, essendo stato ampiamente assecondato all’inizio, non sussista reato. Questo caso ipotetico è - ha proseguito il criminologo - esplicativo di come uno stesso trattamento non possa essere riservato indiscriminatamente sia a chi ha commesso reati di questo tipo che a chi, invece, è, ad esempio, responsabile di atti di pedofilia. Anche da questo ferace confronto è emerso come, purtroppo, le risorse messe a disposizione degli istituti penitenziari sono troppo esigue per poter realizzare la cd. "rieducazione della pena", costituzionalmente sancita dall’art. 27 comma 3". In seguito ci siamo spostati proprio nella prima sezione, che ospita per l’appunto i cosiddetti "sex offenders". In questo luogo invece il giudizio dei detenuti sulla struttura è molto più positivo. Ritengono di essere seguiti, di avere maggiori opportunità rispetto ad altri Istituti e ci hanno raccontato, in maniera entusiastica, di aver scritto ed interpretato, prendendo ispirazione da "Le città invisibili" di Italo Calvino, una commedia teatrale che si era tenuta il giorno prima e che li aveva impegnati e soddisfatti molto. Lasciata la prima sezione, dove all’ultimo ci aveva raggiunto anche la Direttrice, siamo andati nella stanza della stessa dove abbiamo conversato e dibattuto sulla situazione della giustizia e delle carceri italiane in generale e sulla struttura cassinate in particolare. Recuperando le cifre dei detenuti presenti nel carcere di Cassino abbiamo potuto constatare che se a marzo del 2015 queste ci parlavano di 204 reclusi ed ha ottobre del 2015 di 235 + 1 ricoverato, con un incremento intorno al 15%, oggi siamo a 255 reclusi + 2 ricoverati, quindi con un ulteriore aumento del 10% rispetto all’anno precedente (il che ci fa toccare quota + 25%!),che ci fa dire che si è abbondantemente oltre il limite di capienza dell’Istituto stesso (203 detenuti: ndr). L’emersione di questi dati ci induce a quella nostra forte preoccupazione sull’andamento crescente dell’aumento della popolazione carceraria, ma non solo di Cassino, ma dell’intera sfera penitenziale italiana e all’amara constatazione dell’impossibilità, di pari passo sempre più crescente stante così le cose ed in via di peggioramento, di poter effettivamente procedere a dei veri processi riabilitativi sui singoli detenuti. Da questo scambio è venuta fuori un po’ l’anima carcerocentrica della Direttrice che tuttavia ha però riconosciuto la necessità di attivare processi di pene alternative al carcere per l’applicazione piena dell’art. 27 della Costituzione. La stessa ha poi aggiunto una considerazione che di per se pare ovvia e scontata, ma che purtroppo è vera e facilmente rilevabile, su cui si deve riflettere approfonditamente, anche perché apre scenari allarmanti su cui sarebbe opportuno prendere da subito i dovuti accorgimenti. La dott.sa Irma Civitareale, direttrice del carcere, ha infatti rimarcato la necessità che a tutti i reclusi sia consentita quella "parità di condizione" sancita dalla Costituzione e nei regolamenti che allo stato attuale purtroppo viene, senza volerlo, sorpassata e accantonata causa necessità più incombenti. Ciò è in effetti verissimo, specialmente oggi, laddove si è in presenza di una popolazione carceraria fortemente multietnica e spesso extracomunitaria. È un dato allarmante che è sfuggito ai più o quanto meno poco rilevato su cui dobbiamo assolutamente fissarci e appurarlo nelle nostre altre visite negli Istituti di pena. Una medesima preoccupazione espressa sia dalla Direttrice, sia dalla Vicedirettrice che dal Vice Comandante è quella in merito alla prospettiva sempre più evidente di una "militarizzazione" delle carceri italiane, visione che dovrebbe prevedere la fusione della figura del Direttore con quella del Comandante degli Agenti di Polizia Penitenziaria o quanto meno l’estensione della responsabilità del Direttore su più Istituti penitenziari limitrofi, nonostante le direttive comunitarie di senso opposto. Impegno comune sarà denunciare ed evitare questo scenario per alcuni aspetti inquietante. Alla nostra richiesta di vedere più spesso la presenza nel carcere del Magistrato di Sorveglianza e che questi potesse tentare di risolvere almeno i vecchissimi casi di coloro che volessero essere rimpatriati nelle carceri del loro stato di appartenenza ci è stato gentilmente risposto con un adorabile sorrisetto in quanto non di loro competenza e responsabilità. Alla richiesta ulteriore di adibire una stanza proprio alle videoconferenze con il Magistrato, così come viene fatto in altri Istituti, proprio per snellire e facilitare il contatto del Magistrato con i detenuti richiedenti ci è stato risposto che si vedrà di provvedere nei prossimi tempi. Con queste ultime battute abbiamo lasciato verso le 14 la struttura con la convinzione di sempre: il carcere è il luogo dove l’illegalità si presenta sotto mille sfaccettature e sta a noi tutti, nessuno escluso, il compito di stanarla per contribuire a migliorare questi luoghi in modo che siano sempre più orientati al recupero della persona e della sua dignità. Taranto: Osapp; protesta dei detenuti in carcere, aggredito e picchiato un agente quotidianodipuglia.it, 2 maggio 2016 Un agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Taranto è stato aggredito da un detenuto che minacciava di dar fuoco alla cella. L’episodio, reso noto oggi dal sindacato Osapp, è accaduto sabato scorso. Numerosi detenuti della sezione B del primo piano del carcere hanno inscenato una protesta con battitura delle inferriate e successivo "lancio di bombolette pre-incendiate, una delle quali - sottolinea il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Pasquale Montesano - è esplosa. Il poco personale presente è stato costretto ad intervenire per sedare la rivolta". Una volta aperta la cella, un detenuto - secondo quanto riferisce l’organizzazione sindacale - ha preso a pugni un poliziotto, successivamente medicato all’ospedale Santissima Annunziata. L’agente ha riportato ferite giudicate guaribili in pochi giorni. "Stiamo valutando - osserva il segretario generale dell’Osapp di Taranto, Angelo Palazzo - una protesta con auto-consegna del personale dopo il turno di lavoro dentro e fuori la casa circondariale di Taranto". L’Osapp chiede al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e al responsabile del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) "l’invio urgente di un contingente di poliziotti dei vari ruoli" in quanto "la carenza del personale si aggira intorno alle 50 unità. Chiederemo - conclude Palazzo - anche che il nuovo Provveditorato venga ad ascoltare le organizzazioni sindacali per verificare la situazione e l’organizzazione del lavoro nella Casa circondariale di Taranto". Un progetto sui migranti per le nostre società spaventate di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 2 maggio 2016 Nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325.000 persone. Ci vorrà tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. O sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o sono ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni facili. "Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i paesi ricchi "blindassero" le loro frontiere", scrivono nel saggio Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (Laterza) Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna citando i dati ufficiali della Population Division delle Nazioni Unite, "nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni". Ottantanove milioni in meno. Più o meno la popolazione in età lavorativa della Germania e dell’Italia messe insieme. Nel nostro specifico, "nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325.000 potenziali lavoratori, un numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni". Con risultati, dalla produzione industriale all’equilibrio delle pensioni, disastrosi. Vale anche per l’Austria che vuole chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035 la popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4 milioni. Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi: ma poi? Chi vuole può pure maledire i tempi, ma poi? E allora, ringhierà qualcuno, "dobbiamo prenderci tutti quelli che arrivano?" Ma niente affatto. Sarebbe impossibile perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti "nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno". Brividi. Nessuno ha la formula magica per risolvere questo problema epocale. Nessuno può ricavarla dalla storia. Gli uomini si spostano, come spiega il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, "da quasi due milioni di anni". Ma mai prima c’era stato uno tsunami demografico di questo genere. Questo è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e prendere atto con realismo della difficoltà di individuare qui e subito soluzioni salvifiche, un po’ come quando la scienza brancola dubbiosa davanti a nuovi virus, è però impossibile rassegnarci a certi andazzi. Di qua il tamponamento quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la distribuzione dei profughi a questo o quell’albergatore (magari senza scrupoli) senza un progetto di lungo respiro. Di là i barriti contro gli immigrati in fuga dalla fame o dalle guerre con l’incitamento a fermare l’immensa ondata stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di statista che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di essere all’altezza della biblica sfida. Dice un rapporto Onu che "chi lascia un Paese più povero per uno più ricco vede in media un incremento pari a 15 volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile": chiunque di noi, al loro posto, sarebbe disposto a giocarsi la pelle per "catàr fortuna", come dicevano i nostri nonni emigrati veneti. Anche se, Dio non voglia, ci sparassero addosso. Tanto più sapendo che in Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a un welfare che comunque garantisce quel minimo vitale altrove impensabile, c’è ancora spazio per chi è pronto a fare i "ddd jobs", i lavori "dirty, dangerous and demeaning" (sporchi, pericolosi e umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio. Non basterebbe neppure una miracolosa accelerazione nel futuro: nella California di Google e della Apple, ricordano ancora Allievi e Dalla Zuanna, "ogni due nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani". Altro che i corsi di formazione per baristi acrobatici. Come ne usciamo? Soluzioni rapide "chiavi in mano", a dispetto di tutti i demagoghi, non ci sono. Ci vorranno tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune cose tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se può vivere dov’è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e le umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque "aiutarli a casa loro" sul serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell’Aquila diede all’Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la crisi), i doni ai dittatori o la cooperazione internazionale degli anni Ottanta che finì travolta dagli scandali (indimenticabili i silos veronesi sciolti sotto il sole sudanese) dopo che Gianni De Michelis aveva ammesso alla Camera che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a trattativa privata) ad aziende italiane che volevano commesse all’estero. Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del commercio internazionale che per proteggere lo status quo dell’Occidente inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non crescere. Citiamo Kofi Annan: "Gli agricoltori dei Paesi poveri non devono solo competere con le sovvenzioni ai prodotti alimentari d’esportazione, ma devono anche superare grandi ostacoli a livello di importazione. (…) Le tariffe doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826%. Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai loro prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi". Qualche anno dopo, la situazione non è poi diversa. Secondo: basta coi traffici di armamenti verso Paesi in guerra. Quanti eritrei che arrivano coi barconi scappano da casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le loro famiglie la "bontà" delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò l’Espresso, nonostante l’embargo? Pretendiamo che restino a casa loro e insieme che si svenino a comprare le nostre armi? Terzo: parallelamente a un percorso accelerato per mettere gli italiani in condizione di fare più figli sempre più indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente arrivare finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza. Forse ci vorranno decenni per realizzare il sogno di Mameli ("Di fonderci insieme già l’ora suonò") allargato a tanti nuovi italiani che vogliono sentirsi italiani, ma certo non è facile pretendere che sia un bravo cittadino chi cittadino fatica a diventare. "Immigrazione diffusa", la risposta italiana alle banlieue di Francesco Grignetti La Stampa, 2 maggio 2016 In uno studio del think-tank Volta i dati sull’integrazione "made in Italy": "Gli stranieri non si concentrano in enclave, ma si spargono sul territorio". Se l’Italia s’è risparmiata il fenomeno delle banlieu intrise di odio come a Parigi, o le Molenbeek della separatezza islamista come a Bruxelles, è merito sicuramente dei numeri contenuti dell’immigrazione, ma anche di un "modello italiano" che finora non è stato analizzato e apprezzato nel modo giusto. Il Belpaese dei mille campanili negli ultimi dieci anni ha assorbito un numero notevole di nuovi arrivi, ma frazionandoli sul territorio. Ciò per un lato è successo spontaneamente, grazie al potere d’attrazione dei distretti produttivi, ma il processo è anche stato guidato dall’alto con il ministero dell’Interno che distribuisce i richiedenti asilo tra centinaia di Comuni. Morale: se l’Italia accoglie 300 mila nuovi residenti l’anno, l’impatto sull’opinione pubblica non è poi così devastante. "Tutto merito della irriducibile varietà italiana, la quale ha fatto sì che gli stranieri approdati in Italia non si addensassero pesantemente attorno a tappe e mete definite, prefissate e al tempo stesso limitate, ma si disperdessero piuttosto tra le mille mete possibili". Così la pensa il centro studi "Volta", think-tank con basi a Milano e Bruxelles, che si autodefinisce "acceleratore di idee", s’è presentato al mondo all’ultima Leopolda di Renzi e a scorrerne il board - da Giuliano Da Empoli a Marco Carrai, Federico Sarica, Beatrice Trussardi, Matteo Mungari - può essere definito di orientamento renzian-nuovista. Niente ghetti - L’immigrazione è al centro del loro ultimo dossier. Lo ha redatto Roberto Volpi, statistico e saggista, con ampia analisi dei dati, e qualche sana polemica. "Anni e anni di report sull’immigrazione in Italia, che ne hanno colto quasi solo le cosiddette criticità, hanno finito per imprimere sul fenomeno proprio quel marchio di negatività, e quasi di impossibilità di poterne venire a capo, che porta a non valorizzare il buono che c’è e che può ancora esser fatto". Il buono è che in Italia non esistono o quasi "enclave" etniche o religiose. Non c’è differenza nelle concentrazioni di immigrati tra città grandi, medie e piccole. "Sono 45 le città italiane con più di 100 mila abitanti: rappresentano il 23,4 per cento della popolazione italiana e ospitano il 32,1 per cento degli stranieri residenti in Italia. Deve far riflettere che nelle grandi città con quasi un quarto della popolazione italiana non ci sia neppure un terzo degli immigrati residenti". Nazionalità diverse - Altro che banlieue, dunque. Ne sono lieti gli apparati di sicurezza. E se anche a Roma, Milano e Torino ci si avvicina alla soglia di un 20% di immigrati, "il carattere diffusivo dell’immigrazione spinge anche nel senso di differenziare le nazionalità degli stranieri internamente a queste aree, evitando quell’effetto enclave, e di estraniazione dal contesto urbano, che cela i maggiori rischi di pericolosità dell’immigrazione nelle aree urbane". Che fare per il futuro, si domanda il think-tank? "Che l’Italia sia e faccia l’Italia, questo si deve fare". Perché un’economia diffusa sul territorio funzionerà da equilibratore naturale. E se l’economia ripartisse anche nel Mezzogiorno, meglio anche per la dispersione degli immigrati. Si può poi pensare a formule aggiornate di micro-credito per gli "stranieri residenti, specialmente asiatici, che mostrano una particolare vocazione a mettersi in proprio". E per un’Italia che invecchia velocemente è tempo di regolamentare, formare e professionalizzare i badanti, destinati "ad assumere un rilievo e una diffusione crescenti". Tra migranti e Grecia, Ue alle prese coi soliti nodi di Marco Zatterin La Stampa, 2 maggio 2016 Questa si poteva scriverla un anno fa. O quasi. È una settimana, quella che si apre, in cui si parlerà di migranti, economia da rilanciare e della ricerca di soluzioni per evitare una nuova crisi in Grecia. Come nel maggio 2015, il che ha dello sconsolante. In attesa che, domani, la Commissione vari le sue previsioni economiche di primavera - decisive per capire quale potrà essere la pagella europea che l’Italia otterrà il 18 maggio, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan tiene una conferenza alla Libera Università di Bruxelles su "Una strategia di politica comune europea per la crescita, l’occupazione e la stabilità". Ci si attende un discorso alto, di orientamento, su come riformare il patto di stabilità e le regole della governance nell’Eurozona. Roma è stata molto attiva in queste settimane, per necessità, ma anche per vocazione. In un’intervista alla Stampa, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha detto di avere molte idee in comune col Tesoro, a partire da un più forte legame fra riforme e consolidamento. C’è terreno fertile, basta non alimentare le paure di chi vede in tutto questo movimento, un tentativo di chiedere nuove regole per non rispettare le vecchie. Il solo modo è tenere la barra dritta e mantenere l’impegno. Essere credibili, insomma. Di qui al 9 maggio in cui si riunirà l’Eurogruppo, si parlerà molto di Grecia e della polizza assicurativa chiesta dal Fondo Monetario per avviare l’azione di riprofilatura del debito ellenico. La richiesta di Christine Lagarde è andata a sbattere contro l’impossibilità giuridica per Atene di varare leggi destinate a entrare in vigore solo in caso di deviazione dagli obiettivi. Ci sarà lavoro per i giuristi. Ma anche i politici non resteranno con le mani in mano. Nella famiglia socialista tutti pensano che Washington stia chiedendo troppo. Mercoledì la Commissione vara la proposta di riforma del Regolamento di Dublino. Una riformina, a ben vedere. La formula mantiene la cornice la responsabilità dell’accoglienza per lo stato di primo approdo e la bilancia con un meccanismo di ridistribuzione fra tutti per i casi di flussi "ampi e sproporzionati". In pratica, se il piano sarà adottato dai Ventotto, l’Italia resterà titolare dell’onere di registrazione e identificazione di chi arriva, sino al momento in cui i flussi superano il 150% della quantità ritenuta compatibile con il paese. In tal caso, scatterà la condivisione dell’onere con i partner comunitari che, comunque, potranno chiamarsi fuori staccando un ricco assegno per ogni profugo rifiutato. L’astensione può essere acquistata per 12 mesi. La cifra che gira è alta, 250 mila euro a migrante. Ma potrebbe cambiare. Se i temi solo quelli dello scorso anno, la domanda cruciale resta quella delle scorse settimane: "Chi si sta occupando, e come, dei 54 mila di Idomeni?". Europa, patto della destra anti-Schengen di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 2 maggio 2016 Braccio di ferro per la messa in mora dell’accordo di Schengen, finora pilastro dell’Unione europea. In una lettera citata dal giornale conservatore tedesco Die Welt, il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans, firmata anche dal commissario alle Migrazioni Dimitri Avramopoulos, esorta i 28 paesi membri a reintrodurre i controlli di frontiera. Non solo al Brennero, dove l’Austria è già pronta a montare una nuova barriera di recinzione, ma lungo i confini nazionali di sei paesi, con speciale riguardo verso la frontiera meridionale: quella con l’Italia. Il progetto sponsorizzato da Timmermans, olandese di Maastricht - culla del trattato fondante dell’attuale Ue, per ironia della storia - coinvolgerebbe l’Austria, naturalmente, il Belgio, la Danimarca, la Svezia, la Francia e Germania - tutti paesi che hanno già temporaneamente sospeso Schengen per l’emergenza terrorismo e la crisi migranti. Sei paesi che a partire dal 12 maggio, giorno in cui scadrebbero le autorizzazioni comunitarie per il temporaneo stop alla libera circolazione delle persone e delle merci in ambito Ue, ne farebbero scattare uno nuovo per la durata di sei mesi, fino a novembre. La lettera di Timmermans e Avramopoulos invita il Consiglio d’Europa a utilizzare come strumento una modifica degli articoli dal 26 al 29 dell’acquis - o codice - Schengen. Secondo indiscrezioni giornalistiche che vengono anch’esse da Berlino, dallo Spiegel online, già nel vertice europeo di mercoledì prossimo la proposta sarebbe all’ordine del giorno. Mentre viene ipotizzata anche una riforma di Dublino III in cui l’Italia diventerebbe una sorta di nazione-hotspot. Ma su questa seconda, delicata, questione che riguarda i meccanismi di riallocazione delle quote migranti (già oggi definite sulla base di quattro parametri: Pil, tasso di disoccupazione, popolazione erifugiati accolti negli ultimi tre anni) non risulta che sia stata ancora definita alcuna nuova normativa comunitaria, neanche in bozza. Il ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maizére - da mesi il principale oppositore interno alla politica delle porte aperte di Angela Merkel - ha confermato ieri la richiesta del governo di Berlino di un prolungamento dei controlli alle frontiere. Ma l’agenzia di stampa tedesca Dpa registra ancora una opposizione dell’Spd a questi piani di fili spinati e pattuglie ai confini. In particolare il deputato socialdemocratico Uli Grötsch ha definito la messa in mora di Schengen per altri sei mesi da parte dei 6 paesi "una sciocchezza". Angela Merkel dal canto suo finora ha fatto dichiarazioni ambigue. Per lei la protezione delle frontiere esterne non deve avvenire a spese della libertà di movimento nell’area Schengen. Lo ha detto nel suo messaggio video settimanale, spiegando di volersi impegnare "per poter proteggere i nostri confini esterni, in modo da poter mantenere il nostro spazio di libertà di viaggio e movimento". Rivolgendosi ai suoi concittadini, la Merkel si è interrogata: "Quanto devo occuparmi del mio Paese? Quanto devo partecipare alla solidarietà europea?", segnalando qual è davvero il problema. La questione è se l’Ue intende rafforzare l’Europa e proteggere l’area Schengen, ha proseguito la cancelliera, "oppure tornare indietro, con ogni Stato che effettua i propri controlli al confine". I singoli Paesi, ha proseguito, devono ovviamente mantenere la loro sovranità, ma allo stesso tempo dobbiamo "agire assieme". Christopher Hein, portavoce e consigliere strategico del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, si dice "molto preoccupato e avvilito per il gioco che si sta facendo sulla pelle dei migranti e sacrificando l’idea stessa di Europa". Secondo Hein non esiste alcun appiglio giuridico per reintrodurre i controlli alle frontiere dei sei paesi, né "di emergenza grave" né di "ordine pubblico". Fa notare che gli unici due terroristi delle stragi belga e francesi camuffati da migranti avevano in realtà regolari passaporti, "non erano dunque né migranti né rifugiati". E infatti se la proroga dello stop a Schengen venisse ufficializzata dalla Commissione non sarebbe, questa volta, per un allarme terrorismo. Per Hein tutto parte da una valutazione politica dei centristi tedeschi, per cui andando dietro alle sirene dell’estrema destra xenofoba si riuscirebbe a depotenziarne il suo peso nel secondo turno delle elezioni in Austria e magari in Germania ridurre l’ascesa dell’Afd. "Questa idea - dice Hein - si è sempre dimostrata del tutto sbagliata". Iran, Afghanistan e Pakistan: dove fare sindacato diventa un lusso di Emanuele Giordana Il Manifesto, 2 maggio 2016 Sfida quotidiana dei diritti nei paesi in guerra. Iran, Afghanistan e Pakistan tra leggi speciali, eserciti e negoziati che vedono vincere sempre il governo. Tra il grande mondo mediorientale, le repubbliche centro asiatiche dell’ex Urss e il subcontinente indiano, tre Paesi - Iran, Afghanistan e Pakistan - rappresentano una sfida aperta tra lavoratori e padronato, che sia rappresentato dall’industria di Stato come in Iran, da speculatori come in Afghanistan o dal grande settore dell’economia controllato dalle Forze armate in Pakistan. Inoltre queste tre nazioni, oltre alla vicinanza geografica, hanno un elemento comune e cioè sono, seppur a diverso titolo, paesi in guerra. La guerra, più o meno dichiarata e combattuta in casa o altrove, gioca un elemento fondamentale nel controllo delle istanze di giustizia sociale e dei diritti sul lavoro: leggi speciali, richiami alla difesa della patria, autorità indiscussa delle forze dell’ordine sono infatti tutti elementi che finiscono per governare un mercato del lavoro che con la guerra fa i conti ogni giorno. Questi Paesi "cerniera" tra mondi diversi - il Medio oriente con i suoi conflitti e i suoi governi instabili e autoritari, l’Asia centrale ex sovietica con le sue centrali di potere autocratiche e l’India che rappresenta l’eccezione democratica asiatica - stanno vivendo una fase di cambiamento importante in cui la guerra resta però un elemento stabile da decenni. Che finisce per gettare una luce oscura sulle loro economie e soprattutto sui diritti negati di chi lavora. La Teheran del dopo embargo - Il sindacato ha in Iran una storia antichissima: la prima centrale fu fondata infatti un secolo fa ed ebbe poi un ruolo chiave nella lotta allo Scià. Ma da che esiste la Repubblica islamica, il governo ha fatto del sindacato una sorta di istituzione governativa con limiti fortissimi alla rappresentanza e dove la contrattazione viene regolata non attraverso le lotte ma con un negoziato dove alla fine vince sempre il governo. Dirigenti politici e sindacali vengono arrestati - come nel caso di Ismail Abdi, segretario generale degli insegnanti, imprigionato per aver organizzato "riunioni illegali" - anche se Teheran è un vecchio membro dell’Ilo (l’ufficio Onu del lavoro) di cui ha firmato quasi tutte le convenzioni rifiutandosi di siglare quelle relative alla libertà di associazione (C87) e di organizzazione (C98). Il Paese, che ha ricominciato a crescere nel 2014, sta conoscendo - dopo la fine delle sanzioni - una stagione di apertura che potrebbe farlo uscire da una crisi che si protrae da anni anche in ragione delle altissime spese militari. Non formalmente in guerra, l’Iran sostiene infatti i fronti sciiti nel mondo (dal Libano alla Siria) che rifornisce di armamenti e consiglieri militari. Kabul, la crisi e i profughi - L’Afghanistan, con un mercato del lavoro su cui ogni anno si affacciano 400 mila nuovi soggetti, è un Paese in forte crisi (il Pil che nel 2011 cresceva al 6,1%, nel 2014 è calato all’1,3%). La sua economia, sostenuta per oltre due terzi dai finanziamenti stranieri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100 mila soldati della Nato e relativi contractor. La fuoriuscita degli eserciti stranieri, ben più che un problema militare, sembra essere alla base della crisi economica attuale nella quale le commesse sono drasticamente diminuite, il boom edilizio si è fermato, il flusso di valuta pregiata si è ridotto e la moneta ha cominciato per la prima volta a perdere terreno su quelle dei Paesi vicini (l’unico fattore forse che può rilanciare un po’ l’asfittico mercato interno). La crisi, gestita da un governo fragile e in costante calo di consensi, vede aumentare la piccola criminalità e diminuire le occasioni di lavoro formale in un Paese dominato da un settore informale privo di ogni diritto. Il sindacato, eredità dei tempi post sovietici, è debole e con scarsa voce in capitolo. È un quadro che spiega l’enorme flusso di migranti afgani alle porte d’Europa (il secondo gruppo dopo la Siria) e il piano europeo che vorrebbe ritrasferirne a casa, via Turchia, almeno 80 mila (quasi la metà degli attuali residenti). Tra Pakistan e Iran, altri 2,5 milioni restano fuori dal Paese in cerca di migliori occasioni di vita. Islamabad a maglie strette - Il Pakistan ha come l’India una tradizione sindacale importante ma nel Paese islamico, che ha una altrettanto lunga tradizione di dittature militari e solo da pochi anni conosce governi civili stabili, i diritti sul lavoro, benché abbiano fatto passi avanti, sono ancora molto ignorati specie nel settore informale, una fetta importante dell’economia pachistana. Il costo della guerra, che in Afghanistan è stato sostenuto dagli stranieri e che in Iran è piuttosto sotto traccia e indiretto, è alla luce del sole: nel 2013 il governo valutava in 100 miliardi di dollari le perdite dovute alla sua adesione alla guerra al terrorismo e ai talebani pachistani. Spese che sono aumentate da quando, oltre un anno e mezzo fa, Islamabad si è impegnata in un conflitto senza quartiere nell’area tribale del Waziristan. Il costo umano del terrorismo è enorme: una media di 2 mila vittime l’anno e due milioni di sfollati interni. Leggi e corti speciali fanno il resto. E nelle maglie strette ci finiscono anche i sindacalisti. Afghanistan: gli Usa su Kunduz "errore di procedura" Di Emanuele Giordana Il Manifesto, 2 maggio 2016 Rapporto di 3mila pagine sul bombardamento dell’ospedale di Msf. Fu un "errore di procedura", un errore "tecnico e umano" il bombardamento che nella notte fra il 2 e il 3 ottobre del 2015 prese ripetutamente di mira l’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz in Afghanistan. Un raid aereo in cui furono uccise 42 persone e altre decine furono ferite. È questa la conclusione presentata venerdì dal generale americano Joseph Votel in una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i risultati di un rapporto di 3mila pagine con cui il Pentagono ritiene di aver scritto la parola fine sulla vicenda. La reazione di Msf, che si riserva nuovi commenti alla fine di un esame approfondito del dossier, non si è fatta attendere: l’organizzazione umanitaria ritiene infatti che molte domande siano rimaste senza risposta e continua a chiedere un’indagine indipendente che stabilisca nettamente le responsabilità e soprattutto il peso di una delle pagine più buie della storia recente del conflitto afgano. Pazienti e membri dello staff di Msf (14) furono dunque vittime di un errore perché l’equipaggio del bombardiere "non sapeva" che stava colpendo un nosocomio ma era invece convinto di stare sbaragliando un covo di talebani situato a 400 metri dall’ospedale. L’azione all’origine della strage non fu pertanto "intenzionale" anche se non è chiaro come mai l’equipaggio non abbia avuto accesso alla lista degli edifici in città che non andavano colpiti (il rapporto fa riferimento a problemi di comunicazione) tra cui era stato da tempo segnalato il centro medico di Msf a Kunduz. È molto chiaro invece come i militari abbiano deciso di non procedere penalmente ma solo amministrativamente dal momento che, ha spiegato Votel, l’accusa di crimine di guerra si può applicare solo in presenza di atti deliberati. Sedici membri dello staff militare e un ufficiale con funzioni di comando sono dunque stati sottoposti a misure disciplinari e in particolare a punizioni che includono la sospensione o la rimozione da posizioni di comando, lettere di monito e attività obbligatorie di training o consultazioni medico-psicologiche. Per cinque fra questi c’è anche l’espulsione dal teatro. Un buffetto sulla guancia insomma e magari un freno alla carriera, non certo un’accusa che li possa spedire davanti a una corte marziale: una risposta che Msf giudica sproporzionata rispetto alla distruzione di una struttura medica protetta, alla morte di 42 persone, al ferimento di decine di altre e alla totale perdita di servizi medici vitali per la popolazione. Ma non sono certo le pene, più o meno dure, a preoccupare Msf, cui la Difesa statunitense intende pagare, con i risarcimenti ai parenti delle vittime, 5,7 milioni di dollari per ricostruire l’ospedale ridotto a un cumulo di macerie: secondo l’organizzazione umanitaria, quanto affermato dal vertice militare americano "equivale all’ammissione di un’operazione non controllata in un’area urbana densamente popolata, durante la quale le forze statunitensi hanno disatteso le regole di base della guerra" ha detto Meinie Nicolai, presidente di Msf, secondo cui "non si comprende perché, nelle circostanze descritte dagli Stati Uniti, l’attacco non sia stato annullato". "Il discrimine che può rendere questo incidente mortale una grave violazione del diritto internazionale umanitario non è la sua intenzionalità" aggiunge Nicolai, perché in guerra, si tratti di Afghanistan o di Siria, "i gruppi armati non possono eludere le proprie responsabilità sul campo semplicemente negando l’intenzionalità di un attacco contro strutture protette come un ospedale." Il Pentagono non la pensa così. Egitto: la polizia arresta due giornalisti, blitz nella sede del sindacato Il Messaggero, 2 maggio 2016 La polizia egiziana ha fatto irruzione nella sede del sindacato dei giornalisti al Cairo e arrestato due reporter. Si tratta di un fatto "senza precedenti", come lo ha descritto il presidente dell’organizzazione Yahia Qallash, che ha detto alla CBC TV che una cinquantina di uomini della sicurezza sono entrati nella sede del sindacato con un mandato di arresto per Amr Badr e Mahmoud El-Sakka. "Le forze della sicurezza avrebbero dovuto informare prima il sindacato. Quello che è successo non ha precedenti nella storia del sindacato", ha affermato Qallash. "Solo quattro agenti sono entrati nel sindacato per arrestare i giornalisti, che sono usciti con loro volontariamente", è la versione fornita dal portavoce del ministero degli Interni egiziano, Abu Bakr Abdel Karim, alla CBC. La procura generale ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Badr e El-Sakka con una serie di accuse, tra le quali quella di "aver diffuso indiscrezioni sulle isole conteste nel Mar Rosso di Tiran e Sanafir", ha affermato Qallash. Due sono state le manifestazioni di piazza ad aprile per contestare la decisione del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi di riconoscere all’Arabia Saudita la ‘paternità’ delle due isole nel Mar Rosso. Amr Badr, fondatore e direttore del portale di informazione ‘Yanair’ (Gennaio), e il giornalista Mahmoud El-Sakka, che lavora per lo stesso sito Internet, stavano tenendo un sit-in all’interno del sindacato dei giornalisti per protestare contro il mandato di arresto nei loro confronti e per l’irruzione condotta dalle forze di sicurezza nelle rispettive abitazioni il mese scorso. Contestando quello che ha descritto come uno "stato di polizia", Qallash cha chiesto al presidente al-Sisi di intervenire immediatamente. La direzione del sindacato di riunirà poi in un vertice di emergenza per valutare i passi da intraprendere per rispondere agli arresti, ha aggiunto Qallash. Un gruppo di giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani hanno già iniziato un sit-in di protesta presso il sindacato per contestare gli arresti di Badr ed El-Sakka.