"Metodo Farinacci", stavolta tocca a Manconi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 27 maggio 2016 Stavolta la spedizione punitiva ha puntato Luigi Manconi. Azione lampo, dalle colonne del "Fatto Quotidiano". Capo-spedizione, per l’occasione, non direttamente Travaglio ma Bruno Tinti, ex magistrato e ora commentatore. L’articolo-manganello è pubblicato nella pagina dei commenti ed è intitolato: "Amnistia e indulto ora si chiamano "politica di diritto". Tinti spiega che lo strumento dell’amnistia (utilizzato, via via negli anni della Repubblica, da noti sovversivi come De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Leone, Spadolini e svariati altri, e poi invocato da Wojtyla e da Bergolgio sfuggiti alle galere polacche e argentine) è il massimo dell’ingiustizia e non ha niente a che fare con lo stato di diritto. L’opinione di Tinti, che peraltro sicuramente è maggioritaria, è legittimissima. C’è solo un breve passaggio dell’articolo, che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Lo trascriviamo: "La ragione di tanto interesse potrebbe consistere nella consapevolezza che saranno gli stessi politici a beneficiarne. Insomma, il consueto e spregevole conflitto di interessi. Questa ragionevole supposizione è rafforzata dalle ridicole motivazioni che Manconi e i suoi complici...". In sole 38 parole Tinti liquida Manconi come politico "ridicolo", come delinquente (uno che ha dei complici evidentemente è un delinquente) e lo indica come destinato alla galera. Ecco, è esattamente questo il "metodo Farinacci" (quello del "santo manganello") al quale accennavamo nell’articolo che abbiamo pubblicato ieri su Il Dubbio. Aggredire l’avversario, insultarlo, calunniarlo, cercare di demolirlo. Luigi Manconi, magari, se ne infischierà delle invettive di Tinti. Però, almeno un pochino, questo tipo di giornalismo "squadristico" preoccupa. Amnistia e indulto ora si chiamano "politica di diritto" di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2016 Immaginate un sondaggio semplice semplice: sei d’accordo sul perdono, senza se e senza ma, per quelli che hanno commesso reati lievi come furti in supermercato, truffe, appropriazioni indebite, lesioni non gravi, guida senza patente o in stato di ubriachezza, ingiurie, minacce (si chiama amnistia)? Non li processiamo nemmeno; oppure, se il processo è iniziato, li rispediamo a casa con tante scuse. E sei d’accordo sull’abbonare tre anni di prigione a tutti quelli che hanno commesso reati anche gravi come rapine, estorsioni, violenze carnali, corruzione, falsi in bilancio, frodi fiscali (si chiama indulto)? Pene da sei anni in giù non si scontano, li assegniamo direttamente ai servizi sociali. Credo che la stragrande maggioranze dei cittadini si chiederebbe se chi ha commissionato il sondaggio è matto: perché diavolo un delinquente non dovrebbe andare in prigione? Ha commesso reati, ci sono parti offese giustamente arrabbiate, che almeno si sconti la sua pena. E tuttavia la politica è in fibrillazione di fronte alla proposta di un senatore del Pd, Luigi Manconi, che ha colto la palla al balzo e, "in omaggio a Pannella", chiede di modificare la Costituzione e rendere sufficiente la maggioranza assoluta (significa la maggioranza dei parlamentari, 475 su 951) per approvare amnistia e indulto; adesso servono i due terzi, 634, il che - naturalmente - rende la cosa più difficile. CHIUNQUE si chiederebbe perché mai la politica è così interessata a un progetto che fa giustamente schifo alla cittadinanza. Esclusa l’eventualità che i partiti siano composti da anime pie, missionari dediti al perdono delle debolezze umane; la ragione di tanto interesse potrebbe consistere nella consapevolezza che - presto o tardi - saranno gli stessi politici a beneficiarne. Insomma, il consueto e spregevole conflitto di interessi. Questa ragionevole supposizione è rafforzata dalle ridicole motivazioni che Manconi e i suoi complici hanno espresso a sostegno della loro proposta. Secondo Manconi, il fatto che, dal 2006 - a causa della elevata maggioranza richiesta - non si è mai riusciti ad approvare amnistie e indulti è "assolutamente negativo perché ha sottratto questi provvedimenti alla loro principale destinazione: essere strumento di politica di diritto destinato a ridurre in modo significativo la presenza nelle carceri e l’accumulo delle cause pendenti". Da non credere: non mettere in prigione chi ha commesso reati è "politica di diritto"; ridurre la popolazione carceraria concedendo l’impunità ai delinquenti è "politica di diritto"; diminuire i processi (con l’indulto non si diminuisce un accidenti: si deve fare il processo e, alla fine, se non si assolve, si condanna con la formula abbiamo scherzato, tre anni te li abbuoniamo subito) è "politica di diritto". Non manca l’indignato ricordo delle inaccettabili condizioni carcerarie. Che, se reali fossero, dovrebbero essere risolte costruendo nuove e migliori carceri e non rimettendo in strada i delinquenti che, ricominciando immediatamente a delinquere, provocherebbero un nuovo superaffollamento e un aumento immediato di quei processi che si volevano diminuire. Insomma, questa gente non capisce che amnistia e indulto, oltre a essere immorali, sono politicamente idioti perché criminogeni, come qualsiasi condono. L’impunità incoraggia la recidiva. Ma in verità lo capiscono benissimo; però di un’uscita di sicurezza si sentiva proprio il bisogno. La morte di Pannella è stato un assist insperato. Compagna: "amnistia vietata dalla dittatura del moralismo" di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2016 Parla il senatore Luigi Compagna, firmatario del "ddl Pannella". È bastato poco: una settimana esatta. Nelle ore successive alla sua scomparsa Marco Pannella è stato celebrato da tutti come una tra le figure di cardine della storia politica italiana. Sette giorni dopo, la sua battaglia della vita, quella per l’amnistia, è già liquidata come "immorale, politicamente idiota e criminogena come qualsiasi condono". Parole che l’ex magistrato Bruno Tinti scomoda in verità non per il compianto leader radicale ma per il gruppo di parlamentari che in suo nome vuole cambiare il quorum per amnistia e indulto. Tinti sferra l’attacco dalle colonne del Fatto quotidiano di ieri. Tra i destinatari, con Luigi Manconi, c’è anche il senatore "fittiano" Luigi Compagna. Ecco, senatore: si è passati un po’ troppo in fretta dalle elegie alle male parole, per dirla nel vernacolo napoletano che le è familiare. E sì, noi forse saremo stati ineleganti e frettolosi nel dedicare la proposta di legge a Marco Pannella, ma sono ancora più ineleganti e frettolose le parole di Bruno Tinti. Lei è sempre un signore... Da quel discorso si coglie una certa tenacia nel non voler tenere presenti i termini della questione: amnistia e indulto sono misure previste dalla Costituzione. Ma poi perché Manconi, lei e gli altri sareste stati ineleganti? Avete solo smascherato l’ipocrisia delle orazioni pro Pannella. Ecco, sì, ha capito. E la nostra proposta di legge mira solo a rimettere i provvedimenti di clemenza nella disponibilità del Parlamento. Perché, adesso non lo sono? E no, non lo sono da quando nel 1992 il quorum fu innalzato alla soglia dei due terzi articolo per articolo. E questo avvenne perché proprio in quel momento la casta dei magistrati cominciò a erigere le inviolabili mura del proprio quotidiano esercizio del moralismo di massa. Condizionarono le scelte del Parlamento, da allora amnistia e indulto sono di fatto preclusi. Da allora l’equilibrio tra i poteri si è alterato? Fino al 1992 c’erano sensibilità politiche, tra i socialisti, tra i democristiani... dopodiché siamo stati sommersi dall’onda del moralismo di massa, che è il senso comune gramsciano e che infatti si afferma in termini di egemonia. Se magari prima di parlare gli egemoni verificassero i dati scoprirebbero che, diversamente da quanto sostiene Tinti, la recidiva tra i beneficiari dell’indulto 2006 è ridotta esattamente della metà rispetto agli altri detenuti... Ma infatti non c’è un linguaggio comune possibile. Il presidente dell’Anm ha detto testualmente che i politici continuano a rubare con la differenza che non si vergognano più. Quella di Tinti è una variante lessicale dello stesso concetto. In effetti Manconi viene additato come il capo di una banda di politici malfattori che si vuol precostituire il salvacondotto. Lei e gli altri cofirmatari siete i suoi "complici", testuale... Gli vorrei rispondere che siamo colpevoli per aver commesso il fatto: e non solo abbiamo proposto di abbassare il quorum ma siamo prontissimi a votare i provvedimenti di clemenza. A Davigo invece potrei rispondere: e tu, magistrato, non ti vergogni dei mille giorni di custodia cautelare del mio amico Nicola Cosentino? Lo vede, senatore? Siamo dalla parte del male assoluto... Ma in fondo che c’è di male nel desiderare che ci sia meno gente in galera? E poi l’attenzione nei confronti del detenuto è un patrimonio irrinunciabile delle sensibilità liberale, cristiana, della grande letteratura politica, di Victor Hugo. Cosa c’entra lei con Manconi? Nulla. I nostri percorsi sono completamente antitetici l’uno all’altro. Ma ci sono princìpi che possono essere declinati in una forma soltanto. E insieme diamo ragione a Pannella quando dice che in un Paese ordinato viene prima la riforma della giustizia e poi la misura di clemenza ma che in Italia la misura di clemenza è diventata impossibile. Detenuti in sciopero contro l’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2016 Sciopero dei detenuti per il superamento dell’ergastolo ostativo. Dal primo giugno partirà una mobilitazione collettiva che interesserà diverse carceri e liberi cittadini contro l’ostatività, illegittima, dell’ergastolo. Sarà una mobilitazione contro quella condanna che non lascia alcuno spazio di speranza per il detenuto contravvenendo ai principi rieducativi della pena. Oltre ai detenuti e singoli cittadini stanno aderendo diverse associazioni che operano nel campo dei diritti umani. L’appello evidenzia anche l’incostituzionalità di una modifica normativa che nel 2009 ha inserito tra i reati del 4 bis anche quelli commessi con finalità di aiuto alle associazioni mafiose al di là della contestazione della aggravante dell’art. 7 dl. 152 del 1991. In tal modo la novella di legge ha travolto in modo retroattivo nell’ostatività anche fatti assai remoti e dapprima da essa esclusi in assenza della contestazione della aggravante speciale. L’ergastolo ostativo ce lo spiega molto bene un ergastolano, promotore di una iniziativa popolare presentata in parlamento, Carmelo Musumeci nel suo libro "Gli uomini ombra": "Pochi sanno che i tipi di ergastolo sono due: quello normale, che manca di umanità, proporzionalità, legalità, eguaglianza ed educatività, ma ti lascia almeno uno spiraglio; poi c’è quello ostativo, che ti condanna a morte facendoti restare vivo, senza nessuna speranza. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario, nel senso che, per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore ha previsto un regime speciale, che si risolve nell’escludere dal trattamento extra-murario i condannati, a meno che questi collaborino con la giustizia: per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. L’ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell’incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità non esiste neppure più. Dal 1992 nasce l’ergastolo ostativo, ritorna la pena perpetua, o meglio la pena di morte viva". Sono centinaia i reclusi rassegnati all’idea di uscire di prigione solo a bordo di un carro funebre. Anche ammettere la propria colpa ma tacere le responsabilità altrui, è causa di ergastolo ostativo. "Il dettato costituzionale è chiaro, quindi se l’ordinamento non prevede la possibilità di uscire dal carcere a condizioni raggiungibili, la pena dell’ergastolo va contro l’articolo 27 della Costituzione", ha detto Valerio Onida, presidente della Corte Costituzionale dal 1996 al 2005, in una riflessione apparsa su un numero della rivista del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Le due città. Anche Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si è espresso contro l’ergastolo ostativo. Lo aveva ribadito durante l’ultimo congresso dell’associazione radicale di "Nessuno Tocchi Caino", dedicato proprio all’abolizione dell’ergastolo. "L’ergastolo ostativo - secondo Santi Consolo - prima non c’era. Prima l’articolo 176 del codice penale era compatibile con l’articolo 27 della Costituzione, che parla di umanità, cioè di speranza, e se non si ha speranza come si può migliorare? Come è successo allora tutto questo? Perché abbiamo avuto gli anni di piombo". Il capo del Dap ha chiarito che "da un lato ci siamo calati in un regime differenziato, il 41bis, e dall’altro c’è stata l’incentivazione della legislazione premiale fino a prevedere, e lì c’è la violazione della Costituzione che ci porta ad essere incostituzionali, che c’è uno sbarramento alla liberazione condizionale laddove non c’è collaborazione". E ha concluso: "Auspico che il sistema italiano in fatto e in diritto offra la possibilità che in regime di ergastolo ci possa essere la liberazione anticipata". Che l’ergastolo sia inumano e che vada data la possibilità al detenuto di reinserirsi nella società, lo ha ribadito recentemente anche il comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti tramite il 28esimo rapporto annuale relativo all’attività nel 2015. Nel rapporto, è dedicata una particolare attenzione alla diffusione dell’ergastolo che non è compatibile con l’intento rieducativo e di reinserimento cui ogni pena detentiva deve tendere. "È inumano ? scrive il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, Mykola Gnatovskyy - imprigionare una persona per tutta la vita senza offrire alcuna prospettiva di liberazione". Pertanto, il Comitato europeo ha chiesto agli Stati di rivedere le condizioni dei detenuti condannati all’ergastolo perché ogni trattamento deve in ogni caso essere orientato a consentire alle persone ristrette di poter rientrare a far parte della società. Di qui la richiesta di programmi individuali e personalizzati, con l’eliminazione di ogni regime automatico senza una valutazione delle condizioni dei singoli detenuti. Il Cpt è un organismo internazionale che attraverso mezzi non giudiziari cerca di rafforzare la realizzazione degli obblighi contenuti nell’art. 3 della convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Non è la prima volta che bacchetta gli stati membri sulla questione dell’ergastolo. Durante alcune delle sue visite, il cpt ha riscontrato gravi restrizioni che non fanno altro che esasperare gli effetti deleteri insiti nelle pene a lungo termine. Un esempio di tali restrizioni è la separazione permanente degli ergastolani dal resto della popolazione carceraria. Il comitato europeo per la prevenzione sulla tortura è contrario all’applicazione indiscriminata di restrizioni a categorie di detenuti condannati all’ergastolo, senza considerare nel modo dovuto il rischio individuale che possono (o non possono) costituire. Inoltre il comitato ha ricordato spesso che la detenzione di lunga durata può avere una serie di effetti de-socializzanti sul condannato. Gli effetti negativi dell’istituzionalizzazione sui detenuti per pene lunghe saranno meno pronunciati se ad essi sarà consentito il contatto con il mondo esterno. La banca dati del Dna al via: archivio ad hoc per confrontare profili dei detenuti di Giovanni Galli Italia Oggi, 27 maggio 2016 Arriva la banca dati del Dna. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 di ieri, è stato pubblicato il dpr 7 aprile 2016, n. 87 "Regolamento recante disposizioni di attuazione della legge 30 giugno 2009, n. 85, concernente l’istituzione della banca dati nazionale del Dna e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna, ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 85 del 2009". Il dpr, in vigore dal 10 giugno prossimo, a distanza di sette anni attua l’art. 5 della legge 30 giugno 2009, n. 85 e giunge alla fine di una gestazione durata un anno e mezzo. Esso disciplina l’archivio che servirà per la raccolta e il raffronto dei profili del Dna di cinque categorie di persone: coloro ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari, chi viene arrestato in flagranza di reato o sottoposto a fermo di indiziato di delitto, i detenuti e gli internati per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo, coloro ai quali è applicata una misura alternativa al carcere sempre per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo e quelli che scontano una misura di sicurezza detentiva in via provvisoria o definitiva. La cancellazione dei profili del Dna e la distruzione dei campioni biologici è prevista nei seguenti casi: a seguito di assoluzione con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso, perché il fatto non costituisce reato; a seguito di identificazione di cadavere o di resti cadaverici, e del ritrovamento di persona scomparsa; quando le operazioni di prelievo sono state compiute in violazione delle disposizioni previste dall’art. 9 della legge 85/2009 in tema di prelievo di campione biologico e tipizzazione del profilo del Dna; decorsi i termini stabiliti dall’art. 25 del regolamento sui tempi di conservazione dei profili del Dna. Il regolamento disciplina inoltre lo scambio dei dati sul Dna per le finalità di cooperazione transfrontaliera di cui alle decisioni del Consiglio dell’Unione europea n. 2008/615/Gai e n. 2008/616/Gai del 23 giugno 2008, riguardanti il potenziamento della cooperazione transfrontaliera soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera e per finalità di collaborazione internazionale di polizia ai sensi dell’art. 12 della legge 85/2009. La banca dati del Dna si occuperà di facilitare le attività di identificazione delle persone scomparse, mediante acquisizione di elementi informativi della persona scomparsa allo scopo di ottenere il profilo del Dna e di effettuare i conseguenti confronti. Sarà collocata presso il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno, mentre il laboratorio centrale sarà presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - direzione generale dei detenuti e del trattamento, del ministero della giustizia. Il regolamento stabilisce le tecniche e modalità di acquisizione dei campioni biologici, di gestione e tipizzazione dei profili del Dna, nonché di alimentazione della banca dati, di trattamento e di accesso per via informatica e telematica ai dati raccolti nella banca dati e nel laboratorio centrale. Vengono previste disposizioni per la consultazione della Banca dati per finalità di cooperazione transfrontaliera, che regolamentano lo scambio di informazioni e la protezione dei dati personali trasmessi o ricevuti, attraverso l’individuazione della finalità del trattamento dei dati e la previsione di verifiche in ordine alla qualità degli stessi e alla liceità del relativo trattamento. Disciplinate anche le tecniche e modalità di analisi dei campioni biologici e dei profili di Dna estratti, e fissati i tempi di conservazione dei campioni biologici e dei profili del Dna estratti. Individuate inoltre le attribuzioni dei responsabili della Banca dati e del Laboratorio centrale e le attività del comitato nazionale per la bio-sicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita, al fi ne di garantire che siano osservati i criteri e le norme tecniche per il funzionamento del Laboratorio centrale e dei laboratori che lo alimentano. Istituite le Commissioni dell’Anm per riformare la giustizia: sono 14 di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 maggio 2016 Anche l’Anm darà il proprio fattivo contributo all’elaborazione di disegni di legge da parte del ministero della Giustizia. E per non farsi trovare impreparato, il sindacato delle toghe ha provveduto a istituire delle commissioni di studio che approfondiranno i possibili interventi. Una di queste è presieduta dal sostituto procuratore Antonio Sangermano, il pm che ha sostenuto l’accusa al primo processo Ruby. Sono circa 340 i magistrati che faranno parte delle 14 commissioni permanenti di studio dell’Anm. Le nomine sono avvenute al termine della riunione del Comitato direttivo centrale di sabato scorso a Roma. Le linee guida sulle modalità del loro funzionamento saranno stabilite nella riunione della giunta esecutiva fissata per oggi. Le commissioni, per ognuna delle quali è stato previsto un presidente ed almeno un coordinatore, si occuperanno di elaborare proposte in materia di carichi di lavoro, di revisione delle circoscrizioni e delle piante organiche, di modifica dell’ordinamento giudiziario. Ma anche il diritto penale, civile, e del lavoro passerà sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati. Che, oltre a proporre soluzioni in tema di esecuzione penale e carcere, si esprimeranno su argomenti come il disciplinare e il diritto sovranazionale. Si può tranquillamente affermare, dunque, che tutte le tematiche inerenti il sistema giustizia del Paese saranno accuratamente affrontate dal sindacato delle toghe. Il ministro Andrea Orlando, anche per smorzare le polemiche delle ultime settimane, ha accolto con favore l’offerta di collaborazione dell’Anm. Anzi, nell’ultimo incontro con i vertici dell’Associazione presieduta da Davigo, avrebbe anche richiesto la sistematica partecipazione consultiva del sindacato togato nella fase di predisposizione delle norme primarie e secondarie. Un successo non da poco per l’Anm, per lo stesso Davigo e per la magistratura nel suo complesso, visto che appositi pareri sulle leggi sono già formulati dal Consiglio superiore. Considerando, pertanto, che i posti chiave dei vari dicasteri, a cominciare da quello di via Arenula, sono per la maggior parte occupati da magistrati, i quali sono anche ai vertici dei vari uffici legislativi, l’intero processo di elaborazione delle norme sarà dunque una partita tutta interna alla magistratura. Dalla stesura delle leggi alla loro applicazione. Con buona pace, quindi, del principio della separazione dei poteri. Tra i nomi di giudici e pm chiamati a guidare le commissioni di studio ne compaiono alcuni di una certa notorietà. Ad esempio, Antonio Sangermano, il pm che sostenne l’accusa al processo Ruby, presiederà il gruppo istituito per approfondire la "Riforma dell’ordinamento giudiziario". Sarà affiancato da Mariolina Panasiti, già gip del caso Telecom e attuale segretario distrettuale di Mi a Milano. A guidare il gruppo "Diritto penale e procedura penale" sarà il pm di Roma Eugenio Albamonte, che ha sostenuto l’accusa al processo per l’omicidio del tifoso del Napoli Ciro Esposito. Prescrizione, stop dopo il primo grado. Il blitz di Casson scatena l’ira di Ncd di Francesco Grignetti La Stampa, 27 maggio 2016 Colpo di scena, maturato negli ambienti dem del Senato: il meccanismo della prescrizione potrebbe cambiare radicalmente, interrompendosi dopo la sentenza di primo grado. È la stessa logica dei magistrati dell’Anm, rilanciata di recente da Piercamillo Davigo. Ed è anche la proposta che i grillini appoggiano da sempre, non per caso entusiasti della accelerazione che porta le firme dei relatori Felice Casson e Giuseppe Cucca, Pd. Però c’è un però. Questa novità, che il governo e il Pd avevano pure vagliato in prima istanza e poi scartato, non pare essere stata concordata né con il resto della maggioranza, né con il gruppo dirigente del partito. Spiega Casson, che da tempo sostiene questa idea di bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: "Come relatori abbiamo presentato 9 emendamenti, traendoli da vari ddl presentati dal Pd". In effetti si è ispirato a un ddl a sua firma. Quel che potrebbe anche funzionare nell’Aula del Senato, però, rischia di scassare l’intero quadro politico. Non per caso, a interpellare telefonicamente il ministro Enrico Costa, Ncd, si ottiene un commento gelido: "Non ci credo che un emendamento simile sia stato presentato dai relatori". È tale l’ira degli Ncd che un esponente di primo piano sibila: "Se credono di costringerci a trattare sotto la minaccia della bomba atomica, si sbagliano di grosso. Vogliono che i processi durino 30 anni? Si accomodino. La prescrizione, se diventa così, se la votassero con i Cinque Stelle. Che li fregheranno come hanno fatto con le Unioni civili". Il colpo di scena arriva in un diluvio di 800 emendamenti. La riforma del processo penale, infatti, ha ripreso la marcia in commissione Giustizia di palazzo Madama. Ma gli scogli principali restano sempre lì: le intercettazioni - su cui i relatori prevedono di adottare il meccanismo delle circolari delle procure, che non fanno trascrivere le conversazioni prima della cosiddetta udienza filtro - e la prescrizione. Ora giunge l’emendamento di Casson e Cucca che sospende tout-court la prescrizione dopo una sentenza di primo grado. E si nota la soddisfazione dei grillini. "La maggioranza per approvare il provvedimento c’è - dicono il senatore Enrico Cappelletti e il deputato Vittorio Ferraresi - ci auguriamo che questa sia la posizione ufficiale del Pd e che il partito di Renzi non si pieghi per l’ennesima volta agli interessi di Ncd e Verdini". Lo stupore con cui, però, reagiscono David Ermini, il renzianissimo responsabile Giustizia, oppure Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, racconta di un Pd preso in assoluto contropiede. Non ne sapevano assolutamente nulla. Il punto è che all’interno del governo si era arrivati faticosamente a un’altra formulazione, poi votata alla Camera circa un anno fa. Al Senato le cose si sono bloccate per molto meno: un aumento specifico per la prescrizione del reato di corruzione, i cui processi, nella nuova formulazione, potrebbero durare oltre 21 anni. E già questo scenario sembrava indigeribile all’Ncd. Ora si vuole applicare un sistema draconiano all’intero universo penale. E tutto sembra tornare in alto mare. La giustizia rischia di chiudere. Non per ferie di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 27 maggio 2016 Nei tribunali mancano quasi 9 mila cancellieri e, ogni giorno, saltano o vengono rinviati da 9 a 12 processi per notifiche sbagliate o fuori tempo. Carenza di cancellieri nei tribunali, difetti di notifiche agli imputati e ai loro avvocati nei processi: se c’è un modo sicuro per esporsi agli sbadigli della gente, è battere su questi due nodi della crisi di efficienza della giustizia. Perché chi si azzarda ad annotare che mancano in organico quasi 9 mila cancellieri in Italia, o prova a ricordare che in media (come verificato anni fa da un’indagine a campione dei penalisti Ucpi con Eurispes) ogni giorno "saltano" da 9 a 12 processi e vengono rinviati per colpa di una notifica sbagliata o fuori tempo, rischia sempre di essere fatto passare come uno che recita la solita solfa o indugia al piagnisteo immobilista e corporativo. Poi, però, le cose succedono. E aprono gli occhi pure a chi ad esempio magari si annoia già alla sola parola "notifiche", ma gli tocca poi risvegliarsi di colpo quando il processo per disastro ambientale all’Ilva di Taranto (47 imputati, più di 100 avvocati, migliaia di potenziali parti civili) dopo quasi un anno ancora non si schioda dai nastri di partenza in Corte d’Assise. Prima perché un difetto di notifica a uno degli imputati ha causato la falsa partenza all’iniziale udienza, poi perché a dicembre 2015 la mancata indicazione sul verbale d’udienza del cognome dell’avvocato chiamato il 24 luglio 2015 a sostituire gli assenti difensori d’ufficio di 11 degli imputati ha imposto lo stop del giudizio e il suo azzeramento, con perdita dell’attività svolta nell’ultimo anno, e il conseguente ritorno alla casella d’avvio dell’udienza preliminare da rifare. E infine, pochi giorni fa, un difetto di notifica a un imputato ha fatto rinviare di nuovo, stavolta al 14 giugno, l’inizio rinnovato del dibattimento in Assise. Da Taranto si può salire nella Milano città vetrina di Expo 2015, nel cui Tribunale bisogna azzeccare il giorno giusto se si ha bisogno di interloquire con l’Ufficio dei giudici delle indagini e delle udienze preliminari (Gip/Gup): perché dal 10 dicembre 2015 alcune di queste cancellerie vengono chiuse il martedì e il giovedì, e le altre restano aperte soltanto due ore alla mattina. Una complessiva chiusura parziale dettata dal fatto che "il normale funzionamento delle cancellerie non è più consentito dalla situazione del personale amministrativo", sceso in pochi anni da 125 a 75 cancellieri, con scoperture di quasi il 30% sul teorico organico, e con una media di appena 2,5 cancellieri per giudice contro un rapporto nazionale di quasi 4 (e punte addirittura di oltre 6 in alcune zone). Da almeno un anno e mezzo, cioè dall’estate 2014, il ministero della Giustizia rimarca quella che è in effetti un’inversione di tendenza rispetto a tanti anni e a molti precedenti governi, e cioè l’aver creato le premesse per permettere finalmente l’ingresso a livello nazionale di 1.032 unità di personale amministrativo, per lo più provenienti da dipendenti in mobilità da altre amministrazioni pubbliche (e quindi anche bisognose di tempo prima di prendere la mano con il nuovo delicato lavoro). Ma, a causa delle complicazioni pratico-burocratiche, soltanto adesso i 1.032 (tante volte riannunciati) nuovi arrivi stanno davvero prendendo servizio, con il risultato di non riuscire nemmeno tamponare nel frattempo il saldo negativo determinato dal fatto che in media in un anno vanno in pensione altri 500/700 cancellieri. Ma questi temi non scaldano le arene delle polemiche "alla moda". Così come scarsamente popolari sono gli sforzi di magistrati e avvocati che nel campo invece della giustizia civile - da anni si sforzano di far funzionare, di più e meglio, ciò che già può essere migliorato con protocolli condivisi, buone pratiche esportate, e filosofie meno scontate. Un mondo poco conosciuto e che invece merita di essere esplorato, magari approfittando a Milano (proprio da oggi a domenica nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia milanosservatorio.it) della undicesima "Assemblea nazionale degli Osservatori" civili, dedicata stavolta ai legami tra "Diritti, interessi ed effettività di tutela". La mail della procura che annuncia l’apertura di un’indagine, ma è una truffa online di marco tonelli La Stampa, 27 maggio 2016 Si tratta di un tentativo di installare virus nel pc del destinatario, di rubare le password degli account e il numero della carta di credito. Una mail dalla procura della Repubblica che annuncia l’apertura di un procedimento penale per evasione fiscale e riciclaggio di denaro. L’indagato rischia l’arresto entro un giorno e il blocco di tutti i conti correnti e delle proprietà immobiliari. Nel testo della mail c’è un link su cui cliccare per avere maggiori informazioni. Non si tratta di un vero atto giudiziario, ma di un tentativo di installare virus nel pc del destinatario, di rubare le password degli account e il numero della carta di credito. È un nuovo tentativo di phishing che circola in questi giorni nelle caselle di posta elettroniche. Lo ha denunciato l’associazione dei consumatori Aduc in un comunicato stampa in cui ha pubblicato il testo della mail che riporta l’intestazione di una non precisata Procura della Repubblica e il nome e cognome del destinatario: "La presente per comunicarle che il suo patrimonio immobiliare, così come il suo conto corrente bancario, verranno posti in arresto con l’accusa di mancato pagamento delle imposte e concorso in riciclaggio di denaro, ad effetto della causa, l’arresto entra in vigore dal 27.05.2016". La mail continua con tanto di numero della pratica e di un link in cui trovare le informazioni su come ricorrere in appello, il nominativo del giudice inquirente per la causa, la data e il luogo in cui si svolgerà il processo. E se il destinatario della mail non si è ancora reso conto della gravità della questione, provano a convincerlo così: "In caso di sentenza di condanna, le verrà confiscata ogni proprietà e rischia una condanna fino a 15 anni di reclusione". Insomma, come consigliano nel comunicato di Aduc, "bisogna sempre diffidare di mail poco chiare, che invitano a inserire dati personali e relativi ai propri mezzi di pagamento, o contenenti richieste di cambio password". Maglie larghe per l’arresto Ue di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 21991/2016. La frode carosello commessa all’estero è sufficiente per dare esecuzione al mandato d’arresto europeo. Questo perché la fattispecie di riferimento - trattandosi di materia fiscale, in cui le leggi statali quasi mai coincidono - non è tanto il mancato versamento dell’Iva (con pena base insufficiente per l’estradizione), ma piuttosto l’omessa dichiarazione (articolo 5 del Dlgs 74/2000). La Sesta penale della Cassazione (sentenza 21991/16, depositata ieri) ha dato il via libera alla consegna all’Austria di un cittadino, indagato oltralpe per una serie di operazioni commerciali "esentasse" e già sotto processo di primo grado in Italia per bancarotta fraudolenta. I fatti per i quali l’Austria chiedeva la consegna rispondono alle classiche frodi carosello ampiamente "arate" in patria: acquisto di apparati elettronici di largo consumo in Svizzera, Malta e Romania, rivendita contestuale a imprese "carosello" basate nel paese asburgico, esposizione fittizia dell’Iva nelle fatture senza però comunicazione all’Ufficio né - ovviamente - pagamento conseguente. Allo stesso tempo, gli acquirenti locali nelle proprie dichiarazioni avevano portato l’Iva a credito, pur non versata da alcuno. La Corte d’appello di Roma aveva quindi ordinato la consegna dell’indagato - e già imputato in Italia - inquadrando le ipotesi di truffa (per l’aspetto commerciale: falsificazione di marchi) ed evasione fiscale, provvedimento da cui è scaturito il ricorso di legittimità. Secondo la difesa mancavano i presupposti per l’accoglimento del mandato d’arresto europeo, non essendo argomentato il vincolo associativo criminale, e in ogni caso la contemporaneità del processo italiano per bancarotta avrebbe dovuto consigliare il differimento dell’esecuzione del mandato. Inoltre, l’ipotizzata violazione Iva non basterebbe per dar luogo alla consegna, che in materia fiscale richiede almeno tre anni di pena detentiva massima. Quanto all’associazione per delinquere, la Sesta esclude che sia stata un presupposto per il Mae, che verte invece solo sulle imputazioni fiscali. E a questo proposito la Corte reinquadra i fatti considerato che in materia di imposte, tasse, dogana e cambio "la doppia punibilità non opera in senso stretto" (articolo 7 della legge 69/2005). Non si tratta di semplice omissione di versamenti Iva, scrive il relatore, perché, "anche a non voler considerare la componente di frode insita nel meccanismo" "carosello", qui l’attività criminale "non si correla ad una dichiarazione annuale, ma ne prescinde" del tutto, spingendo la fattispecie verso l’articolo 5 del Dlgs 74/2000, cioè l’omessa dichiarazione che ha un tetto di pena sufficiente per il Mae. Lo straniero in Italia dopo l’espulsione non rischia il carcere ma solo una multa di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 26 maggio 2016 n. 22120. Lo straniero che non si allontana dall’Italia a seguito dell’ordine di lasciare il territorio impartitogli dal questore non rischia la galera. Quest’ultima misura - chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 22120/2016 - a seguito del recepimento della direttiva 2008/115/CE non è più prevista ed è sostituita da una misura pecuniaria - quando per l’appunto il cittadino straniero si trattenga sul territorio anche in presenza di un decreto di espulsione. La vicenda - Alla base della vicenda un cittadino del Marocco che era stato sorpreso nel novembre 2009 presso la città di Nocera Umbra in palese violazione dell’ordine di lasciare il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni impartitogli dal questore dell’Aquila. Con la sentenza 11 aprile 2011 il Tribunale di Perugia aveva condannato lo straniero alla pena di un anno di reclusione per il reato previsto dall’articolo 14, comma 5-ter, del Dlgs 286/1998. Contro tale provvedimento è stato proposto ricorso in Cassazione dalla Procura presso la Corte di appello di Perugia che ha evidenziato l’omessa applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della penale, alla luce del contrasto tra normativa comunitaria (Direttiva 2008/115/CE) e normativa interna in materia di immigrazione irregolare vigente all’epoca del fatto e della decisione. La richiesta pertanto era quella di annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Decisione della Corte - La Cassazione ha accolto la richiesta evidenziando come il recepimento della normativa comunitaria richiamata, attraverso la legge 129/2011 ha determinato una vera e propria abolitio criminis. Tale condotta va quindi sanzionata con la sola pena pecuniaria senza più condanna al carcere. Il favoreggiamento dell’ingresso resta reato prima dell’adesione di un Paese alla Ue di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2016 Causa C 218/15 - Procedimento penale contro Gianpaolo Paoletti e altri. Nessuna cancellazione del reato di favoreggiamento dell’ingresso e di soggiorno illegali di cittadini di un Paese, prima extra Ue, per il solo fatto che lo Stato diventa membro dell’Unione. E questo anche se l’indagato non è stato ancora sottoposto a giudizio. In questi casi, infatti, non si pone il problema dell’applicazione di una legge penale più favorevole perché si tratta solo di un mutamento delle condizioni che nulla a che vedere con il principio di retroattività. È l’Avvocato generale Bot a scriverlo nelle conclusioni depositate ieri (C-218/15) su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Campobasso. Al centro del procedimento penale nazionale un italiano sottoposto ad azione penale per aver consentito l’ingresso illegale in Italia di 30 cittadini rumeni prima dell’adesione della Romania all’Ue e per aver violato il Dlgs n. 286/1998 (testo unico dell’immigrazione). L’Avvocato generale ha condiviso i dubbi del giudice del rinvio e, di fatto, ha bocciato un orientamento della Cassazione secondo la quale l’ingresso della Romania nell’Unione avrebbe fatto venir meno il reato. In primo piano, l’obiettivo della normativa Ue che punta a punire coloro che ledono l’ordine pubblico europeo. E questo sia attraverso la direttiva 2002/90 sul favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, che impone sanzioni appropriate per chiunque intenzionalmente aiuti una persona a entrare in modo illegale in uno Stato membro, sia con la decisione quadro 2002/496/GAI relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento, dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, che prevede la consegna degli autori del reato accompagnata da misure di espulsione. Proprio la protezione dell’ordine pubblico europeo porta l’Avvocato generale a escludere un’interpretazione abrogatrice della fattispecie penale. La sola adesione e, quindi, il cambiamento di un mero presupposto di attuazione di una norma penale, infatti, non blocca l’applicazione di una sanzione. In caso contrario, sarebbe incoraggiato il traffico di esseri umani "poiché i trafficanti avrebbero la garanzia di beneficiare, successivamente, dell’immunità". Tra l’altro, la sanzione riguarda soltanto i trafficanti e non le persone che hanno fatto ingresso in modo illegale in Italia. Questo vuol dire che è irrilevante che tali persone abbiano poi acquisito lo status di cittadini dell’Unione. Bocciata anche la possibilità di ricorrere al principio della retroattività in mitius perché non si è verificata una successione di leggi relative allo stesso reato. Tanto più che il favoreggiamento dell’ingresso rientra nella categoria dei reati istantanei, che si realizza nel momento in cui la persona che ha fatto ricorso ai trafficanti attraversa la frontiera esterna dell’Unione. Diverso, invece, il caso dei cittadini rumeni entrati illegalmente che commettono un reato continuato. Solo per loro, l’acquisizione della cittadinanza comporta il venir meno di uno degli elementi costitutivi del reato ossia non essere cittadino Ue. Se tutto è penale, niente è penale. Gli errori di noi legislatori di Gaetano Quagliariello Il Dubbio, 27 maggio 2016 Come legislatori, non possiamo esimerci dall’affrontare i diversi temi posti alla nostra attenzione da una visuale che inevitabilmente ci chiama in causa: quella, appunto, della legislazione. Intercettazioni. Con una buona dose di approssimazione credo che ci si trovi nel campo delle leggi potenzialmente equilibrate ma progressivamente deformate dalla prassi applicativa, con l’aggravante di una realtà resa più complessa e insidiosa dal diffondersi delle nuove tecnologie. Sulla carta, molte norme dei nostri codici che disciplinano le attività limitative delle libertà personali appaiono rigorose e ben congegnate. Il problema è che il costante allargamento delle maglie interpretative, il diffondersi di pessime pratiche annidate negli interstizi della legge, e la pressoché inesistente sanzione a fronte degli eccessi e degli abusi, ha reso questo fondamentale strumento di indagine qualcosa d’altro. Il fatto che i vertici di importanti Procure della Repubblica, peraltro di orientamenti culturali diversi fra loro, abbiamo avvertito l’esigenza di diramare nei loro uffici apposite circolari di condotta è il sintono inequivocabile che un problema esiste. Se bastasse una bacchetta magica per trovare a livello normativo il perfetto punto di caduta tra esigenze di indagine che nessuno ha intenzione di comprimere, diritto all’informazione, diritto di difesa e tutela della riservatezza dei cittadini, non staremmo qui a parlarne ancora dopo anni e anzi decenni. Ma proprio la delicatezza e la complessità del tema induce ad auspicare che il problema non venga liquidato con una delega fondamentalmente in bianco e che il Parlamento sappia assumersi le proprie responsabilità. Da deleghe molto meno vaghe sono venuti fuori capitoli assurdi della famigerata legge Severino, evitiamo che la storia si ripeta. Prescrizione. Bisogna innanzi tutto rifiutare la logica, ricorrente nel dibattito politico, per cui sulla prescrizione vi sia il fronte dei delinquenti che la vogliono breve e il fronte degli onesti che la vogliono lunga. A scanso di equivoci, dico subito che a me personalmente la corruzione fa orrore e che quanti fanno politica onestamente e a mani nude sono per me le prime vittime di coloro che antepongono i propri interessi al bene comune. Vi sono peraltro anche ragioni molto poco garantiste per non volere che i processi durino in eterno: oltre ai diritti degli imputati, vi è il diritto delle vittime di avere giustizia in tempi ragionevoli e vi è il diritto della società a sapere se una persona è colpevole o innocente e nel primo caso ad adottare le necessarie contromisure. Anche in questo caso non si tratta di un problema di facile soluzione, e rispetto al quale un ruolo non secondario è giocato dal tipo di organizzazione adottata negli uffici giudiziari: le best practices vanno individuate e valorizzate. In secondo luogo, un’analisi serena dei tempi e degli stadi in cui la prescrizione prevalentemente matura dovrebbe indurre da un lato a regolare fasi procedimentali oggi lasciate alla più totale discrezionalità tempistica da parte degli inquirenti, e dall’altro a meditare una depenalizzazione seria, incisiva, draconiana, che possa alleggerire il sistema penale da un flusso alluvionale di notizie di reato e contenere una domanda di giustizia oggi patologica. Quando parlo di depenalizzazione seria intendo da un lato evitare che per ogni reato cancellato ne vengano introdotti altri due per inseguire le mode del momento, e dall’altro risparmiarci autentiche schizofrenie per le quali ad esempio con una mano si introduce l’omicidio stradale e con l’altra si depenalizza la guida senza patente. Altrettanto assurdo è a mio avviso anche solo pensare di agire sulla leva delle pene in funzione della prescrizione. Abbiamo già visto sulle riforme istituzionali quanto elevato sia il costo della disorganicità, della frammentazione degli interventi su quello che dovrebbe essere un corpo organico. Lo stesso, se non di più, vale per il diritto penale. A parte il fatto che l’entità delle pene si è già ampiamente rivelata uno strumento di efficacia prossima allo zero in termini di deterrenza, da che mondo è mondo è la prescrizione che si calcola in base alla pena e non il contrario. Il sistema delle pene è fatto di equilibri e proporzioni. Pensare di sezionarlo senza criteri organici, al solo fine di rideterminare alcuni tempi di prescrizione in base a specifiche pene edittali, può produrre autentiche schizofrenie. Non credo nemmeno a soluzioni, prospettate nel dibattito pubblico, che facciano decorrere la prescrizione da momenti "mobili" come l’iscrizione della notizia di reato o l’iscrizione sul registro degli indagati, rendendo ancora più gravidi di implicazioni atti soggetti alla più assoluta discrezionalità degli inquirenti. Personalmente, in ossequio ai princìpi di cui all’articolo 111 della Costituzione, ai diritti degli imputati, delle vittime e della stessa società, e anche in considerazione delle problematicità segnalate rispetto a reati gravi, come la corruzione, che spesso vengono scoperti molto tempo dopo rispetto a quando sono stati commessi, piuttosto che avventurarsi in estenuanti trattative su un anno di prescrizione in più o uno in meno, si possa ragionare su un cambio di prospettiva dalla prescrizione del reato alla ragionevole durata del processo. Ovviamente con tutte le norme di chiusura che impediscano il verificarsi degli opposti eccessi. Infine, ed è un problema che mi sta particolarmente a cuore, veniamo al tema dell’interpretazione senza fine. Su questo terreno, prima di additare gli sconfinamenti della giurisdizione che pure certamente esistono, io credo che da parte dei legislatori sia necessaria una severa autocritica e sia urgente un ravvedimento operoso. Se infatti si pone mente al campionario delle leggi partorite negli ultimi anni, ci si rende conto di un progressivo decadimento in termini di qualità normativa, di puntualità, di tassatività. Da un lato ci si è lasciati andare a leggi-bandiera soggette alla più assoluta discrezionalità interpretativa; dall’altro si è pensato di poter rispondere agli allarmi e spesso alle mode del momento attraverso norme penali segnaletiche assai poco meditate, superflue e dunque inevitabilmente dannose. Mi limito a qualche esempio recente. Pensiamo al reato di traffico di influenza in un Paese nel quale non è regolamentata l’attività di rappresentanza degli interessi legittimi, cosiddetta attività di lobbying. È una norma che nulla ha aggiunto in termini di contrasto delle attività illecite, già perseguibili con altri strumenti penali che al limite avrebbero potuto essere raffinati, e molto ha aggiunto in termini di confusione ed evanescenza interpretativa. Pensiamo alla già citata legge sull’omicidio stradale, che di fatto scardina uno dei fondamenti del nostro diritto penale e cioè la distinzione tra colpa e dolo. Pensiamo alla scarsa considerazione della realtà dimostrata in tempi recenti nel legiferare in materia di reati ambientali. Uscendo un attimo dall’ambito penale pensiamo alla stepchild adoption: abbiamo sentito membri del governo, come l’amico Enrico Costa, intimare uno stop alle sentenze creative in materia subito dopo aver messo la fiducia su una legge che le avalla e le incoraggia, come è facile evincere dal comma 20 del testo approvato. Pensiamo all’aggravante di negazionismo, che oltre ad avere il peccato originale di essere di fatto un reato di opinione, accanto all’accadimento storico specifico della Shoah enumera categorie che più vaghe non si potrebbe, demandando all’autorità giudiziaria un’attività interpretativa vastissima che nessun magistrato aveva mai sollecitato. E vediamo ora cosa accadrà con il reato di depistaggio all’esame del Senato. È molto preoccupante che nel produrre nuove norme si tenga sempre meno conto del principio di tassatività. Se tutto è penale, alla fine nulla sarà penale. E se tutto è penale e nulla è penale, tra norme bandiera e reati segnaletici, tra leggi vaghe e potenzialità interpretative infinite, i diritti e le garanzie faranno la fine dei noti vasi di coccio. Ce la prenderemo con i magistrati, ma noi legislatori è con noi stessi e con le nostre responsabilità che dovremmo iniziare a fare i conti. Cause temerarie, le regole esistono già di Giuseppe Picchioni Il Dubbio, 27 maggio 2016 Perché si sono disturbati autorevoli interpreti del codice deontologico e custodi dell’etica per commentare una sentenza che nel condannare un avvocato al risarcimento per aver promosso una causa totalmente infondata ha affermato un principio da sempre cardine dell’ordinamento professionale forense? Già precedentemente alla normazione del 1997, quando vigeva un codice di formazione pretoria, gli organi disciplinari forensi non avevano esitato ad affermare il principio secondo il quale costituiva illecito deontologico consigliare al cliente azioni inutili e gravose. Un comportamento che, all’evidenza, era percepito come contrastante con i doveri di dignità e di decoro (ora così poco apprezzati dall’Agcm) perché ben si sapeva come costituisse palese violazione dei fondamentali canoni professionali il fatto che l’avvocato incrementasse pretestuosamente il contenzioso senz’alcun utilità concreta per la parte assistita o, addirittura, con possibile pregiudizio anche economico della stessa. La norma del nuovo codice deontologico (art. 23) entrata in vigore il 16/12/2014 ha ulteriormente riaffermato principio provvedendo ad eliminare l’avverbio "consapevolmente", non opportunamente inserito nel testo dell’art. 35 del previgente codice, che censurava il "consapevolmente consigliare" da parte dell’avvocato quasi che fosse possibile darsi un consiglio non consapevole. Ora quindi il divieto è esplicitato chiaramente e con in equivocità di locuzioni: "L’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose". Tale essendo il contesto perché tanto interesse sulla notizia? La Suprema Corte nella propria pronuncia (n. 9695/2016) altro non ha fatto che ribadire quanto già affermato da risalenti sentenze del Cnf (n. 30/1989 ? n. 26/1995) che avevano sanzionato avvocati per ".... violazione dello specifico obbligo di dissuasione del cliente alle azioni gravose e pretestuose" e quindi, nello specifico, non ha formulato interpretazioni innovative essendosi limitata ad inserirsi nel solco della precedente ed a riaffermare quanto già costituiva patrimonio acquisito. Non si può quindi che concordare se la Cassazione ha voluto confermare la rilevanza ora, scolpita nella nuova legge professionale, della figura di un avvocato professionista consapevole del proprio ruolo che non può e non vuole sottrarsi ai doveri che gli fanno carico non solo nei confronti del cliente ma anche nei confronti dell’ordinamento nel rispetto di quegli obblighi di completa informazione e di trasparenza che, solo se adempiuti pienamente, consentono di svolgere correttamente il ruolo difensivo. Ben diverse considerazioni dovrebbero invece essere svolte qualora ivi si annidassero i presupposti per un indirizzo giurisprudenziale, inopinatamente prodromico ad una deriva interpretativa suscettibile di ampliare indiscriminatamente il novero delle ipotesi di responsabilità professionale. Questo perché verrebbe privato di significato quel condivisibile invito alla prudenza, espresso nella sentenza nell’interesse di entrambe le parti del contratto d’opera, che consente all’avvocatura di avere una duplice opportunità: da un lato quella di rivendicare con orgoglio non autoreferenziale l’affermazione del principio da epoca non sospetta (la sanzione per tale violazione può arrivare ora alla sospensione sino ad un anno) e dall’altro di non dimenticare che l’obbligo di informazione, ampio e preciso ed auspicabilmente documentato, adempie alla funzione di tutelare il professionista dal rischio di divenire il facile capro espiatorio di esiti processuali determinati anche da carenze probatorie a lui non ascrivibili. Va ricordato infatti che il Giudice di legittimità nella sentenza 9695/2016 ha ritenuto corretta la decisione della Corte d’Appello di considerare necessaria, ai fini liberatori per l’avvocato, non la prova del consapevole consenso della parte assistita all’avvio della causa quanto piuttosto quella, a quanto emerge non offerta, dell’irremovibile iniziativa (determinazione) della suddetta ad agire giudizialmente di talché l’avvocato sarebbe andato esente da responsabilità esclusivamente ove fosse stata adeguatamente provata la sua azione dissuasiva. In buona sostanza: quanto più problematica è la fattispecie quanto più l’informazione deve essere ampia e minuziosa (per iscritto...) per consentire alla parte assistita quella "consapevole irremovibilità" che potrà anche portare ad esiti negativi ma che non dovrà consentire di farne ricadere la colpa esclusivamente sull’avvocato. Quanto sopra ovviamente presuppone un’attenta valutazione della prove acquisite in ordine alla formazione del "consenso" ed all’adempimento dell’onere di dissuasione perché, ove accertate tali circostanze, il Giudice non potrà che arrestarsi per non snaturare totalmente le caratteristiche del contratto d’opera intellettuale. L’obbligazione dell’avvocato rimane di mezzi e la sua responsabilità potrà anche derivare dall’adozione di mezzi difensivi i quali, ancorché concordati e condivisi con la parte assistita, risultino pregiudizievoli ma, qualora le difficoltà tecniche della linea da seguire siano state adeguatamente rappresentate anche con una fattiva opera di dissuasione, affermarne la responsabilità, - magari invocando non propriamente il principio espresso nella citata sentenza 9695/16, introdurrebbe una pericolosa deriva interpretativa tale da far ricadere comunque sull’avvocato gli esiti negativi di azioni giudiziali non fondate sulla consolidata giurisprudenza. Il che, ovviamente, non può essere se non si voglia privare totalmente di effettività l’azione a tutela dei diritti. D’altronde, lo abbiamo constatato più volte ed anche recentemente, l’affermazione di nuovi diritti non avviene mai grazie ad un attento legislatore che, alzandosi alla mattina, si accorge che vi sono nuovi diritti da tutelare ma a seguito di elaborazione e di dibattito per poi, ineluttabilmente e quasi esclusivamente, sfociare in pronunce giurisprudenziali che, non a caso, seguono all’azione giudiziale iniziata da un avvocato assuntosi consapevolmente la responsabilità ed il rischio di tutelare un diritto violato sino ad allora misconosciuto. Milano: i detenuti diventano meccanici, officina-pilota al carcere di Bollate di Lorenzo Bordoni e Alice Dutto Corriere della Sera, 27 maggio 2016 Le auto della polizia, spesso vecchie e malandate a causa dell’uso intensivo, ritornano a nuova vita grazie al lavoro dei carcerati. Le opportunità per il reinserimento. Detenuti e agenti insieme, fianco a fianco, con uno scopo comune: mantenere nelle migliori condizioni le auto della polizia penitenziaria. Sembra un paradosso, ma non è quanto accade a Bollate. Le auto della polizia, spesso vecchie e malandate a causa dell’uso intensivo, ritornano a nuova vita grazie al lavoro dei carcerati. Quelli del carcere di Bollate, istituto modello dove sono nati importanti progetti di reinserimento sociale, come il Catering Abc e il ristorante InGalera. Questa volta, si tratta di automobili: a causa dei tagli dell’amministrazione, nel 2013 le oltre 300 vetture in dotazione al corpo di polizia lombardo erano in condizioni precarie. "Andavamo in giro con le gomme lisce", ha detto il commissario capo Mario Piramide. E proprio a lui è venuta l’idea di creare un’officina nei locali dismessi di fronte al carcere, dove prima era attiva l’unità cinofila. L’officina in cortile - "Avevamo il 50% dei nostri automezzi fermi in avaria, l’altro 50% funzionante, ma con una manutenzione scadente; per questo abbiamo deciso di avviare una sperimentazione e così l’anno successivo abbiamo avviato questa attività", ha continuato Piramide. Sono partiti con attrezzature ricevute in dono e con materiali già in loro possesso. Hanno individuato e formato detenuti e agenti ed hanno trovato i fornitori migliori, che gli hanno consentito di ottenere ricambi con sconti che, in alcuni casi, superano anche il 60%. Infine, hanno stipulato una convenzione con una struttura esterna che certifica che il lavoro svolto in officina sia a regola d’arte. "L’intuizione è stata felice sia da un punto di vista economico, perché abbiamo avuto un risparmio di oltre il 70% sui costi, sia trattamentale". I due detenuti che hanno partecipato alla sperimentazione e che sono usciti dall’istituto hanno trovato subito lavoro: "Uno è stato anche assunto a tempo indeterminato". Senza considerare che l’intero parco auto regionale è ora perfettamente recuperato e funzionante. E con il tempo, il bacino di vetture di cui i carcerati si prendono cura è aumentato: "Oltre alla Lombardia, oggi serviamo anche le Regioni limitrofe, come il Triveneto, l’Emilia-Romagna, il Piemonte e le vetture in uso al Ministero" ha aggiunto il commissario capo. L’occasione della vita - Nell’officina sono impiegati sette detenuti, che lavorano sei ore per sei giorni la settimana. "Qualche recluso si ferma anche di più - ha precisato Roberto Carnelli, sovrintendente di Polizia Penitenziaria - anche perché l’alternativa è il carcere". A sorvegliarli ci sono cinque agenti che sono stati selezionati su tutto il territorio regionale. A segnalare gli individui più adatti a svolgere questo tipo di lavoro sono i vari comandanti di reparto e gli educatori, ma anche la direzione. I detenuti devono godere dell’articolo 21, una speciale condizione giuridica che gli permette di lavorare all’esterno: "Quando andiamo a recuperare dei mezzi con la nostra bisarca, infatti, facciamo sempre uscire un agente e un recluso". Per i carcerati, l’esperienza è positiva: "Lavoro qui da circa tre mesi e mi trovo benissimo, perché anche se sapevo già fare qualcosa, c’è sempre da imparare - ha raccontato Prospero Milione. È un sollievo stare qui rispetto a essere confinati all’interno delle mura ed è una grande opportunità per noi, perché acquisiamo degli strumenti e delle competenze che ci saranno utili quando usciremo dal carcere". Visioni future - Il progetto è andato così bene che l’amministrazione l’ha apprezzato e finanziato per i prossimi anni: "Con i fondi che abbiamo ottenuto, abbiamo ristrutturato e messo a norma i locali, acquistato tutte le attrezzature nuove che ci servivano e messo da parte gli stipendi per i detenuti che ci serviranno nei prossimi due anni - ha spiegato Mario Piramide -. A breve contiamo di aprire anche una carrozzeria e un autolavaggio. Operazioni che garantiranno un impiego maggiore di persone: contiamo di arrivare a 10 assunzioni e ulteriori riduzioni dei costi". Un’esperienza che ha fatto scuola e che ha portato il capo dipartimento a invitare altre Regioni a ripetere l’esempio: "Ecco perché sono già state avviate due officine di questo tipo a Napoli e in Sicilia e un’auto carrozzeria a Sant’Angelo dei Lombardi". Un sistema che si autoalimenta e che dimostra come si possa dar vita a progetti virtuosi anche dove la speranza sembra perduta. È soprattutto grazie a queste iniziative che si riesce a restituire alla società un individuo riabilitato, rispettando quella che sarebbe la funzione del carcere: non è un caso che il tasso di recidiva a Bollate sia tra i più bassi d’Italia, appena il 12% rispetto al 70% di media. Varese: una nuova vita per i Miogni, "con l’aiuto dei detenuti stessi" di Marco Tavazzi La Provincia di Varese, 27 maggio 2016 I Miogni non chiuderanno i battenti. Tramonta definitivamente l’ipotesi di un nuovo carcere a Varese, anche se negli ultimi anni si era già indebolito il progetto di trasferire in un’altra area la struttura. Ma a rassicurare i varesini sul destino della Casa circondariale di via Morandi ci ha pensato il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, ieri in città per un sopralluogo alla struttura. Insieme a lui Santi Consolo, presidente nazionale del Dap, e Franco Vazio, vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera. "Abbiamo verificato le condizioni del carcere di Varese dopo le numerose segnalazioni che sono state fatte - ha spiegato Migliore dopo il sopralluogo - posso dire da subito che c’è la volontà di migliorare e implementare la struttura esistente, e che non c’è mai stata nessuna volontà di dismissione". Interventi e attività - Il primo segno tangibile di questo progetto inizierà a breve e sarà la ristrutturazione delle mura esterne. Partire dall’estetica, proprio per dare un segnale ai varesini. Ma sarà solo il primo passo. L’intera struttura dei Miogni verrà messa a nuovo e dovrà integrarsi perfettamente nel contesto cittadino, diventando anche esempio di come il governo vuole migliorare il sistema carcerario italiano. "Questa è una struttura dove si potranno realizzare una serie di attività fondamentali - ha continuato Migliore - e migliorare anche l’impatto della struttura con i cittadini. Il progetto è anche quello di migliorare sia le condizioni di lavoro di chi è addetto al carcere sia le condizioni di vita dei detenuti". Per riuscire a contenere i costi della ristrutturazione, il sottosegretario ha un’idea: "Stiamo pensando ad un investimento a basso costo, in economia, coinvolgendo anche i detenuti stessi e la loro esperienza. La filosofia che vogliamo portare, anche dopo gli stati generali, è quella di realizzare, anche nelle strutture piccole e storiche, dove il numero contenuto dei detenuti lo consente, un trattamento comportamentale più adeguato". "Verbo fare" - Consolo ha aggiunto come il collegamento tra la società e il carcere sia fondamentale e importante. Erano presenti alla visita anche il segretario regionale del Pd e consigliere regionale Alessandro Alfieri, la deputata Maria Chiara Gadda e il consigliere comunale e capolista del Pd Andrea Civati. E soprattutto il candidato sindaco del centrosinistra Davide Galimberti, cui si deve l’arrivo del sottosegretario a Varese. "Il progetto è quello di arrivare ad una struttura meno impattante per la città - ha detto Galimberti - il risultato di oggi è la dimostrazione di come un candidato sindaco metta al primo posto il verbo fare, passando dalle parole ai fatti. Questo è il metodo di lavoro che voglio utilizzare una volta eletto". La direzione del carcere ha quindi fatto dono al sottosegretario di una crest della polizia penitenziaria. L’edificio carcerario dei Miogni risale al 1893. Nel tempo ha subìto numerosi interventi ed ampliamenti, ma arrivati ad oggi ha davvero bisogno di una ristrutturazione completa che non può più essere rimandata. Reggio Calabria: pm De Raho "vittime delle mafie non paghino affitto per beni assegnati" di Marina Malara strill.it, 27 maggio 2016 "A Reggio Calabria si comincia a respirare aria diversa ed è come se nella gente vi fosse un po’ più di fiducia". Parole che il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho ha pronunciato dopo aver assistito al resoconto delle iniziative curate da 13 associazioni sul tema della legalità e tutte con il coinvolgimento dei giovani, degli studenti a partire dalle scuole elementari fino alle medie. Ragazzi che, con i loro racconti, interventi, recite, disegni hanno incantato la platea dell’Auditorium "Nicola Calipari" del palazzo del Consiglio regionale, dove si è tenuto l’incontro conclusivo del progetto "La rete per la legalità: un percorso condiviso per la crescita socio-economica del territorio", promosso dalla Camera di commercio di Reggio Calabria in partenariato con le associazioni attive sul territorio provinciale. Le stesse associazioni hanno esposto e condiviso le esperienze e i risultati delle numerose iniziative messe in campo, al fine di affermare la supremazia della cultura della legalità in opposizione a quella criminale. Numerosi studenti sono stati attivamente coinvolti e dopo i saluti del Dott. Francesco Venneri, Commissario straordinario sono intervenuti Federico Cafiero De Raho, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e la Dott.ssa Mirella Nappa, Direttore del Miur Ufficio scolastico regionale - Ufficio VI ambito territoriale RC. Natina Crea, Segretario generale della Camera di commercio di Reggio Calabria ha moderato il tutto. All’interno della Rete per la legalità, la Camera ha svolto una funzione di coordinamento e di "messa a sistema" tra le iniziative sul territorio, al fine di massimizzarne l’efficacia e l’impatto comunicativo, rendere più proficuo il rapporto e l’impegno tra le parti sui temi della legalità, in una prospettiva di consolidamento delle attività di collaborazione finalizzate a contenere la diffusione dei fenomeni criminali e, nel contempo, favorire la sensibilizzazione ai principi della legalità e della leale concorrenza. Nel suo intervento il procuratore De Raho ha manifestato il suo piacere nella partecipazione ad un incontro con i ragazzi invitandoli a non dimenticare mai di far valere il proprio diritto alla libertà e alla dignità. "Non è possibile continuare, così come è stato fino ad oggi, non è pensabile che chi vuole esercitare un’attività economica o lavorare debba prima presentarsi e chiedere autorizzazione alla ‘ndrangheta. Non è pensabile che ci sia qualcuno che, con l’intimidazione e la violenza riesca a condizionare la libertà delle persone. Quello della libertà è un diritto che non ha prezzo, e non è accettabile che possa esistere una comunità che rinuncia a questa libertà o a una parte di essa". De Raho si augura che questi ragazzi, quando un giorno entreranno nel mondo del lavoro e della imprenditoria, conservino questa ricchezza etica che hanno dimostrato oggi. "La libertà è un patrimonio al quale non dobbiamo mai rinunciare, meglio rinunciare a mangiare un giorno anziché rinunciare alla libertà e alla dignità, ha detto ancora. Tutti hanno diritto ad avere le stesse potenzialità e opportunità. La ‘ndrangheta deve essere necessariamente sconfitta. Tutti assieme potremo vincere questa battaglia". Poi il Procuratore ha salutato Tiberio Bentivoglio, presente in platea, che è riuscito ad andare avanti e a trovare intorno a lui una grande solidarietà. E sul tema inerente ai casi come quello di Bentivoglio aggiunge: "Ieri sono stato audito dalla Commissione Giustizia per quanto riguarda la riforma del Codice Antimafia e ho segnalato che tra le modifiche non è previsto un destinatario fondamentale per l’assegnazione dei beni confiscati alle mafie, cioè il testimone di giustizia e la vittima di usura ed estorsione. Chi subisce queste cose ed è capace di ribellarsi deve essere risarcito per quella riduzione dell’attività che subisce per aver detto no. Il coraggio di dire no deve essere conveniente anche economicamente restituendo alle persone che hanno avuto conseguenze negative dal loro rifiuto alla ‘ndrangheta un bene immobile confiscato e senza pagare il contratto di locazione anche oneroso che paga adesso, per esempio, Bentivoglio che ha difficoltà economiche per essersi ribellato. Lo Stato deve pensare che la rete di legalità va formata ma va anche condivisa". Le associazioni che hanno partecipato alla Rete della Legalità e raccontato la loro esperienza sono state: Arci Comitato Territoriale di Reggio Calabria, iniziativa "Reggio perBENE", Associazione Centro Comunitario Agape, iniziativa "Mettiamoci in gioco: giovani per la legalità e la cittadinanza attiva", Associazione di promozione sociale "Espero", iniziativa "La giustizia è nel cuore dell’uomo", Associazione di volontariato "Don Bosco", iniziativa "Legalità conviene", Associazione F.A.G. Forest and Agricolture Group, iniziativa "Legalmente - promozione e diffusione delle buone pratiche di gestione ambientale", Attendiamoci O.N.L.U.S, iniziativa "In pratica…legalità", Centro Studi Colocrisi, iniziativa "Educazione alla legalità economica", Circolo Legambiente Reggio Calabria, iniziativa "Ambientando si impara la legalità", Confindustria Reggio Calabria, iniziativa "Legalità e impresa etica nelle scuole", Monithon Calabria, iniziativa "Monithon per la legalità", Pro Loco del Comune di Motta San Giovanni, iniziativa "Famiglia, scuola, comunità… generano legalità", Riferimenti Coordinamento Nazionale Antimafia, iniziativa "Informare per resistere: pedagogia delle scelte responsabili", U.N.L.A. Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo, iniziativa "Non violate il giardino". Livorno: nel carcere di Porto Azzurro colloqui via Skype per i detenuti quinewselba.it, 27 maggio 2016 Innovazione nella gestione dei rapporti familiari, 20 minuti di collegamento con la famiglia. Marotti: "Investire sul carcere è utile a tutti". Rilanciare la Casa di reclusione facendole ritrovare l’importante ruolo di carcere-modello: questa la sfida che attendeva e attende il nuovo direttore, Francesco D’Anselmo, e i suoi collaboratori. La sfida lanciata anche dal Sottosegretario alla Giustizia, Ferri, in occasione dell’ultima visita all’Elba. "A meno di un anno dall’arrivo del direttore D’Anselmo - commenta il garante dei detenuti Nunzio Marotti - devo esprimere apprezzamento per il lavoro fatto, per le cose realizzate e quelle avviate. Certo, non mancano le criticità, alcune delle quali verranno affrontate prossimamente, con la consapevolezza che alcune richiedono investimenti significativi e coinvolgimento dei livelli regionale e nazionale dell’amministrazione penitenziaria. Vorrei segnalare, fra le altre, due realizzazioni, a cui se ne aggiungono altre due che prenderanno il via nelle prossime settimane. Nei giorni scorsi è stata istituita la Commissione lavoro, prevista dall’ordinamento penitenziario. Uno strumento importante che si occupa dell’assegnazione dei lavori interni all’istituto, attraverso la redazione di due graduatorie, generica e per specifiche mansioni. La Commissione ha elaborato i criteri e i punteggi per la formazione degli elenchi. Si integra così il lavoro svolto finora dagli uffici. È questa una realtà che contribuisce, da un lato, a facilitare il lavoro del personale addetto e, dall’altro, a dare un’informazione costante e trasparente ai detenuti. Continua, inoltre, la collaborazione con il comune di Rio Elba, che vede impegnati 7 reclusi in lavori socialmente utili. È uno dei modi per rendersi utili alla società in modo visibile. Nei prossimi giorni, prenderanno il via i colloqui in videoconferenza con modalità Skype. Sarà così possibile avere colloqui di 20 minuti con i propri familiari. Una misura che consente di coltivare gli affetti da parte di quei familiari che non hanno la possibilità, per motivi di lontananza, economici o di salute, di raggiungere Porto Azzurro. Infine, desidero segnalare l’imminente riapertura della falegnameria: verranno impiegati quattro detenuti per lavori interni, ma non sono esclusi sviluppi. Investire nella missione propria del carcere vuol dire dare possibilità, a chi sconta la pena, di compiere un percorso di rivisitazione del proprio vissuto e di rieducazione, affinché al termine possa reinserirsi positivamente nella società. Le statistiche sostengono che dove si lavora bene, in linea con le normative, la recidiva diminuisce, cioè si abbassa sensibilmente la percentuale di quanti tornano a delinquere. A vantaggio di tutti". Torino: detenuti acrobati e giocolieri per un giorno sperimentano la fiducia Redattore Sociale, 27 maggio 2016 Davanti a un centinaio di detenuti, lo spettacolo organizzato dal Cirko Vertigo nel carcere torinese dell "Vallette". Un cast internazionale di acrobati, giocolieri e artisti è salito sul palco assieme a un gruppo di detenuti, formati con una serie di laboratori. Tutto è iniziato lo scorso 6 aprile, in uno stanzone attrezzato con birilli, trapezi e oggetti di scena: quel giorno il circo - col suo portato intrinseco di libertà, vagabondaggio "spirituale" e superamento dei limiti imposti da prudenza e abitudine - ha fatto il suo ingresso tra le celle del carcere torinese delle Vallette. A portarcelo, una piccola delegazione del Cirko Vertigo, polo internazionale di produzione e formazione nelle arti circensi con sede nel Capoluogo sabaudo, da sempre impegnato in una miriade di progetti a sfondo sociale: per le ultime otto settimane, una ventina di detenuti ha frequentato i laboratori di giocoleria e acrobatica condotti dal direttore Paolo Stratta e dall’artista colombiano Lukas Vaka Medina. Lo scorso 25 maggio, con appena due mesi di preparazione dietro le spalle, quattro di loro sono entrati nello spazio scenico allestito nella palestra del penitenziario: ad accompagnarli, oltre ai giovani allievi della scuola di circo contemporaneo gestita da Forcoop Agenzia Formativa, un cast internazionale di artisti che per due ore si sono esibiti nelle discipline dell’acrobatica mano a mano, della giocoleria, della ruota canadese, dell’equilibrio alla corda molle e dell’acrobatica alla scala libera. Uno spettacolo che lo stesso Stratta definisce "straordinario". "Soprattutto - sottolinea - se si considera quanto ristretto sia stato il tempo a disposizione per la loro formazione. Per questo non deve stupire che solo un quarto della classe sia arrivata a sostenere l’esibizione finale: molti dei nostri allievi, già impegnati nelle numerose attività organizzate all’interno del carcere, non hanno potuto garantire una presenza continuativa; così, arrivati alle soglie dello spettacolo, soltanto quattro di loro hanno dato l’effettiva disponibilità a sostenerlo. Ma ci tengo a sottolineare che si è trattato di una libera scelta, in nulla condizionata da noi istruttori". Ai laboratori hanno preso parte detenuti tra i 20 e i 55 anni, provenienti da Italia, Africa, nord Africa, Sud America ed est Europa. Secondo Stratta, il passo fondamentale per la loro formazione è stato un primo laboratorio in cui gli allievi, divisi in sottogruppi, hanno lavorato "sul concetto di disequilibrio e fiducia, sperimentando una modalità di relazione parecchio diversa da quella esistente in carcere". "In sostanza - precisa il Direttore - dovevano lasciarsi andare a corpo morto, facendo affidamento sui loro compagni affinché non li facessero cadere". Per le successive lezioni, quindi, Lukas Vaka Medina è passato a prepararli nella manipolazione degli oggetti da giocoleria e nelle disciplina acrobatiche. Allo spettacolo era presente un centinaio di detenuti delle sezioni maschili e femminili della casa circondariale: secondo Stratta, ai saluti finali sarebbe scattata una vera e propria ovazione nei confronti di Alice Giacomini, artista del Vertigo che si è esibita in una performance di acrobatica mano a mano; "il che - precisa il direttore - indica come anche in quel contesto emerga il fascino di una donna forte, determinata ed emancipata". L’esibizione rientrava nella rassegna "Living circus", che ogni anno, tra primavera e autunno, porta le arti circensi nei teatri e negli spazi urbani di Francia e nord Italia. Non è la prima volta che il Vertigo varca i cancelli di un carcere: in passato simili laboratori erano stati tenuti con i ragazzi dell’istituto minorile "Ferrante Aporti", grazie anche alla collaborazione dell’agenzia formativa ForCoop. Chieti: detenuti-attori recitano "Il berretto a sonagli" di Luigi Pirandello di Antonella Micolitti rete8.it, 27 maggio 2016 Domani i detenuti della Casa Circondariale di Chieti debutteranno nel Teatro dell’Istituto con "Il berretto a sonagli" di Luigi Pirandello. Soddisfatta la responsabile area educativa dell’istituto di pena di Chieti, Stefania Basilisco, che in una nota afferma: "La difficile commedia dello scrittore agrigentino, insignito del Nobel nel 1934 - dice Stefania Basilisco - è stata affrontata in un intenso percorso artistico ed emotivo dalla regista Paola Capone e dai 18 detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Chieti, in un lavoro articolato e complesso che è durato quasi un anno, 12 mesi durante i quali tutti, regista, operatori, detenuti hanno messo in gioco loro stessi accettando una sfida che, in qualche momento, è sembrata più grande di sé e delle proprie risorse. La preparazione allo spettacolo - prosegue - ha pienamente coinvolto non solo i detenuti e la regista Paola Capone, appassionata ed esperta di teatro e di umane passioni che cerca e trova anche in questi posti al confine (dove qualcuno crede che le emozioni vengano lasciate fuori), ma anche il personale dell’Istituto penitenziario, a partire dal direttore della Casa Circondariale, Giuseppina Ruggero, sostenitrice non dichiarata del genere e commossa quanto accanita spettatrice alle prove quasi quotidiane delle ultime settimane. Se ci fosse stata una telecamera puntata sul carcere, una specie di occhio di grande fratello interno alle mura - osserva Basilisco - di tutto questo si sarebbe potuto montare un altro spettacolo, comunque interessante per il ripetersi dell’alchimia: sono ormai 5 anni che il laboratorio teatrale del carcere di Chieti si chiude con una mirabile rappresentazione finale, sempre applaudita, sempre emozionante, sempre faticosa (e speriamo che sia così applaudita e così mirabile anche quest’anno." La compagnia teatrale dei detenuti del carcere di Chieti, con il beneplacito di direttore e comandante, Alessandra Costantini, con il supporto dell’Area Educativa e di tutto il personale di Polizia Penitenziaria, calcherà le scene per (almeno) 3 volte: domani alle ore 20.30, spettacolo premiere per la cittadinanza, con le autorità locali, i vertici dell’amministrazione penitenziaria e tutti i volontari e collaboratori dell’Istituto. Il 30 maggio in spettacolo matinée destinato soprattutto agli studenti universitari e ai ricercatori/professori dell’Università G. d’Annunzio di Chieti, Dipartimento di Scienze Filosofiche, Pedagogiche, Economiche - Quantitative e Giuridico-Sociali ed agli studenti e professori dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri "Galiani - de Sterlich" di Chieti. Il 31 maggio nel pomeriggio, per i familiari dei detenuti-attori, per tutti gli altri detenuti dell’Istituto e per il personale". Pescara: il 31 maggio presso la Casa circondariale lo spettacolo "Il 2 di picche" pescaranews.net, 27 maggio 2016 Martedì 31 maggio presso la Casa Circondariale di Pescara si chiuderà la sesta edizione del progetto "Il due di picche", patrocinato dal Comune, in sinergia con l’Istituto, l’Associazione Ad Hoc Onlus e il Liceo Statale delle Scienze Umane Marconi. Si tratta di uno spettacolo di chiusura del progetto "Libera-Mente", che si terrà durante la mattina in due distinti spettacoli, uno per i detenuti, l’altro aperto alla comunità. Oggi la conferenza di partecipazione con il sindaco Marco Alessandrini, il direttore della Casa Circondariale Franco Pettinelli, la presidente dell’associazione Ad Hoc Manuela Tabossi, la docente Maria Di Dedda del Marconi e le allievi che partecipano al progetto. "Lo spettacolo è segno del fatto che la Costituzione è importante per garantire la finalità rieducativa del carcere - dice il sindacoMarco Alessandrini - perché accada ci vuole buona volontà e un progetto valido. Doti che non mancano ai soggetti che stanno dietro Libera-Mente, donne e uomini della comunità che da anni organizzano il teatro dentro e fuori dalle sbarre del carcere. Lo fa il direttore Pettinelli, che in tal senso ha una storia di esperienze importanti dal passato a oggi. Quanto al teatro, il titolo, Il due di picche, è simbolico: non è la carta più amata del mazzo, però è indispensabile per giocare, credo che il messaggio sia rilevante perché mette insieme la manifestazione rieducativa e la finalità di socializzazione. È un palcoscenico interessante per l’Amministrazione, da cui arrivano finalità che sentiamo molto prossime e cui esprimiamo il massimo apprezzamento". "In carcere teniamo molto al teatro - aggiunge il direttore Franco Pettinelli - è un particolare tipo di laboratorio quello che nasce dal progetto che propone uno spettacolo che è uno psicodramma, che ci consente di lavorare con la persona del detenuto e il suo reinserimento sociale. Un’opera che portiamo avanti da tempo e per questo ringrazio l’associazione perché lo fa liberamente e gratuitamente. È di buon auspicio perché negli anni passati ogni volta che abbiamo portato avanti questa iniziativa i detenuti hanno avuto un percorso di reinserimento più agevole. Ringrazio le ragazze del liceo Marconi che con grande disponibilità sono entrate nell’istituto e hanno lavorato con i nostri attori. Non è un lavoro facile, ma di certo porta benefici a tutte le parti coinvolte. Ci saranno due spettacoli nella stessa giornata, uno per detenuti e uno per la comunità esterna, lo facciamo per far vedere in che modo portiamo avanti il nostro discorso di rieducazione sociale". "Una strada aperta da tempo - dice Manuela Tabassi dell’associazione Ad Hoc Onlus che organizza lo spettacolo dal 2011 - l’ottica è quella dell’apertura mentale attraverso la scuola, che ringraziamo per l’apporto che ha dato. L’apertura mentale è importante perché se non sai qual è la tua strada fai fatica a inserirti in un contesto sociale, o a tornarci dopo l’esperienza del carcere. Noi cerchiamo di spostare lo sguardo, è un lavoro necessario per reinserirsi nella realtà. Ringraziamo l’Amministrazione anche per la visibilità che viene data a questo lavoro silenzioso e gratuito che facciamo". "Abbiamo iniziato cinque anni fa questo percorso - dice la professoressa Maria Di Dedda del liceo delle Scienze Umane Marconi - si sono avvicendati tanti ragazzi che ne hanno tratto una grande esperienza formativa. L’obiettivo è partire dalla cultura e poi trasferirla nel territorio. È necessario superare questi luoghi comuni e andare avanti, una via che consente di conoscere se stessi attraverso gli altri. Il risultato credo che lo abbiamo ottenuto: restituire e dare alla società attraverso un percorso di educazione e formazione o rieducazione. Una sinergia nata per questo che ha portato le ragazze nell’istituto e che porterà i detenuti a scuola a raccontarne gli effetti". Immigrati, stop a tassa sul permesso di soggiorno di Riccardo Chiari Il Manifesto, 27 maggio 2016 Diritti. Alla fine il Tar del Lazio prende atto della sentenza del settembre scorso della Corte di giustizia europea: via la sovrattassa dagli 80 ai 200 euro. Esultano Cgil e Inca, che anticipano: "Un milione di immigrati ora possono chiedere i rimborsi". Il balzello sugli immigrati resterà solo un brutto ricordo. Dopo la sentenza della Corte di giustizia europea del settembre scorso, è finalmente arrivata quella del Tar del Lazio. Su ricorso della Cgil e del suo patronato Inca, i giudici amministrativi hanno stabilito che è illegittima la legge che impone di pagare una tassa ulteriore fra gli 80 e i 200 euro ai cittadini extracomunitari che chiedono il rilascio, o il rinnovo, di un permesso di soggiorno. Ad essere bocciato dal tribunale amministrativo è stato il decreto 304 del 31 dicembre 2011 (governo Monti), entrato in vigore il primo gennaio 2012, e mai messo in discussione dai governi di Enrico Letta e Matteo Renzi. L’idea originaria di tassare ulteriormente gli immigrati era invece dell’ultimo governo Berlusconi: nell’ottobre 2011 il decreto fu firmato dai ministri Giulio Tremonti e Roberto Maroni, stabilendo un balzello aggiuntivo da 80 a 200 euro al costo base, a seconda della lunghezza del permesso di soggiorno. In pratica 80 euro di tassa per i permessi fino a dodici mesi, 100 euro per una durata fino a 24 mesi, 200 euro per il lungo periodo. Peraltro la tassa si sommava alle altre spese che i cittadini extracomunitari devono sostenere per ottenere il documento. Il contribuito si aggiungeva agli oneri del costo del permesso (30,46 euro per un permesso di oltre 90 giorni), alla marca da bollo (16 euro), alle spese postali da pagare al momento della spedizione dell’assicurata contenente la domanda (30 euro). In totale quasi 80 euro, che continueranno ad essere pagati dagli immigrati. Senza però ulteriori sovrapprezzi. Appena una settimana fa, Cgil e Inca avevano denunciato l’inerzia del governo Renzi sull’argomento. Nell’occasione Morena Piccinini (presidente Inca), Danesh Kurosh (Dipartimento Immigrazione Cgil) e Luca Santini (consulente legale Inca) avevano dato conto delle azioni legali già intraprese - circa 40mila istanze raccolte al patronato, alle Camere del lavoro e gli uffici immigrazione - per chiedere il rimborso di quanto versato dal 2012 ad oggi. Ora l’Inca stima che circa un milione di immigrati possa chiedere il rimborso: "Non ci sono più alibi. Il governo ritiri il provvedimento, e predisponga la procedura per restituire i soldi a chi ha pagato". Sul piano giuridico, Il Tar ha preso atto della pronuncia della Corte europea, procedendo "alla disapplicazione della normativa nazionale che impone ai cittadini di paesi terzi, che chiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro considerato, di pagare un contributo di importo variabile tra 80 e 200 Euro, per contrasto con la normativa di fonte comunitaria". La Corte di giustizia europea all’epoca ricordava che "l’obiettivo principale della direttiva Ue sullo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo è l’integrazione". E, sebbene gli Stati membri abbiano un margine discrezionale per fissare l’importo dei contributi, "tale potere discrezionale non è illimitato". A questo riguardo, la Corte aveva già sentenziato nel 2012 su una causa fra Commissione e Olanda, segnalando che uno Stato Ue rispetta la direttiva "solo se gli importi dei contributi non si attestano su cifre macroscopicamente elevate e quindi sproporzionate rispetto all’importo dovuto dai cittadini di quello stato per ottenere un titolo analogo, ad esempio la carta nazionale d’identità". Per la cronaca, l’Olanda prevedeva un importo pari a circa sette volte l’importo richiesto per la carta di identità. Un documento che in Italia costa oggi 10 euro. G7: migranti sfida globale, usare tutti gli strumenti per sostenere la crescita di Federico Rampini La Repubblica, 27 maggio 2016 La crescita come priorità, la crisi dei migranti come sfida globale, il terrorismo come minaccia alla pace. Questi i punti centrali del comunicato finale del G7 svoltosi a Ise-Shima. Economia. "La crescita globale è la nostra urgente priorità", si legge nella dichiarazione finale dei leader in cui si sottolinea che è necessario usare ogni strumento "fiscale, monetario e strutturale" per "sostenere la domanda globale" continuando gli sforzi per "mettere il debito su livelli sostenibili". I sette grandi si impegnano quindi ad "assicurare un livello appropriato di investimenti pubblici". La dichiarazione menziona anche il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea del prossimo 23 giugno: "Ci sono potenziali shock di origine non economica: un’uscita del Regno Unito dall’Ue potrebbe invertire il trend verso un maggiore commercio mondiale e investimenti, con i posti di lavoro collegati, e rappresenta un serio rischio per la crescita". Migranti. Il documento accoglie l’appello lanciato dall’Unione europea ai partner attestando che i "migranti e i rifugiati sono una sfida globale che richiede una risposta globale". Per questo bisogna "aumentare l’assistenza globale per sostenere le esigenze dei rifugiati, delle comunità che li ospitano" e cooperare con "i nostri partner, specialmente quelli in Africa, in Medio Oriente e nei Paesi confinanti di origine e transito". Il G7 "incoraggia l’ammissione temporanea" e gli schemi di ricollocamento "per alleviare la pressione dei Paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati". Anche perché - si legge nel comunicato - "il numero di migranti, richiedenti asilo e rifugiati è al più alto livello dalla Seconda Guerra Mondiale". Per quanto riguarda l’Italia, secondo il premier Matteo Renzi "non siamo in situazione di emergenza. Noi nell’anno peggiore come afflusso abbiamo avuto 160 mila persone. C’è stato un aumento di sbarchi nelle ultime ore ma questo aumento non è né ai livelli del 2014 né a quelli del 2015". Terrorismo. Nel comunicato che ha chiuso la due giorni di Ise-Shima si riafferma la "dura condanna" del "terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni". E si sottolinea che "gli attacchi e le atrocità" compiute da Stato islamico, Al Qaeda e altre organizzazioni pongono un "serio problema alla pace e alla sicurezza". "Siamo preoccupati dell’aumento degli attacchi", proseguono i leader del G7 citando anche la "sfida" sicurezza dell’aviazione civile. Bisogna combattere le fonti di finanziamento tra le quali i riscatti che - è l’appello - "non devono essere pagati". Libia. Sul fronte delle crisi internazionali, nella dichiarazione si fa riferimento anche alla Libia, per ribadire che i sette grandi lavorano "accanto al governo di unità nazionale" di Sarraj come "il solo e legittimato governo della Libia" e si appellano "a tutte le parti libiche affinché lo riconoscano". In quest’ottica si esprime pieno sostegno all’inviato speciale dell’Onu, Martin Kobler, nei suo sforzi per l’attuazione dell’accordo di unità nazionale. Migranti: Mettler (Ue) "dall’America all’Europa un solo network di trafficanti" di Marco Zatterin La Stampa, 27 maggio 2016 Ann Mettler, della Commissione Ue: la tratta di esseri umani arricchisce le gang. Ann Mettler scandisce le parole, è chiaro che le sta pesando. Racconta di un briefing sulla sicurezza delle frontiere "con dei colleghi Usa", in cui "ci è stato detto che alcune delle gang impegnate nel contrabbando di esseri umani nel Nord America, quelle che operano al confine con il Messico, sono ora attive anche in Europa". Si ferma, fa una pausa. Poi riprende, la responsabile dell’European Political Strategy Centre (Epsc) della Commissione Ue, la think tank voluta dal presidente Juncker. Ha il ritmo da maratoneta del pensiero e un solido inglese velato di americano. "Quello che talvolta non si capisce è che le migrazioni illegali rendono più potenti i network criminali e diffondono la corruzione". Così, riassume, "l’incapacità di gestire i flussi migratori ha permesso alle reti criminali di prosperare". È una questione globale. C’è un grande e cattivo fratello che sfrutta i disperati e incassa liquidità a palate. Un rapporto appena diffuso da Europol rivela "che il business dei migranti è un affare multinazionale", orchestrato da persone provenienti da "oltre 100 Paesi, dentro e fuori l’Unione". Il fatturato stimato per l’ignobile commercio è fra i cinque e i sei miliardi (2015), denari sborsati quasi sempre in contanti. Sono stati identificati oltre 250 centri di smistamento clandestini gestiti dai trafficanti. I poliziotti a dodici stelle non parlano esplicitamente di rete transatlantica, ma il sospetto è legittimo, tanto ampie sono l’organizzazione e la possibilità di guadagno, il disturbo politico che il dramma dei profughi concede ai criminali. "Abbiamo indicazioni che la stessa Isis possa essere entrata in questa attività", interviene Ann Mettler, nata a Malmö da madre svedese e padre tedesco, una lunga carriera nella strategia politica, a Washington, al World Economic Forum, al Lisbon Council, quindi alla Commissione per seminare idee e orientamenti. L’Isis? "Non è necessariamente nel traffico illegale - risponde -, però potrebbe offrire dei passaggi sicuri". Ad esempio "non creano ostacoli a chi attraversa un loro territorio". La diagnosi è che il mancato controllo dei flussi migratori è una minaccia concreta dalle mille facce. Nel documento sui migranti, Europol aggiunge un’insidia. Scrive che "i terroristi potrebbero usare le risorse dei trafficanti per raggiungere i propri obiettivi". Ann Mettler è convinta che "ovunque vi sia un aumento di comportamenti fuorilegge, i "policymaker" hanno il dovere di essere attenti". È sicuro, dice, "che ci sono stati episodi di corruzione, forse anche fra le persone che vigilano sui confini". Brutta storia. Perché "ogni volta che ti lasci scappare la situazione di mano, è duro riprendere il controllo". L’Epsc è lineare. "Rimpiazzare la migrazione illegale con quella legale", recita l’analista. Il nodo è che, in genere, l’Europa non è capace di rispedire a casa quelli che arrivano, così chi insegue l’asilo sa che, per averlo, deve arrivare fisicamente da noi. Non c’è altro canale. "È un sistema guasto che offre incentivi errati - insiste la svedese-. Così li spingiamo nell’economia clandestina e alimentiamo comportamenti fuorilegge. Senza contare l’effetto attrazione, perché sentono di non aver nulla da perdere". Ne conseguono i morti affogati, i campi di disperati, la sfiducia dei cittadini. "Sebbene l’Europa appaia ricca - argomenta la signora Mettler - abbiamo una ripresa lenta, 21 milioni di disoccupati, e assistiamo alla crescita del populismo, soprattutto d’estrema destra". La gente ha paura. È circondata da instabilità e conflitti. Il pericolo per l’Europa è che "ha dato l’impressione di aver perso il controllo delle frontiere". Va corretta con gli accordi internazionali, come quello coi turchi "che è un precedente che può essere usato con altri Paesi". E con la definizione di vie di accesso legali al continente. "Se ci fosse un sistema di reinsediamento "normale" sotto l’ala dell’Onu - elabora la responsabile dell’Epsc - non sceglieremmo quelli che arrivano (più che altro giovani), bensì famiglie con figli, handicappati, anziani". La signora Mettler è convinta che legalizzare l’asilo e i flussi batterebbe i trafficanti, è "l’unico modo per rendere sostenibile la situazione". Oltretutto, assicura, "abbiamo bisogno dei migranti per bilanciare il deficit demografico". Legalizzare, ecco il "gamechanger". E gli scettici? Una volta fermati gli sbarchi e ripreso saldamente il timone delle migrazioni, si convinceranno. I movimenti populisti e gli errori delle élite di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 27 maggio 2016 Dietro i movimenti cosiddetti populisti ci sono problemi autentici. Solo se verranno offerte risposte convincenti, essi potranno essere battuti. Se si sceglie il silenzio o il disprezzo, allora hanno già vinto e l’Europa andrà in pezzi. Le battaglie politiche sono condotte usando le parole e se le parole di qualcuno sono sbagliate la sua sconfitta è sicura. Chi continua a usare come un insulto la parola "populisti" per bollare gli attuali movimenti di protesta in crescita in tutta Europa (ma anche negli Stati Uniti), sembra non capire quanto grande sia il favore che ha già fatto e che sta facendo a quei movimenti. Senza rendersene conto sta dicendo all’opinione pubblica, agli elettori, che di qua ci sono coloro che comandano, le élite al potere, con il loro palato fino e il birignao e le arie da aristocratici, e dall’altro lato i "populisti", gli uomini e le donne rudi che si rivolgono al popolo, chiedono il voto del popolo (contro le suddette élite) e parlano anche "come" il popolo. Una volta ascoltate le élite fare concioni contro i populisti, per chi altri, se non costoro, potrebbe mai votare il "popolo"? Il vero problema, e il tarlo, delle democrazie occidentali non sono i suddetti movimenti di protesta. Sono le non risposte o le risposte sbagliate delle élite, degli establishment. Sono loro a portare la responsabilità per la crescita dei movimenti che li sfidano. Questi ultimi non sono la malattia ma la febbre che segnala la malattia. Di fronte alla marea montante dei movimenti di protesta le élite hanno fin qui risposto con due strategie. La prima è consistita nell’inazione: non fare niente, limitarsi a condannare con parole dure tali movimenti, delegittimarli in ogni modo, e aspettare che passi "‘a nuttata". La seconda strategia, a cui talvolta si è fatto ricorso quando ci si è accorti che la prima non funzionava, è consistita nel cavalcare la protesta: come hanno fatto i socialisti austriaci al governo minacciando la chiusura del valico del Brennero. Entrambe le strategie sono fallite. La prima perché, ignorando i problemi che hanno fatto insorgere le proteste, non facendo nulla per affrontarli, le ha alimentate. La seconda perché, legittimando implicitamente le tesi dei protestatari, ha convinto gli elettori che fosse meglio fidarsi degli originali anziché delle copie, dei protestatari anziché di coloro che li scimmiottavano. È così che i partiti storici austriaci (socialdemocratico e cristiano - sociale) si stanno suicidando, stanno aiutando chi vuole spazzarli via. Sono problemi autentici quelli che alimentano i movimenti di protesta. Solo se alle opinioni pubbliche verranno offerte convincenti soluzioni, diverse da quelle proposte da quei movimenti, essi potranno essere battuti. Al di là delle differenze, anche al di là del fatto che essi si collochino a sinistra (come Sanders) o a destra (come Trump o Le Pen o tanti altri), o in qualunque altro luogo, ciò che li accomuna, il loro minimo comun denominatore, è la voglia di isolazionismo politico e di protezionismo economico. Il cosiddetto antieuropeismo ne è una conseguenza. È il loro modo di intercettare le paure (più che comprensibili, da non disprezzare affatto) delle persone di fronte a un mondo interdipendente, di fronte a ciò che viene malamente riassunto con il termine "globalizzazione". Se si sceglie il silenzio o il disprezzo nei confronti di quelle paure, allora i cosiddetti "populisti" hanno già vinto: l’Europa andrà in pezzi, al pari dei legami transatlantici, ci troveremo in un mondo occidentale completamente "ri-nazionalizzato" che ricorderà una delle fasi più buie della storia europea recente, gli anni Trenta dello scorso secolo. Solo se quelle paure verranno prese sul serio e si riuscirà a mostrare alle opinioni pubbliche che proprio grazie all’Europa e al suo mercato comune, nonché grazie all’interdipendenza globale, si potranno avere più sviluppo, più posti di lavoro, più benessere, solo allora sarà possibile contrastare efficacemente la propaganda dei movimenti di protesta. Se invece si sceglierà un atteggiamento protezionista (come ha già fatto Hollande a proposito del trattato di libero scambio con gli Stati Uniti) allora si darà ragione a Marine Le Pen e a tutti gli altri come lei, non si offrirà agli elettori un buon motivo per non votarli. La stessa cosa vale per l’immigrazione. O le classi di governo europee riusciranno a trovare la forza di fare una politica comune mostrando alle opinioni pubbliche che in tal modo è possibile governare senza troppi traumi questo fenomeno, oppure i movimenti che vogliono la chiusura delle frontiere nazionali, quali che ne siano i costi economici e politici, alla fine vinceranno. Occorre anche smetterla con le sciocchezze e le superficialità politicamente corrette (anch’esse alimentano il voto di protesta) in materia di multiculturalismo. Che le nostre società siano multiculturali è un fatto. Ma ritenere che questo non sia anche un problema che richiede di essere governato è un atteggiamento che prepara disastri. Occorre soprattutto chiarire alle opinioni pubbliche che non si intende permettere che si formino ordinamenti giuridici paralleli, che non possono e non devono esserci eccezioni, culturalmente o religiosamente giustificate, all’uguale trattamento di tutti i cittadini. Se si vogliono rassicurare le opinioni pubbliche occorre scolpire questi principi nella roccia, nelle leggi e, meglio ancora, nelle costituzioni. Abbiamo bisogno di un melting pot, di una pacifica convivenza fra persone di diversa origine all’insegna di leggi uguali per tutti, non di una "segmentazione" di tipo libanese (tanti gruppi organizzati, ciascuno con le proprie leggi) delle nostre società. Oltre che ridicolo, il "vade retro" rivolto agli attuali movimenti di protesta è politicamente controproducente. È la regola della democrazia: devi saper offrire agli elettori, alle prese con problemi veri, soluzioni migliori, più convincenti, di quelle del tuo avversario. Queste soluzioni convincenti non sono state ancora proposte. Europa, cresce l’islamofobia e torna l’antisemitismo di Guido Caldiron Il Manifesto, 27 maggio 2016 Rapporto sul razzismo. Sotto accusa "alcuni governi che hanno fatto ricorso a delle misure restrittive o hanno costruito barriere alle frontiere". Sono poche decine di pagine, ma la fotografia che ne esce non potrebbe essere più sinistra. Stretta tra i bisogni umanitari frutto dell’arrivo sempre più consistente di profughi e migranti che fuggono guerre, violenza e miseria, la minaccia del terrorismo fondamentalista che è riuscito a colpire fin nel cuore di Parigi, immersa in un clima di insicurezza e sfiducia che è spesso frutto delle rigide politiche di austerity subite negli ultimi anni dai settori più deboli delle sue società, l’Europa vede letteralmente nero. Il rapporto annuale della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, Ecri, diffuso ieri a Strasburgo (coe.int/ecri), fotografa minuziosamente la situazione e ne restituisce un quadro d’insieme che indica senza mezze misure come nei paesi del Vecchio continente discriminazioni e atti di intimidazione o di vera e propria violenza razziale siano diventati una costante. I dati raccolti nel corso del 2015, anno che ha già visto la presentazione da parte dello stesso organismo di analoghi rapporti su alcune specifiche situazioni nazionali, compresa quella del nostro paese, mostrano in particolare il diffondersi in tutta Europa di un "sentimento anti-immigrati sempre più forte" e "l’emergere dell’islamofobia" come caratteristica centrale del nuovo razzismo. A giudizio degli esperti e dei ricercatori indipendenti che hanno redatto il rapporto per conto di questo organismo di tutela dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, il contesto nel quale ci si muove è quello dominato della crisi migratoria dell’ultimo anno e dalle stragi terroristiche compiute nella capitale francese nel novembre del 2015: i principali fattori che hanno influenzato sia il dibattito tra i cittadini che le scelte assunte dalla politica nella maggior parte dei paesi. In questo senso, se in passato l’Ecri denunciava il pericolo di gruppi estremisti e xenofobi, ma minoritari, oggi sotto accusa sono sempre più di frequente "alcuni governi che hanno fatto ricorso a delle misure restrittive o hanno costruito barriere alle frontiere" e che hanno cercato di "dissuadere i migranti e i richiedenti asilo dal fermarsi sul territorio del loro paese", arrivando perfino a "trasformare in un reato l’assistenza ai migranti in situazione irregolare". Facile pensare al muro di filo spinato eretto lungo il confine sud-orientale dell’Ungheria di Viktor Orbán e diventato rapidamente una sorta di triste modello continentale. In alcuni contesti, e in questo caso la Germania è citata esplicitamente, al montare di una generica retorica populista contro la "cultura dell’accoglienza", si sono poi rapidamente affiancati "discorsi apertamente xenofobi e islamobobi, mentre hanno cominciato a moltiplicarsi gli attacchi contro i centri destinati ad accogliere i profughi". L’ostilità nei confronti di chi arriva dalla sponda meridionale del Mediterraneo, si è infatti sempre più spesso arricchita di toni anti-islamici, veicolati in particolare da movimenti populisti di destra, vale a dire dal tentativo di presentare profughi e migranti come in qualche modo assimilabili al terrorismo fondamentalista se non come alleati o complici naturali degli jihadisti del Bataclan. Il rapporto europeo non sottovaluta però come le emergenze che si sono registrate in particolare nella seconda metà del 2015 poggino in realtà su un clima sociale reso già molto difficile dalle "misure di austerity che hanno aggravato la situazione dei gruppi vulnerabili", colpendo da un lato proprio coloro che sono vittime di discriminazioni e xenofobia, le famiglie frutto dell’immigrazione, e favorendo dall’altro il crescere presso altri settori della popolazione di quel risentimento poi veicolato in senso xenofobo da movimenti e partiti di destra. In questo quadro, non stupisce che l’Ecri ribadisca come anche l’antisemitismo torni a crescere in alcuni paesi, fomentato dai gruppi neonazisti ma anche dai sostenitori del radicalismo islamico. Il fascismo non è un’opinione, è un crimine di Saverio Ferrari Il Manifesto, 27 maggio 2016 Lanciata su change.org e trasferitasi poi nelle piazze, è in corso in Lombardia la campagna di raccolta firme per mettere fuori legge le organizzazioni neofasciste e neonaziste. La Regione guidata dal leghista Maroni è ormai tra le principali mete europee di incontri, raduni e concerti dei nuovi seguaci di Hitler e di Mussolini. Il prossimo oltraggio a Milano, domenica 5 giugno, con il torneo di calcetto promosso da Lealtà azione. Basterebbe partire dalla sponsorizzazione di lunedì 17 maggio del torneo di calcetto promosso dal gruppo neofascista di Lealtà azione, previsto per domenica 5 giugno a Milano, nel giorno stesso in cui la città è chiamata al voto per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale. Stiamo parlando della regione Lombardia guidata dal leghista Roberto Maroni. Ancor prima, nell’aprile del 2012, in occasione di un raduno di reduci repubblichini, la stessa giunta fece pervenire una corona di fiori al cimitero Maggiore che fu beffardamente, come riportato dal Corriere della Sera, posta a fianco di un’insegna delle SS. Sta anche in questi atti una delle ragioni non secondarie per cui la Lombardia si è progressivamente collocata a livello europeo come meta di incontri, raduni e concerti di ispirazione neonazista. Quasi impossibile ricordarli tutti, dalla "festa" del 20 aprile 2013 a Malnate (Varese) per il "compleanno" di Adolf Hitler all’incontro del 15 giugno dello stesso anno a Rogoredo, promosso dagli Hammerskin con gruppi neonazisti da tutta Europa, al convegno milanese di Casa Pound con Alba dorata del 15 marzo 2014, al concerto nazi del 1° novembre dello scorso anno a Trezzano, con arrivi da Germania, Austria e Finlandia, al meeting internazionale di Forza nuova a Cantù a metà settembre dello scorso anno, con organizzazioni europee antisemite, al festival nazionale di Casa Pound a Castano Primo, sempre lo scorso settembre, all’Hammerfest 2015 del 28 novembre passato. Ultimo, in ordine di tempo, un convegno il 20 maggio promosso a Caidate (Varese) dalla cosiddetta "Comunità militante dei Dodici raggi" (Do.Ra) con tanto di svastica al tavolo della presidenza. Tra complicità e indifferenze - In alcune di queste occasioni si è addirittura giunti all’esibizione di gruppi musicali banditi nei Paesi d’origine. Un caso unico in Europa che ha fatto di questa regione un’enclave accogliente, grazie al mancato contrasto di questure e prefetture, secondo i nuovi dettami governativi volti a consentire lo svolgimento di qualsiasi manifestazione razzista o apologetica del fascismo, accompagnato dall’indifferenza di importanti amministrazioni comunali, vedi Milano. Il bilancio della giunta Pisapia, sotto questo profilo, è decisamente negativo. In un crescendo, tra colpevoli silenzi, disattenzioni, ma anche alcune complicità, si è passati in novembre dall’iscrizione al Famedio, dove sono posti i nomi dei cittadini illustri di Milano, di Franco Maria Servello (il federale missino dei tempi di San Babila e dell’uccisione con una bomba a mano il 12 aprile 1973 dell’agente di polizia Antonio Marino nel corso di una manifestazione dallo stesso promossa), alla posa per la prima volta di una corona del Comune (grazie all’assessore Franco d’Alfonso) in omaggio dei caduti repubblichini al campo 10 del cimitero (dove giacciono anche le spoglie di diverse SS), allo scandaloso sfilare in ordine militare sia il 24 che il 25 aprile, nel giorno della Liberazione, di folti gruppi di neonazisti nello stesso cimitero al grido di "Sieg Heil!". Mai nulla di simile in precedenza era accaduto. Nelle strade e nelle piazze - Di fronte a questo evolversi, a partire dal dicembre scorso, un ampio arco di forze, composto tra gli altri da diverse sezioni dell’Anpi, dalla Fiom e dall’Arci di Milano, dall’associazione Dax e dal comitato Carlo Giuliani, dalle reti antifasciste di Brescia, Cantù, Cremona, Sondrio e Varese, da Memoria antifascista e dall’Osservatorio democratico sulle nuove destre, ha promosso su change.org una petizione popolare on-line ("Per la messa fuori legge di tutte le organizzazioni neofasciste e neonaziste") rivolta al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Camera e Senato per la messa fuori legge di tutte le organizzazioni neofasciste e neonaziste. Lo slogan, "il fascismo non è un’opinione come le altre è un crimine", si ispira alla famosa frase di Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti nel 1924 dopo aver denunciato in Parlamento i brogli elettorali e le ruberie del nascente regime. La campagna si è presto allargata al contributo di altri soggetti non solo lombardi e da aprile si è trasferita nelle piazze e nelle strade con banchetti e presidi superando a oggi complessivamente le 25 mila firme. Continuerà fino alla fine dell’estate. Alcune legittimazioni nella campagna elettorale in corso a Milano, dalla presenza di dichiarati neofascisti nelle liste della Lega alla disinvoltura del Pd, il cui segretario metropolitano, Pietro Bussolati, si è recentemente confrontato amabilmente con il candidato sindaco (Nicolò Mardegan) della lista sostenuta da Casa Pound (con buona pace del ministro Boschi), dicono della bontà e necessità di questa iniziativa. Egitto: quattro mesi dopo su Giulio è silenzio di Stato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 maggio 2016 Delle misure promesse dal governo nemmeno l’ombra: Roma e Il Cairo chiudono il capitolo Regeni. E quello della repressione interna: a proteggere al-Sisi c’è la Ue che viola l’embargo di armi. Sono trascorsi quattro mesi da quando Giulio Regeni scomparve a poca distanza dal suo appartamento nel quartiere di Dokki, al Cairo, in una serata surreale: c’era silenzio nella capitale egiziana, blindata da polizia ed esercito mandati dal presidente golpista al-Sisi a impedire che il popolo ricordasse la sua rivoluzione. Giulio è sparito nel quinto anniversario di piazza Tahrir, nelle maglie della repressione di Stato, nome tra i nomi di desaparecidos dimenticati nell’oblio delle galere. A quattro mesi di distanza di verità non ce n’è l’ombra. Si sente parlare spesso di ragion di Stato, formuletta per coprire l’assenza di giustizia. Di Giulio parlano solo i cittadini. Non ne parlano i governi che dopo qualche screzio (solo così possono essere definite le labili misure prese da Roma e le reazioni stizzite del Cairo, alla luce dell’attuale apatia italiana) hanno chiuso il capitolo Regeni. Chiudere il capitolo Regeni, però, significa anche chiudere la porta sulle sofferenze del popolo egiziano, schiavo di un regime brutale che neppure trent’anni di Mubarak sono mai riusciti ad imbastire. Eppure nulla è cambiato nelle pratiche del Ministero degli Interni e della presidenza: come schiacciasassi polizia e esercito continuano nella repressione. Gli ordini di detenzione contro simboli della società civile continuano ad essere prolungati senza che si giunga ad alcun processo: è il caso di Ahmed Abdallah, direttore della Commissione Egiziana dei Diritti e le Libertà, dietro le sbarre da oltre un mese; dei giovani di Aftal al-Shawarea (Bambini di Strada), gruppo satirico che ha spaventato il regime con la videocamera di un telefono cellulare; dei giornalisti Badr e el-Sakka e dell’avvocato Malek Adly. E se ogni tanto una buona notizia sembra ricomparire dalle sabbie mobili dell’oppressione, l’entusiasmo ha vita breve: potrebbero restare in prigione i 47 manifestanti arrestati il 25 aprile e condannati a 5 anni di galera a cui martedì la corte di appello di Giza aveva cancellato la pena. Gli avvocati avevano chiesto la dilazione della multa da 11mila euro, 100mila sterline egiziane, a testa: un pagamento a rate, richiesta generalmente accettata dai tribunali egiziani. Ma non stavolta: o pagano tutto o resteranno altri due mesi dietro le sbarre. Allora ci si auto-organizza: il partito nasseriano al-Karamah ("Dignità") ha lanciato una campagna di raccolta fondi per trovare i soldi necessari a coprire le 470mila sterline egiziane che restituiranno la libertà ai 47 manifestanti. Ma per ogni sfida che la società civile lancia al regime c’è chi para il colpo, un ricevitore internazionale che rispedisce indietro le minacce ad al-Sisi. È l’Europa dell’immunità, l’Europa che nel regime cariota vede il sostegno necessario nella "guerra al terrore" e in quella ai migranti. L’ultima denuncia la muove Amnesty International che ricorda a tutti che sull’Egitto vigerebbe un embargo europeo sulla vendita di armi. Era stato imposto dopo i massacri di Rabaa al-Adweya e Nahda in cui furono uccisi quasi mille manifestanti, il 14 agosto 2013, un mese dopo il golpe che depose il presidente democraticamente eletto Morsi. Eppure i leader europei non nascondono affatto la montagna di accordi militari che continuano a stringere con Il Cairo. Basti pensare al presidente francese Hollande che un mese fa volava da al-Sisi mentre Roma richiamava l’ambasciatore per protesta: tra gli accordi siglati c’era la vendita di un sistema militare satellitare e navi da guerra dal valore di un miliardo di euro. Metà degli Stati membri della Ue, 12 su 28, non hanno mai sospeso il trasferimento di armi all’Egitto, dice Amnesty: solo nel 2014 sono state autorizzate 290 licenze per l’esportazione di equipaggiamento militare (veicoli blindati, elicotteri, munizioni, pistole, armi pesanti, tecnologia di sorveglianza), per un totale di 6.77 miliardi di dollari. E seppure in prima fila ci sia la Bulgaria, sono i paesi più potenti a proseguire nel business congiunto: Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. "Fornire armi che probabilmente alimentano la repressione interna è contrario al Trattato di commercio delle armi [siglato nel dicembre 2014] di cui i paesi Ue sono membri", dice Brian Wood, capo della sezione sul controllo delle armi di Amnesty. In prima linea c’è l’Italia, la stessa che dovrebbe chiedere giustizia per Giulio: nel 2014 Roma ha autorizzato 21 licenze di vendita per quasi 34 milioni di euro; nel 2015 3.661 fucili da 4 milioni; quest’anno già 73mila euro in pistole e revolver. Senza dimenticare chi opera oltreoceano: gli Stati Uniti e la loro "paghetta" al Cairo, 1.3 miliardi di dollari in aiuti militari all’anno. A rispondere ad Amnesty è il ministro degli Esteri egiziano Shoukry che, pur ammettendo di non averlo letto, definisce il rapporto "esagerato": "Non ho visto il rapporto che attribuisce alla Ue la responsabilità di quello che avviene in Egitto. Quelle armi di cui Amnesty parla hanno significativamente contribuito alla sicurezza e alla difesa di forze armate e polizia". India: la lite sui marò e la lunga strada verso una soluzione di Danilo Taino Corriere della Sera, 27 maggio 2016 Ora i due Fucilieri di Marina potranno aspettare la decisione in Italia. Il contenzioso bilaterale tra Roma e Delhi sarà "solo" una questione di diritto internazionale. Pare che tra i giovani romani sia diffusa una frase-tormentone da usare in ogni occasione: "E i marò?". E i marò tra pochi giorni saranno entrambi in Italia. La Corte Suprema indiana ha deciso il rientro immediato di Salvatore Girone da Delhi; Massimiliano Latorre è già qui. I ragazzi hanno però ragione: sembrava che la vicenda dovesse trascinarsi per sempre, estenuante. Non che sia finita: tra qualche anno ci sarà il processo per l’uccisione di due pescatori al largo delle coste del Kerala avvenuta il 15 febbraio 2012, nel frattempo si discuterà di fronte a un collegio arbitrale internazionale sul dove tenerlo. Ma, intanto, i due Fucilieri di Marina potranno aspettare la decisione in Italia, il contenzioso bilaterale tra Roma e Delhi sarà "solo" una questione di diritto internazionale (quindi meno politica) e le polemiche e le ansie potranno sgonfiarsi. Dopo un rosario di errori nella gestione del caso, è un successo per l’Italia. Non definitivo, ma carico di insegnamenti politici e diplomatici: non c’è niente come una buona crisi per imparare. Ricostruire com’è stata gestita in oltre quattro anni la disputa con Delhi non sarà pacifico, ci sono opinioni molto diverse. Qualche punto fermo si può però stabilire, tenendo presente che il ritorno di Girone non è "una vittoria": del merito delle accuse non si è parlato nei tribunali e la decisione di farlo rientrare è una misura provvisoria. Il momento chiave dei quattro anni sta nella decisione di avviare le procedure per l’arbitrato internazionale. Si è trattato del passaggio dalla ricerca di un accordo politico con l’India al mettere le cose su un terreno giuridico. Non è stata però una svolta semplice, anzi. Dal momento in cui i due marò si consegnarono alle autorità indiane, l’Italia cercò una soluzione diplomatica, governo Mario Monti a Roma, governo Sonia Gandhi a Delhi. Non si poteva fare, per motivi politici soprattutto indiani: la signora Primo ministro sarebbe stata accusata di "favoritismo italiano". Ciò nonostante, quella strada fu perseguita a lungo da Roma e ciò significò riconoscere l’autorità della giustizia indiana sul caso. Un errore che ha allungato la sua ombra su tutti gli anni successivi. A un certo punto, a Roma - governo Letta, al ministero degli Esteri Emma Bonino - ci si rese conto che l’unica soluzione sarebbe stata fare uscire il contenzioso dal rapporto politico bilaterale e metterlo su un binario di diritto internazionale: l’Italia riteneva che, quel 15 febbraio 2012, Girone e Latorre fossero in missione antipirateria protetti dalla bandiera e dallo Stato italiani; il processo, dunque, non doveva tenersi in India ma in Italia. Al ministero degli Esteri fu presa la decisione di avviare la procedura per l’arbitrato internazionale e quindi di non riconoscere più la giurisdizione indiana sul caso. Ma la situazione era compromessa: per quasi due anni si era riconosciuto nei fatti il diritto degli indiani di processare Girone e Latorre, difficilmente un tribunale internazionale avrebbe accolto favorevolmente il cambiamento di strategia italiano. Si trattava di ricostruire il caso. Cambiava però di nuovo il governo: Renzi a Palazzo Chigi e Federica Mogherini alla Farnesina. E a Delhi andava al potere Narendra Modi. La nuova ministra degli Esteri italiana seguiva la strada tracciata e per preparare l’arbitrato nominava un nuovo gruppo di giuristi internazionali guidati dal britannico Daniel Bethlehem. A fine 2014, Mogherini si trasferiva a Bruxelles, Renzi tentava senza successo la scorciatoia di un accordo tra servizi segreti. Fino a quando, il 26 giugno 2015, veniva chiesto formalmente l’arbitrato internazionale - agli Esteri Paolo Gentiloni, alla Difesa Roberta Pinotti, poi sostenuto da una forte iniziativa diplomatica. Si è così arrivati alla soluzione di questi giorni. Il tutto tra polemiche e accuse di incompetenza. Per un’Italia che non ha frequenti contenziosi internazionali del genere, si è trattato in realtà di un processo di apprendimento, passato da più governi. Importante ora discutere degli errori, anche se per una commissione parlamentare sarebbe meglio attendere la fine della vicenda. Meno importante impegnarsi su colpe e meriti, che possono essere distribuiti copiosamente ma con la consapevolezza che per molto tempo nessuno ha formulato una strategia chiara. Soprattutto, occorrerà riconoscere il punto chiave: quando non si è in guerra e quando si ha un contenzioso interno alla comunità degli Stati, un Paese serio ha un’arma potente, il diritto internazionale. Che non è fatto per litigare ma per risolvere i litigi e normalizzare i casi insolubili per altre strade. Sembra poco politico ma richiede coraggio: in tribunale si può perdere. Ma l’alternativa l’avevano colta i ragazzi di Roma. Medio Oriente: le condanne a morte che dividono Gaza di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 maggio 2016 Il governo di Hamas, sotto pressione, pronto a far eseguire la condanna a morte per 13 palestinesi responsabili di omicidi e altri reati comuni. La protesta dei centri per i diritti umani. Il Pchr: sono esecuzioni extragiudiziali perché non ratificate dal presidente dell’Anp. "Siamo contro la pena di morte e lo siamo ancora di più in questo caso perché l’esecuzione di una condanna a morte deve essere ratificata dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese che invece si rifiuta di farlo". Khalil Shahin spiega la posizione della sua organizzazione, il Centro palestinese per i diritti umani, sul tema al centro da alcuni giorni del dibattito a Gaza: l’esecuzione di 13 persone, condannate a morte per omicidio e reati comuni. Una esecuzione che le famiglie delle vittime vorrebbero pubblica, "per dare un esempio a tutti". Il governo di Hamas sino ad oggi non ha accolto la richiesta ma potrebbe farlo presto, sull’onda dell’emozione popolare per una serie di delitti che hanno scosso Gaza in questi ultimi mesi. Il procuratore generale Ismail Jaber da parte sua ha già dato pieno sostegno all’esecuzione pubblica. Le 13 condanne a morte hanno fatto passare, in secondo piano, i raid aerei compiuti mercoledì notte dall’aviazione israeliana contro postazioni di Hamas nei pressi del campo profughi di al Bureij, dopo il lancio di un razzo da Gaza verso il sud di Israele. L’escalation non ha fatto danni su entrambi i lati del confine, tuttavia ha confermato la fragilità della situazione. Appena qualche giorno fa si era temuto l’inizio di una nuova offensiva israeliana, simile a quella del 2014, in conseguenza delle incursioni delle forze armate dello Stato ebraico nella Striscia, alla ricerca di gallerie sotterranee scavate dall’ala militare di Hamas. Il movimento islamico aveva reagito proclamando di essere pronto a respingere le forze israeliane entrate a Gaza. Poi la situazione si è calmata. La popolazione di Gaza comunque sa che una nuova guerra è alle porte. La disoccupazione, la mancanza di acqua potabile e di energia elettrica e il blocco israelo-egiziano di Gaza restano i temi principali per i palestinesi. Ora discute anche dell’aumento della criminalità nella Striscia, dovuto all’aggravarsi delle condizioni economiche. Alla crescita del numero dei furti, in particolare nelle abitazioni, si è abbinata quella degli omicidi, che in molti casi avvengono proprio durante le rapine. La popolazione reclama l’uso del pugno di ferro e per le forze di sicurezza di Hamas la lotta al crimine ormai è la priorità. Il leader a Gaza del movimento islamico, Ismail Haniyeh, sa che su questo tema si gioca una parte del consenso popolare ed appare incline ad applicare la pena di morte anche per gli omicidi compiuti da criminali comuni. Due giorni fa i parlamentari di Hamas a Gaza hanno votato a favore dell’esecuzione dei 13 condannati, anche in mancanza della ratifica del presidente dell’Anp, ossia del rivale Abu Mazen che è anche leader di Fatah. "È stato un voto illegittimo - spiega Khalil Shahin - lo Statuto e il codice di procedura penale parlano in modo inequivocabile. Una condanna a morte deve essere ratificata sempre dal presidente. E Hamas sino ad oggi ha proclamato di essere a Gaza parte dell’Autorità nazionale palestinese". Per questo, aggiunge Shahin, "consideriamo queste condanne a morte delle esecuzioni extragiudiziali, una violazione della legalità palestinese". Hamas, che ha già applicato a Gaza la pena di morte per il reato di spionaggio, non riconosce l’autorità di Abu Mazen che, sostiene, resta in carica nonostante il suo mandato sia scaduto nel 2009. Sulle esecuzioni in pubblico però non ha ancora preso una decisione definitiva, per merito anche delle prese di posizione di alcune importanti ong internazionali per la tutela dei diritti umani. Iran: lotta al narcotraffico, diciassette detenuti giustiziati in 48 ore Ansa, 27 maggio 2016 Diciassette detenuti sono stati giustiziati tra ieri e oggi in due differenti carceri di Karaj, città a ovest di Teheran. Lo ha denunciato Iran Human Rights (Ihr), un’Ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica, citando fonti locali. Secondo l’organizzazione, sei prigionieri sono stati impiccati ieri mattina nella prigione Gehzelhesar. Erano tutti accusati di narcotraffico. Altri 11 detenuti sono stati giustiziati stamane nel carcere Rajaishahr. Dieci di loro erano stati condannati per omicidio e uno per stupro. Tra gli 11, secondo Ihr, figurerebbe anche un giovane che era minorenne quando gli è stata inflitta la condanna a morte. "Malgrado il ritmo allarmante delle esecuzioni (in Iran, ndr), la comunità internazionale non ha ancora mostrato alcuna reazione. Invitiamo l’Onu, l’Ue e tutti i Paesi che hanno relazioni diplomatiche con l’Iran a condannare queste esecuzioni e a chiedere un’immediata moratoria sulla pena di morte in Iran", ha commentato il fondatore e portavoce di Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam. Zimbabwe: il presidente Mugabe concede la grazia a oltre 2mila detenuti Nova, 27 maggio 2016 Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha concesso la grazia ad oltre 2 mila detenuti nel tentativo di alleviare il sovraffollamento nelle carceri del paese. Lo riferisce il quotidiano locale "Herald", secondo cui la grazia è stata concessa in particolare a tutti i minori detenuti, indipendentemente dalla gravità dei crimini commessi, e a tutte le donne, ad eccezione di quelle condannati a morte o all’ergastolo. Secondo stime ufficiali riportate dal quotidiano, le 45 carceri dello Zimbabwe ospitano attualmente più di 19.500 detenuti anche se potrebbero ospitarne un massimo di 17 mila.