Viaggio tra i Garanti dei detenuti nelle regioni italiane di Laura Arconti (Radicali italiani) Il Dubbio, 28 maggio 2016 Tanti garanti e poche garanzie per chi sconta la pena nelle carceri del nostro paese. Fin dal 1809 nella civile Svezia esiste un organo fiduciario del Parlamento con l’incarico di vigilare sul funzionamento dell’amministrazione statale e tutelare i cittadini contro eventuali abusi da parte di pubblici funzionari. È chiamato "Ombudsman", termine che significa letteralmente "uomo che fa da tramite". A questa data e a questo avvenimento viene solitamente fatta risalire la figura del difensore civico attuale, benché sia impensabile che nell’antica civiltà Ateniese non esistesse un funzionario simile; nella Roma dei primi tempi repubblicani era codificato lo "jus intercessionis", che apparteneva ai Tribuni della plebe, con funzioni di mediazione e garanzia. Bisogna però arrivare a tempi molto vicini per trovare risoluzioni delle Nazioni Unite che raccomandano l’istituzione dell’Ombudsman, e poi veder istituito, da parte dell’U.E. il "mediatore europeo" col compito di tutelare il diritto dei cittadini ad una buona amministrazione. E in Italia? Un primo istituto di garanzia è nato in Italia nel 1993 per tutelare i diritti dei clienti di Banche ed Istituti finanziari: l’Ombudsman bancario. Molto più tardi, nel 2005, tutta la normativa a tutela del consumatore è stata raccolta nel Codice del Consumo con un apposito provvedimento, senza peraltro istituire la figura del difensore dei consumatori. Sempre nei primi anni duemila è stata codificata la figura del difensore civico, che ha il compito di accogliere i reclami non accettati in prima istanza dall’Ufficio Reclami del soggetto commerciale che eroga un servizio. Dunque, sia pure in ritardo rispetto ai Paesi più civili, l’Italia ad un certo punto si è dotata di chi ha il compito di difendere i diritti dei cittadini, sia quando essi sono consumatori come quando risparmiano ed investono il denaro messo da parte. Ma il cittadino, per i differenti casi della vita, può essere coinvolto in fatti di cronaca, diventare un cittadino privato della libertà e trattenuto in custodia dello Stato per motivi di sicurezza. Anche questi cittadini, siano essi colpevoli acclarati e condannati, oppure in attesa di giudizio, hanno il diritto di esser trattati in modo umano ed aiutati - in base al dettato costituzionale - per il recupero ed il ritorno nel mondo del lavoro e del viver civile. Questo diritto è sancito anche dalla Convenzione dei diritti dell’Uomo, stipulata fra il Comitato dei Ministri dell’UE e gli stati membri dell’Unione. La figura del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale (detto anche difensore civico dei detenuti) è prevista dalla convenzione dell’Onu contro la tortura, risalente al 1987, che l’Italia ha sottoscritto, impegnandosi a dotarsi di uno strumento di garanzia dei diritti delle persone detenute sotto la responsabilità dello Stato. Ebbene, dalla Convenzione del 1987 si è dovuto attendere fino al 2013 perché la figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti fosse istituita, con un Decreto Legge del 23 dicembre, poi convertito con le solite inevitabili modificazioni nella Legge 21 febbraio 2014 n.10. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31-3-2015 è stato pubblicato dal Ministero della Giustizia il Decreto 11 marzo 2015 n.36 che contiene il "Regolamento recante la struttura e la composizione dell’Ufficio del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale". L’entrata in vigore del provvedimento era prevista per il 15 aprile 2015, ma a tutto il gennaio 2016 il Garante Nazionale non è stato nominato. Finalmente, il 6 febbraio 2016, il Ministero della Giustizia ha emesso un comunicato: il Garante è stato scelto ed incaricato. Il sommario del comunicato recita come segue: "Il prof. Mauro Palma è il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La sua nomina, insieme a quella dell’avvocato Emilia Rossi come "Membro", è stata formalizzata in un decreto del Presidente della Repubblica". L’Italia, si sa, è il paese del disordine, dell’anarchia, dell’individualismo: così, ancor prima che ci fosse un Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, esistevano qua e là Garanti comunali, provinciali, regionali. Anche quando un Garante nazionale non era ancora stato nominato, c’era un Garante comunale a Bolzano e a Nuoro, a Torino e a Bologna, c’era un Garante provinciale ad Enna, a Ferrara, a Padova e a Reggio Calabria, e c’erano alcuni Garanti regionali, ciascuno nominato in base ad una legge e ad un regolamento votato e deliberato dai relativi Consigli comunali, provinciali o regionali secondo testi diversi, che hanno talvolta solo una vaga consonanza normativa. Con l’intento di capire quanto sia stato fatto, e soprattutto quanto ancora ci sia da fare per assicurare un minimo di legalità all’esecuzione della pena detentiva, proviamo a costruire una mappa dei Garanti Regionali. Le Regioni in Italia sono venti, di cui 15 a statuto ordinario e cinque a statuto speciale: Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. Per capire la situazione, parrebbe logico cominciare dalle Regioni, che sono in tutto venti, sicché non dovrebbe esser difficile stabilire in che data è stata approvata la legge istitutiva, chi è stato nominato Garante e in che data, e infine quale durata lo statuto prevede per il mandato. Si parte dunque con l’esaminare, nel sito del Ministero della Giustizia, l’elenco dei Garanti regionali in carica. Fedele alla tradizione italica, l’elenco esiste ma è incompleto: mancano indicazioni per alcune regioni, e in alcune Regioni è indicato il nome di un Garante che - con riferimento alla data in cui è stato nominato e alla durata del mandato stabilita dall’atto istitutivo - decadrà ben presto oppure è addirittura già decaduto. Per scoprire in che data ciò sia accaduto o stia per accadere, bisogna trovare il testo della legge regionale istitutiva, perché le leggi sono diverse da Regione a Regione: in alcune Regioni il mandato del Garante dura cinque anni, in altre Regioni sei o sette anni. Non basta: in alcune Regioni il Garante può essere rieletto al termine del mandato, in altre non può essere nuovamente incaricato. Come è logico, il primo lavoro che ha dovuto fare l’ufficio del Garante Nazionale appena nominato riguarda proprio la messa a punto dell’elenco ufficiale presso il Ministero della Giustizia: e infatti la scheda pratica iniziale e l’elenco dei Garanti è stato aggiornato in un periodo che va dall’8 al 23 marzo 2016. Successivamente, si spera, verranno le decisioni per mettere ordine in tutto il sistema. Sarà interessante vedere come verrà risolto il problema del coordinamento dei Garanti, poiché il 29 gennaio 2016 un gruppo di Garanti regionali, alcuni in carica ed uno in attesa di seconda nomina - quindi sostanzialmente sospeso - si sono riuniti a Torino ed hanno eletto un Coordinatore nella persona del Garante della Toscana Franco Corleone, e due Vice Coordinatori nelle persone di Bruno Mellano, Garante del Piemonte, e di Adriana Tocco, Garante della Campania in attesa di seconda nomina non ancora formalizzata. Il Ministero della Giustizia, nel comunicare la nomina del Garante Nazionale, ha precisato che "sul piano nazionale il Garante coordinerà il lavoro dei Garanti regionali, positivamente operativi già in molte regioni e auspicabilmente presto nominati nelle altre": ci si trova dunque in presenza di quattro coordinatori, di cui tre non nominati dal Presidente della Repubblica ma eletti in seno ad una riunione fraterna, e sarà interessante vedere come questo garbuglio sarà sbrogliato dal Prof. Palma. Chi scrive ha iniziato da alcune settimane una accurata ricerca, con l’intento di costruire una mappa dei Garanti e della loro operatività: il lavoro è reso arduo dal fatto che gli elenchi disponibili nel web, sia quello ufficiale del Ministero (almeno fino alla data di sabato 9 aprile 2016 alle ore 24:00) sia altri elenchi pubblicati da varie fonti, come Regioni, Associazioni di difesa del detenuto ecc. sono carenti, disordinati e spesso inattendibili. Alla fine, per venire a capo del gomitolo di errori, non è rimasto che darsi da fare col telefono, chiamando gli "URP" delle Regioni (dove esistono) oppure telefonando ad amici, compagni, colleghi, e chiedendo loro di andare negli Uffici Regionali ad informarsi. Si è scelto di partire dal Sud risalendo la penisola fino al Trentino Alto Adige. SICILIA - In Sicilia la figura del "Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale" è stata istituita nel 2005 (art. 33 della legge regionale n.5 del 19 maggio 2005) e successivamente integrata in parte con l’art. 16 della legge regionale n.18/2/2008; il mandato, affidato dal Presidente della Regione con proprio decreto, ha una durata di sette anni. Nel 2006 è stato nominato Garante il Sen. Salvo Fleres, che ha svolto la funzione fino alla scadenza del mandato, il 16 settembre 2013, e da allora il Presidente della Regione Rosario Crocetta non ha ritenuto opportuno procedere ad una nuova nomina per due anni. La Legge Regionale 7 maggio 2015, n. 9 (legge di stabilità regionale 2015) con l’articolo 98/5 ha modificato i requisiti prescritti dalla norma originaria, prevedendo che il Garante potesse essere nominato esclusivamente fra "i dirigenti di ruolo dell’amministrazione regionale". Su questa base, con Decreto Presidenziale 401/2015 del 6 ottobre 2015, è stata nominata Garante la dott.ssa Maria Antonietta Bullara, dirigente regionale di ruolo, che ricopre anche la carica di Direttore Generale del Dipartimento Regionale delle Politiche Sociali presso l’Assessorato del lavoro. L’incarico è stato conferito per sette anni, ma ben presto è cessato, perché la successiva legge di stabilità regionale 17/03/2016 ha rovesciato la normativa, e con l’articolo 22 ha stabilito che non possano essere nominati i dipendenti della regione, dirigenti e non, sopprimendo la norma del 2015. Ebbene, proprio il 13 aprile il Governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, con un improvviso "motu proprio" ha nominato il Garante regionale nella persona del prof. Giovanni Fiandaca. Il prof. Fiandaca è un Giurista, professore ordinario di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo; è stato componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura militare e successivamente del Consiglio Superiore della Magistratura ordinaria. Attento studioso della criminalità organizzata, ha presieduto commissioni di inchiesta ministeriali per le riforme. Dal 1998 al 2001, nominato dal guardasigilli Oliviero Diliberto, è stato presidente della commissione di studio istituita dal Ministero di Grazia e Giustizia per il riordino e la riforma della legislazione in materia di criminalità organizzata. È stato componente della Commissione Pisapia per la riforma del Codice Penale (2006). Dal giugno 2013 è presidente della commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per elaborare una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, fra le quali la più importante è un manuale di diritto penale in quattro volumi scritto con Enzo Musco, mentre uno dei più recenti è il saggio "La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa" scritto dal prof. Fiandaca in collaborazione con l’altro docente dell’Università palermitana Salvatore Lupo. (Edizioni Laterza 2014). Infine il prof Fiandaca è noto per la sua frequente partecipazione a Convegni di stretto argomento giuridico. Siamo dunque di fronte ad una personalità di alto livello, ed è ciò che occorre in Sicilia, perché il Senatore Fleres, che è stato il primo Garante per sette anni fino al 16 settembre 2013, ha lasciato il ricordo di un garantista attento ai bisogni degli ultimi della Società, che non si è risparmiato nelle visite in carcere anche durante le cosiddette "feste comandate" e negli interventi creativi per il recupero alla vita civile dei detenuti: non sarà facile per il suo tardivo successore reggere il confronto, anche a causa delle sue molteplici attività. Concludiamo qui l’aggiornamento sulla Regione Sicilia con una nota sorridente: nel sito del Ministero Giustizia l’elenco dei Garanti - che fino al 12 aprile recava ancora per la Sicilia il nome della dott. Maria Antonietta Bullara già rapidamente fatta decadere con un articolo della legge di stabilità 2016 - è stato prontamente aggiornato il 14 aprile. Peccato che il nome del nuovo Garante regionale sia stato storpiato in "Fiandanca". Incidenti ministeriali. CALABRIA - La Calabria manca del tutto, nell’elenco Garanti Regionali che si può leggere sul sito ufficiale del Ministero della Giustizia, per l’ottimo motivo che in quella Regione non esiste ancora il Garante dei diritti delle persone detenute, e neppure ne esiste una legge istitutiva. Un progetto di legge, dal titolo "Istituzione del Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale", presentato dal Consigliere Nicola Irto e depositato presso la segreteria dell’Assemblea in data 13/05/2015 con il n° 34, è stato assegnato alle commissioni 1.a per l’esame di merito, e 2.a per il parere. Nel sito della Regione Calabria l’iter del progetto recita: "in discussione", da nove mesi. L’avv. Gianpaolo Catanzariti, referente territoriale per Reggio Calabria dell’Osservatorio UCPI (Unione Camere Penali Italiane) che in collaborazione col Consigliere Irto ha predisposto l’articolato dopo aver consultato molte leggi istitutive approvate da altre Regioni per identificare la normativa migliore, sta monitorando con attenzione l’iter della proposta, ed è in contatto con chi redige queste note. BASILICATA - In Basilicata sul finire del 2010, e precisamente il 23 dicembre, si è tenuta una conferenza stampa di presentazione della proposta di legge del Consigliere regionale Rocco Vita (PSI) per la "Istituzione dell’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Erano presenti dirigenti regionali e provinciali del PSI, nonché il segretario dei Radicali lucani Maurizio Bolognetti, che successivamente ha più volte sollecitato la calendarizzazione del dibattito sul progetto, senza peraltro che la situazione sia mutata fino ad oggi. Tuttora la Regione Basilicata è priva di un Garante dei detenuti e perfino di una legge istitutiva della funzione. PUGLIA - La Regione Puglia ha approvato in data 10 luglio 2006 la Legge regionale n.19, denominata "Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia", pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n.87 del 12 luglio 2006. L’articolo 31 di questa enciclopedica Legge istituiva "l’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale", ma solo con un successivo Regolamento del 29 settembre 2009 (pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n.153) sono state precisate le modalità di esecuzione del mandato e la sua durata. L’art. 3 del regolamento stabilisce che il mandato del Garante dura cinque anni ed è rinnovabile una sola volta; l’elezione del Garante avviene a scrutinio segreto, e sono richiesti i due terzi dei voti dei Consiglieri in carica. Con delibera del Consiglio in data 11/07/2011 è stato nominato il Garante nella persona del dott. Pietro Rossi, indicato dall’Associazione Antigone: l’elezione è avvenuta a grande maggioranza, ed è stata salutata con soddisfazione generale. L’indomani la Gazzetta del Mezzogiorno, riferendo sul voto quasi unanime, scrisse che "il relatore del provvedimento, Dino Mariano Presidente della commissione Sanità, ha dedicato questa giornata a Marco Pannella, per la battaglia che continua a condurre: la sua vita -ha detto il Consigliere- è dentro la democrazia, la legalità e la giustizia". Fra non molto, l’11 luglio 2016, il Consiglio dovrà votare per il rinnovo dell’incarico o per una nuova nomina. CAMPANIA - La Regione Campania si è dotata della figura del Garante con la legge regionale n.18 del 24 luglio 2006, (pubblicata nel bollettino regionale n.36 del 7 agosto) che porta il nome di: "Istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittiva della libertà personale". L’articolato è molto minuzioso nella definizione dei compiti del Garante, che dovrà occuparsi delle persone presenti negli Istituti penitenziari, negli Istituti penali dei minori, nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri, nonché delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. L’incarico di Garante è ricoperto dalla dott. Adriana Tocco, nominata l’8 febbraio 2011 con il decreto n.13 del Presidente del Consiglio Regionale Stefano Caldoro. La legge n.18/2006, istitutiva del Garante, all’articolo 2 recita così: "Il Garante resta in carica per l’intera legislatura e non può essere rieletto": di conseguenza la dott.Tocco avrebbe dovuto decadere nel 2015 e non avrebbe potuto essere rieletta. Ma non è così: la proposta di legge n.51, depositata il 16/7/2010, assegnata alla Commissione Consiliare Permanente, aveva modificato i termini di vigenza del mandato. Questa legge all’art.1 abroga dalla legge istitutiva del 2006 le parole "non può essere rieletto" e all’art. 2 recita: "La presente legge è dichiarata urgente, ed entra in vigore il giorno successivo la sua pubblicazione sul Bollettino Regionale". E la durata del mandato? Nel sito della Regione Campania non c’è traccia alcuna di un provvedimento che fissi la durata, e tanto meno di una legge o di un decreto che abroghi la decadenza concomitante con la fine della legislatura, prevista dalla legge 18/2006. Informazioni "orali" dicono che il termine di 5 anni è scaduto, ma che c’è un dispositivo in base al quale il garante resta in carica anche dopo la scadenza, finché non venga nominato il nuovo Garante, allo scopo di assicurare la continuità della funzione: la dott. Tocco sarebbe dunque "in attesa di nuova nomina". Ogni accurata ricerca su sito non ha consentito di verificare le fonti normative di tali dispositivi: addirittura esistono nel sito dei link che dovrebbero condurre a leggi e decreti relativi al Garante, ma che in realtà conducono a contenuti collaterali, come per esempio lo stanziamento di somme a favore di una Associazione esterna per consulenze prestate all’Ufficio del Garante. Per il momento si resta in attesa di notizie, mentre nell’elenco del Ministero l’aggiornamento 8 marzo 2016 non si dà pena di alcuna verifica e porta serenamente il nome della dott.sa Tocco come Garante in carica. MOLISE - I detenuti della Regione Molise hanno dovuto aspettare a lungo la legge n.17 del 9 dicembre 2015, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n.40 del 16/12/2015, dal titolo "Istituzione del Garante regionale dei diritti della persona". All’articolo 1 la legge precisa che ha lo scopo di garantire in ambito regionale i diritti delle persone fisiche e giuridiche verso le pubbliche amministrazioni, tutelare i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e promuovere, proteggere e facilitare il perseguimento dei diritti delle persone private della libertà personale. In sostanza si tratta di un Garante dei diritti con valenza universale, tanto è vero che la legge istitutiva provvede ad abrogare la precedente legge n.32 del 2 ottobre 2006, che istituiva il Tutore pubblico dei minori. Nella Regione Molise il Garante viene eletto dal Consiglio a scrutinio segreto, con i due terzi dei voti favorevoli per due votazioni ed eventualmente, dalla terza votazione, a maggioranza semplice; egli dura in carica cinque anni ed è rieleggibile per una sola volta. Nelle disposizioni finali l’art. 17 precisa che il Garante è eletto entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge e, in fase di prima applicazione, presta giuramento nella prima seduta utile del 2016 del Consiglio regionale. Un termine di tempo così breve per un percorso che solitamente occupa un semestre (pubblicazione del Bando di ricerca, attesa dell’arrivo delle candidature, analisi dei curricula, scelta della persona e sua nomina) farebbe pensare che al momento in cui la Legge è stata promulgata fosse già disponibile una candidatura di fiducia dell’intero Consiglio, e tuttavia, alla scadenza dei sessanta giorni il 16 febbraio 2016, non risulta ancora nominato il Garante Molisano. Forse si attende che abbia giurato nella prima riunione Consiliare del 2016, per annunciane l’elezione? Secondo l’art.3 comma 3, la prestazione del giuramento ha luogo davanti al Consiglio regionale entro quindici giorni dalla data dell’elezione con la formula "Giuro di bene e fedelmente svolgere l’incarico cui sono chiamato nell’interesse della collettività e al servizio dei cittadini, in piena libertà e indipendenza". In un sito così preciso, con una legge che puntigliosamente prevede perfino la formula del giuramento, è bizzarro che non sia presente alcuna documentazione del Bando, dell’esame dei candidati e del decreto di nomina. La Legge richiede (art.2) una persona "di adeguata competenza e provata esperienza giuridico-amministrativa nel settore delle discipline di tutela dei diritti umani ed anche in materia minorile, con particolare riguardo alle materie che rientrano tra le sue attribuzioni". Si resta in attesa di conoscere tale persona, mentre nell’elenco ministeriale la Regione Molise non appare affatto, come se non avesse né Garante né legge istitutiva. SARDEGNA - Nella Regione autonoma della Sardegna la legge del 7 febbraio 2011 n.7 (pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Sardegna n.5 del 18 febbraio 2011) istituiva il "Sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". L’omnicomprensivo capo primo della legge elenca gli obblighi, a carico della regione, in ordine ai diritti delle persone sottoposte ad atti giudiziari, all’indirizzo e coordinamento delle politiche di inclusione e di reinserimento sociale a favore dei detenuti, delle persone soggette a misure alternative alla detenzione e degli ex detenuti, sostegno alle donne detenute e tutela dei minori, nonché a favore degli stranieri, con particolare riguardo ai servizi di mediazione culturale, e infine promozione ed educazione alla salute, ed interventi per l’avviamento al lavoro di detenuti ed ex detenuti attraverso progetti sperimentali diretti a incentivare nuove professionalità e nuove forme imprenditoriali anche mediante la creazione di cooperative. La parte seconda della legge istituisce il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il Garante è nominato dal Consiglio regionale con votazione a scrutinio segreto e a maggioranza dei due terzi; se nelle prime tre votazioni non viene raggiunto il quorum dei due terzi il Garante è eletto a maggioranza assoluta dei componenti. Il Garante dura in carica sei anni e non è immediatamente rieleggibile. Dopo la scadenza del mandato, le funzioni del Garante sono prorogate per non più di quarantacinque giorni decorrenti dal giorno del termine. La legge è entrata in vigore il giorno della pubblicazione ne Bollettino Ufficiale della Regione Sardegna, e quindi il 18 febbraio 2011: in cinque anni, nessuno si è mai occupato della nomina del garante. Un anno fa, il 14 febbraio 2015, nel sito www.sardegnalive.net, si leggeva: "Dire che ci troviamo in un Paese in cui ci sono troppe leggi rimaste lettera morta, non fa ormai più notizia. È il caso stavolta di una legge regionale della Sardegna, quella del 7 febbraio 2011, n.7" Non è possibile che in Sardegna non si trovi una persona dotata di diploma di laurea magistrale o diploma di laurea del vecchio ordinamento, prescritte dall’art.2 della legge, con adeguata competenza e provata esperienza giuridico-amministrativa nel settore delle discipline di tutela dei diritti umani ed anche in materia minorile, che sia disposta a lavorare nella sede della Regione contro retribuzione del 50% dell’indennità prevista per i Consiglieri regionali. Dunque la legge giace da cinque anni per precisa volontà politica. Cui prodest? L’elenco del Ministero dichiara candidamente: "Garante in attesa di nomina". ABRUZZO - La Regione Abruzzo si è dotata della Legge n.35 del 23 agosto 2011 recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", pubblicata nel BURA Speciale n.54 il 31 agosto 2011 ed entrata in vigore il 1° settembre 2011 - di cui l’art. 6 riguarda l’Istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. La legge considera persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale non soltanto i soggetti presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori o comunque sottoposti a misure restrittive della liberà personale, ma anche le persone ospitate nei centri di prima accoglienza, le persone trattenute nei centri di assistenza temporanea per stranieri, le persone presenti nelle strutture sanitarie in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. Secondo l’art. 6 il Garante è eletto dal Consiglio regionale con la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli, nei novanta giorni successivi all’insediamento del Consiglio stesso, e decade con lo scioglimento del Consiglio regionale. In sede di prima applicazione l’Ufficio del Garante è costituito entro i novanta giorni successivi all’entrata in vigore della legge. Ora, poiché l’entrata in vigore della legge coincide con la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale regionale, l’Ufficio del garante avrebbe dovuto costituirsi e il Garante avrebbe dovuto essere scelto, non oltre tre mesi dal 1° settembre, e cioè il 1° dicembre 2011. Il 29 novembre 2013 il giornale online Abruzzo-24oreTV pubblicava questa informazione: "I detenuti non potevano più attendere che la Regione si decidesse a nominare il Garante e così abbiamo provveduto noi". Con queste parole Alessio Di Carlo, segretario dell’Associazione Radicali Abruzzo, ha annunciato l’istituzione del "Referente dei Detenuti" nella persona di Francesco Lo Piccolo, presidente della onlus "Voci di dentro". Al di là della fantasiosa invenzione del "referente", che nessuna legge autorizza, resta il fatto che a tutto il 9 aprile 2016 in Abruzzo non c’è un Garante incaricato a termini della legge. In tempi più recenti il Consiglio, riunitosi più volte avendo all’ordine del giorno la nomina del garante, si è trovato di fronte una pletora di pretendenti, fra i quali anche il cosiddetto "referente" Lo Piccolo; la più votata è stata la radicale Rita Bernardini la cui aderenza alle caratteristiche dell’identikit disegnato dalla legge è universalmente ammessa, ma che tuttavia non ha raggiunto la maggioranza qualificata dei due terzi dei voti favorevoli. Nei primi giorni di marzo 2016 la Conferenza dei Capigruppo ha stabilito una serie di audizioni dei vari candidati: è stata ascoltata per prima la candidata Bernardini che aveva ottenuto il maggior numero di voti, e poi gli altri. Martedì 5 aprile 2016 il Consiglio si è riunito ancora una volta avendo all’ordine del giorno anche la nomina del Garante, ma con una manovra dialettica fortunosa e molto criticata anche da alcuni Consiglieri ha rinviato la votazione ad una riunione successiva del Consiglio. Resta una notazione marginale: la legge che all’art.6 istituisce il Garante si dichiara "urgente" nel titolo stesso; dunque è legittimo chiedersi se la dilazione di cinque anni e mezzo sia accettabile da parte di uno Stato democratico attento al rispetto delle sue proprie leggi. LAZIO - Nel Lazio la Legge Regionale del 6 ottobre 2003 - n.31 ha istituito il "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale" con rifermento a persone presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nonché nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri e nelle strutture sanitarie in quanto sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio. Secondo questa legge, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n. 29 del 20 ottobre 2003, il Garante è affiancato da due coadiutori e può avvalersi dell’opera di consulenti esterni; egli ed i coadiutori sono eletti dal Consiglio regionale con deliberazione adottata a maggioranza assoluta (la metà più uno degli aventi diritto al voto) con voto limitato, durano in carica cinque anni e possono essere rieletti una sola volta. Dalle informazioni presenti nel sito ufficiale della Regione non è possibile stabilire quando e con quale deliberazione sia stato nominato il Garante, perché la prima traccia di un bando per la ricerca di un Garante e di due coadiutori porta la data del 2010, e non c’è alcun documento relativo alla prima nomina dopo la promulgazione della legge. Una data approssimativa si può dedurre leggendo quanto nel mese di settembre 2005 il giornale "Ristretti Orizzonti" diretto da Ornella Favero, scriveva: "È il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale istituito da una Regione, ha una sede all’EUR, bella, luminosa, immersa nel verde, e molte persone che lavorano con lui per rendere sempre più concreto il suo ruolo. Angiolo Marroni, avvocato, volontario in carcere, ricopre da più di un anno il ruolo di "Garante dei detenuti" del Lazio". Più preciso il quotidiano l’Opinione online, che in data 31 marzo 2004 scrive: "Il 26 febbraio il consiglio regionale del Lazio ha eletto Angiolo Marroni garante dei diritti dei detenuti. Il Lazio è la prima regione in Italia ad aver istituito questa figura di garanzia". Ancora da Ristretti Orizzonti, in un altro articolo, apprendiamo che il dott. Marroni è stato eletto all’unanimità: un voto unanime è un segno inequivoco di gradimento del personaggio, ovvero di accordi fra partiti e correnti per la sua nomina. Evidentemente tale gradimento è continuato a lungo, poiché dalla Legge del 2003 fino a tutto il 2014, nel Lazio c’è stato un solo Garante, appunto l’avv. Marroni, rimasto in carica per un decennio. Nel 2010 dunque, alla scadenza del primo mandato, il dott. Marroni è stato evidentemente rieletto, ma nel sito della Regione non è stato possibile reperire alcun documento probatorio né della prima né tanto meno della seconda nomina; e non si trova alcuna traccia relativa ai due coadiutori previsti dalla Legge. Quanto segue è su Huffington Post, in data 5 marzo 2015. "Dopo dieci anni come Garante dei diritti dei detenuti, uno fra i primi ad essere nominato nel 2005, da qualche giorno l’avvocato Angiolo Marroni è in procinto di liberare gli uffici all’Eur, della regione Lazio, destinati al Garante dei detenuti". Nella sua ultima relazione annuale, del 2014, si legge: "Al termine del mio mandato di Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio, ritengo sia opportuno tracciare un bilancio di ciò che abbiamo realizzato in questi anni con l’ambizione di indicare questo Ufficio come punto di riferimento, come modello per le Regioni italiane dove i Garanti operano con difficoltà, o addirittura non sono stati ancora eletti". Non è obiettivo di questo studio valutare l’operato dei vari Garanti, ma soltanto di ricostruire una mappa il più possibile precisa della situazione dei garanti regionali. Pertanto sulla regione Lazio c’è da dire che l’incarico è vacante, e le candidature sono state affidate all’esame di una apposita Commissione. Per il momento non si conoscono i nomi dei concorrenti, né all’incarico di Garante, né per i due incarichi di coadiutore: con buona pace del Decreto Legislativo del 14 marzo 2013, n.33 (Amministrazione Trasparente), in attuazione della Legge 6 novembre 2012, n. 190 (Anticorruzione). L’elenco ministeriale conferma: nel Lazio, l’incarico è vacante. MARCHE - Nella Regione Marche, con la legge regionale 28 luglio 2008 n° 23 e successive modifiche ed integrazioni (pubblicata nel Bollettino Ufficiale 7 agosto 2008 n.75) è stato istituito l’Ombudsman Regionale, che svolge i compiti di Difensore civico Regionale, Garante anti-discriminazioni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Garante dei diritti dei detenuti. La ratio istitutiva del Garante dei diritti dei detenuti nella Regione Marche lo identifica come l’organo deputato ad accertare che anche all’individuo sottoposto a misure restrittive della libertà personale vengano garantiti i diritti stabiliti dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione della Repubblica Italiana (articolo 13, comma 1, Legge 23/2008). Difatti, il principale interlocutore del Garante è proprio l’Ente regionale ed, in subordine, le aziende sanitarie ed enti locali, in ragione della funzione di soggetti erogatori di servizi sul territorio regionale e, soprattutto, in ragione della sfera di competenza territoriale loro pertinente (articolo 13, comma 3, della Legge). Il Garante viene eletto dall’Assemblea regionale all’inizio di ogni legislatura e non è rieleggibile. L’elezione ha luogo a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi. Dopo la quarta votazione, se nessuno dei candidati ha ottenuto la maggioranza qualificata, si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti e se nella votazione successiva risulta parità di voti tra i due candidati, viene eletto il candidato più giovane di età; bisogna ammettere che, fra tanti metodi originali, questo dell’età è davvero innovativo. Da nessuna parte della legge si fa cenno della durata della funzione, ma possiamo calcolarla in 5 anni visti gli accadimenti: il Garante Italo Tanoni presumibilmente è entrato in carica nel 2010 con il Presidente Gian Mario Spacca, è decaduto nel 2015 ed è stato sostituito in settembre da Andrea Nobili con la nuova Giunta di Luca Ceriscioli. La funzione di garante dei diritti dei detenuti è coperta nella Regione Marche fino al termine della legislatura attuale. Il nome del Garante Nobili appare nell’elenco del Ministero aggiornato al 23 marzo 2016.. UMBRIA - La Regione Umbria ha sancito la funzione di garanzia per i detenuti con la legge regionale del 18 Ottobre 2006, n. 13, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 50 del 31/10/2006, dal titolo "Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale". L’incarico è assegnato mediante voto favorevole dei due terzi dei consiglieri; se nelle prime tre votazioni non si ottiene la maggioranza prescritta, a partire dalla quarta votazione è sufficiente la maggioranza assoluta dei consiglieri regionali (cioè la metà più uno degli aventi diritto al voto). Il Garante dura in carica cinque anni e non può essere riconfermato. Alla scadenza del mandato, il Garante rimane in carica fino alla nomina del successore e comunque per un tempo non superiore a novanta giorni, entro il quale deve concludersi il procedimento della nomina del nuovo Garante. (art.2). Dopo una serie di articoli relativi alla funzione, alle modalità di azione, al trattamento economico (peraltro qui sensibilmente più basso rispetto alle leggi promulgate in tutte le altre Regioni) nelle norme finali transitorie si legge: il Consiglio regionale provvede alla elezione del Garante ai sensi dell’articolo 2 entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge. I novanta giorni entro i quali il Garante doveva essere nominato sono passati trentasei volte, prima che il Garante fosse scelto. La deprecabile abitudine di molte Istituzioni italiane, di non rispettare le leggi che esse stesse si sono date, trova l’esempio paradigmatico nella Regione Umbria, che si era data tempo tre mesi per nominare il Garante, e non lo aveva ancora scelto dopo otto anni. Stefano Anastasia (Presidente onorario di Antigone) due anni fa lamentava sul Corriere dell’Umbria del 14 gennaio 2014 la mancata nomina alla quale egli stesso, un anno prima, aveva posto la candidatura rispondendo al bando pubblico, "come altre qualificate e stimabili persone" (testuale). Evidentemente la protesta del candidato Anastasia ha avuto effetto, poiché in data 8 aprile 2014, con deliberazione dell’Assemblea legislativa n. 321, è stato nominato difensore civico con funzioni di Garante Regionale il prof. Carlo Fiorio, nato a Torino ma residente a Perugia. TOSCANA - Nella Regione Toscana il Garante era stato istituito con la Legge regionale 2 dicembre 2005, n. 64 dal titolo "Tutela del diritto alla salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari ubicati in Toscana", aggiungendovi in modo posticcio, dopo le norme finali e transitorie, questo: Art.8 - Ufficio del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Successivamente questo articolo è stato abrogato con l’art.12 della legge regionale 19 novembre 2009, n.69, che contiene le "Norme per l’istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". In un ampolloso preambolo alla legge, dopo i riferimenti alla Costituzione e allo Statuto Regionale, il capo 2 precisa che "è emersa la necessità" di istituire, la figura del Garante quale organo autonomo, al fine di assicurare la finalità rieducativa della pena ed il reinserimento sociale dei condannati, così come, più in generale, l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali. Dal primo tentativo del 2005 fino alla legge tuttora vigente dal 2009, sono passati quattro anni, una gestazione lunga quanto inspiegabile davvero: comunque la legge istitutiva è in vigore dal 1° gennaio 2010. Il garante dura in carica sei anni e non è immediatamente rieleggibile, ma prosegue nell’esercizio delle proprie funzioni per novanta giorni a decorrere dalla scadenza del proprio mandato o per il più breve termine di entrata in carica del successore. Il garante Alessandro Margara è entrato in carica per delibera del Consiglio Regionale del 20 luglio 2011; si è dimesso nel 2015 all’età di 83 anni, a mandato non ancora scaduto, dichiarando per le dimissioni il motivo della tarda età. Il 20 luglio 2015 è entrato in funzione il nuovo Garante Franco Corleone, che lo stesso Margara aveva indicato come proprio successore. Mentre questo studio procedeva, il 19 febbraio 2016 il Consiglio dei Ministri ha nominato Franco Corleone Commissario Unico per il superamento degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) situati in Piemonte, Toscana, Veneto, Abruzzo, Puglia e Calabria, le sei regioni commissariate dall’esecutivo per non aver ancora chiuso gli Opg. In Toscana, pertanto, il Garante Regionale dovrà essere sostituito a norma dell’art.5 della legge che così recita: "In caso di cessazione anticipata l’elezione del nuovo garante è posta all’ordine del giorno del Consiglio regionale della prima seduta successiva. Nel periodo di compimento delle procedure di nomina, l’incarico è transitoriamente ricoperto dal segretario generale del Consiglio regionale, senza diritto all’indennità". Qualcuno ha ipotizzato che il Garante Franco Corleone possa conservare l’incarico in Toscana anche dopo la nomina a Commissario unico di sei Regioni: è ben vero che l’art. 3, comma 2 della legge istitutiva del Garante recita: "Non possono essere nominati i membri del parlamento e del governo, i sindaci, gli assessori e i consiglieri regionali, provinciali e comunali" e non fa cenno della carica di Commissario governativo. Tuttavia il senso comune suggerisce l’impossibilità materiale di affrontare contemporaneamente tante emergenze, sicché si può ritenere vacante il mandato del Garante della Regione Toscana, salvo percorsi "creativi" come quelli ai quali abbiamo spesso assistito. Nell’elenco del Ministero aggiornato all’8 marzo 2016, l’incarico risulta affidato a Franco Corleone. EMILIA-ROMAGNA - La regione Emilia Romagna si è dotata di un Garante con la Legge Regionale 19 febbraio 2008, n.3 "Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli Istituti penitenziari della Regione Emilia-Romagna", integrata da modifiche apportate con la LR n.13 del 27 settembre 2011. Dopo aver descritto il"Sistema integrato di interventi" (tutela della salute, attività socio-educative, di sostegno alle donne detenute, di istruzione e formazione, attività lavorativa) nei primi otto articoli, l’articolo 10 -come sostituito dalla legge del 2011- provvede alla istituzione dell’Ufficio del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. La legge precisa che il Garante resta in carica per cinque anni e non può essere rieletto, anche se alla scadenza del mandato resta in carica fino alla nomina del successore e comunque per un periodo di tempo non superiore a novanta giorni, entro il quale deve essere eletto il nuovo Garante. La deliberazione dell’Assemblea Legislativa regionale 28 novembre 2011, n.65 (pubblicata nel BUR-ER n. 177 del 07.12.2011) informa che "l’Assemblea legislativa elegge il Garante con voto segreto, e risulta eletto il candidato che ottiene i voti dei due terzi dei consiglieri assegnati alla Regione. Dopo la terza votazione, qualora non si raggiunga detto quorum, l’elezione è rimandata alla seduta del giorno successivo. In questa seduta. Dopo due votazioni, se il candidato non raggiunge i due terzi dei voti assegnati si elegge il Garante con la maggioranza dei consiglieri assegnati alla Regione". Sempre dallo stesso Bollettino apprendiamo che la Sig.ra Desi Bruno è risultata eletta alla sesta votazione con 26 voti sui 50 Consiglieri assegnati alla regione. Il suo mandato scadrà alla fine del 2016. LIGURIA - Nel sito della Regione Liguria, con data 1° marzo 2006, si annuncia la presentazione della proposta di legge n.51/2006, di Cristina Morelli e Carlo Vasconi, per l’istituzione dell’ufficio del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. L’avvenimento era già stato annunciato, durante una Conferenza Stampa del Gruppo dei Verdi in Regione insieme all’Associazione radicale Adelaide Aglietta, con la seguente dichiarazione: "La proposta mira alla creazione, presso il Consiglio regionale, di un nuovo organo di garanzia per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e cioè detenuti negli istituti penitenziari o negli istituti penali per minori nonché stranieri collocati nei centri di prima accoglienza e di assistenza temporanea. L’obiettivo è quello di contribuire a trasformare le carceri da luoghi di punizione a sedi di riabilitazione". Mancano successive notizie circa l’iter della proposta: presumibilmente non è mai stata posta in discussione, poiché solo nel gennaio 2013 (sette anni dopo) la Capogruppo IdV e presidente della commissione Pari Opportunità richiama l’attenzione sull’emergenza carceri in Liguria, invocando l’urgenza dell’istituzione del Garante. Questa iniziativa non ha altro effetto che di provocare la protesta del segretario generale del SAPPE, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, che dichiara: "Le priorità penitenziarie della Liguria sono ben altre che istituire il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Passano altri tre anni e finalmente, in data 20 gennaio 2016, il Consigliere Gianni Pastorino (Rete a sinistra) presenta la Proposta di legge n. 17 per "l’Istituzione del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". La proposta Pastorino è molto precisa e dettagliata: rivela un precedente studio delle altre leggi regionali, con il dichiarato scopo di ottenere l’assenso e la condivisione del Consiglio in tutte le sue parti. Innovativo il metodo di elezione, a scrutinio segreto mediante i voti dei tre quinti dei Consiglieri assegnati alla Regione, in luogo dei consueti due terzi richiesti dalle altre Leggi regionali. In data 25 febbraio 2016 la proposta di Legge ha iniziato il suo percorso legislativo con il passaggio alla prima commissione del Consiglio Regionale (Affari Generali, Istituzionali e Bilancio). Il 15 marzo è stato inviato alla Commissione un "Testo Unificato" con alcune variazioni migliorative: si tratta ovviamente di una base di discussone, suscettibile di mutamenti, ma l’iter della legge è monitorato con attenzione dallo staff di segreteria del Consigliere Pastorino, presentatore della Proposta di Legge, e dal Gruppo Consiliare "Rete a Sinistra". Alla data del 5 maggio l’esame del testo in Commissione risulta in fase avanzata, ma restano da mettere in calendario numerose audizioni: tre esperti (due professori universitari ed una psicologa), alcuni rappresentanti delle Istituzioni (amministrazione penitenziaria, carcere di Marassi, casa circondariale della Spezia, Ministero Giustizia) ed infine numerose Associazioni che hanno chiesto di partecipare alle audizioni. Fra le Associazioni che hanno proposto di essere ascoltate non mancano le solite ben note: Antigone, Amnesty International, la Veneranda Compagnia di Misericordia, la Compagnia delle Opere e la Comunità San Benedetto. Di fronte a tanta buona volontà collaborativa, era inevitabile un commento di finta ingenuità ma di reale malizia: l’insinuazione ha invece ricevuto una cortese ma ferma risposta. L’interlocutore, funzionario del Gruppo Consiliare presentatore della Legge, ha dichiarato: "garantisco che vigileremo sulla assoluta trasparenza delle procedure". Con questo auspicio, ci si augura che i risultati delle Commissioni siano rapidi e condivisi. Per il Ministero, la Regione Liguria è praticamente "lettera morta": né più né meno come la Calabria e la Basilicata, le altre Regioni che non hanno ancora né il Garante, né la legge che ne istituisca le funzioni. La pubblicazione di questo Dossier fornirà notizie all’Ufficio del Garante Nazionale. PIEMONTE - In Piemonte l’istituzione del Garante è avvenuta con la promulgazione della legge regionale n.28 del 2 dicembre 2009, pubblicata nel Bollettino Ufficiale n.48 del 7 dicembre. Si tratta di una legge lodevolmente snella e chiara, di 8 articoli, senza ripetizioni e senza fronzoli. L’art. 2 della Legge precisa che la designazione del Garante avviene per maggioranza qualificata, dei due terzi dei Consiglieri assegnati alla Regione. Qualora nella prima votazione non si raggiunga la predetta maggioranza, il Garante è designato a maggioranza assoluta dei Consiglieri aventi diritto al voto. Il Garante dura in carica cinque anni e può essere confermato per non più di una volta. Dopo la scadenza del mandato, il Garante rimane in carica fino alla nomina del successore. All’art.7 la Legge prescrive che la prima nomina del Garante debba avvenire entro centottanta giorni dalla pubblicazione della legge sul Bollettino ufficiale della Regione Piemonte, e pertanto non oltre l’inizio del mese di giugno 2010; a causa della consultazione elettorale di marzo, tuttavia, il bando di invito alla presentazione delle candidature appare soltanto nel BURT n.40 del 7 ottobre 2010. Passano altri tre anni e mezzo, e la designazione del Garante regionale avviene con la deliberazione di Consiglio n. 273-12286 (aprile 2014): dal 12 maggio 2014 il Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà è Bruno Mellano, come conferma anche il Ministero con l’aggiornamento 11 marzo 2016. VALLE D’AOSTA - La Valle d’Aosta non ha emesso una nuova legge, ma ha modificato la legge istitutiva del Difensore Civico (L.R. n.17 del 28/08/2001) e l’ha integrata con la legge regionale 1° agosto 2011 n.19 - che all’art. 2 ter recita: "Il Difensore civico svolge le funzioni di Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale attuate nel territorio regionale, secondo la disciplina stabilita dalla legge sull’ordinamento penitenziario". Il Consiglio regionale elegge il Difensore civico a scrutinio segreto e a maggioranza dei due terzi dei consiglieri assegnati alla Regione; dopo due votazioni consecutive senza esito, alla terza votazione è sufficiente la maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati alla Regione. Il Difensore civico dura in carica cinque anni, e può essere rieletto una sola volta. Il Comunicato n° 45 del 1° febbraio 2012, pubblicato nel sito InfoconseilVallée, informa che il nuovo Difensore civico della Valle d’Aosta è Enrico Formento Dojot, eletto dal Consiglio regionale nella riunione del 21 dicembre 2011: un lodevole esempio di puntuale semplicità. L’elenco ministeriale dei Garanti Regionali, aggiornato al 22 marzo 2016, conferma la figura di Formento Dojot. LOMBARDIA - In Lombardia la legge regionale del 14/2/2005 n.8 recava "disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione Lombardia", poi abrogata. Successivamente è stata approvata la Legge Regionale n. 18 del 6 dicembre 2010 "Disciplina del Difensore regionale" (pubblicata nel BURL n. 49, 1° supplem. ordinario del 10/12/2010). All’art.8, commi 2 e 4, la legge recita: "Il Difensore svolge la funzione di Garante e tutela dei detenuti, dei contribuenti, dei pensionati, dei consumatori e degli utenti, secondo la disciplina stabilita dalla presente legge e dalle altre specifiche disposizioni regionali". Il Difensore è eletto dal Consiglio regionale con la maggioranza dei due terzi dei componenti nelle prime tre votazioni; dalla quarta votazione è sufficiente la maggioranza assoluta. Le votazioni avvengono a scrutinio segreto. Il Difensore dura in carica sei anni e non è rieleggibile. La Lombardia è molto generosa: è l’unica Regione in cui la retribuzione del Difensore prevede indennità di funzione, indennità di missione e rimborso delle spese di trasporto nella stessa misura stabilita per i consiglieri regionali. Il 17 maggio 2011 Donato Giordano è stato eletto con ampia maggioranza e resterà in carca fino al maggio 2017. L’informazione è riportata correttamente anche nell’elenco del Ministero. VENETO - La Regione Veneto si è dotata del Garante regionale dei diritti della persona con la legge regionale 37 del 24 dicembre 2013, pubblicata nel Bur n. 115 del 27 dicembre 2013. Si tratta di una figura di garanzia che riunisce varie funzioni: difesa civica e garanzia dei diritti dei minori e delle persone ristrette negli istituti di pena. La dott. Mirella Gallinaro, eletta il 3 marzo 2015, subentra pertanto al difensore civico Roberto Pellegrini ed anche ad Aurea Dissegna, garante per minori e detenuti. In Veneto il Garante è eletto dal Consiglio regionale con il voto favorevole della maggioranza dei due terzi dei consiglieri assegnati per le prime due votazioni e successivamente con la maggioranza dei consiglieri assegnati, sempre a scrutinio segreto. Dura in carica tre anni dalla data del giuramento, ed è rieleggibile. FRIULI VENEZIA GIULIA - Nella Regione autonoma Friuli Venezia Giulia vige la legge regionale 16 maggio 2014, n. 9: "Istituzione del Garante regionale dei diritti della persona" (pubblicata nel BUR n° 21 del 21/5/2014) con le successive modifiche del 14/11/2014 n° 24. Il Garante regionale è costituito in collegio, composto dal Presidente e da due componenti. Il Presidente esercita funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività del collegio e la funzione specifica di garanzia per i bambini e gli adolescenti. I due componenti del collegio esercitano le funzioni di garanzia per le persone private della libertà personale e per le persone a rischio di discriminazione. Presidente e ciascuno dei componenti il Garante regionale sono eletti dal Consiglio regionale, con distinte votazioni, a maggioranza di due terzi dei consiglieri assegnati. Dopo la seconda votazione nulla, sono eletti i candidati che ottengono la maggioranza assoluta dei voti. Il Garante regionale rimane in carica per la durata di cinque anni e il suo mandato è rinnovabile una sola volta. Il 26 giugno, con decorrenza 11 settembre 2014 sono stati nominati: Fabia Mellina Bares, presidente, con funzione di garanzia per i bambini e gli adolescenti; Giuseppe Roveredo, con funzione di garanzia per le persone private della libertà personale; Walter Citti, con funzione di garanzia per le persone a rischio di discriminazione. L’elenco del Ministero, all’aggiornamento del 22 marzo 2016, riporta soltanto il nome di Giuseppe Roveredo. TRENTINO ALTO ADIGE - La Regione Autonoma Trentino Alto Adige non è neppure nominata nell’elenco ufficiale dei Garanti regionali sul sito del Ministero della Giustizia, e per un buon motivo. Alla richiesta di informazioni, la gentile signora che dirige l’ufficio affari e servizi generali risponde che "la Regione Trentino Alto Adige non ha la figura del Garante Regionale dei diritti delle persone detenute in custodia dello Stato, o figure simili. La competenza in materia è delle due Province autonome di Trento e di Bolzano". La Provincia autonoma di Trento ha istituito il Difensore Civico, che nel sito viene definito come segue: organo di garanzia e tutela dei diritti e degli interessi del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione. Interviene, d’ufficio o su richiesta, nei casi di cattiva amministrazione, per favorire il rispetto dei principi di legalità, trasparenza, imparzialità, buona amministrazione. È autonomo ed indipendente dal potere politico e libero da ogni condizionamento. Nella Provincia autonoma di Trento il ruolo di garanzia è affidato a Daniela Longo, difensore civico e Garante dei minori. Analogamente la Provincia di Bolzano ha istituito la difesa civica, che (come risulta dal sito) tutela i diritti e gli interessi dei cittadini e delle cittadine nei confronti della pubblica amministrazione e a tal fine svolge la propria attività in modo libero e autonomo. Tra i principali compiti della Difesa civica ci sono l’esame dei reclami, l’attività d’informazione, la consulenza e la mediazione in caso di conflitti tra cittadini da una parte e pubblica amministrazione dall’altra. Paula Ladstatter è la Garante per l’infanzia e l’adolescenza a Bolzano. Come si vede, né l’una né l’altra Provincia prevedono il compito di garantire i diritti delle persone comunque private della libertà individuale. "La voce del Trentino", in data 4 febbraio 2016, informava della avvenuta presentazione di ben tre diverse proposte di legge regionale: due per l’istituzione di due garanti, uno dei detenuti e uno dell’infanzia nonché una terza proposta emendativa, per eliminare dalla legge del difensore civico la non ri-eleggibilità a fine mandato. Le tre proposte hanno immediatamente sollevato proteste, non tanto sul merito, quanto sul fatto stesso che sia necessario provvedere ad un Garante regionale dei detenuti. Il che è comprensibile, in una Regione che - per ragioni etniche e linguistiche - ha istituito il sistema della "presidenza regionale a rotazione": la regione ha pertanto nel corso di una legislatura due presidenti, che sono in pratica i presidenti stessi delle due province autonome. Il Trentino-Alto Adige è una regione a statuto speciale. Le sue due province, la provincia autonoma di Trento (Trentino) e la provincia autonoma di Bolzano (Alto Adige) sono le uniche province italiane che godono di uno statuto di autonomia. Le due autonomie provinciali sono molto ampie e di fatto contano più della regione stessa: specifiche norme, basate sul titolo V della Costituzione (anche prima delle modifiche del 2001), prevedono un trattamento diverso da quello delle altre Provincie, tanto è vero che partecipano anche alla Conferenza Stato-Regioni, la cui denominazione ufficiale è, per l’appunto, Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano. Dallo Stato Italiano le due province autonome sono dunque considerate alla stregua di regioni. Se mai i cittadini delle due provincie decideranno di avere un Garante dei diritti delle persone ristrette, è da ritenersi che non sarà un unico Garante Regionale. Il governo vende Regina Coeli e San Vittore di Liana Milella La Repubblica, 28 maggio 2016 Il Piano carceri: via dai centri storici, le nuove prigioni solo in periferia. Vendere San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale, le tre carceri storiche più famose d’Italia, in cambio di penitenziari nuovi, all’avanguardia, dove scontare la pena non sia - come invece molto spesso è attualmente - una punizione aggiuntiva per via del sovraffollamento e delle strutture irrimediabilmente antiche. Una tortura più che una rieducazione, soprattutto quando fa troppo caldo o fa troppo freddo e una piccola cella deve ospitare più detenuti di quanti ce ne potrebbero stare. Come dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando "c’è bisogno urgente di un modello di carcere diverso, che esca dall’attuale modello "passivizzante", in cui stai in branda e non fai nulla in attesa che passi il tempo della pena, il presupposto giusto per la futura recidiva, mentre nei Paesi dove il carcere è studio, lavoro, sport la recidiva cala". Alienare San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale e "guadagnare" strutture moderne. Un progetto più volte vagheggiato, ma che adesso, per mano del Guardasigilli Orlando, sembra poter diventare realtà. Da una parte via Arenula, dall’altra la Cdp, la Cassa depositi e prestiti, che si è già misurata con esperienze di questo genere, come a Torino con la caserma, ormai ex, La Marmora, 20mila metri quadri convertiti in residenze e spazi collettivi del tutto restituiti alla città. Al ministero della Giustizia ne parlano con il dovuto riserbo, perché il progetto sta muovendo adesso i primi passi e indiscrezioni errate potrebbero danneggiarlo. Ma Orlando ne dà piena conferma. "Sì, ci stiamo lavorando, perché l’esecuzione della pena, come dimostra il lavoro fatto durante gli Stati generali della giustizia penale, presuppone di poter superare i "moloch" ottocenteschi, strutture con costi di manutenzione altissimi per servizi come lo smaltimento dei rifiuti o il riscaldamento. Edifici che, anche fisicamente, con lo schema di un corpo centrale e dei "raggi", puntano solo alla sicurezza attraverso una segregazione che spinge i detenuti alla passività, senza alcuna logica riabilitativa". Ma soprattutto, spiega ancora Orlando, "carceri di un’altra epoca, superate dal punto di vista della sicurezza, a fronte di gravi fenomeni di radicalizzazione che stiamo vedendo in altri Paesi europei". Una preoccupazione, quest’ultima, di una drammatica attualità dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles. Il progetto di cui si sta ragionando tra via Arenula e Cdp potrebbe riguardare una dozzina di penitenziari, ma prenderebbe le prime mosse concentrandosi su tre di questi, peraltro i più importanti per storia, persone ospitate, localizzazione all’interno della città. Il carcere di San Vittore a Milano che attualmente ospita 750 detenuti. Regina Coeli a Roma, con i suoi 624. E Poggioreale a Napoli con ben 1.640 ospiti. Dice Orlando: "Il progetto comincia a prendere forma adesso e dopo le amministrative credo ci saranno anche le condizioni politiche per un confronto con le prossime amministrazioni locali. Non appena i nuovi sindaci si saranno insediati partiranno i colloqui". Che cosa stanno studiando Orlando e Cdp? Partendo dalle motivazioni e dagli obiettivi. È fin troppo evidente che carceri assai antiche - San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più "moderno" Poggioreale realizzato nel 1914 - non possono rispondere alle attuali esigenze di una corretta detenzione. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono state in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi. Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla "decarcerizzazione" ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di veder calata la popolazione carceraria e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte di Strasburgo. Ma non basta qualche metro in più per ottenere una detenzione effettivamente rieducativa. Per questo servono strutture nuove, spazi per il tempo libero, zone per il lavoro. Spiega il ministro: "Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dicotomia del dentro- fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto "di transizione", in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando". E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza di Cdp. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture. In cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. Cdp - cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e la conseguente ristrutturazione - potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche. Un fatto è certo, come dice Orlando, "è del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestiti dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante". Conclude Orlando: "Con il regime del 41-bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr) abbiamo riconquistato il carcere, adesso non possiamo rischiare di compromettere la situazione". I fantasmi di Regina Coeli di Marco Belpoliti La Repubblica, 28 maggio 2016 Non è l’umanità ritratta in queste immagini a colpire. O almeno non solo lei. Non l’uomo con testa, schiena, braccia tatuate, la pin-up e le frasi incise sul tronco; e neppure il ragazzo in bagno, che si tocca il capo davanti a uno specchio; o l’altro perplesso che guarda oltre la grata, come a cercare un impossibile punto di fuga. Sono i muri, le porte, i soffitti, il cortile, i bagni, i corridoi, le passerelle, le pareti del carcere di Regina Coeli. Si trova nel centro della Città Eterna, a Trastevere, dove la sera e la notte sciamano file interminabili di giovani della movida, alla ricerca del baretto, del ristorante, dell’angolo dove bere, parlare, conoscersi, ridere, amoreggiare. Sta lì da sempre, e si vede. Un rudere cadente, eroso, sbriciolato dal tempo, con pareti scrostate, umide, fatiscenti, spettacolo indecoroso in qualsiasi Paese civile. Queste sono fotografie che potrebbero essere state scattate altrove, in un Paese che un tempo si definiva del Terzo Mondo, dove le strutture carcerarie sono vecchie di secoli, eredi dirette degli edifici costruiti dopo l’arrivo dei Conquistadores o delle truppe coloniali, e mai più toccate. Come si può mangiare, dormire, lavarsi, leggere, parlare, guardare la tv, in un ambiente così degradato? La televisione là in alto, appesa alla parete, schermo piatto, e sotto i muri scrostati, con scritte vecchie di decenni: frasi, imprecazioni, pensieri, sogni, versi, maledizioni. Quasi si trattasse delle carceri del Tribunale dell’Inquisizione a Palermo, a Palazzo Chiaromonte, dove un’umanità quasi sempre innocente ha trascorso decenni scrivendo poesie sui muri, dipingendo figure dell’Antico e del Nuovo Testamento, personaggi leggendari, santi, Madonne, ma anche aguzzini e mostri, nell’infinita attesa di una grazia che non sarebbe mai venuta. Uno dei più terribili e affascinanti affreschi prodotti da mani umane. È pure vero che molte scuole e edifici pubblici, privi da anni di manutenzione, soprattutto al Sud, giacciono in pessime condizioni, non troppo diverse da questo reclusorio, ma almeno quelli sono abitati, seppur temporaneamente, da una popolazione allegra, festosa, carica di energia, quali sono i ragazzi in età scolare. Qui gli uomini ritratti con occhio lucido da Valerio Bispuri sono costretti a vivere segregati per espiare la loro pena in un ambiente in cui nessuno di noi vorrebbe abitare neppure per una manciata di minuti. Letti a castello a tre posti, che ricordano quelli delle caserme, se non proprio i pagliericci del Lager, appoggiati a pareti macchiate d’umido. Più ancora che i corpi di questi uomini, colpisce la pelle stessa del carcere, la sua superficie butterata, erosa, scavata, ricolma di abrasioni, polverosa e in disfacimento. Sono questi i veri tatuaggi di Regina Coeli. La schiena dell’uomo, nella foto che campeggia al centro di queste pagine, appare tutt’uno con la superficie del muro dietro di lui. A braccia aperte, come un Cristo, aderisce al fondo della stanza, un suo prolungamento, come se la parete continuasse in lui. Rubando un titolo famoso, viene da chiedersi se questo è un carcere. La risposta è una sola: no! Prescrizione, la mossa dem di Andrea Colombo Il Manifesto, 28 maggio 2016 Braccio di ferro in Senato sulla giustizia. Gli emendamenti dei relatori dem Casson e Cucca fanno infuriare Alfano e Verdini. Il momento della verità sulla prescrizione si avvicina e le tensioni latenti nella maggioranza rischiano di trasformarsi in scontro aperto. Pietra dello scandalo sono gli emendamenti dei relatori, entrambi Pd, Casson e Cucca. I due evitano di infilarsi nello scontro tra chi vorrebbe termini di prescrizione nei casi di corruzione biblici, come quelli usciti dal testo della Camera che prevede 21 anni, e chi solo lunghissimi, come i centristi di Area popolare i cui emendamenti porterebbero il termine a solo 16 anni e mezzo. Propongono invece di rivedere la norma da capo a piedi. Due le possibilità prese in considerazione: fermare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ipotesi messa in campo e sponsorizzata dal battagliero presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, oppure far decorrere i termini non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quello in cui la notizia di reato viene acquisita dal magistrato, cioè dall’inizio dell’indagine. Una strada, quest’ultima, sostenuta a spada tratta dal Fatto. In entrambi i casi tanto varrebbe eliminare direttamente la prescrizione. Il merito pesa, ma c’è anche un versante più schiettamente politico non secondario. Le proposte dei relatori sono state accolte con favore dall’M5S, anche se l’ormai di fatto leader Di Maio ha messo subito le mani avanti: "Però vorrei sapere se sono solo del relatore o condivise dal governo". Sul fronte opposto, la sinistra Pd, che è a favore degli emendamenti, invita a non discuterli con i verdiniani. Il gruppo Ala non fa in effetti formalmente parte della maggioranza ma in materia ha già messo becco nell’incontro con il Pd che avrebbe dovuto svolgersi al Nazareno e che fu poi spostato per motivi di opportunità nelle sale del gruppo Pd a Montecitorio. D’altra parte pretendere che arrivino con i loro voti ogni volta che servono senza poi avere voce in capitolo sarebbe un po’ troppo. I centristi insorgono. Il capogruppo al Senato Schifani detta una nota al vetriolo: "Apprendiamo con stupore che i due relatori hanno presentato modifiche opposte agli impegni assunti dal ministro Orlando. Invitiamo al ritiro delle loro proposte, mai discusse e non condivise". Mette quindi il veto a qualsiasi voto comune Pd-M5S. Si muove persino il leader e ministro degli Interni Angelino Alfano: "Nella commissione Giustizia del Senato c’è un’area giustizialista storica della vecchia sinistra, un residuo giustizialista". Sarà proprio come dice don Angelino? Per quanto riguarda Felice Casson certamente sì. Non a caso già da settimane le fonti del Pd segnalavano la distanza fra le posizioni del relatore e quelle del partito, per non parlare del governo, e in effetti il capogruppo Zanda, ieri pomeriggio, non ha perso un attimo nel rovesciare litri d’acqua sulle fiammelle prima che l’incendio divampasse: "Ho parlato con Casson e Cucca. Mi hanno comunicato che i loro emendamenti sono ipotesi di lavoro. Il loro contenuto sarà oggetto di analisi e confronto nei prossimi giorni nel gruppo Pd e in maggioranza". Calma e nervi saldi amici centristi, che la trattativa è in corso e certo non si chiuderà come Casson comanda. Ma se Casson è effettivamente un esponente della minoranza, decisamente autonomo anche rispetto a quell’area, Cucca è invece un renziano di ferro. Difficile pensare che abbia avanzato una proposta così estrema senza il beneplacito del capo. Le spiegazioni possibili sono due, e non si escludono tra loro. La più probabile è che il premier voglia giocare la carta giustizialista in vista delle elezioni. La discussione inizierà tra una ventina di giorni, probabilmente prima dei ballottaggi, ma si concluderà tra un mese, a urne chiuse. Ci sarà tempo per mediare una volta incassati i dividendi elettorali. Ma non c’è solo questo. Il premier mira davvero a strappare una legge drastica sulla prescrizione in materia di corruzione. Ne ha bisogno per siglare la pace con i togati in vista del referendum: poche cose lo impensieriscono più di una discesa in campo aperta dei magistrati a favore del no. Se si arriverà a un confronto più ruvido, sarà solo dopo aver messo in cassaforte il plebiscito. Per farcela deve aver ragione delle resistenze dei soci di maggioranza, conclamati come Ap o clandestini come Ala. Mettere in campo un’ipotesi radicale gli è utile per poi chiudere su una mediazione più vicina alla sua opzione rigida che a quella dei centristi. Prescrizione, blitz di Casson. Da Grillo arriva l’ok, ma la maggioranza è in rivolta di Errico Novi Il Dubbio, 28 maggio 2016 Strappo del Partito Democratico sulla giustizia. Alfano: "Serve un tagliando". Si tocca la giustizia e si salta. Si maneggia il processo e si fanno danni. L’incendio che nella maggioranza non era scoppiato su temi controversi come le unioni civili divampa sulla prescrizione. Il finimondo scoppia dopo gli emendamenti choc di Felice Casson e Giuseppe Cucca, senatori dem e relatori in commissione Giustizia della riforma penale. Il Nuovo centrodestra alza le barricate. Angelino Alfano arriva a dire che "dopo il referendum faremo un bel tagliando". Chiarisce che "il tempo in cui lo Stato può esercitare la propria pretesa punitiva non può essere eterno". Che, certo, il suo partito "non vuole lasciar ferma la prescrizione così com’è", ma ricorda anche un’altra cosa: "Se una persona viene indagata a 35 anni e ne esce assolta a 65, cosa resta della sua vita?". Il pasticcio della prescrizione monstre è di quelli grossi. Che mettono improvvisamente in pericolo la maggioranza. Dal fronte Ncd viene recapitato un messaggio con su scritto il nome di Renzi nel riquadro dei destinatari: se si va a toccare un tema sensibile come il diritto e la durata dei processi in modo da creare maggioranze trasversali, noi ne trarremo le conseguenze. Imputati in servizio permanente effettivo - Il vero problema è che il punto estremo raggiunto da Casson e Cucca sfonda ogni ragionevole soglia di accordo: prescrizione che dalla sentenza di primo grado non decorre più (anche se si tratta di assoluzione); conteggio che parte dalla notizia di reato e non dal momento in cui i fatti sono commessi; termine per i reati di corruzione comunque raddoppiato come se non bastasse tutto il resto; e, tanto per dare una spruzzata di veleno a questa torta guarnita con tutte le farciture draconiane possibili, pure il provocatorio riferimento alla totale deregulation della Corte europea sulle intercettazioni. È il tradimento delle intese maturate tra il Nuovo centrodestra e il ministro della Giustizia Andrea Orlando: dopo l’innalzamento a 21 anni e 9 mesi dei termini per la corruzione propria introdotto con l’emendamento Ferranti, gli alfaniani si erano limitati ad astenersi alla Camera, e il guardasigilli si era impegnato a favorire in Senato l’intesa su un punto di equilibrio. Qui invece si va "in direzione completamente opposta", come dicono dall’Ncd. Con le regole del gioco saltate, l’alfaniano Gabriele Albertini prova peraltro a mettere ordine con un emendamento che aggiusterebbe a 16 anni e 4 mesi la prescrizione per il reato di corruzione propria. Sarebbe comunque più del doppio di quanto prevedeva l’ex Cirielli. Orlando non informato - A Orlando nessuno ha detto nulla. Casson e Cucca hanno presentato i propri emendamenti senza informare il ministro: è l’altra incredibile anomalia di questa vicenda. Dal suo ufficio in via Arenula il guardasigilli preferisce non commentare una storia che così come si presenta non ha senso. Forte imbarazzo si coglie invece nelle parole di Luigi Zanda, presidente dei senatori pd, che pure, su una mossa tanto dirompente, Casson e Cucca avrebbero dovuto avvisare: "Ho parlato con loro e mi dicono che si tratta di ipotesi di lavoro, sono state presentate per discutere successivamente nel Pd, nella maggioranza e in commissione". Significativo che lo stesso capogruppo dem anteponga il chiarimento preliminare con Ncd all’esame formale di Palazzo Madama. Così com’è scontato che i cinquestelle gongolino di fronte al sisma provocato nella maggioranza dall’ennesimo strappo sulla giustizia: "È un bel test, prendiamo atto dei malumori di Ncd e Ala e guardiamo le proposte nel merito". E, se le guardano, i grillini non possono che sorridere, perché l’interruzione dopo il primo grado va persino oltre la loro proposta, uguale a quella dell’Anm, che non era certo arrivata a fissare il decorso dal momento in cui il pm scopre i reati. Troppa grazia, tanto che l’assennato Luigi Di Maio si chiede se "davvero l’emendamento sia condiviso dal Pd o se sia attribuibile solo a Casson". L’unica cosa chiara è che quando la maggioranza si mette a giocare con le proposte della magistratura finisce il più delle volte male. "Fuori della Costituzione e della ragionevolezza", come sostiene in una nota l’Unione Camere penali. L’occhio fino spinge Francesco Nitto Palma - ex guardasigilli e predecessore dell’alfaniano Nico D’Ascola alla presidenza della commissione Giustizia - a un’allusione che chiama in causa Renzi: "Sono curioso di vedere fino a che punto si intenderà stravolgere il diritto penale per consentire al capo del governo gli ennesimi spot propagandistici". I sospetti sulla complicità di Palazzo Chigi non sono provati. È visibile invece il giubilo della sinistra dem, espresso dalla senatrice Lucrezia Ricchiuti: "Prendiamo atto con soddisfazione che il riformismo si fa vero e non più parolaio". Ma un vero sì alla prescrizione iperbolica sembra impossibile, senza sconquassi nella maggioranza. Renzi: "faremo questa riforma insieme". Il premier rassicura l’alleato Ncd di Francesco Verderami Corriere della Sera, 28 maggio 2016 In due anni il suo governo ha cambiato tutto: il mercato del lavoro, la scuola, la legge elettorale e perfino la Carta costituzionale. Ma ci sarà un motivo se Renzi non è ancora riuscito a toccare la giustizia, se la riforma del processo penale continua a giacere in Parlamento. È questo il vero tabù: altro che l’articolo 18, le unioni civili e il bicameralismo paritario. Periodicamente si ripropone la sfida ventennale tra potere politico e ordine giudiziario. Non è quindi un caso se il premier - che basa la sua forza anche sul controllo e la gestione dell’attività nelle Camere - proprio in tema di giustizia sia stato colto alla sprovvista al Senato, dove si sta discutendo sui tempi di prescrizione nei processi. Non è un caso che il blitz sia stato tentato dai due relatori del Pd, Casson e Cucca, che di fatto propongono modifiche in sintonia con la "linea dell’Anm". Così come non è un caso che nessuno nel Pd ne sapesse nulla: nè il presidente dei senatori Zanda né il responsabile di partito Ermini, che in triangolazione con il governo gestisce la mediazione con gli alleati di Ncd. La denuncia - Perciò la "scorrettezza politica" denunciata ieri mattina dal capogruppo centrista Schifani a Zanda non aveva fondamento, nel senso che lo stesso Zanda si sentiva vittima della "scorrettezza". Le buone relazioni tra colleghi hanno subito dissipato quei sospetti che nel corso della giornata si sono invece concentrati sul ministero della Giustizia, dato che Cucca è considerato assai vicino al Guardasigilli Orlando. E proprio Cucca al termine della giornata ha dovuto prendere le distanze da se stesso, annunciando il ritiro della firma da quegli emendamenti, dopo le irriferibili parole con cui il capogruppo democrat aveva apostrofato la sua iniziativa. Lo schema - Se è vero che non è pensabile per il Pd riproporre sulla giustizia lo schema delle "maggioranze variabili" tentato (e fallito) con i Cinquestelle sulle unioni civili; se è vero che si tratta di "materia di governo", e che i verdiniani di Ala non intendono stavolta offrire sponde sulla "linea Anm"; è facile immaginare l’irritazione di Renzi a fronte di una operazione che sa di affronto. Uno squarcio dilatato dalle parole di Alfano, che ha evidenziato come il Pd "ancora una volta" fosse chiamato a scegliere "tra la vecchia sinistra e un profilo più riformatore". Il nodo è sempre quello, e chiama in causa Renzi, che non vuole apparire un giustizialista ma non vuole nemmeno schierarsi contro i giustizialisti per non indebolirsi sul fianco grillino. L’ultimo tabù - Ecco il motivo per cui l’ultimo tabù ancora resiste e il governo non si muove con la stessa celerità applicata ad altri temi. Anzi, sul nodo delle intercettazioni e della loro pubblicazione - nodo che tocca importanti garanzie costituzionali - negli ultimi tempi il premier è parso frenare, tanto da derubricare la questione a un problema di "auto regolamentazione" della magistratura e dei media. Si vedrà se vorrà davvero cambiare verso, se è vero che il suo obiettivo è di ottenere "entro luglio" il voto del Senato sulla riforma del processo penale. Sarebbe il segnale di un cambio d’epoca. Il clima - Intanto, per allentare il clima di tensione che ieri si era creato nella maggioranza, bisognava sconfessare gli autori del blitz, per quanto farlo avrebbe offerto una plastica rappresentazione del passo falso. E avrebbe consentito ai grillini di attaccare i Democratici. Per tentare di limitare il danno è intervenuto Zanda con una dichiarazione d’altri tempi: perché serve aver frequentato la scuola di Cossiga per definire una "ipotesi di lavoro" gli emendamenti dei relatori, che nel meccanismo parlamentare interpretano al linea della maggioranza. Il rientro - È stato il premier a dare disposizioni di ritorno dal G7 a Tokio, non ci sono dubbi, dato che tutto lo stato maggiore del Pd a sera ribadiva che "sulla giustizia non c’è spazio per maggioranze variabili". Resta da capire se, per dettare la linea, il capo del governo abbia approfittato delloscalo tecnico in Siberia, che all’andata gli era servito per lanciare la sua e-news contro la "ditta". "Renzi non è certo un giustizialista, e questo - dice un esponente dell’esecutivo - non è nemmeno il momento per chiedergli di farlo". Sulla prescrizione è prescritta una crisi di maggioranza, "l’intesa - secondo il premier - va raggiunta e chiusa con Ncd", e con Ala. Solo dopo, magari, si potrà pensare di ricorrere alla fiducia, ipotesi sulla quale il ministro Boschi è assai prudente. Per dare un colpo all’ultimo tabù è meglio prima verificare la forza. Ok del senato al reato di depistaggio: carcere fino a 12 anni Il Messaggero, 28 maggio 2016 Un solo voto contrario, 3 astenuti e 170 sì: a larga maggioranza il Senato dà il via libera al ddl che introduce il reato di depistaggio. Un ddl atteso da anni dalle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi che rimanda ad alcuni snodi cruciali della storia recente italiana: dalla vicenda di Piazza Fontana a all’attentato alla stazione di Bologna, dalle stragi mafiose al caso Moro, a Ustica. Il ddl, che ora torna alla Camera, introduce il reato di depistaggio rivoluzionando l’art. 375 del codice penale e prevedendo pene detentive fino a 12 anni per i pubblici ufficiali infedeli. Pene che, al Senato, sono state ulteriormente inasprite. Il nuovo art. 375 configurato dal ddl disciplina "la reclusione da 3 a 8 anni del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che, per impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale, immuta artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato" o, di fronte alla richiesta dell’autorità giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale, "afferma il falso, nega il vero o tace". Se tale depistaggio avviene occultando, danneggiando o alterando, anche parzialmente, un documento o un oggetto elemento di prova la pena può essere aggravata da 1/3 alla metà. Si prevede il carcere da 6 a 12 anni, inoltre, se il fatto è commesso in relazione a delitti come associazioni sovversive, associazioni con finalità di terrorismo attentato contro il Presidente della Repubblica, devastazione saccheggio e strage o sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione, ma anche i reati concernenti il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico. Pena che, può essere diminuita dalla metà a 2/3 per chi si adopera a ripristinare "lo stato originario delle prove, dei luoghi o delle persone" alterate da chi vuole depistare. Il ddl, infine, innalza la pena per frode processuale (che da 6 mesi a 3 anni diventa da 1 a 5 anni) e prevede l’interdizione dai pubblici uffici per reati puniti con pene superiori a tre anni. "È una svolta storica, ora attendiamo che la legge venga approvata definitivamente entro il 2 agosto", esulta Paolo Bolognesi, deputato Pd e presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, che nel 2013 presentò la proposta. Ma se il Pd plaude a un ddl che anche "atto di giustizia", Carlo Giovanardi (uno dei 3 astenuti) protesta: "in meno di 2 ore il dibattito in Aula è stato liquidato, vero depistatore è governo". Stop al caporalato, ci prova un protocollo di Antonio Sciotto Il Manifesto, 28 maggio 2016 L’accordo. Firmano tre ministeri, cinque Regioni, imprese, sindacati e associazioni. Aiutare i braccianti a trovare una casa e a ricevere servizi dignitosi. Flai Cgil e Uila: "Almeno 430 mila sfruttati, bisogna approvare subito il ddl 2217 fermo in Senato". Un protocollo per contrastare il caporalato: con precisi impegni per le ispezioni, il soccorso, l’assistenza ai lavoratori impiegati nei campi, spesso immigrati. Lo hanno firmato ieri a Roma tre ministeri - Interni, Lavoro e Agricoltura - con cinque Regioni - Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Campania - i sindacati, l’Ispettorato nazionale del Lavoro, le imprese e le associazioni. Tra gli altri, Flai Cgil, Fai Cisl, Uila, Croce Rossa, Libera, Caritas, Cia, Coldiretti, l’Alleanza delle cooperative. Un "passo importante" hanno convenuto tutti i firmatari, ma i sindacati hanno chiesto che si proceda presto all’approvazione del ddl 2217, ancora fermo in Senato nonostante i ripetuti impegni presi dal governo e dai partiti. Ciascuna delle parti, secondo il ruolo che istituzionalmente le spetta, dovrà impegnarsi per la realizzazione di 15 obiettivi, che verranno monitorati da un Gruppo di coordinamento e controllo (con rappresentanti di tutti i firmatari) costituito presso il ministero del Lavoro. Il trasporto è importante - Ecco i 15 obiettivi: 1) Concludere convenzioni per il servizio di trasporto gratuito che copra l’itinerario casa/lavoro; 2) istituire presidi medico-sanitari mobili per prevenzione e primo soccorso; 3) destinare gli immobili disponibili o confiscati alla criminalità organizzata all’istituzione di centri di servizio e di assistenza socio-sanitaria. L’acqua e gli spettacoli - 4) Organizzare servizi di distribuzione gratuita di acqua potabile e/o viveri; 5) potenziare le attività di tutela e informazione ai lavoratori, anche sulla salute e sicurezza, in collaborazione con personale Inail. 6) organizzare iniziative di animazione culturale e ricreativa ed eventi in onore della memoria delle vittime del caporalato; 7) creare sportelli per l’incontro domanda e offerta di servizi abitativi. I centri per l’impiego - 8) Attivare servizi di orientamento al lavoro mediante i Centri per l’impiego e i servizi gestiti dalle parti sociali, in prossimità del luogo di stazionamento dei migranti; 9) aprire sportelli informativi attraverso unità mobili provviste di mediatori linguistico-culturali, psicologi e personale competente sui diritti sindacali e socio-sanitari; 10) fare collocamento anche per mezzo di agenzie autorizzate o tramite la bilateralità, con la possibilità di fornire l’attività di trasporto; 11) sperimentare l’impiego temporaneo di immobili demaniali per i casi urgenti di accoglienza. Le ludoteche per i bimbi - 12) Creare ludoteche per i minori, centri per sport e alfabetizzazione; 13) istituire corsi di lingua italiana, ciclo officina, piccola falegnameria, di pizzaiolo, florovivaismo, sicurezza sul lavoro; 14) sperimentare bandi per promuovere l’ospitalità dei lavoratori stagionali in condizioni dignitose e salubri; 15) Creare centri di ascolto e di supporto. Ricordando che i braccianti vittime del caporalato "sono almeno 430 mila in Italia, per un giro d’affari di 17 miliardi di euro", la segretaria Flai Cgil Ivana Galli ha chiesto "la veloce approvazione del ddl 2217". Stessa richiesta anche dalla Uila. Per i sindacati bisogna estendere il reato di caporalato anche agli imprenditori che vi ricorrono. Bossetti, difesa al contrattacco: il Dna non basta di Virginia Spada Il Dubbio, 28 maggio 2016 L’avvocato: la cosiddetta prova regina non è stata ripetuta. Ieri è stata la giornata della difesa, in un processo dove gli avvocati di Massimo Bossetti hanno dovuto subire la supremazia della Procura. È stata un’arringa appassionata, forse si può dire arrabbiata, anche perché troppi sono stati i colpi bassi subiti. "Ci abbiamo messo il cuore - ha iniziato Claudio Salvagni - Bossetti non è un assassino". La storia è nota, stranota. Bossetti è accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, la giovane di Brembate sparita e poi ritrovata nel campo di un vicino cantiere. È stranota anche perché, fin dall’arresto di Bossetti, si è deciso che fosse lui l’assassino. La famiglia, racconta l’avvocato, lo ha sempre sostenuto, ha sempre pensato che non fosse lui il colpevole. Ieri all’udienza è arrivata anche la moglie Marita Comi: si è presentata in tribunale a bordo di una Porsche Panamera color rame, guidata dal consulente della difesa, il crimonologo Ezio Denti. Ha disertato l’aula per diverse udienze ma ieri, anche per smorzare le voci di tensioni nel rapporto con il marito dopo la diffusione delle lettere con un’altra detenuta, è arrivata puntuale. Dna: lo scontro - La vera questione, la cosiddetta prova regina, è il Dna. È sul Dna che si gioca la possibilità per Bossetti di essere assolto. La Pm Letizia Ruggeri ha chiesto l’ergastolo con sei mesi di isolamento diurno. Il Dna è stato stabilito sulla base della traccia biologica trovata sugli indumenti della vittima, il famoso Ignoto 1, poi identificato come Bossetti. Ma secondo la difesa molte cose non tornano: il Dna mitocondriale (che identifica la linea di ascendenza materna) non corrisponde a quello dell’imputato. Un’anomalia riconosciuta dall’accusa, che a suo dire però "non inficia" il resto. Ma il punto principale è un altro: non si è potuta ripetere l’analisi del Dna come richiesto dalla difesa. Questo secondo alcuni esperti metterebbe a serio rischio l’impianto accusatorio. "La difesa - ha sottolineato l’avvocato di Bossetti - i risultati fatti da altri li ha dovuti prendere per buoni, ma noi non possiamo fare un atto di fede, non possiamo chiudere gli occhi". Il furgone - Salvagni spara a zero: si è trattato - ha detto - di un processo mediatico. Non solo perché fin da subito è stato deciso che Bossetti era il mostro, l’assassino, ma anche perché sono state fate delle cose scorrettissime da parte della Procura. Come quando ha confenzionato un video ad hoc dove si vedeva il furgone di Bossetti che andava e tornava vicino alla palestra di Yara. In realtà l’immagine utilizzabile è solo una, ed una sola è stata portata come prova al processo. Il video era stato confezionato per le televisioni. L’ultima trovata è stata quella di dare alla stampa le lettere di Bossetti a una detenuta. Tutto costruito per gettare discredito sulla sua figura. Le prove, però insiste la difesa, quelle vere, mancano. Il teatro è vita, in carcere e fuori dal carcere di Francesco Lo Piccolo (direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 28 maggio 2016 È andato in scena prima all’interno del carcere di Pescara e poi al rettorato dell’Università D’Annunzio lo spettacolo teatrale "Il malato immaginario", tratto dall’opera di Moliere e frutto del laboratorio di teatro della Casa circondariale di Pescara. Uno spettacolo emozionante. Perché il teatro è vita e il teatro cambia. Ed è proprio vero che la vita è un sogno (come ha raccontato Borges), un circo (come ha sostenuto il grande Fellini), e infine un teatro (come ha spiegato il sociologo canadese Goffman). "Il malato immaginario", realizzato in carcere e poi portato fuori dal carcere grazie all’Università e al professor Giammarco Cifaldi, a me ha mostrato quanto mai è inutile il carcere e quanto mai è più bello e vero il mondo di fuori (anche quello sul palcoscenico). Mi sono commosso a sentire e vedere recitare quegli otto attori-detenuti assieme ai volontari e ai tirocinanti dell’Università D’Annunzio. Perché vi ho visto la vita. E vi ho visto una grande tappa di un lavoro volto al cambiamento. Tappa peraltro raccontata da Raitre in uno speciale di Fabio Masi. Un lavoro che aiuta a rompere lo schema della prigione che imprigiona cuore e menti, per tentare di chiudere con un sistema che lega a comandi che non responsabilizzano ma infantilizzano senza cambiare e migliorare, ma quasi sempre riproducendo carcere e carcerati uguali a se stessi. Gli otto attori-detenuti hanno lavorato per otto mesi; insieme si sono formati, insieme hanno imparato la loro parte da portare sul palcoscenico. Tutti alla pari: uno ha fatto da regista, un altro ha imparato ad ascoltare gli altri e a misurarsi in una relazione tra persone che non era la solita relazione e il solito rapporto tra carcerati, un altro ancora si è avventurato in un monologo che partiva dal suo cuore. Tutto questo da soli, autonomamente, senza il maestro che viene da fuori, ma trovando e riconoscendo al proprio interno il proprio maestro. Autonomi e responsabili. E il successo è stato grande, gli applausi tanti e lunghi. Il video dello spettacolo si può vedere qui. Rispetto alla visione dal vivo molto si perde, ma ugualmente l’emozione arriva. Arriva la voce di Attilio-Argante che alla fine recita "...bisogna morire per capire la vita... quando muori allora sì che vieni a scoprire la verità di tutto e di tutti, anche la tua, quella che hai dentro, che ti fa soffrire, che tu tieni segreto... ecco cosa ho imparato a fare il malato... ma sono contento perché mi è servito per guarire, mi ha fatto capire che la colpa di tutto quello che è successo è anche mia". Parla di colpa Attilio-Argante ma forse è meglio dire responsabilità perché è la responsabilità il valore che il nostro Attilio-Argante impara e ci insegna. Ecco cosa è stato e cosa è la vita: un sogno (alla Borges appunto) che lo ha portato, assieme agli altri attori-detenuti, fuori dal carcere, fuori dalla gabbia di quella identità che era l’unica che ha trovato e per indossarne finalmente un’altra; ma anche un circo (per usare le parole di Fellini) "dove tutti gli elementi vi si ritrovano, gettati là, alla rinfusa, così violenti, così tragici, così teneri. Tutti, senza eccezione"; e infine anche teatro "dove quotidianamente (per dirla con Goffman) noi mettiamo in scena immagini di noi stessi che cerchiamo di offrire alle persone attorno a noi. In definitiva una bella grande tappa del lavoro di volontariato svolto dentro le carceri con la convinzione che la sicurezza non è chiudere le persone dentro, ma far sì che il dentro e soprattutto che il fuori lavorino affinché le persone abbiano quelle chance che non hanno avuto. Con la convinzione, ancora, che per fare questo occorre dare alle persone le chiavi del proprio futuro perché sono persone innanzitutto e non reati e che solo con momenti di responsabilizzazione e di autogestione del tempo e dello spazio si può ricostruire una vita. La vita. Caserta: detenuto ucciso all’Opg di Aversa, Ministero a giudizio di Marilù Musto Il Mattino, 28 maggio 2016 Il ministero della Giustizia è stato citato in giudizio come responsabile civile della morte di un detenuto dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa. Lo ha deciso il giudice del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Federica Villano, ieri mattina, al termine dell’udienza preliminare. La richiesta di portare in tribunale il Ministero di via Arenula era stata presentata dagli avvocati difensori dei familiari del detenuto Cibati Seiano di Vico Equense, ucciso da cinque "compagni di carcere" perché "pedofilo", stando alla versione dei responsabili. Seiano era finito dietro le sbarre del carcere psichiatrico di Aversa, "Filippo Saporito", infatti, dopo una condanna emessa dal tribunale per abusi su minori. Una storia triste quella dell’Opg, con al centro Seiano, malato e per questo bisognoso di cure, ma anche responsabile di atroci sofferenze su bambini innocenti. Al delitto dell’uomo, nel gennaio del 2015, avevano partecipato, stando all’accusa, i detenuti Attilio Ravizzola di Brescia, Alessandro Basile di Napoli, Cosimo Stella Damiano di Colleferro, Fabrizio Aureli di Roma e Maiorano Massimo, nato in Germania. Approfittando di un momento di distrazione della polizia penitenziaria e degli infermieri, i cinque avevano colpito con calci e pugni la vittima alla testa sfondando il cranio e rompendo la mascella del detenuto. Avevano lesionato i polmoni e rotto le ossa del dorso. Il corpo martoriato del detenuto era stato trovato la mattina successiva dal personale del carcere. La vittima era deceduta dopo una lenta agonia, da sola, nel buio e al freddo di una cella. Maiorano avrebbe istigato gli altri detenuti dicendo che andava punito perché era un pedofilo, ma era poi rimasto fuori la cella di Cibati Seiano per verificare che nessuno arrivasse. Il blitz si era concluso con la morte. Dopo un anno di indagini, il pm della procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso l’inchiesta e ha chiesto il rinvio a giudizio per tutti i responsabili. È stato a questo punto che i familiari di Seiano - i genitori - rappresentati in tribunale dagli avvocati Dario Pepe, Gennaro Iannotti e Alessandro Verrico, hanno deciso di chiamare in causa il Ministero con a capo Andrea Orlando in quanto "il detenuto era affidato alle cure dello Stato", si legge nella richiesta dei legali. Cibati Seiano è entrato in carcere vivo e ne è uscito cadavere. Un caso simile a quello di Stefano Cucchi a Roma, ma diverso per il contesto e lo scenario. Il giudice Villano, così scrive nel suo provvedimento: "Il tribunale ordina la citazione, quale responsabile civile, del Ministero della Giustizia nel procedimento penale per l’udienza del 21 ottobre del 2016". Dunque, alla sbarra, fra cinque mesi, oltre ai protagonisti dell’omicidio, dovrà presentarsi anche l’avvocato difensore del Ministero di via Arenula. L’accusa da cui dovrà difendersi è quella di omicidio. Bologna: "reclusi ma studenti", le lettere dal carcere degli aspiranti dottori di Ilaria Venturi La Repubblica, 28 maggio 2016 Alla Dozza gli allievi dell’Università sono 36. Il rettore Ubertini "facciamo il possibile per aiutarli". "Caro prof, io sto bene e continuo gli studi. Le voglio scrivere cosa mi è capitato: in Cassazione sono stato riconosciuto innocente su vari reati e hanno ridimensionato la pena. Così mi sono ritrovato a fare sette anni di carcere mentre dovevo farne al massimo uno e mezzo e poi uscire con le varie restrizioni, ma almeno ero fuori e libero. Pazienza! Comunque è andata così e forse non mi sarei mai laureato". Una laurea dietro le sbarre, comunque vada, nonostante tutto o, forse, proprio per quel tutto che li ha portati lì. Lettere dal carcere e da chi ne è uscito, dottori speciali per l’Alma Mater che conta 36 iscritti detenuti, un numero cresciuto esponenzialmente da quando sono partite le lezioni alla Dozza con un’ottantina di docenti e studenti tutor. Nel 2005 le matricole erano appena quattro. L’economista Giorgio Basevi, delegato per il Polo universitario penitenziario, ha un plico di missive sul suo tavolo. "A questo studente, al quale la giustizia dello Stato è arrivata troppo tardi, è stata invece sufficiente la giustizia che l’Ateneo gli ha reso garantendogli il suo diritto allo studio", commenta. Voci da dentro. C’è chi alla Dozza ha preso la sua seconda laurea, in Criminologia, chi viene messo fuori e quasi si dispiace ("ma come, proprio ora che avevo cominciato a studiare"), perché fuori il più delle volte non ci sono alternative. Lo studio, soprattutto nei corsi di Giurisprudenza, Scienze politiche, Lettere e Agraria, come forma di riscatto. Un detenuto a un certo punto ha scelto Marx e Sofocle: "Durante la detenzione ho conosciuto criminali di ogni genere, tutti però si dichiaravano innocenti. La mia mente confusa si domandava se fossi l’unico ad essere giustamente in carcere - scrive. Così, smisi di passare molto tempo con queste persone, andando alla ricerca di nuove amicizie, magari di colpevoli come me, colpevoli di qualcosa, colpevoli di nuove idee". I primi passi nella biblioteca del carcere: "Foucault mi ha fatto capire cosa mi ha portato a fare scelte sbagliate. Marx perché esiste il capitalismo e la lotta operaia. Lutero e la sua dottrina hanno maggiormente incasinato la mia vita spirituale. Socrate mi ha insegnato cos’è l’anticonformismo. Il dramma di Antigone mi ha fatto capire che le leggi giuste per tutti non esisteranno mai. Ed ora, con la consapevolezza di voler e dover dimostrare a me stesso e alla società di poter riscattarmi dalle mie colpe, espio la mia condanna, pago il mio conto alla giustizia". "L’Alma Mater ha fatto, e continuerà a fare, tutto il possibile per offrire a queste persone un’occasione di conquistare la libertà mentale, che è il vero obiettivo degli studi universitari", dice il rettore Francesco Ubertini, che ieri alla Dozza ha celebrato l’anno accademico dei detenuti universitari. Lo studio non è senza difficoltà. Il problema è il riconoscimento automatico degli esami per chi viene trasferito da un carcere all’altro. Bologna: "un Erasmus per gli studenti detenuti" La Repubblica, 28 maggio 2016 Chi studia in carcere e viene trasferito rischia di perdere gli esami già sostenuti. Per questo il delegato del rettore per il Polo universitario penitenziario di Bologna, Giorgio Basevi, lancia l’idea di una sorta di Erasmus per i detenuti. La difficoltà, infatti, per chi vuole laurearsi dietro alle sbarre sono i trasferimenti: o non esiste una convenzione tra l’Ateneo della città in cui vengono spostati e il carcere locale oppure non vengono validati automaticamente nella nuova università gli esami già sostenuti a Bologna. Per ovviare, almeno in parte, al problema, Basevi lancia l’idea di "una sorta di Erasmus per chi viene trasferito, in modo che non perda gli esami già dati. Potremmo chiamarlo - chiosa in tono scherzoso - programma Silvio Pellico oppure programma Conte di Montecristo". Di questo, conclude il docente, "discuteremo con il rettore il prima possibile, per capire se ci sono dei margini per mettere in piedi un progetto del genere". Di studio in carcere si è parlato oggi in occasione della cerimonia di primavera per l’anno accademico 2015-2016 del Polo universitario bolognese alla Dozza conclusasi con una partita di rugby tra il Cus Bologna, la squadra accademica, e i detenuti del "Giallo Dozza". "L’Alma Mater ha fatto, e continuerà a fare, tutto il possibile per offrire a queste persone un’occasione di conquistare la libertà mentale, che è il vero obiettivo degli studi universitari", ha ricordato il rettore Francesco Ubertini. E sui benefici dello studio per i detenuti si è soffermata, nel suo saluto, anche la direttrice del carcere Claudia Clementi. Bologna: partita a rugby in carcere tra universitari e detenuti. Il carcere bolognese della Dozza, con i suoi 36 studenti universitari, è "al top in Italia nel rapporto tra numero totale dei detenuti e studenti. E anche la media voto, che si attesta sul 27, "è molto alta, senza contare che il numero degli esami sostenuti sta aumentando", sottolinea Giorgio Basevi. Tra le difficoltà degli studenti-detenuti c’è anche quella di seguirli dopo il carcere: "Il problema è che alcuni di loro, soprattutto se extracomunitari, non hanno documenti o il certificato di residenza, e spesso spariscono". Cagliari: Sdr; bimbo di 15 mesi asmatico in cella a Uta con la mamma 30enne Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2016 "Ancora una volta un bimbo di pochi mesi si trova in cella con la giovane madre. Il piccolo di appena 15 mesi è asmatico. Una situazione che nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta risulta inaccettabile dal momento che in Sardegna, a Senorbì, è stata allestito un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute (Icam)". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritto Riforme con riferimento alla vicenda giudiziaria di Liliana P., 30 anni, rumena, e del figlioletto con cui condivide la cella. "Per quanto possano esservi esigenze cautelari gravi - sottolinea Caligaris - una madre con un bimbo di 15 mesi non può stare in carcere. La sua presenza nella sezione femminile è una nuova pesante sconfitta delle istituzioni che devono farsi carico di trovare delle strutture esterne a custodia attenuata. Si può garantire la sicurezza, evitando però a un neonato di pagare colpe che non ha". "Oltre all’ICam, dislocato purtroppo in una località periferica, esistono - ricorda la presidente di Sdr che ha incontrato la donna e ha preso contatti con il suo legale Michele Satta - alternative alla detenzione che non possono essere ignorate. Tra l’altro il braccialetto elettronico consentirebbe alle forze dell’ordine di monitorare costantemente la donna nella sua casa e al piccolo di usufruire di un ambiente idoneo a ridurre i rischi di eventuali pericolose crisi respiratorie". "La presenza del bambino, arrivato a Uta nella serata di mercoledì, ha suscitato apprensione tra le Agenti Penitenziarie che tuttavia lo accudiscono con particolare attenzione e tenerezza. L’auspicio è che i tempi della giustizia, in casi come questo - conclude Caligaris - non possano essere così lunghi da costringere un bimbo di 15 mesi a rimanere diverse settimane in una struttura carceraria. Nonostante l’impegno dei diversi operatori, un Istituto di Pena non è, per diversi motivi, un posto per neonati". Con il piccolo a Cagliari-Uta sono tre i bimbi nelle carceri sarde. Due infatti si trovano a Sassari-Bancali. Trapani: Amnesty International; dibattito su condizioni detenuti al Leo Club di Natale Salvo trapaniok.it, 28 maggio 2016 "Servono la conoscenza e poi la coscienza critica per poter giungere ad un cambiamento" ha riconosciuto Simona Sugamele, presidente del Leo Club di Trapani, rispondendo ad una mia domanda-provocazione nel corso della presentazione del libro "Il futuro sarà di tutta l’umanità" avvenuto quest’oggi presso la sede del club service. È questa, a mio parere, la presa di coscienza più importante dell’incontro promosso dalla neonata sezione di Trapani di Amnesty International e che trattava il tema dei detenuti nelle carceri italiane. Una risposta che ben s’aggancia alla presentazione dell’evento tenuta da Massimo Catania, presidente del Lions di Trapani: "questa manifestazione - mi ha detto - dimostra che i giovani non sono solamente dediti a stare su internet o a chattare o vivere una vita passiva ma, opportunamente stimolati, possono coniugare l’entusiasmo tipico dell’età con l’impegno". E molti erano, in effetti, i giovani del Leo Club che hanno contribuito alla riuscita della manifestazione o, comunque, assistito "rubando" un po’ di tempo ai loro giochini sparatutto sul computer di casa. Le condizioni dei detenuti - Rossana Campaniolo, responsabile del gruppo di Trapani di Amnesty, nel proprio intervento introduttivo, ha ricordato come quella delle condizioni dei detenuti sia una delle tematiche principali della sua associazione ed ha ricordato come, in proposito, lo Stato italiano ha subito una storica condanna in sede europea per il caso di Nino Torreggiani, il detenuto che lamentava un trattamento "inumano e degradante" consistente, soprattutto, nell’essere rinchiuso in una cella che gli riconosceva pochi centimetri quadri di spazio vitale. Giuseppe Romano, comandante delle guardie al carcere di San Giuliano, ha precisato che "oggi, dopo la sentenza Torreggiani, ad ogni detenuto sono riconosciuti almeno 3 metri quadri netti di spazio in cella e, inoltre, almeno otto ore (dalle 8 alle 16) di poter muoversi fuori dalla cella, fra il reparto o nel cortile". Romano ha provato a sfatare il "mito" dell’agente che è un carceriere, un aguzzino, uno dedito ai pestaggi dei detenuti, ma una persona che fa un lavoro con professionalità ed umanità. Sempre su stimolo del pubblico, sono usciti dei discorsi interessanti. Le proposte scaturite dal dibattito al Leo Club - Romano ha messo all’indice la classe politica che "abbandona le carceri, non dedicando gli opportuni investimenti" e, ha pure riconosciuto, che, spesso, i detenuti, prima di violare la legge, "non hanno avuto delle possibilità", non hanno potuto fruire di adeguati investimenti preventivi in campo sportivo, culturale e scolastico. L’importanza di investire in opportune figure professionali coadiuvanti al recupero e nell’istruzione dei detenuti o nella proposta di corsi di formazione professionale o di attività lavorativa anche dentro il carcere è stata sottolineata tanto da Romano, quanto dall’autrice Antonella Speciale, quanto dal giovane Gianni Biondo intervenuto nel dibattito. Biondo, in particolare, ha ricordato come "il soggetto dentro sarà poi un soggetto fuori dove, se non si è investito nel recupero, diventerà un problema per la società innescando un sorta di circuito vizioso". Il problema del "tempo in carcere non impiegato per rendere il detenuto una persona migliore" è stato sollevato sempre dall’autrice Antonella Speciale che ha concluso invitando la stessa Amnesty ha sollevare il problema dell’abolizione della pena dell’ergastolo, assolutamente in contrasto col nostro art. 27 della Costituzione o, quantomeno, della condizione di "ergastolano ostativo" in cui si trovano 1.200 detenuti circa in Italia e che non da diritto a queste persone di sperare, nella loro vita carceraria, di fruire mai di alcun beneficio e che quindi li tiene in una condizione di "morti che camminano". Varese: "Liberi tra le sbarre", oggi una colletta per la dignità dei carcerati varesenews.it, 28 maggio 2016 I ragazzi dell’Oratorio che fanno parte della "Compagnia dei Guerrieri della Luce" raccoglieranno prodotti per l’igiene personale e delle celle. Riuniti sotto le insegne di un gruppo che hanno chiamato "Compagnia dei Guerrieri della Luce" ispirandosi al Vangelo ed al famoso manuale di Paolo Coelho, questi giovani sono costantemente impegnati in molteplici iniziative benefiche, caritatevoli ed educative fra cui la partecipazione alla "Colletta Alimentare", la visita natalizia ai bambini ricoverati presso l’ospedale "Del Ponte" di Varese, i ritiri di meditazione e preghiera nel periodo d’Avvento nel silenzio ascetico di monasteri di clausura. In questa occasione l’impegno dei ragazzi è legato alla famosa opera di misericordia "visitare i carcerati" che loro interpretano porgendo un aiuto concreto nel migliorare la condizioni di vita in collaborazione con l’opera spirituale di Don Giuseppe Pelagatta, cappellano del carcere di Varese, che da qualche anno si dedica quotidianamente ai detenuti. Uno dei problemi principali delle case di detenzione italiane, oltre al sovraffollamento, è quello della assoluta mancanza di generi di prima necessità quali saponette, shampoo, detergenti per l’igiene intima, detersivi per la pulizia della cella, detersivi per le posate, panni per pavimento, fazzoletti di carta, dentifrici, spazzolini da denti, penne e quaderni. Sabato 28 maggio dalle 14.30 alla chiusura dei principali centri commerciali di Ponte Tresa, i ragazzi si impegneranno a raccogliere questi prodotti. I beni raccolti saranno poi consegnati a Padre Giuseppe Pelagatta, cappellano del carcere di Varese, che provvederà personalmente alla distribuzione diretta ai detenuti. Davide Volonnino e Anna Francica, giovani "anziani" responsabili dell’iniziativa sottolineano l’importanza del tema della dignità" dei detenuti: "Noi, guerrieri della luce, seguiamo il percorso della misericordia dettato dal Vangelo dove c’è scritto, tra le tante opere di carità: ero carcerato e mi avete visitato". Sentiamo forte il senso delle toccanti parole dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha denunciato l’insostenibilità delle condizioni nelle carceri italiane, in particolar modo per l’emergenza sovraffollamento e la carenza di personale. Basti pensare che ad oggi i detenuti hanno superato quota 65 mila a dispetto di soli 47.040 posti regolamentari". Sollima, regista di Gomorra: "racconto la camorra senza paura di sporcarmi le mani" di Angelica D’Errico La Stampa, 28 maggio 2016 Al Wired Next Fest di Milano, il regista della popolare serie tv Sky ha parlato dei suoi prossimi progetti, ispirati a Roberto Saviano e Sergio Leone. Dieci anni fa ha cominciato con un esperimento: quello di raccontare la banda della Magliana attraverso gli standard delle serie internazionali. E forse all’epoca non si aspettava che il pubblico italiano - e non solo quello più giovane - avrebbe apprezzato così tanto da non poter fare più a meno di quei canoni. Stefano Sollima, cinquant’anni da pochi giorni, è tornato sul piccolo schermo con la seconda stagione di Gomorra, la serie sulla camorra che dall’Italia ha conquistato il pubblico internazionale. Ma, annuncia al Wired Next Fest dove è stato ospite in questi giorni, non sarà lui a girarne il già confermato terzo appuntamento. Lo abbiamo incontrato su una panchina dei giardini Indro Montanelli, a Milano, e qui ci ha parlato dei suoi prossimi progetti: Zerozerozero, serie ispirata al libro di Roberto Saviano, e Colt, un western nato da un’idea di Sergio Leone. Stefano Sollima, come si racconta la mafia in televisione? "Noi non abbiamo raccontato "la" mafia. Noi abbiamo raccontato "una" mafia, ossia la camorra. Lo abbiamo fatto mettendoci in gioco con un enorme lavoro di documentazione, ma soprattutto con una profonda onestà intellettuale. E senza paura di sporcarci le mani". Quando si racconta la criminalità in tv si dice che si finisce per "tifare per il cattivo". È un rischio che si corre? "Il male in Gomorra non viene idealizzato. Anzi, viene raccontato per quello che è. È uno degli aspetti della nostra società e come tale va riportato in forma di racconto cinematografico e televisivo. La questione del "tifare per il cattivo" ha origini lontane, diciamo dai tempi del neorealismo, quando ci si cominciava a chiedere: "È giusto rappresentare il nostro lato oscuro oppure è meglio lavare i panni sporchi in famiglia?". Onestamente sono gli estremi di una polemica che non mi appassiona". Quali sono i modelli a cui si ispira il tuo racconto? "Io sono un grande consumatore di cinema e di tv internazionale. È uno standard che esiste nel mondo e io, come regista, non me la sentivo di ignorarlo. Così ho scelto di girare secondo i canoni estetici delle grandi serialità estere. Era un esperimento considerando che, sia con la malavita romana di Romanzo criminale ma soprattutto con Gomorra, si tratta di due realtà influenti ma nostrane". C’era grande aspettativa per questa seconda stagione di Gomorra. Come l’avete vissuta durante le riprese? "Non ci abbiamo mai pensato. Credo che sia giusto, per rispettare il pubblico, "ignorarne" le attese: è l’unico modo per fare un buon lavoro. Difatti non abbiamo avuto fretta, ci siamo presi un tempo congruo per riuscire a garantire la stessa qualità e la stessa profondità di racconto". Cosa cambia tra una serie televisiva e un lungometraggio? "Mettiamola così: al cinema decidi di chiuderti in una sala buia per due ore. La serie tv prevede una sorta di investimento emotivo, perché lo spettatore si lega a storie e personaggi. Magari anche consumandola per ore, tutta d’un fiato". E tu come preferisci vedere una serie? Con calma o tutta d’un fiato? "Direi che l’appuntamento settimanale continua a conservare un suo fascino. Ma la libertà di fruizione è un’innovazione impagabile. Una rivoluzione". Al Wired Next Fest hai detto che non parteciperai alla regia di Gomorra 3. Cosa c’è nel tuo futuro lavorativo? "Sto lavorando su due progetti diversi. Uno è Zerozerozero, tratto dall’ultimo libro di Roberto Saviano, una serie in otto episodi prodotta da Studio Canal e Sky. Poi un’idea a cui tengo molto: una miniserie western tratta dall’ultimo soggetto di Sergio Leone. Si chiama Colt: protagonista è una pistola che, passando di mano in mano, funge da testimone nella storia del west. Ma non aggiungo altro, la stiamo ancora scrivendo". Così dall’Egitto alla Turchia si spegne la libertà di stampa Federica Zoja Avvenire, 28 maggio 2016 Giornalisti minacciati, arrestati, espulsi. È allarme. Nel 2015, la libertà di stampa ha toccato il punto più infimo degli ultimi 12 anni. In ogni angolo del pianeta, forze politiche, criminali, terroristiche hanno tentato di zittire i mezzi di comunicazione per tutelare o accrescere il proprio potere. Solo il 13% della popolazione mondiale ha potuto godere di una "stampa libera". E in questa espressione rientrano: una copertura delle notizie politiche accurata e plurale, condotta da giornalisti che lavorano in modo sereno, senza essere minacciati; e perché la stampa sia libera, è necessario che le pressioni sull’editoria, economiche e anche legali, non si facciano sentire e lo Stato si intrometta il meno possibile. Poi, vi è un 41% di popolazione mondiale che ha fruito di media "parzialmente liberi" (anche l’Italia, sì). E infine, il 46% è stato circondato da organi di informazione non liberi. È questo l’affresco che Freedom of the press 2016, rapporto annuale elaborato da Freedom house, organizzazione indipendente per la difesa dei diritti umani, tratteggia su base globale, segnalando alcune situazioni più allarmanti per intensità o sorprendente accelerazione. In particolare, nell’area Mena (Nord Africa e Medio Oriente), su 19 Paesi nessuno ha le caratteristiche per essere definito libero dalla suddetta ricerca e solo 4 godono di una stampa parzialmente libera. I rimanenti sono del tutto non liberi. In questa cornice, però, al netto di Siria e Yemen, per ovvie ragioni difficile da catalogare, Egitto e Turchia sono stati protagonisti delle impennate anti-media più agguerrite. Per acrimonia verso i rappresentanti del quarto potere, l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ha il primato nei Paesi dell’ex Primavera araba: archiviato un 2015 feroce (citiamo, fra i numerosi casi, la condanna all’ergastolo ad Abdullah al-Farkharany e Samhi Mustafa, direttore e cofondatore del sito di informazione Rassd, rei di aver seguito i sit-in dei sostenitori di Morsi nell’estate del 2013), nel solo mese di aprile 2016, 30 giornalisti sono stati arrestati per impedire loro di raccontare le proteste contro la cessione delle isole di Tiran e Sanafir, nel Mar Rosso, all’Arabia saudita. Migliaia di persone - non solo sostenitori della Fratellanza musulmana - hanno sfidato la legge anti-protesta (in vigore dalla fine del 2013, ndr) per dire no alla svendita del territorio ai padrini wahhabiti. Il regime ha cercato di nascondere la rivolta, così come i numerosi scioperi indetti dai sindacati indipendenti da sei mesi a questa parte in tutto il Paese. Con l’incursione nella sede del Sindacato dei giornalisti, il primo maggio, si è assistito a un’escalation. Due giornalisti del sito informativo Bawabet Yanair, che hanno seguito le manifestazioni, sono stati arrestati mentre si trovavano dentro alla sede sindacale, perquisita da un’ottantina di gendarmi. La stretta delle autorità sui giornalisti non risparmia i corrispondenti stranieri: il reporter francese Remy Pigaglio, corrispondente al Cairo da metà 2014 per il quotidiano cattolico La Croix e l’emittente radio Rtl, non è potuto entrare in Egitto al ritorno da una trasferta. Nessuna motivazione è stata addotta al suo arresto all’aeroporto del Cairo: passaporto e telefono gli sono stati sequestrati e restituiti il giorno successivo, dopo una notte trascorsa in cella. La diplomazia francese non ha potuto niente contro la misura di rimpatrio; i colleghi al Cairo, invece, denunciano "la crescente repressione dalle autorità esercitata sui media egiziani e stranieri". Nel frattempo, il regime ha affinato i propri strumenti di controllo: mentre riunioni a porte chiuse fra presidenza, editori e direttori di testata avvengono in modalità ormai routinaria, l’informazione su web è il grande osservato speciale. Nei mesi precedenti il voto parlamentare (un lungo processo elettorale che ha richiesto oltre 60 giorni, nell’autunno del 2015), la creazione di un Consiglio superiore per la cyber-sicurezza ha messo in evidenza il grado di allarme degli apparati statali nei confronti di internet, il mezzo di comunicazione che ha coadiuvato le Primavere. Tipica degli altri media è, invece, l’autocensura degli operatori, inferta a se stessi per non incorrere in multe salate o, ancor peggio, in pene detentive senza ritorno. Cioè quelle previste dalla Legge antiterrorismo entrata in vigore nell’agosto del 2015 (ma già concepita a fine 2013), di ampia copertura e ambiguità linguistica: nel mirino c’è qualsiasi comportamento lesivo dell’unità dello Stato, della sua dignità, immagine, sicurezza, stabilità e altro ancora. Ecco dunque che la tragedia del volo EgyptAir A320 da Parigi a Il Cairo, precipitato al largo della costa egiziana, è l’ennesima occasione in cui verificare in quale terreno minato si muovano i giornalisti egiziani nello svolgere il loro lavoro: le informazioni pubblicate dai mezzi filo-governativi sono solo quelle autorizzate dagli Interni; siccome però non c’è ancora una versione ufficiale definitiva, gli stessi esperti del ministero ed investigatori, seppure assai parchi nelle loro dichiarazioni e spesso anonimi, sono continuamente smentiti dallo stesso ministero. Non solo Freedom of the press, ma anche Reporters without borders assegna a Il Cairo uno degli ultimi posti della classifica della libertà d’espressione, seguito da Riad, Sanaa, Tehran e Manama. È tristemente famoso il blogger attivista per i diritti umani Saif Badawi, saudita, che sconta una pena di mille frustate per offesa all’islam (una modalità di punizione sempre più frequente anche in Bangladesh, in questa prima metà del 2016). I dati sull’Iran invece contrastano con la visione rosea che la stampa occidentale ha dato della recente affermazione dei moderati alle elezioni parlamentari. E riportano alla brusca realtà gli osservatori: ad aprile di quest’anno, 4 giornalisti sono stati condannati a pene detentive comprese fra i 5 e i 10 anni per "aver fatto propaganda contro lo Stato e attentato alla sicurezza nazionale". I mezzi di comunicazione liberi di parlare sono quelli che veicolano le informazioni plasmate dai Guardiani della rivoluzione. O, come ribadiscono gli esuli, quelli editi all’estero. Ma è nella Turchia quasi europea che si registra un precipitare della situazione: muovere una qualsiasi critica nei confronti del presidente Recep Tayyep Erdogan è sempre più rischioso, vista la facilità con cui giornalisti, blogger, utenti del web incorrono nell’accusa di diffamazione, ingiuria, attentato ai simboli della nazione. Nel 2015, le autorità turche, segnala Freedom house, hanno inquisito persino un medico che aveva messo in rete un’immagine ironica del presidente in versione Gollum (celebre cattivo della saga Il signore degli anelli). Detto questo, la questione è assai seria: dai primi anni Duemila in poi, decine di giornalisti sono stati incarcerati in Turchia con svariate accuse: di base, crimini connessi con il terrorismo, curdo o islamista. L’ultima vittima di un meccanismo liberticida collaudato è Can Dundar, direttore del quotidiano Cumhuriyet, condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione per spionaggio, minaccia alla sicurezza dello Stato e sostegno a gruppi terroristici. La testata ha svelato in un’inchiesta la connivenza fra servizi turchi e Stato islamico. Sulla sfondo di questa vicenda ci sono centinaia di reporter che, nel tempo, sono stati convinti ad abbandonare il mestiere. Alle testate ‘irriducibilì, che hanno continuato ad essere critiche nei confronti dell’Akp, il partito di maggioranza Giustizia e sviluppo, dal 2003 sulla cresta dell’onda, sono state bloccate le rotative in modo più sottile: ridotte alla bancarotta, strozzate da multe per presunte evasioni fiscali colossali, sono state comprate da gruppi editoriali o industriali vicini alla presidenza e trasformate in megafoni del potere. E tutto questo perché le elezioni sono libere, ha scritto recentemente l’editorialista di Hürriyet Daily News Mustafa Akyol: "Poiché (Erdogan e i suoi sostenitori) non possono controllare le urne, allora devono influenzare i principali canali di accesso alle menti degli elettori". La Turchia di oggi, conclude amaramente la nota penna, "è una democrazia illiberale". La ricchezza che i migranti offrono alla vecchia Europa di Guido Viale Il Manifesto, 28 maggio 2016 L’Europa comincia a capire che non si tratta di emergenza ma di una questione destinata a durare nei decenni a venire. La questione dei profughi è salita di livello, sbarcando in Giappone, al tavolo del G7, come questione centrale per il futuro del pianeta. Non poteva andare diversamente. L’Austria ha mostrato una popolazione spaccata esattamente a metà tra chi vuole respingerli e chi accoglierli: una divisione che taglia verticalmente partiti, culture, religioni, classi sociali e divide tra loro gli Stati in tutta l’Europa. Una fotografia di umori presenti in tutti i paesi europei. E possiamo stabilire un assioma: chi controlla la maggioranza controlla il Parlamento. Quindi la domanda vera è: le riforme messe in campo sono costruite in modo tale da consegnare a qualcuno il controllo della maggioranza? La risposta è certamente sì, ma non si trova solo nella riforma costituzionale. Bisogna guardare anche ad altro. È a tutti chiaro che per l’Italicum un singolo partito vincente avrà 340 seggi nella Camera dei deputati, la sola camera politica. Ma chi saranno i prescelti? E sarà possibile al premier imbottire l’assemblea con i suoi fedelissimi? In specie se è anche segretario del partito? La risposta è ancora sì. L’Italicum si articola in 100 collegi plurinominali, che cioè eleggono più di un candidato. In ciascun collegio i partiti presentano una lista di pochi nomi: collegi piccoli, liste corte, che, si dice, servono a far conoscere i candidati e a favorire la scelta da parte degli elettori. Ma sono anche utili a predeterminare gli esiti elettorali da parte di chi forma le liste: primo fra tutti, il premier-segretario. Dai collegi dovranno uscire i 340 nomi garantiti dal premio di maggioranza al partito vincente. Ma intanto dobbiamo ricordare che i capilista sono votati insieme alla lista. Per semplicità potremo dire che sono i primi cento che il premier porta a casa, perché certamente nella posizione blindata di capolista a voto bloccato metterà una persona sua, che sarà eletta. Poi per il partito vincente risulterà eletto nel collegio un altro deputato, o più, in base alle preferenze. Essendo pochi i candidati, un’accorta formazione della lista consentirà al premier di mettere nel collegio un paio di candidati a lui vicini, forti e capaci di attrarre preferenze. Completando poi la lista con donatori di sangue che portano voti alla lista, ma non in misura tale da risultare vincenti nelle preferenze: lo studente universitario, la mamma di famiglia, magari persino l’operaio. È la tecnica ben nota di presentare con alcune candidature forti altre volutamente deboli, che non disturbino i candidati veri. Tecnica favorita dalla possibilità di candidare i capilista in più collegi, fino a un massimo di dieci. La leadership del partito vincente potrà decidere nei collegi non solo il pacchetto dei capilista, ma anche un pacchetto di seconde e terze candidature ad alta probabilità di successo. In tal modo il premier segretario che ha l’ultima parola sulle liste potrà assicurarsi la fedeltà di larghissima parte della rappresentanza parlamentare. Qualcuno sfuggirà, ma senza impedire una solida maggioranza nel gruppo parlamentare. La disciplina di gruppo - unitamente a quella di partito - può mettere ai margini ogni forma di dissenso sopravvissuta alla pulizia etnica praticata con le liste. In questo scenario, il premier segretario può determinare la scelta del presidente dell’Assemblea, quella del capogruppo e dei presidenti di commissione, e dirigere per interposta persona la conferenza dei capigruppo e l’ufficio di presidenza dell’Assemblea. Sono gli snodi cruciali della decisione parlamentare. Può altresì incidere sull’elezione degli organi di garanzia, a partire da quella del Capo dello Stato, dei giudici della Corte costituzionale, di componenti di autorità. Inoltre, Renzi dice il vero quando ricorda che è il Capo dello Stato a nominare il primo ministro. Ma chi potrebbe mai nominare se non la persona sostenuta dai 340 blindati dal premio? Nessun altro otterrebbe la fiducia. Ancora, è ben vero che il premier non può direttamente revocare un ministro riottoso. Ma può far votare una sfiducia individuale (ex art. 115 reg. Cam), obbligandolo alle dimissioni. È ben vero che non può sciogliere anticipatamente la Camera. Ma può determinare una impossibilità di funzionamento che costringa il Capo dello Stato a sciogliere: ad esempio con dimissioni cui segua una crisi di governo irrisolvibile per mancanza di una maggioranza alternativa. In più, la riforma offre uno strumento di diretto controllo dell’agenda parlamentare con il voto a data certa su richiesta del governo. Decide l’Assemblea. Ma potrebbe mai decidere contro il volere dei 340? Il potere personale del premier-segretario non si coglie guardando solo alla legge Renzi-Boschi. È nella sinergia tra norma costituzionale, regolamento parlamentare, legge elettorale, partito. La chiave di volta che traduce quel potere nell’istituzione è il controllo della maggioranza parlamentare costruita e blindata dal premio. La battaglia sul referendum costituzionale è pensata per colpire l’immaginario collettivo con slogan populistici di facile presa. Ma è piuttosto l’Italicum l’architrave del potere nel Renzi-pensiero. Che il premier possa addivenire a modifiche sostanziali è l’ultima illusione della minoranza Pd. Austria: al via le espulsioni di rifugiati, la rotta balcanica ora è a ritroso di Angela Mayr Il Manifesto, 28 maggio 2016 La restrizione del diritto d’asilo è precedente al voto delle presidenziali. Il nuovo cancelliere, Christian Kern: "Dobbiamo riconquistare l’egemonia sulla destra riaffermando i principi socialdemocratici". Un presidente della Repubblica verde, Alexander Van der Bellen, che infine ha prevalso sulla destra xenofoba, un nuovo cancelliere, Christian Kern, ex direttore delle ferrovie, non tecnocrate, che ha già dato segnali a sinistra - "dobbiamo riconquistare l’egemonia sulla destra riaffermando i principi fondamentali socialdemocratici", l’opposto della ricorsa a destra praticata dal predecessore Werner Faymann. Potranno cambiare la politica austriaca dei muri verso gli immigrati e i rifugiati? È presto per dirlo. Intanto giorni fa al Brennero è stato aumentato il numero di poliziotti inviati dal ministro degli Interni Wolfgang Sobotka. Mercoledì il presidente della Repubblica uscente Heinz Fischer ha ratificato l’emendamento restrittivo del diritto d’asilo varato dal governo di coalizione tra socialdemocratici e popolari prima dell’arrivo di Kern e dei suoi 4 nuovi ministri. La nuova legge autorizza a respingere qualunque domanda d’asilo nel caso venga proclamato lo stato d’emergenza. Non metterla in discussione è stata una condizione dei popolari per accettare il ricambio radicale al vertice dei socialdemocratici. Kern ha dovuto abboccare, ma ha chiarito che il quando e il come applicare questa legge dovrà essere ancora discusso. Nel suo primo discorso in parlamento ha annunciato di voler aprire l’accesso al lavoro ai richiedenti asilo fin dal loro arrivo per promuovere l’integrazione di chi già è arrivato in Austria. Chi già è arrivato però all’improvviso può anche sparire. Come è successo lunedì a Enzersdorf, un paesino di poche centinaia di anime in Bassa Austria. Domenica c’era una festa, la prima tra la ventina di afghani accolti e gli abitanti che via via hanno lasciato cadere la diffidenza iniziale. Kabeli, riso basmati con carote, uvetta e manzo e altri piatti afgani, performance del Kontaktchor, il coro misto tra afgani e autoctoni, una quattordicenne afgana tiene un discorso in tedesco, già un po’ imparato grazie al lavoro del gruppo locale "Aiutiamo insieme". Clima di allegria e condivisione. Poche ore dopo intorno alle sette del mattino quattro poliziotti bussano alla porta di casa e portano via una giovane famiglia, Naser 28 anni, la moglie Afsaneh 22 anni con i due figli Benjamin di 8 e Ateve di 5 anni. I quattro vengono portati in un centro a Vienna Simmering, Zinnergasse. "Volevo salutarli e portarli cose e soldi" - ci dice Barbara Gabriel che li seguiva da vicino - "ma non mi hanno fatto entrare". La stessa cosa è accaduto agli altri volontari accorsi. Sono disperati, il loro lavoro di supporto, spezzato. Naser doveva terminare la cura dei denti, i bambini iniziare una terapia specialistica per i traumi subìti. Niente. Mercoledì la famiglia è stata espulsa in Croazia. Un caso così detto "di Dublino": secondo l’Austria compete alla Croazia trattare la loro domanda d’asilo. Dalla Croazia rischiano espulsioni a catena verso la Serbia, come già accaduto in febbraio con oltre 200 rifugiati respinti al confine sloveno. La Serbia è considerata un paese non sicuro perché non svolge procedure d’asilo. Insomma una riapertura della rotta balcanica ma a ritroso, in direzione opposta e con destinazione incerta. Il fatto grave e particolare è - ci spiega Roland Hermann consulente legale della Caritas di Vienna - che quella famiglia è arrivata in Austria con la grande ondata di popolo in fuga tra l’estate e l’autunno scorsi, quando il "ce la facciamo" di Angela Merkel sostenuto inizialmente anche dall’Austria, aprì i confini dei paesi di transito. Metterlo in discussione retroattivamente chiamando in causa il regolamento di Dublino? In questo caso non è applicabile perché vale solo nei casi di ingressi "illegali", dice Herman, che sta trattando un altra decina di casi simili. La famiglia di Naser e Ateve in Austria non è arrivata "illegalmente" ma trasportata in autobus dalle autorità. Con i loro bambini sono partiti da Herat in Afghanistan verso la Turchia, sul gommone verso Chios, Atene, Macedonia e da lì sono stati trasportati dalla polizia con treni e bus, da un paese all’altro, fino in Austria. "Anche noi in Austria abbiamo fatto così - dice Herman - ho lavorato a Spielfeld al confine con la Slovenia con la Croce rossa. Abbiamo assistito i rifugiati e organizzato il loro trasporto in Germania". I due ricorsi contro l’espulsione sono stati respinti, l’istanza alla Cassazione è ancora in corso. Utili stellari nel narcotraffico di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2016 In Italia fatturato di 30 miliardi, di cui 20 reinvestiti in ambito economico. Quando la bilancia della Giustizia non basta, ecco che la magistratura ricorre ai numeri per spiegare che la lotta al narcotraffico, così come viene condotta, porterà in breve allo stravolgimento sociale ed economico di un intero Paese, l’Italia, sulla scia di quanto accadrà in tutto il mondo. Alla Dnaa (la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) bastano 37 pagine - puntigliose, schiette e documentatissime, datate marzo 2016 - per mettere in fila le cifre di un dramma ignorato da politica e Legislatore. Una relazione che raggiunge l’apice quando il pool - composto da Francesco Curcio, Maria Vittoria De Simone, Luigi Spiezia e Francesco Mandoi - scrive che, senza una svolta, "la strada che stiamo percorrendo ci condurrà a sistemi economici e sociali nei quali, progressivamente, i beni e i servizi che acquisteremo, i supermercati dove andremo quotidianamente, i ristoranti e gli alberghi in cui ci recheremo con le famiglie, il lavoro che avremo, ci saranno, in larga parte, forniti dalla emanazione di associazioni criminali. In questa prospettiva, inoltre, per una qualsiasi persona onesta, mettersi sul mercato e iniziare una qualsiasi attività economica sarà come partecipare a una gara truccata, perché i concorrenti potranno lavorare in perdita, disponendo di liquidità gratuita e quasi illimitata". L’operazione che nelle scorse settimane ha portato alla confisca di una holding campana attiva nella gestione di molti ristoranti/pizzeria nelle vie di pregio del centro storico di Roma, avvalora plasticamente quanto afferma la Dnaa. Numeri impressionanti - Se nei prossini prossimi sette anni sarà mantenuto il trend di crescita corrente, nel 2020 nel mondo ci saranno 350 milioni di consumatori di droga. Sui 250 milioni di consumatori attuali, quasi un quarto si concentra nella Ue (per Eurostat un europeo su quattro ha fatto uso nel corso della sua vita di sostanze stupefacenti) e nel Nord America e, dunque, si comprende come e perché le principali rotte del traffico non possono che avere come terminale le zone più ricche del pianeta. Secondo Unodc (l’ufficio dell’Onu su droghe e crimine), il narcotraffico, a livello globale, rappresenta il più grande affare per il crimine transnazionale, con l’1% del Pil mondiale, cioè circa 560 miliardi di euro. Le stime sull’incidenza del narcotraffico sul Pil italiano, sempre secondo Unodc, oscillano fra lo 0,4% e il 3,9%, con un valore medio del 2,15 %, pari al valore dell’intera produzione agricola nazionale, ovvero a circa la metà dell’incidenza sul Pil nazionale dell’intera filiera produttiva e commerciale generata dal settore automobilistico (nazionale e no): dai produttori di parti meccaniche fino alla rete dei concessionari. La catena degli utili - Il ciclo economico del narcotraffico ha una capacità di generare utili pari a quasi il 90% del suo fatturato complessivo, un dato che non ha eguali in alcun comparto economico. Ciò vuol dire che ad ogni ciclo acquisto/ trasporto/vendita di narcotici - detratti i reinvestimenti - il 90% circa del complessivo fatturato, essendo in surplus rispetto alle esigenze del commercio, viene necessariamente allocato in settori finanziari, economici e criminali che nulla hanno a che vedere con gli stupefacenti. Tradotto in crudi numeri, a livello globale e avendo come parametro i dati sul fatturato del narcotraffico forniti da Unodc, i gruppi narcotrafficanti reinvestono nei più disparati settori, circa 460 miliardi di euro all’anno, con la conseguenza che negli ultimi 20 anni hanno accumulato investimenti che - ipotizzando prudentemente che non abbiano generato né guadagni ulteriori né perdite - gli consentono di controllare un patrimonio composto da titoli, immobili, aziende, che ammonta a circa 9.200 miliardi di euro. Circa sei volte il Pil italiano e circa il Pil cinese del 2013. E seppure l’attività repressiva avesse colpito un ulteriore 10% di questi patrimoni, avremmo circa 8.300 miliardi di patrimoni mobiliari ed immobiliari in mano ai narcotrafficanti. Il piano nazionale - Sul piano nazionale, considerando il fatturato di circa 30 miliardi di euro annui, detratti progressivamente un 10% di costi, un 10% di investimenti in altre attività criminali e un 10% dovuto all’attività repressiva dello Stato, le mafie narcotrafficanti reinvestono circa 20 miliardi di euro in attività finanziarie ed economiche diverse dal loro specifico settore. Negli ultimi 20 anni, dunque, questa filiera, attraverso attività di riciclaggio, ha consolidato un patrimonio, oramai "ripulito", del valore complessivo di circa 400 miliardi di euro. La rilassatezza dello Stato - Con il paragrafo dedicato alle droghe sintetiche la Dnaa - guidata da Franco Roberti - sviscera la complessiva sottovalutazione del fenomeno da parte di chi ha responsabilità nell’azione di contrasto. In Europa nel 2013 (ultimo dato utile per un raffronto) sono state sequestrate 9 tonnellate fra amfetamine e metamfetamine ma in Italia, dove la diffusione è nella media europea, solo 14 kg (tre volte meno dell’anno precedente), cioè 650 volte meno del complessivo quantitativo sequestrato in Europa. "Si ha la netta evidenza - si legge nella relazione - che non solo gli inquirenti non abbiano neanche un’idea approssimativa dei circuiti criminali che governano questo settore, ma che la stessa normale azione di controllo, quella banale e di routine che si deve svolgere nei luoghi in cui è ovvio che vengano smerciate queste sostanze, è assolutamente carente". In Italia le indagini sulle droghe sintetiche sono a zero ma, anche, all’anno zero, abituati come siano a badare solo al narcotraffico tradizionale. Ecco dunque che appare necessario una svolta radicale visto che, come spiega impietosamente la Dnaa, "nell’attuale situazione il sistema investigativo/repressivo non trova sufficienti stimoli ad autoriformarsi in quanto raggiunge comunque degli obiettivi". Le riforme "minime" - Così, sul piano dell’innovazione delle prassi investigative, è necessario ampliare lo spettro delle attività d’intercettazione (anche grazie a una riforma che obblighi i gestori delle reti di comunicazione via pc, Google, Whatsapp, Facebook, ad avere una sede legale in Italia per evitare sfibranti e lunghissime rogatorie internazionali) verso il mondo delle professioni e della finanza, perché sono loro a spostare la fetta più grande dei miliardi. Queste attività andranno svolte in parallelo con quelle sul vero e proprio narcotraffico perché così sarà possibile cogliere le interazioni fra i due mondi. Le forze dell’ordine devono iniziare a conoscere ambienti nuovi (e, quindi, sia quelli delle droghe sintetiche che quelli ove si pratica il riciclaggio) e i salotti che gestiscono le transazioni finanziarie che si sviluppano parallelamente al traffico attraverso una rete d’informatori di rango più elevato che oggi non esiste. Fondamentale, continua la Dnaa, sarà rivitalizzare l’azione degli agenti sotto copertura, non solo nel tessuto che gestisce l’approvvigionamento dello stupefacente, ma anche in quell’area professionale e finanziaria. Un impulso nuovo - La Procura nazionale - in questa nuova visione di contrasto al narcotraffico - vuole giocare da "prima punta" e non più da spalla. È però necessario che si metta mano ad alcuni istituti procedurali che - pur mantenendo intatta l’autonomia delle Dda nello svolgere le indagini - permettano alla Dnaa d’intervenire laddove ravvisi una vera e propria inerzia, avocando le indagini. Gli strumenti, si legge nella relazione, andrebbero integrati con la previsione di poteri nella gestione del sistema degli agenti sotto copertura, non solo verso gli organi giudiziari ma anche verso la polizia giudiziaria. Senza dimenticare il rafforzamento dei ranghi. Tenuto conto che il numero totale dei pubblici ministeri addetti alle 26 Direzioni distrettuali antimafia è di 166 unità, a ciascun magistrato toccano tre nuovi procedimenti all’anno per il delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Se non si cambia registro, insomma, l’economia e la società saranno narcotizzate. In tutti i sensi. Il traffico di droghe minaccia la sicurezza Ue di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2016 Affari per 25 miliardi all’anno. Il traffico di droga diventa sempre più una fruttuosa attività economica, del valore di quasi 25 miliardi di euro all’anno, secondo un recente rapporto di Europol, la piattaforma di collaborazione delle polizie nazionali in Europa. Sulla scia dei tragici attentati di Parigi e Bruxelles, le autorità comunitarie sono preoccupate dalla possibilità crescente che il commercio di droga diventi uno strumento di finanziamento in mano al terrorismo islamista, grazie anche alle criptovalute. "Il traffico illecito di stupefacenti resta uno dei mercati criminali più importanti e innovativi in Europa, diventando sempre più complesso e strettamente associato ad altre forme di criminalità, e addirittura al terrorismo", ha spiegato in una recente conferenza stampa il direttore di Europol, l’inglese Rob Wainwright, presentando un impressionante rapporto di 188 pagine. "Non vi è un legame sistematico tra terrorismo e traffico di droga. Ma il rischio va seguito da molto vicino". Sempre secondo Wainwright, il traffico di droga è "una delle principali minacce per la sicurezza interna dell’Unione", ed è perciò "essenziale una cooperazione transfrontaliera delle autorità di contrasto per ridurne la portata e l’impatto". Le nuove tecnologie, secondo le autorità europee, stanno avendo un ruolo importante nel facilitare il lavoro delle organizzazioni criminali, accorciando grazie a Internet la catena che lega il produttore al commerciante e infine al cliente. Inoltre, i software di anonimato e le criptovalute offrono nuove opportunità economiche per il mercato degli stupefacenti online. Peraltro, non solo, il commercio illegale di droga ha in Europa un valore di quasi 25 miliardi di euro all’anno, ma secondo l’Europol esso stesso influenza negativamente anche l’economia. "Attività economiche e attivi di valore sono acquistati per riciclare il denaro sporco. Questi investimenti hanno un effetto distorsivo sull’economia legale", si legge nel rapporto. Secondo il commissario responsabile per gli affari i nterni, Dimitri Avramopoulos, "la criminalità legata alla droga sfrutta abilmente i flussi globali dei trasporti, delle merci e delle persone e rappresenta anche una minaccia per la sanità pubblica. Usa le nuove tecnologie e internet, la crescita del commercio mondiale e delle infrastrutture commerciali per espandere rapidamente le proprie attività criminose a livello internazionale". Gli esperti comunitari del settore hanno notato come negli ultimi tempi vi sia una concentrazione geografica delle organizzazioni criminali specializzate nel traffico della droga. Mentre l’eroina giunge in Europa via Afghanistan attraverso il Caucauso meridionale, la marijuana parte principalmente dai Balcani e utilizza l’Olanda come piattaforma continentale. La cocaina, invece, proviene soprattutto dall’America Latina, via mare. Al di là della chiave di lettura con cui capire il fenomeno del traffico di droga, il rapporto contiene interessanti statistiche su un fenomeno che ha un impatto economico diretto e indiretto. La droga più utilizzata è la canapa (vale a dire la marijuana). Si stima che venga usata regolarmente da 22 milioni di europei e che rappresenti un giro d’affari di 9,3 miliardi di euro all’anno. È seguita dall’eroina (6,8 miliardi di euro) e dalla cocaina (5,7 miliardi di euro). A Strasburgo il meeting europeo dei cappellani penitenziari it.aleteia.org, 28 maggio 2016 Le persone in detenzione e la Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri, il tema della prevenzione contro ogni forma di tortura, le linee guida del Consiglio d’Europa sulla radicalizzazione nelle carceri, la spiritualità del cappellano penitenziario e la celebrazione del Giubileo della Misericordia, sono alcuni dei temi che saranno affrontati a Strasburgo (30 maggio - 1 giugno) in occasione dell’Incontro Europeo dei Cappellani Penitenziari. L’incontro, promosso dal Ccee (Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa), dalla Missione Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa e dalla Commissione Internazionale della Pastorale Cattolica nelle Carceri (Iccppc) si svolge sotto gli auspici del Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland. "Nelle carceri di tutto il mondo, vi è una grande fame di attenzioni e di incontri, di risposte a bisogni spirituali. L’isolamento, la convivenza forzata e il sovraffollamento di molte prigioni, favoriscono i processi di radicalizzazione di persone che spesso non sanno come uccidere il tempo", lo afferma padre Brian Gowans, Presidente del Iccpc, e prosegue "Rispondendo all’invito evangelico "Ero prigioniero e siete venuti a trovarmi" (Mt. 25) noi cappellani nelle carceri rompiamo quest’isolamento, e siamo spesso in prima linea non solo nella lotta alle varie forme di radicalizzazione ma anche nel identificare e proteggere alcuni diritti fondamentali dei detenuti, tra cui quello all’esercizio della propria religione". "Il Ccee partecipa all’organizzazione di quest’incontro cosciente della tragedia umana e sociale che un uso improprio della religione per scopi violenti e volto al terrorismo reca all’intera società. Invece della radicalizzazione, la Chiesa offre la misericordia che porta a scoprire che una vita nuova è possibile. La cura pastorale dei nostri cappellani parte da lì, da questo amore incondizionato per l’uomo e la sua dignità. La condanna per i misfatti del detenuto, la lasciamo all’ordinamento giuridico degli Stati" afferma Monsignor Duarte da Cunha, Segretario generale del Ccee, e prosegue, "con l’Anno della Misericordia indetto da Papa Francesco stiamo vivendo un tempo in cui ci impegnammo perché nessuno pensi essere dimenticato da Dio. Per la Chiesa sono infatti vincolanti le parole di Gesù che si è identificato con il prigioniero e le ha sfidato con il suo amore incondizionato. L’incontro di Strasbourg avrà anche quindi questo scopo: aiutare i cappellani a fare vivere ai detenuti il Giubileo della Misericordia dei Carcerati che sarà celebrato anche a Roma il 6 novembre prossimo." Circa 60 partecipanti provenienti da 23 Stati membri prenderanno parte all’evento. Oltre a cappellani cattolici incaricati della pastorale nelle carceri a livello nazionale, parteciperanno anche alcuni cappellani di Chiese ortodosse e protestanti, un gruppo di musulmani coinvolti nella stessa attività e rappresentanti del Consiglio d’Europa, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e di altre Istanze internazionali (Comece, Fiacat…). Al termine della sessione di martedì 31 maggio, che si terrà presso il Consiglio d’Europa, il Ccee e l’Iccppc presenteranno alcune conclusioni riguardanti la lotta contro la radicalizzazione e il loro impegno per la promozione della dignità umana. Italia-Costarica: Orlando firma trattati cooperazione giudiziaria ed estradizione giustizia.it, 28 maggio 2016 Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato oggi con il Ministro degli Affari Esteri e Culto della Repubblica del Costa Rica, Manuel A. Gonzalez Sanz, due trattati bilaterali in materia rispettivamente di assistenza giudiziaria penale e di estradizione. La firma dei due trattati ha avuto luogo nel corso di una cerimonia presso la Sala Livatino del Ministero della Giustizia, nell’ambito della visita ufficiale in Italia del Presidente della Repubblica del Costa Rica Luis Guillermo Solìs. Con la stipula di tali accordi si completa e si aggiorna la cornice normativa in tema di cooperazione giudiziaria penale tra i due Paesi, ad oggi costituita esclusivamente dalla Convenzione Europea sul trasferimento delle persone condannate del 1983 e da un obsoleto Trattato bilaterale di assistenza ed estradizione del 1873. La loro conclusione rappresenta un significativo sviluppo verso il rafforzamento degli strumenti di cooperazione giudiziaria fra i due Paesi, specie nel quadro dei comuni obiettivi di lotta al crimine organizzato e al narcotraffico, alla corruzione e al terrorismo e conferma l’ottimo livello delle relazioni fra Roma e San José. I due accordi potranno agevolare l’attività d’indagine dell’Autorità Giudiziaria italiana, la collaborazione con la Magistratura costaricense e il conseguente perseguimento dei reati, in particolare quelli legati al traffico internazionale di stupefacenti, fenomeno che vede stabili collegamenti fra i cartelli attivi nella regione e le organizzazioni criminali italiane. Sud Sudan: decine di detenuti rischiano la morte all’interno di container di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 maggio 2016 Ricevono cibo solo due volte alla settimana, l’acqua è del tutto insufficiente e manca l’aria. Decine di persone rischiano la morte per fame, sete o soffocamento all’interno di quattro container per la navigazione situati nel centro di detenzione di Gorom, 20 chilometri a sud della capitale sudsudanese Juba. Periodicamente, i detenuti vengono fatti uscire dai container ma solo per essere picchiati dai soldati. Dopo le agghiaccianti testimonianze uscite da Gorom che riferiscono anche di detenuti già morti, Amnesty International ha ottenuto la prova della presenza dei container, portati all’interno del centro di detenzione di Gorom nel novembre 2015, attraverso immagini satellitari fornite da Google Earth / DigitalGlobe. I detenuti, per la maggior parte civili, sono sospettati di aver simpatizzato con gli ex ribelli del Movimento popolare per la liberazione del Sudan / Esercito all’opposizione (SPLM/A-IO), che ora, dopo una sanguinosa guerra civile, fa parte del governo di unità nazionale. Gli internati dei container di Gorom non hanno alcun contatto con avvocati e familiari e non sono mai stati portati di fronte a un giudice. Amnesty International ha contattato il general maggiore Marial Nour, direttore dei servizi di sicurezza, chiedendo di conoscere i nomi delle persone trattenute nei container di Gorom e le imputazioni a loro carico, così come i nomi dei detenuti già deceduti. L’organizzazione per i diritti umani ha anche scritto al presidente Salva Kiir, comandante in capo delle forze armate del Sud Sudan (in divisa militare nella foto), chiedendogli di intervenire per porre fine a questa situazione. Neanche due mesi fa, Amnesty International aveva denunciato la morte, provocata deliberatamente da soffocamento, di oltre 60 uomini e ragazzi in container dello stesso tipo di quelli usati a Gorom, stavolta in un centro di detenzione improvvisato a Leer. Argentina: pesanti condanne a militari per l’operazione Condor La Repubblica, 28 maggio 2016 Un tribunale di Buenos Aires ha inflitto pene tra gli otto e i 25 anni di reclusione a esponenti della dittatura, tra i quali Reynaldo Bignone, capo dell’ultima giunta. Le accuse riguardavano il piano per l’eliminazione degli oppositori nei Paesi del cono sud dell’America latina. Dure condanne contro alcuni militari argentini al termine di un processo sul "piano Condor", il programma che tra gli anni 70 e gli 80 i regimi militari sudamericani organizzarono per reprimere le opposizioni politiche. Un tribunale di Buenos Aires ha inflitto pene comprese tra gli otto e i 25 anni di reclusione a 15 dei 17 imputati, giudicati colpevoli di aver messo in atto un piano concordato tra le dittature del Sud America per sopprimere gli oppositori. Tra gli altri, sono stati condannati a 25 anni di carcere Santiago Riveros, Manuel Cordero Piacentini e Miguel Angel Furci. E a 20 anni Reynaldo Bignone, il capo dell’ultima giunta militare argentina, oggi ottantottenne. A Buenos Aires il processo viene considerato "storico" in quanto per la prima volta sono stati giudicati crimini commessi nell’ambito della "associazione illecita transnazionale". Il piano puntava appunto all’eliminazione degli oppositori alle dittature nei Paesi del cono sud dell’America Latina, e cioè Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Paraguay e Uruguay. Un piano che portò alla morte di 106 persone (45 uruguayani, 22 cileni, 15 paraguayani, 13 boliviani, dieci argentini e un ecuadoregno). Il verdetto è arrivato 16 anni dopo il primo processo. Inizialmente gli imputati erano 22, ma cinque sono deceduti - tra loro il dittatore Jorge Rafael Videla - oppure la loro posizione è stata archiviata per motivi di salute.