Effetto Pannella, ecco il ddl che apre all’amnistia e all’indulto di Marco Sarti linkiesta.it, 26 maggio 2016 Il parlamentare del Pd Manconi presenta un disegno di legge costituzionale in memoria del leader radicale e delle sue battaglie: per votare amnistia e indulto basterà la maggioranza assoluta delle Camere. Il sostegno trasversale dei colleghi. Un disegno di legge costituzionale dedicato a Marco Pannella. Un provvedimento appena presentato al Senato che renderà più facile l’approvazione della concessione dell’amnistia e dell’indulto. Oggi servono i due terzi dei parlamentari, nell’obiettivo dei firmatari basterà la maggioranza assoluta. Il promotore dell’iniziativa è il senatore democrat Luigi Manconi, presidente della commissione sui diritti umani. Ma il fronte a sostegno del progetto è rigorosamente bipartisan. Insieme all’esponente del Partito democratico ci sono Luigi Compagna (Conservatori e riformisti), Riccardo Mazzoni (Ala), Altero Matteoli (Forza Italia) e Peppe De Cristofaro (Sinistra Italiana). "Oggi offriamo l’opportunità di verificare se l’omaggio a Pannella era mera ipocrisia o può avere un seguito concreto". L’argomento è delicato, da tempo si presta a polemiche e strumentalizzazioni. Il tema delle carceri e dei carcerati rappresenta una delle battaglie storiche del leader radicale: da sempre impegnato in prima persona per denunciare il sovraffollamento e la malasanità, a tutela dei diritti umani e della dignità delle persone. "Oggi offriamo, nei fatti, l’opportunità di verificare se l’omaggio a Pannella era mera ipocrisia o può avere un seguito concreto" spiega Manconi davanti a Rita Bernardini e Sergio D’Elia, presenti alla conferenza stampa a Palazzo Madama. Nei prossimi giorni il testo del disegno di legge sarà inviato a tutti i senatori per le sottoscrizioni. Il provvedimento interviene modificando l’articolo 79 della Costituzione, abbassando il quorum richiesto, laddove si prevede che "l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale". È un articolo piuttosto recente. Inserito nel 1992 in piena bufera Tangentopoli, aveva proprio lo scopo di rendere difficile l’approvazione delle misure di clemenza in favore dei carcerari. Obiettivo raggiunto. "Fu un’iniziativa comprensibile ed efficace - spiega Manconi - tanto che da allora fino ad oggi è stato approvato solo un indulto, nel 2006". È arrivato il tempo di cambiare? "Oggi bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che quella scelta è criticabile, in quanto ha sottratto due misure importanti, come l’amnistia e l’indulto, destinate a diminuire l’accumulo delle cause e l’affollamento delle carceri, agli strumenti di politica del diritto in materia penale". Strumenti d’eccezione, riconoscono i proponenti del disegno di legge. Ma necessari per anticipare "imprescindibili" riforme del sistema. Oggi nelle galere italiane sono rinchiuse 53 mila persone. Sei anni fa erano oltre 68mila, ma le difficoltà rimangono. In tema di sovraffollamento carcerario, "l’amnistia e l’indulto sono necessari per riportare l’Italia nella legalità" chiarisce il senatore Mazzoni. "Visto che siamo sotto costante osservazione della corte di Strasburgo". Certo, nelle carceri italiani la situazione sta migliorando. Lo dimostrano i dati. Oggi nelle galere italiane sono rinchiuse 53 mila persone. Sei anni fa erano oltre 68mila, 15mila detenuti in più. Eppure le difficoltà rimangono. Come dimostra l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, nonostante la diminuzione della popolazione carceraria, il tasso di sovraffollamento resta elevato. Il rapporto tra detenuti e posti letto è del 108 per cento (in Germania il tasso è dell’81 per cento, in Spagna dell’85 per cento). Senza considerare che oltre un terzo dei richiusi è ancora in attesa di sentenza definitiva. "Questo governo ha approvato misure che hanno alleviato l’eccezionale emergenza delle carceri" conferma il senatore del Pd Sergio Lo Giudice. Ma molto è ancora da fare. "Là dove c’è anche un solo individuo i cui diritti sono violati, è necessario intervenire". Amnistia, proviamo a ragionare di Mauro Mellini L’Opinione, 26 maggio 2016 Il senatore Luigi Manconi (Pd), con l’adesione di altri di vari Gruppi, ha presentato un disegno di legge costituzionale di modifica dell’articolo 79 della Costituzione relativo ad amnistia ed indulto che, così come fu modificato nel 1992, proprio nei giorni di "Mani Pulite", oggi prevede la necessità del voto favorevole di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per deliberare tali provvedimenti. In una conferenza stampa, cui sono intervenuti alcuni seguaci di Marco Pannella, Manconi ha spiegato che tale iniziativa è un primo passo per la realizzazione di quanto, per un certo periodo, fu oggetto delle prediche e dei digiuni di Marco Pannella, che chiedeva "amnistia generale". Manconi è persona rispettabile, se non può dirsi un "garantista militante" è certo disponibile per questioni di giustizie e di diritti civili. Ha sottolineato che l’introduzione dell’altissimo quorum necessario per l’approvazione dei cosiddetti "provvedimenti di clemenza" fu il frutto delle temperie di Mani Pulite. "Pezza colorata", in sostanza, per coprire, ma questo lo dico io, un errore fondamentale della giustizia: quello di trasformarsi in "strumento di lotta" per il quale la cattura del maggior numero di prigionieri è il "successo". Nelle parole di Manconi finisce invece per emergere una concezione dell’amnistia come un provvedimento coerente con una giustizia ordinaria e non a quella che si "vede oggi": il continuo ricorso a nuove (e sempre più sbilenche e poco chiare) figure di reato, del continuo ricorso all’aumento delle pene edittali e, soprattutto, il rimedio posticcio alla "facilità" con la quale si arresta e si condanna la gente ignorando il precetto dell’accertamento della colpevolezza "al di là di ogni ragionevole dubbio", una delle prescrizioni più ignorate ed eluse dei nostri Codici (ma anche a fare queste analisi sono io, non Manconi). Esatto il riferimento agli anni ed all’atmosfera di Mani Pulite. Ma reticente. Quel provvedimento fu allora non già frutto di una riflessione qualsiasi sul ricorso ad amnistie e indulti nel corso della Prima Repubblica, per evitarne l’ingiustizia, ma uno dei gesti di resa e di tentativo di ingraziarsi Di Pietro e compagni, garantendo loro che non si sarebbe fatta un’amnistia contro la loro mattanza giudiziaria. Un gesto che definirei di autoflagellazione e di resa della classe politica, così come quello assai più grave e nefasto dell’abolizione della necessità del voto di autorizzare le Camere per procedere contro i parlamentari. Ma se quella sostanziale "soppressione" dell’amnistia fu, per tal motivo, un atto sbagliato e detestabile, non è detto che l’abrogazione di quel "catenaccio" sia oggi il meglio e la cosa più urgente che si possa fare. Ha detto Manconi che la modifica del 1992 "ha sottratto due misure (l’indulto e l’amnistia), lo strumento più importante, destinato a diminuire l’accumulo di cause e l’affollamento delle carceri". Il problema, però, non è quello di svuotare ogni tanto le carceri e gli scaffali di Procure e Tribunali. Il problema è quello di non riempirle, magari a costo di riempirle a vanvera e quello di ridurre l’esercizio dell’azione penale entro limiti consoni all’effettiva possibilità di fare effettiva giustizia. Amnistia ed indulto non sono "strumenti di giustizia", ma piuttosto misure di gestione del fallimento della giustizia. Possono essere, infatti, tra gli atti che bisogna compiere specie come conseguenza di guasti e situazioni fallimentari provocate da una giustizia ingiusta nel momento in cui diventa manifesto che essa sia tale. Neppure, del resto, ne rappresentano propriamente un "rimedio". Nel momento attuale l’amnistia potrebbe avere un senso, una plausibile ragione di essere, se finalmente si stroncasse l’"uso alternativo" (cioè strumentale) della giustizia, si rinunziasse alla "giustizia di lotta", alla pretesa dei magistrati del "controllo generale di legalità", inteso come una funzione giurisdizionale superiore e invadente su tutti gli altri poteri, compreso quello legislativo. Alla conferenza stampa era presente Rita Bernardini, una "fedelissima" di Pannella, che ha detto una cosa interessantissima: "Marco non si era posto il problema dello speciale quorum necessario per l’amnistia". È una ulteriore conferma del carattere metapolitico, ma più semplicemente impolitico, ed approssimativo di quella sua battaglia. I sogni non hanno un quorum. In verità non si era posto neppure la questione dei limiti e delle condizioni, parlando di "amnistia generale". Qualcosa di impossibile, di assurdo contro cui, qualora se ne fosse avvertita come possibile qualche concretezza delle proclamazioni, si sarebbe scagliato (e non a torto) ogni cittadino. Il disegno di legge costituzionale è però altro, ma può essere, o quanto meno apparire, come un mezzo per cominciare a dare ragionevolezza e concretezza politica all’utopia pannelliana. Ma, ammesso che questa "traduzione" sia in linea di massima possibile, temo proprio che chi la vuole sia partito con il piede sbagliato. A parte la probabilità che il progetto resti nel cassetto, malgrado l’affermazione di Manconi che ciò sarà evitato, che proprio con la questione dell’amnistia, che serve più a coprire le magagne della giustizia che a svelarle ed evitarle, non si può partire per una riforma della giustizia e nemmeno per fronteggiare la sua bancarotta né quindi per un tentativo di dare concretezza ai sogni. È più probabile infatti che, tornati alla "normalizzazione" dell’articolo 79 della Costituzione (cosa in sé assai difficile nelle attuali condizioni), l’amnistia sarebbe usata più o meno così come avvenne nella Prima Repubblica, per svuotare periodicamente le carceri e gli scaffali, per poterli di nuovo riempire sconsideratamente. Per non dire che, mentre l’amnistia generale poteva essere concepita solo nelle fantasie palingenetiche di Pannella, i limiti di applicabilità del "colpo di spugna" sono, poi, in sé ingiusti: lasciano sempre fuori "i reati più gravi", che sono magari quelli "creati" dalla giurisprudenza o comunque a richiesta del Partito dei Magistrati. Reati gravi nella cui repressione sono stati compiuti gli errori più gravi, con abuso, magari, dei pentiti e della intangibilità della loro "legittimazione". Manconi ha, certamente in buona fede, affermato che, usato questo strumento straordinario, si dovrà poi procedere a riforme strutturali. Non credo che Manconi abbia una idea pur vaga di quali siano le necessarie riforme, ed ancor meno ce l’hanno quelli che gli facevano contorno alla conferenza stampa. Non ce l’hanno questa idea i colleghi di partito di Manconi, che mai e poi mai sfiderebbero ed oserebbero toccare il Partito del Magistrati con le sue deleterie teorie e prassi, chiave di tutta la spaventosa crisi. Per trarre le idee e le battaglie di Pannella dal loro carattere "metapolitico" e antipolitico, sembra dunque che si punti su una cattiva politica, se non sul "fumo negli occhi". È in un decisamente "impolitico" sistema, di cui è elemento costante l’incapacità di andare a fondo in questi problemi. Il "caso Pannella" non è chiuso di Andrea Orlando (Ministro della Giustizia) Il Foglio, 26 maggio 2016 Il Guardasigilli sul leader radicale e le carceri, Tortora e la giustizia giusta. Orlando rivendica la continuità di Renzi e chiede un dibattito. "Non voglio che passino le parole e gli accenti che si sono ascoltati in questi giorni, ed anche prima, nelle scorse settimane, con l’aggravamento delle sue condizioni di salute. Le parole sono molto importanti e vanno sorvegliate quando si ricorda un politico, un uomo pubblico. Lo sono ancora di più quando si ricorda una figura come Marco Pannella, perché le parole sono state, nel corso della sua vita, l’arma principale delle sue battaglie nonviolente. Nella comunicazione politica dell’Italia degli anni 70, paludata, ancora ottocentesca, i suoi slogan, le sue invettive, le sue espressioni provocatorie costituirono un’innovazione nella comunicazione. Si potrebbe dire che allora si aprì la strada a strumenti oggi tanto utilizzati e persino abusati. Lo si potrebbe dire ma si sbaglierebbe, perché gli slogan di Pannella non servivano la banalità, non erano a supporto delle parole facili. Certo Pannella ha condotto battaglie che in qualche modo si stavano affermando nella società. Parole d’ordine che in qualche modo corrispondevano a domande sociali che si stavano consolidando. Ma ha condotto anche battaglie che alla società italiana sembravano lunari, distanti. E al servizio di queste battaglie ha messo la sua capacità di comunicare e di utilizzare anche strumenti nuovi, non per ricercare il facile consenso ma persino per seminare inquietudini, per porre delle domande, perché erano l’altra faccia di quelle torrenziali comunicazioni, di quei discorsi fatti di parentetiche e di incidentali, di digressioni di cui con difficoltà si cercava di seguire il filo, perché erano il contrario della banalizzazione, erano il tentativo di rendere la complessità del tempo che stavamo e che stiamo attraversando. In molti hanno voluto mostrare il loro affetto e salutare Marco Pannella nella sua casa in via della Panetteria, ed io stesso mi ci sono recato, accompagnato da quattro detenuti del carcere romano di Rebibbia. È una bella consuetudine dei Radicali recarsi in visita negli istituti penitenziari durante il triduo pasquale e nelle altre feste comandate. Quest’anno, le condizioni di salute non hanno permesso a Marco di lasciare la sua abitazione, e così ho pensato di regalargli questa visita, per dimostrargli la mia sincera gratitudine per l’impegno da sempre profuso dai Radicali italiani e da lui stesso per i diritti dei detenuti. Il carcere - uso sue parole - non può essere una "struttura di persecuzione sociale" per la soluzione di due problemi che non si sa altrimenti come affrontare, il consumo di droga e l’immigrazione clandestina. A piazza Navona, in occasione dell’ultimo saluto, con altrettanta sincerità ho riconosciuto che quel che è stato fatto sulle carceri italiane in questi anni, i riflettori che abbiamo provato ad accendervi per migliorare le condizioni della detenzione e restituire alla pena il senso di umanità che la Costituzione gli assegna, lo dobbiamo anzitutto a lui, e a Papa Francesco. Può forse riuscire singolare questo accostamento fra il vecchio leader radicale, libertario e anticlericale, e il Papa cattolico, gesuita, venuto da un paese alla fine del mondo, ma c’è una parola, anzi un principio che li avvicina e che può avvicinare tanti di noi: la dignità dell’uomo. Questa fede tutta laica nella dignità dell’uomo, sostenuta da una fede altrettanto robusta nel diritto e nelle libertà, ha costituito la stella polare dell’avventura politica e intellettuale di Marco Pannella. Gli slogan utilizzati contro la demagogia e non a favore della demagogia. Credo che non ci sia nulla di più vero nell’affermare questo nel ricordare forse la sua ultima battaglia, quella appunto per le condizioni dei detenuti, quella di mettersi in una società spaventata, dominata dagli imprenditori della paura, sostenuti da un’industria mediatica che fa spesso della paura il principale business. Ecco, in questa temperie, mettersi dalla parte di Caino. Credo che proprio questo dimostri quella fede nella libertà e nella dignità dell’uomo, forse più di ogni altra battaglia. In un articolo che apparve anzitutto su un giornale spagnolo, nel 1987, Leonardo Sciascia - che di Pannella fu amico e che fu vicino ai Radicali fino al punto di accettare da essi la candidatura sia al Parlamento europeo che alla Camera - scrisse: "Pannella, e le non molte persone che pensano e sentono come lui (fra le quali mi onoro di stare) si trovano ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l’esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto, nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce". Non era un giudizio lusinghiero, per la politica italiana, mentre lo era certamente per Marco Pannella. Ma è vero: Pannella ha dedicato la sua vita alle battaglie per lo stato di diritto e la legalità, ed è vero anche che diffidava del potere, che spesso travolge o stravolge, con la sua componente innegabile di violenza, distorce o calpesta le regole del diritto e della democrazia. Non sarei sincero sino in fondo, non lo saremmo tutti, in quest’Aula, se affermassimo di condividere senz’altro l’idea, che Sciascia richiama e che tante volte Pannella ha ripetuto, a volte gridato, che la storia politica del nostro paese sia stata gravata dal peso insopportabile della partitocrazia. Credo anche io, come Emanuele Macaluso - che ne ha parlato indicando una differenza di fondo rispetto al pensiero di Pannella - che proprio la crisi dei partiti, che ha segnato questi ultimi anni, dimostri come da essa venga una maggiore debolezza, non una maggiore robustezza delle istituzioni della Repubblica. Eppure nella sua denuncia e nella sua incapacità di cogliere quella denuncia, c’è un grande pezzo di responsabilità delle classi dirigenti che non seppero vedere la crisi di quel sistema e l’esigenza di reagire alla crisi di quel sistema. Il mio racconto dell’Italia democratica e antifascista, nata dalla Resistenza, divergerebbe perciò in molti punti da quello offerto da Marco. Ma rimane salutare per la qualità della nostra democrazia e il suo mai sufficiente tasso di libertà quell’esercizio di diffidenza nei confronti del potere che Pannella non ha mai smesso di raccomandare. Uno studioso francese molto influente, Pierre Rosanvallon, ha parlato di "contro-democrazia", a proposito di quelle forme di politica non convenzionale verso cui evolvono le esperienze democratiche dei paesi occidentali. Credo che i Radicali italiani e Marco Pannella si iscrivano pienamente in questo quadro. Non si tratta di un rigetto della politica o delle istituzioni. Al contrario: si tratta per un verso dell’eredità liberale di limitazione del potere attraverso il diritto; per altro verso, di forme di partecipazione democratica condotte su singole issues, definite in termini pragmatici e non ideologici, e spesso volte a richiamare i poteri elettivi al rispetto dei loro stessi impegni e della loro stessa legalità costituzionale. Mai la critica alla politica diventa sentimento anti-istituzionale. Nell’uno o l’altro di questi registri si possono comprendere la gran parte delle battaglie che i radicali italiani hanno condotto, sotto la guida di Marco Pannella. Non solo quelle per il divorzio e l’aborto, durante la grande stagione dei diritti civili degli anni Settanta, per i quali credo che l’Italia debba essere grata a quest’uomo. Il referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini che aveva introdotto il divorzio in Italia, si tenne il 12 e il 13 maggio 1974. Fu vinto dal fronte del no, e insieme alla sconfitta democristiana nelle successive elezioni regionali, determinò un profondo mutamento di scenario politico e sociale nel paese. La legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza, fu approvata il 22 maggio del 1978, a distanza di circa tre anni dalla raccolta di firme promossa dai Radicali per la depenalizzazione dell’aborto. L’Italia non avrebbe quella legge, senza i Radicali, anche se nel 1981 essi promossero un nuovo referendum per abolirne alcune parti, in favore di una completa depenalizzazione. Pannella e i Radicali hanno però condotto la loro azione anche su altri terreni. Non posso non pensare, in particolare, alle campagne sui temi della giustizia: contro la legislazione emergenziale, per la responsabilità civile dei giudici, contro la carcerazione preventiva, per l’abolizione dell’ergastolo, per i diritti dei detenuti e per l’amnistia. È difficile negare che l’impegno di Marco Pannella abbia contribuito ad elevare l’attenzione e la sensibilità del paese su tutti questi temi, anche quando più dibattuta poteva essere la posizione tenuta su ciascuno di essi. Così come è difficile, credo, negare che in molti altri casi le sue intuizioni hanno anticipato un’evoluzione della politica e della società. Vorrei fare due esempi. Il primo riguarda la questione ambientale. È già nelle mozioni e negli interventi del congresso radicale del 1977 che si trova formulata una chiara linea ecologista, contro gli inquinamenti ambientali, le sofisticazioni alimentari, il consumo di suolo, e per la promozione di leggi in difesa della natura e della salute. Lo stesso simbolo del "sole che ride", utilizzato dai Verdi, fu loro ceduto dai Radicali italiani. Oggi, vi è una sensibilità ambientale molto più diffusa, sia fra i partiti politici che nella società, ma non v’è dubbio che l’ambiente e la sua tutela hanno smesso di essere considerati un lusso e sono diventati un parametro fondamentale nella produzione legislativa anche grazie alla spinta radicale. L’altro esempio che voglio fare riguarda la proiezione transnazionale del Partito radicale e il federalismo europeo. Non saprei contare le volte in cui ho sentito da Marco Pannella citare Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e il manifesto di Ventotene. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che Marco Pannella abbia trascorso più anni nel Parlamento di Strasburgo che in quello italiano: nell’arco di tempo che va dal 1979 al 2009, anni in cui gli Stati Uniti d’Europa sono stati per lui un sogno continuamente evocato e mai raggiunto. Di quell’impegno voglio ricordare in particolare un momento, assai significativo: l’istituzione, nel 1981, proprio per iniziativa di Altiero Spinelli, di una Commissione per gli affari istituzionali in seno al Parlamento europeo, incaricata di elaborare modifiche ai trattati esistenti, allo scopo di promuovere la completa integrazione politica della comunità europea. Vicepresidente di quella commissione fu eletto il leader radicale. Anche in quel caso, credo si possa dire che Pannella era in anticipo sui tempi, e forse anche poco compreso: l’Atto unico europeo, che fu approvato nel dicembre del 1985 in Lussemburgo non ridisegnava l’Unione, secondo l’indirizzo del Parlamento di Strasburgo, ma si limitava a realizzare, entro il 31 dicembre 1992, il mercato interno. I temi politici rimanevano così elusi, e l’Unione ne paga ancora oggi il prezzo. Mi accorgo che in queste mie parole sto forse nascondendo i tratti irruenti, istrionici, a volte anche irritanti, di una personalità ingombrante e, per tanti aspetti, fuori del comune. Nel rendere omaggio alle sue intuizioni e alle sue battaglie, sto forse lasciando in ombra uno stile politico che rappresentava sicuramente un’eccezione davvero singolare nel panorama italiano, e, direi, europeo. Non voglio fare a Marco Pannella e ai Radicali il torto di presentarli in abiti che non sono stati, che non potevano essere i loro. Non voglio perciò dimenticare i digiuni della fame e della sete, gli atti di disobbedienza civile, le provocazioni come quella di presentarsi imbavagliato in televisione, per protesta contro la gestione dell’informazione da parte del servizio pubblico, o come la restituzione in piazza dei soldi del finanziamento pubblico ai partiti, con tanto di timbro impresso sulle banconote. Anche quest’Aula, anche le istituzioni parlamentari della Repubblica e della Comunità europea, sono state più volte "sfidate" - lo dico con il massimo del rispetto e della considerazione, ma anche della sincerità - dallo scandalo che Marco e i Radicali hanno saputo incarnare: penso alle battaglie ostruzionistiche, ma anche alle candidature controverse, promosse dai radicali. Ma corre anche l’obbligo di ricordare che il metodo nonviolento dei radicali e di Marco Pannella ha dato all’Italia pagine che rimangono scritte indelebilmente nella storia di questo paese. Ha dato alla coscienza civile dell’Italia il caso Enzo Tortora. Enzo Tortora fu arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico alle quattro del mattino del 17 giugno 1983, insieme a centinaia di altre persone, sulla base di dichiarazioni di pentiti rivelatesi in seguito del tutto false e infondate. Pannella ne sposò immediatamente la causa, e lo candidò al Parlamento europeo, con enorme rumore dell’opinione pubblica. Un’opinione pubblica, allora come adesso, spinta spesso a condannare prima ancora di comprendere. Dopo la condanna in primo grado, a oltre due anni dall’arresto, Tortora venne eletto presidente del Partito radicale, ben prima di essere definitivamente scagionato da ogni accusa. Bisogna dirlo: Pannella aveva visto giusto. E i Radicali condussero un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati la cui onda lunga è arrivata sino in questo Parlamento, con la nuova disciplina approvata in materia lo scorso anno. Lo ricordavo in apertura di questo mio intervento e voglio ribadirlo: sui temi della giustizia, dei diritti, delle garanzie, sui tratti fondamentali di una civiltà giuridica liberale, la cultura radicale e Marco Pannella hanno offerto e continuano a offrire un contributo imprescindibile. Il contributo si è prolungato anche fuori dei confini nazionali, con la battaglia per l’istituzione della corte penale internazionale dell’Aia, e con la campagna contro la pena di morte nel mondo. Pezzi importanti non semplicemente della sensibilità, ma anche dell’ordinamento giuridico sovranazionale sono dunque legati all’impegno politico di Pannella e del Partito radicale transnazionale da lui fondato. I fronti che Pannella ha aperto sono molti. Non possono stare tutti in un discorso; è davvero ammirevole come siano stati tutti in una vita soltanto. La campagna contro la fame nel mondo, quella per la legalizzazione delle droghe leggere, quella per l’obiezione di coscienza, le ultime battaglie sui temi della fecondazione artificiale e dell’eutanasia: mi limito a richiamarle in maniera così approssimativa, per invitarvi a considerare come siano tutti temi sulle quali la società non potrà che continuare ad interrogarsi. Egregio Presidente, cari Senatori, il 16 luglio 1974 - siamo all’indomani del referendum sul divorzio - la prima pagina del Corriere della Sera ospita un dirompente articolo a firma di Pier Paolo Pasolini, con il titolo: "Apriamo un dibattito sul caso Pannella". Pannella stava conducendo in quelle settimane un lunghissimo digiuno della fame, per avere fra l’altro accesso ai programmi televisivi della Rai. E Pasolini prendeva di mira sia il clericalismo della Democrazia cristiana di Fanfani, sia il realismo politico del partito comunista, sordi alle istanze poste dal leader radicale. E all’uno e all’altro opponeva il candore di Pannella. Nell’incontrare un’ultima volta Pannella, a Pasqua di quest’anno, posso dire di continuare a non condividere la particolare durezza delle parole di Pasolini, ma, forse, di capire meglio cosa intendesse parlando del candore di Marco. Credo di averlo visto, quel candore. E anche se aprire un dibattito su Pannella era scomodo allora com’è scomodo oggi, io credo che il modo migliore per ricordare un uomo al quale dobbiamo tante arrabbiature ma anche molta gratitudine sia quello di provare a riaprirlo, quel dibattito. Mi auguro allora che queste mie parole servano non a chiudere un capitolo della storia d’Italia, ma a svolgerne uno nuovo. Mi auguro infine che con questo stesso spirito di apertura al nuovo, di curiosità per i tempi che verranno, di disponibilità al confronto anche duro ma sempre leale fra le opinioni, di cui vivono le istituzioni parlamentari, sia possibile affrontare i passaggi sia politici che istituzionali che ancora attendono il paese". *Quelli pubblicati sono estratti del discorso di commemorazione che il ministro della Giustizia ha tenuto ieri al Senato della Repubblica Il "pensiero securitario", un vecchio arnese dei regimi di Alessandro Barbano Il Mattino, 26 maggio 2016 Nella sfida che il populismo sferra alla democrazia in tutto l’Occidente e che si nutre di nostalgie nazionaliste e paure globali, c’è un tratto specifico italiano che la rende drammaticamente facile, una torsione del significato delle parole per cui ogni risposta della politica rischia di apparire un autogol. Se il lettore ci consente l’uso analogico del termine, lo chiameremo "pensiero securitario", simile a un vecchio arnese proprio dei regimi che, in nome della sicurezza e della legalità, introduce e impone in tutte le relazioni civili il lessico e il paradigma del sospetto nella narrazione che una società fa di se stessa, attraverso le tre forme di linguaggio in cui tale narrazione avviene: il politico, il giudiziario e il giornalistico. E tuttavia non si tratta di uno schema che il populismo ha pescato dalle soffitte, ammuffite ma non troppo, dei fascismi. Poiché a coltivarlo e a consegnarlo ai nuovi apostoli dell’antipolitica è stata proprio la politica, è più precisamente il pensiero politico della sinistra italiana, di cui il pensiero securitario è diretta filiazione. È uno schema che sarebbe perfino riduttivo definire giustizialismo, anche se con questo ha diversi punti di contatto. Si ammanta di una sorta di teologia morale per trasformare, per esempio, una campagna elettorale in una caccia agli "impresentabili" o "ai figli, parenti, amici di". Non si limita a una interdizione selettiva e chirurgica dei nemici, ma monopolizza la comunicazione e impone alla politica di assumere per intero il paradigma moralistico, rinunciando a qualunque altra offerta. Così l’intera vigilia delle amministrative chiamate tra meno di dieci giorni a rinnovare la classe dirigente delle principali città italiane è uno spazio simbolico occupato da una nuvola di sospetto, che ciascuna forza politica cerca di scrollarsi di dosso e di sospingere verso l’avversario, nella convinzione, non fallace, che sarà proprio la densità di questa coltre nebulosa ad orientare le scelte dei cittadini elettori. A quest’obiettivo concorre un giornalismo affetto da una sindrome per la quale una parte basta a definire il tutto, proiettando nella comunicazione una miopia della democrazia, cioè la sua difficoltà di mettere a fuoco in maniera corretta qualità e quantità dei suoi oggetti. Così accade che a Napoli un quotidiano scorga tra i millecinquecento candidati alle elezioni comunali il figlio di un boss di camorra condannato molti anni fa per omicidio, presente in una lista di Verdini. E da questa circostanza, indubitabilmente vera, tragga la prova di un accordo opaco del candidato renziano del Pd Valeria Valente con i transfughi di Berlusconi. Senonché il figlio del boss si professa come un volontario che s’impegna nel sostenere i bambini figli dei detenuti, costretti a snervanti attese di ore davanti alle porte delle carceri per un breve incontro in parlatorio con i propri genitori. E, rinnegando le appartenenze paterne, il candidato "figlio di" osa pronunciare una frase che suscita, nel pensiero securitario diffuso e dominante, un nuovo scandalo. "A Napoli - dice - secondo qualcuno ci sono 4 milioni di camorristi, se risaliamo ai nonni e a tutti i parenti. Saremmo quindi tutti camorristi?". La domanda è retorica, ma anche intuitivamente provocatoria. Suona come una critica, diretta ma efficace, a chi crede di combattere la camorra selezionando la classe dirigente attraverso patenti di moralità familiare. Ma in un clima politico e civile umiliato da un misero conformismo, questa frase scatena un’abiura collettiva: "Noi, tutti camorristi? Ma come si permette". Lo stesso aspirante sindaco del Pd, Valeria Valente, si preoccupa di prendere le distanze da un’affermazione troppo disinvolta per non cadere sotto la censura di un’opinione pubblica securitaria. Gli farà eco pochi giorni dopo il candidato del centrodestra Gianni Lettieri, che pretenderà la rinuncia di un suo candidato, colpevole di avere il padre in carcere. Il retro-pensiero di tutti è ormai un pensiero unico: gli impresentabili sono la decisiva variabile che può far vincere o perdere le elezioni in un Paese che, come certificano tutti i sondaggisti, pone l’onestà in cima ai requisiti del sindaco ideale. A questo punto il Movimento di Grillo, che il pensiero securitario se lo intesta come sostanza della sua stessa identità, ha in parte già vinto la sfida. Perché ha cambiato il verso dell’etica civile, anche di chi non vota Cinquestelle. Una stragrande maggioranza di italiani pensa in modo securitario. Senonché questo è un pensiero suicida. Un pensiero kamikaze, che fa terra bruciata attorno a sé e tuttavia si riproduce. Quanto sta accadendo in queste ore a Roma ne è la conferma più esplicita. Un incontro elettorale della candidata pentastellata, Virginia Raggi, è stato interrotto dall’arrivo dei vigili urbani nel piazzale dove erano parcheggiate le auto dei supporter grillini. I quali, alla notizia del controllo sulla regolarità dei loro parcheggi, hanno abbandonato in massa l’aula del dibattito e sono corsi in strada per sincerarsi di non aver preso la multa o, magari, per spostare in tempo l’auto dalla sosta vietata. È questa reazione di massa che risulta, nel clima securitario, una gaffe elettorale. Se lo chiedono i giornali che interrogano alcuni degli astanti pentastellati per spiegare le ragioni segrete della loro fuga nel piazzale: non basta a questi ultimi esibire prova del parcheggio nelle strisce, o del tagliando orario sul lunotto, per fugare i sospetti. 11 quesito "politico" della vicenda è un altro: cos’hanno da nascondere i grillini se all’arrivo dei vigili scattano come i giocatori di una bisca clandestina? Presto la patente di pubblica presentabilità potrebbe associare, oltre al certificato antimafia, anche un certificato di moralità inconscia, attestabile in sede psicanalistica. Perché è ormai la psiche la prova del nove della diversità morale. In questo clima civile l’Italia sta per rinnovare i suoi sindaci. E a chi scrive viene da pensare con rammarico che la lezione di Orwell sulla psico-polizia non si studia ne si ricorda più, che Pannella da pochi giorni ci ha lasciato, e che a nessuno verrebbe in mente di candidare per scelta, non Cicciolina, ma un "Impresentabile" con la "I" maiuscola e con una valigia di sospetti. Avvocati al contrattacco. Migliucci: stop a controriforma. Mascherin: manifesto dei diritti di Errico Novi Il Dubbio, 26 maggio 2016 Doveva essere il giorno della protesta. E di un segnale, da parte della politica, molto atteso dagli avvocati. E invece il dibattito organizzato dai penalisti in mezzo alla loro tre giorni di sciopero (che finisce oggi) rilancia l’allarme sulla prescrizione. Che è poi la questione più avvertita dall’Unione Camere penali, la vera scintilla che ha portato all’astensione dalle udienze. Il governo infatti invia un messaggio tutt’altro che rassicurante, per gli avvocati, proprio su questo tema: "Sui reati contro la pubblica amministrazione va trovato un punto di equilibrio. Che tenga conto anche del notevole ritardo con cui i casi di corruzione vengono scoperti". A dirlo è il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri che, alla manifestazione indetta dalle Camere penali in Cassazione a Roma, rappresenta appunto l’esecutivo. L’evento vede la partecipazione dei massimi esponenti degli organismi di rappresentanza dell’avvocatura. E tutti restano spiazzati dalla naturalezza con cui il sottosegretario alla Giustizia fa capire come difficilmente si tornerà indietro sulla super prescrizione. "Certo, coglieremo lo spunto di riflessione offerto dalla giornata di oggi, ma bisogna ricordarsi che difficilmente qualcuno si presenta alla polizia giudiziaria per dire di aver pagato una mazzetta in cambio di un appalto. Non si può correre il rischio che per quel motivo i processi di corruzione vadano prescritti". Vuol dire che non ci si potrà allontanare troppo dall’emendamento Ferranti, quello passato alla Camera e che da solo trascina la durata di un processo per corruzione propria fino a 21 anni e 9 mesi. Praticamente una vita. Beniamino Migliucci, che dell’Unione Camere penali è il presidente e che nel dibattito al Palazzaccio veste i panni del moderatore, parte col suo solito tono garbato e poi si arrabbia proprio: "Caro Cosimo, non potete promuovere una riforma della prescrizione che compiaccia il presidente di turno dell’Anm". Glielo dice chiaro. Gli ricorda gli inasprimenti contenuti già nel testo sulla prescrizione predisposto dal governo, certo all’acqua di rose rispetto all’ordigno nucleare tuttora all’esame del Senato. "I termini di prescrizione si sospendono nel caso in cui l’imputato chieda una perizia, non se lo fa il pm: perché?". Su tutto il dibattito intorno alla riforma penale aleggia il pregiudizio negativo nei confronti degli avvocati. Viene sospeso il cronometro della prescrizione se il difensore chiede una perizia, se impugna la sentenza di primo grado, se ricorre in Cassazione. Come se ogni atto dell’avvocato fosse sicuramente inquinato dalla malizia dilatoria. Certo, Migliucci ammette che "il ministro della Giustizia ha saputo respingere la pretesa di interrompere definitivamente la prescrizione con il rinvio giudizio, avanzata dall’Anm". E lo stesso Ferri, nella prima parte del suo intervento, riconosce che "la maggior parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini" e che quindi "si deve rilanciare il dibattito sull’obbligatorietà dell’azione penale". E qualcosa pure andrà fatta "sugli aspetti organizzativi della giustizia", cioè sui troppi tempi morti che Procure e Tribunali lasciano intercorrere durante il procedimento. Tutte premesse che lascerebbero presagire una sterzata rispetto all’emendamento Ferranti. Ma per ora non è così, e il Pd resta aggrappato a quell’iperbole che allunga a dismisura i processi per corruzione, Dall’altra parte della barricata c’è l’Ncd. "Resto convinto che più si dilatano i termini di prescrizione e più durano i processi", dice il capogruppo al Senato Renato Schifani. È la stessa tesi proposta da Migliucci nel suo intervento: aggiungete 3 anni al limite massimo e semplicemente i processi si prescriveranno 3 anni dopo. L’unica cosa certa è che il punto di mediazione tra Pd e Ncd ancora non c’è: è scaduto ieri il termine per il deposito degli emendamenti in commissione Giustizia al Senato e ciascuno dei due partiti ha confezionato da solo i propri. L’Ncd propone tra l’altro di invertire le sospensioni (1 anno dopo la condanna in primo grado, 2 anni dopo quella in appello) e farle decorrere dalla lettura del dispositivo anziché dal deposito della sentenza. Il tutto, con l’emendamento Ferranti tenuto fuori. Il Pd è disponibile a scendere dai quasi 22 anni a circa 17 per prescrivere la corruzione propria. Ma certo l’ombra di Davigo, dopo le ammissioni fatte ieri da Ferri, circonfonde tutta la delicatissima trattativa. La "messa nera" del diritto, tra leggi assurde e slogan demagogici di Errico Novi Il Dubbio, 26 maggio 2016 Mascherin, presidente del Cnf: i mali della giustizia vengono assecondati. L’esempio più chiaro? L’omicidio stradale. "Parli con i rappresentanti di tutte le forze politiche e ti dicono: certo, quella legge è una previsione giuridica che non sta né in cielo né in terra, ma come potrebbe la nostra forza politica votare contro?". Il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin cita la questione per dire fino a che punto la politica sia ormai subordinata all’onda giustizialista. Lo fa in apertura della manifestazione organizzata per spiegare le ragioni dello sciopero dei penalisti. Quella del "non possiamo opporci al vento" è, per così dire, l’eziologia del male. Che fa compassione. Fa invece spavento la parte in cui Mascherin traccia con spietata minuzia la diagnosi. Quella in cui parla di un "approccio alla legislazione diventato culturalmente dominante, e che è un approccio da messa nera del diritto. I processi durano troppo? Bè, invece di correggere la disfunzione e rientrare nell’alveo della ragionevole durata, cioè nell’articolo 111 della Costituzione, cosa si fa? Si allunga il processo ancora di più, con l’innalzamento dei termini di prescrizione. Si ribalta sia il principio del male che la verità della sua origine, attribuita invariabilmente agli avvocati. Si positivizzano gli aspetti negativi della giustizia". Una religone civile ribaltata: una messa nera appunto. Mascherin è chiaro e inquietante. Ma prova anche a indicare la via d’uscita: "È perfettamente inutile sperare che la politica possa sottrarsi al meccanismo del consenso: ne è strutturalmente asservita. Se opporsi alle spinte che provengono dall’opinione pubblica fa perdere voti, a noi avvocati resta solo una cosa da fare: adoperarci per promuovere i principi del diritto presso l’opinione pubblica stessa". Il presidente dell’organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura immagina "la costruzione di manifesti culturali, in cui dovremmo coinvolgere cultori della materia, insegnanti, intellettuali, operatori della giustizia. Dovranno essere non i manifesti dell’avvocatura ma dei diritti". E un motivo per farlo sta d’altronde proprio nella messa all’indice dell’ordine forense sotteso in tante ipotesi di riforma, nella prescrizione come nelle intercettazioni. "Non vedo alcun dibattito intorno alla gravissima consuetudine di intercettare gli imputati anche nelle conversazioni con i loro difensori", dice Mauro Vaglio, presidente del Consiglio dell’Ordine di Roma, che ha organizzato l’evento di ieri insieme con l’Ucpi. "Gli avvocati della Capitale, in particolare, sono vittime di questi abusi, che vanno assolutamente cancellati". Vaglio ricorda anche come "allo sciopero abbiano aderito tanti civilisti, queste manifestazioni sono molto importanti". Lo sono probabilmente anche per saldare l’alleanza tra l’avvocatura e le non molte figure della scena politica capaci di battersi per i principi del diritto. Una di queste è Enrico Costa, ministro degli Affari regionali che fino a pochi mesi fa è stato il vice di Orlando alla Giustizia, e che pure interviene al convegno per presentare un formidabile, potenziale primo contenuto di quei manifesti di cui parla Mascherin: i dati statistici sul processo. Che "dicono come la maggioranza delle prescrizioni intervenga nella fase delle indagini e che ci hanno spiegato, per esempio, l’urgenza di rivedere la responsabilità civile dei magistrati: con la vecchia legge c’erano state 7 condanne in 26 anni. Finché non l’abbiamo riformata". Non tutta la politica insomma offre le vele al vento del populismo giudiziario. Bufera sulla norma salva-casta: 9 anni se si diffama un politico di Cristiana Mangani Il Messaggero, 26 maggio 2016 È un provvedimento approvato praticamente all’unanimità ed è stato definito "salva-casta": prevede che un giornalista che diffami a mezzo stampa un politico o un magistrato rischi il carcere fino a 9 anni. La decisione ha fatto insorgere Fnsi e Ordine dei giornalisti e provocato tensioni tra le forze politiche. L’inasprimento del trattamento nei confronti dei cronisti potrebbe derivare dal combinato disposto della legislazione vigente con una norma contenuta nel ddl già passato in commissione Giustizia del Senato il 3 maggio scorso, che l’Aula del Senato sta ora per esaminare. Si tratta dell’articolo 339 bis che verrebbe inserito nel Codice penale nel caso in cui venisse approvato il disegno dì legge contro le intimidazioni agli amministratori locali. Prevede infatti che le pene stabilite per alcuni reati, tra cui la diffamazione a mezzo stampa (art. 595 codice penale), siano "aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso ai danni di un componente dì un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio". E siccome l’articolo 13 della legge n. 47 del 1948 (diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato) impone il carcere da 1 a 6 anni, se entrasse in vigore il 339 bis, la pena massima aumenterebbe della metà: cioè 9 anni (6 più 3). Il provvedimento è ora al secondo punto dell’ordine del giorno dell’Aula, e - secondo quanto sostiene la prima firmataria Doris Lo Moro (Pd), già presidente della Commissione di inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali - avrebbe come "unica" finalità "quella di difendere gli amministratori pubblici da minacce e violenze". "In realtà - spiega la parlamentare - il nostro intervento punta a essere molto chirurgico nel senso che, laddove si prevedeva che la minaccia o l’intimidazione per essere punita dovesse riguardare un Corpo politico amministrativo o giudiziario, nel senso di una categoria di persone, abbiamo introdotto anche la possibilità di colpire, nel caso in cui il minacciato sia il singolo componente, cioè il singolo individuo appartenente a quella categoria". I tecnici giustizia della maggioranza sono contrari all’impostazione della norma, già ribattezzata "norma salva casta", e fanno osservare che così com’è stata scritta "rappresenta davvero un rischio per i cronisti", a meno che non entri in vigore un altro provvedimento (attualmente fermo proprio in commissione Giustizia al Senato): quello che porta la firma dell’attuale ministro Enrico Costa (Ncd) e che elimina il carcere per i giornalisti. L’articolo 3 del disegno di legge che difende gli amministratori pubblici - è la tesi di esponenti della maggioranza - non sarebbe stato scritto in modo che fosse chiaro il "dolo specifico", diventando un concreto "pericolo" per il giornalista che critichi il politico, il magistrato o il pubblico amministratore. Sicuramente, affermano anche deputati del Pd che si occupano di giustizia, "la norma andrà rivista. La finalità è giusta, ma va scritta meglio e soprattutto va armonizzata con il resto dei provvedimento all’esame del Parlamento. E se non lo cambiano al Senato, lo emenderemo noi". "Non stupisce più di tanto che, nel tentativo di tutelare se stessa, la classe politica abbia espresso un voto che prevede, tra gli altri provvedimenti, un inasprimento delle pene a carico dei giornalisti - affermano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti. Quel che stupisce è che si tenti di affermare l’esistenza di una categoria di cittadini più uguali degli altri, e ancora più grave è che il Parlamento lavori ad inasprire le sanzioni a carico dei giornalisti, mentre nessuna risposta è stata ancora data al problema delle cosiddette "querele temerarie" né alla richiesta di cancellare il carcere per i giornalisti, armi improprie utilizzate sempre più spesso contro chi fa il proprio lavoro tra minacce e intimidazioni". Sbattono il mostro in prima pagina, poi s’indignano e l’assolvono di Francesco Straface Il Dubbio, 26 maggio 2016 La stampa ha subito condannato l’infermiera "killer". Il Riesame l’ha salvata: "Indagini frettolose". Da mostro a capro espiatorio. Da "infermiera serial killer" all’annullamento dell’arresto. Dalle "bombe" di eparina, iniezioni letali, alla descrizione di "indagini frettolose". La vicenda di Piombino, legata alla 55enne Fausta Bonino, arrestata lo scorso 31 marzo e scarcerata il 23 maggio dai giudici del Riesame, fotografa quanto sia rischioso esporsi in modo categorico anche su crimini inspiegabili, apparentemente senza un movente, che quindi alimentano ancora più rabbia. La Repubblica dell’1 aprile titolava, e non è uno scherzo a dispetto della data, "Fausta, l’infermiera del veleno. Ha ucciso tredici pazienti". Il 24 maggio lo stesso quotidiano sentenzia: "La giustizia impari da questi errori". 53 giorni prima pochi giri di parole anche nel testo dell’articolo. "Pazienti morti anche se potevano tutti guarire. Li hanno uccisi emorragie interne causate da un farmaco anticoagulante". Teatro dei delitti il reparto di Rianimazione dell’ospedale "Villamarina". "È lì che dal 19 gennaio 2014 al 29 settembre 2015 sono decedute 13 persone, non malati terminali, ma pazienti fra i 61 e gli 88 anni, ricoverati per un femore rotto, una tracheotomia, una polmonite. Dodici per una emorragia non collegata alle patologie di cui soffrivano". Fausta è stata accusata di "omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà e della premeditazione, abuso di potere e violazione dei doveri inerenti a un servizio pubblico". Si puntò il dito su "una forma di depressione", peraltro smentita dall’avvocato della donna. Differenti le conclusioni alle quali sempre "Repubblica" arriva due mesi dopo, citando un adagio caro ai vecchi investigatori: "Prima di arrestare le persone, bisogna arrestare le prove" e "sottoporre ogni elemento al contradditorio tra accusa e difesa. Invece nel caso di Piombino tutto sembra essere stato disatteso". "C’è una sola certezza: almeno quattro pazienti sono stati uccisi", ovvero nove in meno rispetto al conteggio originario. I tre magistrati del Riesame - scrive il quotidiano romano - vantano una tradizione di rigore garantista, tanto che viene citato un precedente, con il no al carcere per capitan Schettino. "Non sono state piazzate telecamere nel reparto dei delitti, non c’è stato il tempo per realizzare perizie sulle cause delle morti e solo ieri la Procura ha chiesto l’esame incrociato delle telefonate". Perentoria la ramanzina conclusiva: "La cattura dell’infermiera è stata trasformata nell’operazione "killer in corsia", uno show televisivo con tanto di inutile perquisizione negli armadietti dei farmaci a uso delle trasmissioni di cronaca nera che vanno in onda a ogni ora. Una brutta pagina della giustizia italiana, che deve servire da lezione". Anche ai giornalisti. Il racconto di Fausta Bonino: "mi hanno messo le manette e rinchiusa in una cella..." di Simona Musco Il Dubbio, 26 maggio 2016 Il marchio era già stato apposto: Fausta Bonino, per l’intero Paese, è "l’infermiera killer". Ma dopo 21 giorni di carcere la donna accusata di avere ucciso 14 persone iniettando dosi letali di eparina a pazienti ricoverati a Villamarina ha rivisto la luce. Scarcerata perché quell’indagine che l’aveva già sacrificata prima ancora di una condanna era lacunosa. Così, almeno, sentenzia il tribunale del Riesame, che ha smontato l’impianto accusatorio, evidenziando che l’inchiesta si fonda su indizi né gravi né precisi né concordanti. Fausta Bonino, ora, ha deciso di parlare, usando parole pesantissime: "Sono vittima di un complotto. La caposala (Virna Agostini, ndr) e la direzione sanitaria mi hanno costruito le prove addosso e hanno dato l’imbeccata ai Nas". E l’azienda sanitaria Toscana nord è già passata al contrattacco: dopo aver confermato la sospensione della donna, che voleva tornare in corsia, ha annunciato di riservarsi di intraprendere azioni legali nei confronti della donna respingendo "in toto le ricostruzioni dell’indagata". La Bonino, difesa dall’avvocato Cesarina Barghini, arrestata il 30 marzo, è stata scarcerata lo scorso 20 aprile. "Dopo 36 anni di lavoro onoratissimo sono entrata in un incubo. Mi hanno messo le manette, rinchiusa in una cella, sbattuta in prima pagina come se fossi un mostro - ha raccontato-. E soprattutto ho subito interrogatori durante i quali si è tentato di farmi dire ciò che non era vero e non pensavo affatto". E di farla coincidere col profilo del serial killer. È la stessa infermiera a mettere in dubbio la bontà della indagini. Di lei si è detto di tutto, perfino che andasse ubriaca a lavoro. Ma è una "calunnia", che tutto l’ospedale può smentire, spiega. E dice anche di voler incontrare i parenti delle vittime, "per spiegare loro che io non c’entro. E che forse neppure c’è un killer in corsia". Concetto del quale è convinta anche l’avvocato Barghini, secondo cui l’errore "è stato quello di trattare in maniera ascientifica un argomento che doveva partire, invece, proprio da basi scientifiche". Di certo, sostiene, c’è solo "un uso improprio di anticoagulanti". La Bonino, intanto, ci va giù pesante. "Forse per caposala e direzione sanitaria è stato più facile costruire le accuse su un serial killer che spiegare perché, di fronte ai casi anomali, non sono stati fatti i necessari audit clinici", ovvero quel processo che, partendo da un problema, ne analizza le cause, definisce l’obiettivo di miglioramento e gli interventi correttivi. Quando le indagini erano ormai nel vivo, nel corso di un interrogatorio, un colonnello del Nas la invitò a confessare. "Se confessa possiamo aiutarla", riferisce di essersi sentita dire. "Io sono stata accusata dalla struttura sanitaria - ha raccontato a La Nazione. Loro hanno chiamato i Nas quando non hanno più potuto coprire delle cose che non funzionavano nell’ospedale. Questa è la nostra spiegazione. Sta di fatto che chi avrebbe trovato la famosa fialetta nel cestino dei rifiuti, con data di apertura di un mese avanti, nella stanza del paziente Carletti è l’unica persona dell’ospedale che mi accusa da subito e che ha fornito l’orario dei turni per stabilire quando eventualmente sarebbe stata somministrata l’eparina". Ma per il Riesame, in almeno otto casi non è nemmeno possibile dimostrare la somministrazione di eparina. Una cosa per lei è certa: in ospedale non era tutto rosa e fiori. "I pazienti - sostiene - arrivavano dalle sale operatorie in ipotermia perché erano sprovvisti dei lettini riscaldati". E lo shock termico, afferma il perito ematologo nominato dalla difesa, Andrea Artoni, "può provocare scoagulamento". Il poeta Michele Caccamo: "3 anni in carcere, poi assolto per non aver commesso il fatto" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2016 Tre anni di vita sottratta, tre anni di privazioni umane e affettive tra carcere e domiciliari vissute da innocente. Parliamo di Michele Caccamo, un poeta drammaturgo e scrittore. Conosciuto nel mondo arabo come il "poeta della fratellanza" per la sua attenzione e il suo impegno letterario nell’incontro tra popoli e religioni. È calabrese, vive in una regione martoriata sia dallo Stato che non è più in grado di dare risposte sociali alla povertà che dilaga, sia dalla ?ndrangheta dove riempie quel vuoto e ne trae beneficio. Esiste solo la risposta giudiziaria, una risposta che però non di rado calpesta lo stato di diritto con alcuni pm che effettuano carcerazioni preventive affidandosi a chiunque faccia qualche nome. Ancor meglio se il nome risulta importante. È bastata un’accusa verso Michele - senza alcuna prova - da una parte di una persona che poi è risultata del tutto inaffidabile, per rinchiuderlo preventivamente in galera con un’accusa di associazione a delinquere aggravata dall’articolo 7, ovvero finalità mafiosa. Il 2 Marzo del 2015 Michele Caccamo viene definitivamente assolto per non aver commesso il fatto, assoluzione dovuta anche grazie al collaboratore di giustizia Antonino Russo il quale smentì categoricamente l’accusatore e definì Michele una persona per bene e vittima della stessa ?ndrangheta che voleva impossessarsi dei suoi beni. Ma non solo. Caccamo ha avuto sotto controllo l’utenza telefonica, e dai controlli non è emerso nulla; è stato intercettato in carcere e sono state sospese le intercettazioni perché non era emerso nulla; ha avuto sequestrati i pc del suo ufficio e dalla perizia tecnica non emerse nulla di riconducibile ad attività criminali. Tre anni di carcerazione da innocente e l’accusatore di Caccamo non è mai stato indagato, neanche dopo le dichiarazioni del pentito: al momento lavora per conto di una ditta che ha acquisito uno dei contratti di lavoro di Caccamo. Il poeta e drammaturgo Michele è stato vittima sia della ‘ndrangheta e sia della cosiddetta malagiustizia. "Farò della mia innocenza una pubblica ragione": questo dichiara Michele Caccamo, finalmente da uomo libero. Ha pubblicato un libro intitolato "Pertanto accuso" dove racconta la sua storia, entra negli abissi del carcere dove ha vissuto, lo descrive come fosse un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono chiamate "cubicoli". D’altronde la parola "carcere" deriva dall’ebraico "carcar" che vuol dire, appunto, "tumulazione". Riportiamo un estratto del suo romanzo dove spiega come la magistratura, una parte di essa, opera in Calabria nel nome della lotta alla mafia. Uno scritto che potrebbe essere il proseguo del famoso, ma tanto ridicolizzato e oltraggiato, articolo di Leonardo Sciascia dove spiegava il pericolo autoritario del cosiddetto "professionismo dell’antimafia". Immigrati, stop alla "tassa" sui permessi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2016 Tar Lazio - Sentenza 24 maggio 2016 n. 06095. Colpo di spugna sul contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno dei cittadini extracomunitari. Il Tar Lazio con la sentenza 6095, depositata ieri, ha dichiarato la "radicale illegittimità dell’istituzione" accogliendo il ricorso di Cgil e Inca e rilevando la totale incompatibilità della norma con le direttive europee in materia di immigrazione. A cadere sotto la decisione dei giudici amministrativi (presidente Pasanisi, relatore Arzillo) è il decreto del Mef del 6 ottobre 2011, nella parte in cui prevede le tre fasce di pagamento di 80, 100 e 200 euro, vincolate tra l’altro alla durata del permesso richiesto (fino a un anno, fino a due anni, prezzo più alto per il permesso di soggiorno Ce). Respinte le eccezioni sulla legittimazione attiva e l’interesse a ricorrere sia del sindacato sia del patronato - che "perseguono finalità statutarie in relazione alla categoria degli stranieri extracomunitari", scrive il Tar - i giudici hanno svolto d’ufficio una ricognizione sulle norme di riferimento europee e sulle decisioni in materia della Corte di giustizia, ricognizione da cui è scaturito l’accoglimento "rescindente" del ricorso. Se è vero che la direttiva 2003/109 ammette la possibilità di prevedere un contributo per il rilascio dei permessi, e che gli stati possono discrezionalmente graduarne il peso, tuttavia questo potere "non è illimitato" e deve rispettare, in sostanza, il principio assorbente di non ostacolare l’effetto utile che la direttiva si propone. Non che gli stranieri abbiano un diritto incondizionato all’accoglienza - a meno che non versino nelle condizioni di richiedenti asilo politico - perché è pur vero che devono dimostrare di disporre di risorse sufficienti e di un’assicurazione malattia ("in modo da non diventare un onere per lo Stato membro interessato"). Una volta rispettate queste condizioni, però, l’amministrazione statale non può frapporre ostacoli "significativi" a persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non dispongono di redditi tali da poter assorbire con disinvoltura una tassa ricorrente e, tra l’altro, di fatto inversamente proporzionale alla durata se si considerano i più frequenti rinnovi. Non solo: il contributo creato cinque anni fa è ulteriore rispetto a quanto già richiesto in precedenza per le spese del procedimento, una "tassa" fissa di 73,50 euro che il Dm del 2011 non aveva mai cancellato. E anche sulla ripartizione del contributo extra richiesto dal Governo italiano, il Tar esprime più di qualche perplessità. L’esecutivo, negli atti del processo, sostiene infatti che si tratta di un gettito "connesso all’attività istruttoria necessaria alla verifica del possesso dei requisiti". Una versione però che si scontra con una legge in vigore (Dlgs 286/98, Testo unico sull’immigrazione): la metà del gettito prodotto dal contributo per il rinnovo dei permessi è destinato a finanziare le spese per il rimpatrio degli irregolari (articolo 14-bis), circostanza peraltro confermata dalla difesa di Palazzo Chigi. Tra gli ulteriori parametri di valutazione del "contributo" il Tar, citando peraltro ancora la Corte di giustizia Ue, prende in considerazione la "distanza in termini economici rispetto all’importo richiesto per il rilascio del documento di identità" ai cittadini, per dimostrare "l’attuazione sproporzionata dell’autonomia lasciata allo Stato membro" dalla direttiva europea sull’immigrazione. Pertanto la "tariffazione" fissata dal Dm 6 ottobre 2011 determina un contributo a carico dello straniero richiedente "sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima". Da qui l’annullamento degli articoli 1 comma 1, articolo 2 comma 1 e 2 e articolo 3 del Dm impugnato e il contestuale 0rdine alla Pa di eseguire la sentenza. Misure cautelari reali, soggetti legittimati a proporre il ricorso per cassazione Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2016 Misure cautelari reali - Impugnazioni - Ricorso per cassazione - Soggetti legittimati a proporre il ricorso per cassazione. In tema di impugnazione di misure cautelari reali, sono legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze rese dal tribunale in sede di riesame, ai sensi dell’articolo 324 cod. proc. pen., solo coloro che hanno partecipato al relativo procedimento incidentale. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 17 febbraio 2016 n. 6438. Misure cautelari reali - Impugnazioni - Ricorso per cassazione - Soggetti legittimati - Individuazione. I soggetti legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze rese dal Tribunale in sede di riesame delle misure cautelari reali sono solo coloro che hanno partecipato al procedimento incidentale. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 9 novembre 2012 n. 43504. Misure cautelari reali - Impugnazione - Portata del combinato disposto degli articoli 325e 322 cod. proc. pen. - Legittimazione al ricorso dei soggetti che hanno partecipato al procedimento di riesame. Dal combinato disposto degli articoli 325, primo commae 322 cod. proc. pen. si desume che sono legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze rese a norma dell’articolo 324 cod. proc. pen. solo i soggetti che hanno partecipato al relativo procedimento di riesame. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 24 maggio 1994 n. 1318. Misure cautelari reali - Impugnazione - Ricorso per cassazione - Ricorso proposto dal P.M. - Ammissibilità. Contro il provvedimento di sequestro preventivo il pubblico ministero può proporre ricorso per cassazione a norma dell’articolo 325, comma secondo, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 26 aprile 1990 n. 4. Potere-dovere del Tribunale del riesame di integrare le insufficienze motivazionali Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2016 Misure cautelari personali - Insufficienze motivazionali - Impugnazione - Potere integrativo del Tribunale del riesame - Carenza di motivazione in ordine all’inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari con l’uso del braccialetto elettronico. Il Tribunale del riesame ha il potere-dovere di integrare le insufficienze motivazionali dell’ordinanza di custodia cautelare relative alla valutazione di inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari con l’uso del braccialetto elettronico atteso che l’articolo 309 comma nono cod. proc. pen. non prevede quale causa di annullamento dell’ordinanza cautelare la mancanza di indicazioni sull’adeguatezza della misura. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 11 marzo 2016 n. 10150. Misure cautelari personali - Riesame dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva - Potere integrativo del Tribunale del riesame - Novella introdotta dalla L n. 47/2015 - Limiti - Motivazione mancante sotto il profilo grafico o inesistente per inadeguatezza argomentativa. In tema di misure cautelari, le modifiche introdotte negli articoli 292 e 309 cod. proc. pen. a seguito della L. n. 47/2015 non hanno carattere innovativo, essendovi solo esplicitata la necessità che dall’ordinanza emerga l’effettiva valutazione della vicenda da parte del giudicante. Alla luce della nuova disciplina, sussiste il potere-dovere del tribunale del riesame di integrazione delle insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato, salvo che ricorra il caso di motivazione mancante sotto il profilo grafico o inesistente per inadeguatezza argomentativa. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 27 gennaio 2016 n. 3581. Misure cautelari personali - Potere integrativo del Tribunale del riesame - Esercizio - Condizioni. Anche a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 47/2015 all’articolo 309, comma nono, cod. proc. pen., il potere-dovere del Tribunale del riesame di integrare le insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera nelle ipotesi di motivazione mancante o apparente, quale quella in cui il primo giudice si sia limitato ad una sterile rassegna delle fonti di prova a carico dell’indagato, in assenza di qualsiasi riferimento contenutistico e di enucleazione degli specifici elementi reputati indizianti. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 20 novembre 2015 n. 46136. Misure cautelari personali - Potere del Tribunale del riesame di integrazione della motivazione del provvedimento impugnato - Limiti. Il potere-dovere attribuito al giudice del riesame dall’articolo 309, comma nono, ultima parte, cod. proc. pen., di confermare le ordinanze coercitive impugnate "per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso" non è esercitabile allorquando la motivazione di quest’ultimo sia radicalmente assente o meramente apparente, dovendo, in tali ipotesi, essere rilevata la nullità del provvedimento impugnato per violazione di legge. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 17 marzo 2014 n. 12537. Bologna: alla Dozza si conclude il confronto Italia-Islam attraverso le costituzioni di Cristian Casali Ristretti Orizzonti, 26 maggio 2016 Si chiude la seconda edizione del corso organizzato alla Dozza dalla Garante dei detenuti e dal Cpia di Bologna. Una nuova esperienza di dialogo tra Costituzioni e culture, una nuova consapevolezza per le sfide della laicità e della convivenza nel carcere di Bologna: si è conclusa la seconda edizione del corso "Diritti, Doveri, Solidarietà", organizzato dal Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna e dal Centro per l’istruzione adulti metropolitano (Cpia), dedicato ai detenuti stranieri e italiani che frequentano gli studi in scienze sociali. Anche in questo secondo ciclo si è voluto promuovere, a partire dal confronto tra la Costituzione italiana e quelle dei Paesi della Primavera araba, la conoscenza e il confronto tra i rispettivi patrimoni religiosi e culturali, nel segno del rispetto dei diritti umani e della pacifica convivenza. I temi in discussione hanno riguardato, in particolare, i diritti fondamentali della persona, eguaglianza e solidarietà, la salute, il lavoro, giusto processo-pena-rieducazione, la libertà religiosa, leggi degli uomini e leggi di Dio, uomo-donna-famiglia. La regia degli incontri è stata affidata a Ignazio de Francesco, membro della comunità di Monte Sole, ideatore e coordinatore del corso, che si è avvalso di Yassine Lafram, coordinatore della comunità islamica bolognese, in qualità di mediatore culturale. Ai singoli incontri sono intervenuti docenti universitari, operatori professionali e figure religiose, oltre alle docenti interne del Cpia. Negli interventi della Garante Desi Bruno e dei membri dell’Ufficio Antonio Ianniello e Davide Bertaccini, che hanno seguito tutti gli incontri, si è sottolineata "la necessità di riconoscere i valori universali dell’uomo richiamati nella Dichiarazione del 1948 e presenti nella Costituzione italiana, come strumento ineludibile per migliorare il dialogo e la coesistenza tra le persone e i gruppi", partendo, ribadisce la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, "dal rispetto dell’altro, dal ripudio delle discriminazioni, nella consapevolezza che il tema delle opportunità e delle responsabilità dentro il carcere si mostra, rispetto alla vita in libertà, in termini più complessi". I frequentanti di questa seconda edizione hanno partecipato a laboratori di scrittura in cui, con l’aiuto delle docenti interne, hanno potuto proseguire l’esperienza degli studenti del precedente ciclo, nell’elaborazione di una "Costituzione di Diritti, Doveri, Solidarietà". Le diverse proposte avanzate dai partecipanti sono state discusse e votate durante gli ultimi due incontri, per confluire in un sintetico documento composto di una parte sui "diritti" e una sui "doveri", che sarà sottoposto alle autorità che hanno promosso il corso, oltre che alla cittadinanza per sensibilizzarla rispetto alle questioni aperte sull’universo penitenziario. Livorno: carcere di Porto Azzurro; sfide, progetti innovativi e risorse tenews.it, 26 maggio 2016 Il Garante Nunzio Marotti: "Investire sul carcere è utile a tutta la società". Rilanciare la Casa di reclusione di Porto Azzurro, facendole ritrovare l’importante ruolo di carcere-modello che ha svolto in passato e cogliendo le opportunità innovative. Questa la sfida che attendeva e attende il nuovo direttore, Francesco d’Anselmo, e i suoi collaboratori. La sfida lanciata anche dal Sottosegretario alla Giustizia, Ferri, in occasione dell’ultima visita all’Elba. A meno di un anno dall’arrivo del direttore D’Anselmo, devo esprimere apprezzamento per il lavoro fatto, per le cose realizzate e quelle avviate. Certo, non mancano le criticità, alcune delle quali verranno affrontate prossimamente, con la consapevolezza che alcune richiedono investimenti significativi e coinvolgimento dei livelli regionale e nazionale dell’Amministrazione penitenziaria. Vorrei segnalare, fra le altre, due realizzazioni, a cui se ne aggiungono altre due che prenderanno il via nelle prossime settimane. Nei giorni scorsi è stata istituita la Commissione lavoro, prevista dall’ordinamento penitenziario. Uno strumento importante che si occupa dell’assegnazione dei lavori interni all’Istituto, attraverso la redazione di due graduatorie, generica e per specifiche mansioni. La Commissione ha elaborato i criteri e i punteggi per la formazione degli elenchi. Si integra così l’instancabile lavoro svolto finora dagli uffici. È questa una realtà che contribuisce, da un lato, a facilitare il lavoro del personale addetto e, dall’altro, a dare un’informazione costante e trasparente ai detenuti. Continua, inoltre, la collaborazione con il comune di Rio Elba, che vede impegnati 7 reclusi in lavori socialmente utili. È uno dei modi per rendersi utili alla società in modo visibile. Nei prossimi giorni, prenderanno il via i colloqui in videoconferenza con modalità Skype. Sarà così possibile avere colloqui di 20 minuti con i propri familiari. Una misura che consente di coltivare gli affetti da parte di quei familiari che non hanno la possibilità, per motivi di lontananza, economici o di salute, di raggiungere Porto Azzurro. Infine, desidero segnalare l’imminente riapertura della falegnameria: verranno impiegati quattro detenuti per lavori interni, ma non sono esclusi sviluppi. Investire nella missione propria del carcere vuol dire dare possibilità, a chi sconta la pena, di compiere un percorso di rivisitazione del proprio vissuto e di rieducazione, affinché al termine possa reinserirsi positivamente nella società. Le statistiche sostengono che dove si lavora bene, in linea con le normative, la recidiva diminuisce, cioè si abbassa sensibilmente la percentuale di quanti tornano a delinquere. A vantaggio di tutti. Cassino (Fr): detenuti e lavori socialmente utili, accordo fra comune di Sora e Tribunale frnotizie.it, 26 maggio 2016 Una buona notizia per quanto riguarda i detenuti della provincia di Frosinone. Il comune di Sora ed il tribunale di Cassino hanno concluso un accordo per il reinserimento dei detenuti all’interno della società. La delibera della giunta municipale ha predisposto uno schema che ha per oggetto "l’utilizzo da parte del Comune di Sora di tre soggetti imputati in processi penali e sottoposti a pena esecutiva", una riabilitazione per mezzo di strumenti alternativi rispetto alla detenzione fra i quali appunto i lavori socialmente utili. Questo aiuterebbe i detenuti a reintegrarsi nella società e a svolgere dei compiti utili sia per loro stessi che per il Comune dove si trovano, i cosiddetti servizi di pubblica utilità. Un buon modo per dimostrare che, anche al termine di un percorso di rieducazione, ci si può reintegrare a pieno titolo nella società svolgendo dei lavori per essa utili. Il piano è stato approvato anche dal Presidente del Tribunale di Cassino e sarà prossimamente esecutivo. Gela (Cl): Acropoli ripulita da ex detenuti, accordo tra amministrazione e Lions Club accentonews.it, 26 maggio 2016 Ex detenuti nei servizi di manutenzione del Giardino dell’Acropoli. Questa è l’iniziativa che è stata dall’amministrazione comunale di Gela, che ha affidato il sito archeologico al al Lions Club Gela per la prestazione gratuita della manutenzione ordinaria che verrà svolta con l’ausilio della cooperativa degli ex detenuti. I lavori partiranno mercoledì 1 giugno nel rispetto della sicurezza professionale verranno svolte opere di scerbatura, potatura, pulizia e rimozione dei rifiuti per tipologia, irrigazioni, piccole sostituzioni e riparazioni, apertura e chiusura degli ingressi esistenti. Il Comune si riserva di eseguire dei sopralluoghi periodici. L’accordo è stato sottoscritto dal Settore Urbanistica del Comune e dal presidente del club service Antonio Gagliano, e ha la durata di un anno, rinnovabile per ulteriori 12 mesi. L’area verde, estesa per 5 mila metri quadrati, resterà destinata ad uso pubblico. "La proposta del Lions Club - ha commentato l’assessore comunale all’Urbanistica, Francesco Salinitro, oltre a restituire la piena fruizione pubblica di uno spazio comunale e dare la possibilità di lavoro seppur precario, intende promuovere attività di rieducazione ed inserimento sociale per dei cittadini che vivono in condizioni di esclusione ed emarginazione". Torino: detenuti circensi nello spettacolo di Cirko Vertigo alla Casa circondariale Ansa, 26 maggio 2016 Alcuni detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino oggi saranno circensi nello spettacolo che il Cirko Vertigo porta in scena al termine di una serie di laboratori rivolti ai reclusi e tenuti da Paolo Stratta e dall’artista colombiano Lukas Vaka Medina. L’approdo è l’appuntamento di oggi all’interno della casa circondariale che vedrà insieme detenuti, giovani allievi del Corso di Formazione Professionale per Artista di Circo Contemporaneo gestito da Forcoop Agenzia Formativa e un cast internazionale di artisti professionisti. Non è la prima volta che Cirko Vertigo varca i cancelli di un carcere per tenere momenti di incontro e formazione con gli ospiti. In passato è stato coinvolto l’Istituto Penale per Minorenni "Ferrante Aporti" di Torino per far conoscere e sperimentare ai ragazzi e alle ragazze ospiti, le tecniche di base di alcune discipline circensi e lavorare insieme a loro sull’organizzazione di uno spettacolo finale. Il silenzio sul milione di bambini che vive in povertà assoluta di Dario Di Vico Corriere della Sera, 26 maggio 2016 Le nuove disuguaglianze: i minori non votano e quindi non pesano e la politica tutela di più gli anziani. In Italia vivono 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta, 2 milioni considerando la povertà relativa. Il paradosso il paradosso delle culle vuote. Come italiani siamo generosi con le adozioni a distanza ma fatichiamo ad accettare che da noi vivano 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta. Che diventano 2 milioni se esaminiamo la povertà relativa, un bambino su 5. Persino nella rissosa lotta politica è rimasto quest’ultimo tabù: la paura di ammettere che in Italia ci sono situazioni che una volta definivamo da "Terzo mondo" e che non coinvolgono solo ragazzi stranieri. Questa amnesia convive con un paradosso: la quota crescente di bambini poveri si accompagna alla diminuzione delle nascite. Nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno del 2014 e nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia ad oggi. È anche il quinto anno consecutivo che la fecondità cala, ora è pari a 1,35 bambini per donna, cifra che andrebbe ancora ridotta se conteggiassimo le sole mamme italiane. La presenza di minori indigenti fa a pugni poi con la tradizione culturale di un Paese che ha sempre manifestato calore per i propri figli/cuccioli tanto da sovra-accudirli e, almeno per le classi abbienti, riempirli di corsi di nuoto/danza, apprendimento della seconda e terza lingua, controllo compulsivo via iphone. I sociologi segnalano, infine, un ulteriore trend: il futuro appare incerto e si fanno meno figli anche per concentrare benessere, cure e risorse su uno solo. Il recente Rapporto Istat ha dedicato attenzione al fenomeno indicando nei minori il soggetto che in termini di povertà e deprivazione ha pagato il prezzo più elevato della crisi, peggiorando anche rispetto agli anziani. L’indice di povertà relativa che tra il ‘97 e il 2011 per i minori aveva oscillato su valori attorno all’11-12%, nel 2012 ha superato il 15% e ha raggiunto il 19% nel 2014. Al contrario tra gli anziani - che nel ‘97 presentavano un indice di povertà di 5 punti più grave dei minori - si è osservato un progressivo miglioramento e oggi la povertà relativa degli anziani nel 2014 è stata di 10 punti meno dei giovani. La crescente vulnerabilità dei minori, è legata alle difficoltà economiche e occupazionali dei genitori, il miglioramento della condizione degli anziani è dovuta (invece) anche al progressivo ingresso tra gli ultra 65enni di generazioni con titolo di studio più elevato e redditi sicuri. Commenta la ricercatrice dell’Istat Linda Laura Sabbadini: "C’è da rifocalizzare la mappa del rischio-povertà e le misure di contenimento vanno rapportate alle nuove emergenze, superando vecchi cliché e individuando strumenti mirati per i singoli segmenti di popolazione". Ma dove si addensa il pericolo di indigenza minorile? I bambini del Sud e quelli che vivono con un capofamiglia che ha frequentato appena le elementari presentano un rischio 4 volte superiore a quella dei residenti al Nord e dei figli di diplomati. I parametri che si usano per definire la deprivazione sono di tipo materiale (carenza di vestiti, giochi e cibo) e immateriale (possibilità di festeggiare il compleanno o fare almeno una settimana di vacanza l’anno) ma conteggiano, ad esempio, anche lo spazio per poter studiare in casa. Il disagio sfocia in prima battuta nell’abbandono della scuola e al Sud colpisce 2-3% dei bambini: una media considerata inaudita in campo europeo. La onlus Save the children - molto attiva e autorevole - ha pubblicato di recente uno studio sulla povertà educativa: solo il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido e usufruisce di servizi integrativi e i divari tra le regioni sono impressionanti. Tra Emilia e Campania/Calabria/Puglia ci sono anche 25 punti di distanza. Dopo l’assenza precoce dalle aule, e compiuti i 14 anni, i ragazzi scompaiono nella nebulosa dei Neet, ne sappiamo poco e ne vediamo ricomparire alcuni come esercito di riserva della criminalità o nelle bande degli ultrà del calcio. Dormono a casa dei genitori ma durante il giorno stanno sulla strada alternandosi tra lavoretti, bullismo e vicinanza alla droga. "La povertà minorile è grave per i danni che reca nell’immediato ma ancora di più perché è una condanna, determina in negativo tutto l’iter successivo di vita" sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro e ora presidente dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Siamo dunque nel pieno della "trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza", per questi giovani non partirà nessun ascensore sociale e anzi sono intrappolati sin dall’infanzia nella marginalità. "Non converrebbe allora - si chiede Maurizio Ferrera, direttore scientifico di Secondo Welfare - intervenire per sostenerli quando ancora la loro esistenza si può raddrizzare, invece di chiudere gli occhi e doverli poi supportare per tutta la vita con scarsa efficacia e spreco di risorse". Prima di avventurarci nel campo dei rimedi è il caso di ragionare sulla rappresentanza di questi interessi deboli. La nostra spesa sociale è concentrata nella tutela della vecchiaia (nel 2014 equivaleva al 14% del Pil!) e spesso mancano le risorse per altri interventi più lungimiranti. Senza addentrarci in semplificazioni del tipo "meno ai nonni, più ai nipoti" è chiaro che le ragioni dei primi vengono difese in tanti modi: con la loro presenza nella vita civile, con la rivalutazione del valore dell’esperienza nella gestione delle complessità ma anche con organizzazioni che esercitano pressing sui decisori pubblici. I sindacati dei pensionati, non è certo una novità, hanno un notevole peso nelle confederazioni e presidiano con costanza i temi che li riguardano ma chi difende, invece, le ragioni dei minori poveri? Per rispondere a questa domanda le Acli più di 10 anni fa con l’ex presidente Luigi Bobba, ora sottosegretario del governo Renzi, avanzarono una proposta provocatoria: far votare i bambini attraverso una doppia scheda affidata alle loro mamme. "Solo così il suffragio sarà veramente universale" sostenne e tirò fuori persino una frase del filosofo Antonio Rosmini, "un voto per ogni bocca da sfamare", ricordando come un’identica idea avesse animato nei mesi precedenti 43 deputati del Bundestag. La proposta è rimasta al palo anche se ogni tanto rispunta carsicamente perché nonostante tutte le dissertazioni sulla disintermediazione in realtà ci si accorge che chi non ha voce (i bambini o le partite Iva) vorrebbe essere "mediato" e quindi caso mai il problema è riequilibrare il peso delle lobby. Le politiche contro la disuguaglianza passano anche di lì. Rispetto al passato, va detto, qualcosa si sta muovendo e c’è un protagonismo di soggetti assai diversi tra loro come le fondazioni ex bancarie e alcune sigle del terzo settore che fa ben sperare. Proprio nei giorni scorsi Giuseppe Guzzetti ha presentato a loro nome un fondo per il contrasto della povertà educativa che spenderà 400 milioni in 3 anni. Quando si passa alle famose policy c’è subito un bivio. Una vecchia visione, fortissima a sinistra, chiede di tassare i ricchi e redistribuire ai poveri ma si presta a mille controindicazioni non ultima l’alta pressione fiscale e il rischio che il ritorno avvenga in modo inefficiente e comunque tardi. Sarebbe dunque da preferire una visione alternativa nella cultura e nella tempistica ovvero intervenire affinché i giovani non si portino dietro il peso del retroterra familiare. Senonché la delega all’assistenza inserita nella legge Stabilità 2016 che avrebbe dovuto trasformare in provvedimenti quest’idea razionalizzando l’attuale spesa per l’assistenza è stata via via svuotata e ciò nonostante che Bruxelles ci abbia intimato di intervenire sull’indigenza dei minori. Come è possibile, si dirà, che la politica italiana con la sua retorica anti-austerity si faccia cogliere in fallo dai grigi eurocrati persino in materia sociale? In realtà la lotta alla disuguaglianza "sin da piccoli" non è nel Dna della cultura politica italiana, la sinistra che oggi monopolizza il potere è anzianista e filosindacale e il renzismo non ha saputo/voluto cambiare marcia. Anche perché ha la presunzione di voler incassare un dividendo subito, da qui la predilezione per lo strumento dei bonus (per i bebè o i 500 euro per la cultura ai giovani). "Il riorientamento della spesa sociale verso i minori dà effetti differiti nel tempo - spiega Ferrera - ed esce dall’orizzonte elettorale, così si teme di far arrabbiare gli elettori a cui sono state tagliati i trattamenti di favori e di esporsi al rischio di punizione nelle urne". Perché come si sa i poveri non votano e i minori tantomeno. "Papà mi picchia, ora che gli fanno?". Le voci dei bimbi al Telefono azzurro di Giusi Fasano Corriere della Sera, 26 maggio 2016 A fianco degli operatori che assistono ogni giorno i piccoli vittime di violenze o abusi. L’anno scorso 3.671 casi trattati: 2.700 via telefono e 971 via chat. C’è una bambina agitata al telefono. "Il nonno grida con la nonna", sussurra la sua vocina spaventata. Clic. Pochi secondi e richiama: "Passava lui e non potevo farmi vedere al telefono, sennò urlava anche con me". Appena il tempo di dire il nome e l’età (7 anni) e il nonno passa di nuovo. Clic. Avanti così per venti minuti. Nell’ultima chiamata la piccola è delusa: "Mi sono nascosta sotto il tavolo per prendergli la gamba e fargli venire un po’ di paura anche a lui, ma non ha funzionato". Duecento chiamate al giorno - Bambini che chiedono aiuto. Non importa se per risolvere un problema di matematica o raccontare un’esperienza drammatica. Cercano una mano tesa, solo questo conta per Telefono Azzurro, Sos per bambini fondato dal professor Ernesto Caffo nel 1987. Operatrici e operatori (psicologi professionisti) che 24 ore su 24 rispondono, rassicurano, annotano e, quand’è il caso, chiedono l’intervento della polizia, dei servizi sociali, dei carabinieri, della scuola... Arrivano più o meno 200 chiamate al giorno, comprese quelle fatte per scherzo o per insultare. E in più c’è la chat. Parlano o scrivono molto spesso ragazzini fra gli 11 e i 14 anni, ma anche bimbi più piccoli. Ed è ogni giorno un fiume di parole bisbigliate, urlate, scritte, imparate a memoria, dette con rabbia o disperazione oppure non dette, sospese fra le lacrime. Gli amici immaginari - "La fidanzata di mio papà non mi fa entrare in casa quando lui non c’è e allora io mangio e faccio i compiti sul pianerottolo" ha raccontato un bambino di otto anni sul punto di piangere. "Non l’ho detto mai a nessuno perché non volevo far dispiacere il mio papà ma oggi non mi apre nemmeno il portone, piove e io ho freddo". Succedeva un po’ di tempo fa. Il padre, si è scoperto, ignorava tutto. Molti, per la vergogna di confessare debolezze o ignoranze proprie, descrivono amici immaginari. "Quel mio compagno di classe... lo prendono in giro, gli dicono che è sfigato, lo lasciano fuori da ogni gruppo. Lui è depresso, cosa può fare?". Oppure: "La mia amica ha baciato un ragazzo e ha paura di essere incinta. Può succedere?". Le richieste di chiarimento sul sesso vengono sempre da ragazzine. "Ho quasi 16 anni e sono ancora vergine. È normale?". "A che età si può avere il primo rapporto sessuale?". "Come si usa un preservativo?". Violenze sessuali e maltrattamenti - Ma per Lucia, Ilaria, Silvia, Antonietta e le altre operatrici, le chiamate spassose, diciamo così, sono una minoranza. C’è da fare i conti soprattutto con quelle drammatiche, ogni giorno. E spesso sono bambini o adolescenti che vivono le loro angosce fra le mura di casa. Violenze sessuali, maltrattamenti. Chiamano ma un attimo dopo vorrebbero non averlo mai fatto perché temono le conseguenze: "Adesso che vi ho detto che mi tocca che succederà a papà?", "mi picchia ogni giorno ma non gli dite che ho chiamato o mi ammazza, vi prego", "la mamma non sa niente, si arrabbierà con me?", "è stato il mio fratellastro, l’ha fatto con me e adesso forse lo fa con le mie sorelline. Ma ora lui va in carcere?". Non è una novità che i genitori usino i figli per ricattarsi a vicenda e capita che suggeriscano loro stessi la chiamata e il racconto da fare. Così ecco il bimbo di 7 anni che dice "vi chiamo perché sono vittima di un abuso psicologico da parte di mio padre", oppure: "Mia madre ha avuto un decreto di affidamento ingiusto". Gli annunci di suicidio - Qualche volta sono annunci di suicidio (quasi sempre intenzioni reali) e scatta la corsa per raggiungere l’indirizzo dichiarato o risalire alla casa dalla quale è partito il messaggio in chat. Con genitori ignari, ovviamente. Come quella volta della 13enne che chiamò per dire "per i miei non esisto, sono invisibile, non ho attenzione, non mi capiscono, li odio". Riattaccò dopo aver dato solo il nome, nessun cognome né indirizzo. Un’ora dopo scrisse in chat: "Mi uccido". La polizia faticò per rintracciare l’indirizzo, alla fine gli agenti suonarono a una villa. La salvarono davanti a due genitori sgomenti almeno quanto lei. Gli immigrati di seconda generazione - Sempre più spesso chi risponde al telefono si trova a parlare di Internet e immigrati di seconda generazione. "Ho fatto sesso online attraverso una chat e adesso lui minaccia di pubblicare tutto" chiede aiuto una quattordicenne fra le tante finite sotto ricatto via web. Ha un anno meno di lei, invece, una ragazzina figlia di musulmani che chiama disperata perché i suoi genitori non vogliono che parli con nessun compagno di classe maschio e perché "mia madre mi ripete che devo prepararmi a sposarmi e a essere una brava moglie. Posso avere un’altra famiglia?". Nelle sue stesse condizioni un’altra ragazzina dice che "ho avuto la prima mestruazione e mio padre vuole che metta il velo. Ma io non voglio, fa caldo e non mi piace". C’è chi chiama per dire "sono triste, nessuno parla con me" e chi ha subito abusi da piccolissimo e vuole sapere: "Diventerò un uomo così?". I numeri dei casi - Nel 2015 i casi trattati sono stati 2.700 via telefono e 971 via chat. Trattati, cioè segnalati e presi in carico da qualcuno perché c’era bisogno reale di assistenza, spesso per fatti gravi. Fortuna che ogni tanto la voce dall’altra parte mette un po’ di allegria. L’altro giorno era una bimba di 8 anni: "Voglio scappare, non voglio andare in vacanza con mamma. Puoi dirglielo tu? La nonna cucina cose che non mi piacciono e gli animali nel cortile sono brutti". Rintracciata la madre, coccolata la piccola, alla fine un sorriso: "Vabbè, ci vado. Ma è l’ultima volta". Ogni due minuti in Europa scompare un minore di Alberto Custodero La Repubblica, 26 maggio 2016 Il Papa: "Preghiamo perché tornino alle famiglie". Le parole di Bergoglio e l’allarme di Telefono azzurro in occasione della Giornata internazionale dei bambini scomparsi. Secondo Europol, ogni anno si perdono le tracce di 8 milioni di minorenni nel mondo e nell’Ue l’emergenza riguarda soprattutto i giovanissimi migranti: 10 mila casi in un anno e il 40% di quelli segnalati in Italia. Per loro c’è un centralino europeo al numero 116.000. Diecimila i migranti minorenni non accompagnati scomparsi dopo il loro arrivo in Europa. Almeno 8 milioni di bambini scompaiono ogni anno nel Mondo, 22.000 ogni giorno. Sono queste le cifre della "strage degli innocenti" che, per dirla con le parole di papa Wojtyla, è di "dimensioni enormi. E viene perpetrata ancora oggi sotto lo sguardo indifferente di tutti". Papa Francesco si muove sulla stessa linea con un appello rivolto oggi in occasione della Giornata internazionale per i bambini scomparsi: "Soli, sfruttati e allontanati dalle loro famiglie e dal contesto sociale - ha detto il Papa in udienza generale, questi bambini non possono crescere serenamente e guardare con speranza al futuro. Invito tutti alla preghiera affinché ciascuno di essi sia restituito all’affetto dei propri cari". Il 25 maggio. Ogni anno, a partire dal 1983, il 25 maggio è la Giornata internazionale in cui si ricordano i bambini che tuttora risultano scomparsi e quelli che sono stati trovati e si sono riuniti alle famiglie; in questo modo si cerca di portare questo fenomeno di rilevanza mondiale all’attenzione dei governi e della società. L’esercito di bambini invisibili. Scappano da casa, vengono rapiti o sottratti da un genitore. Altri, invece, fuggono da guerre, povertà e catastrofi naturali. Se non accompagnati, rischiano di scomparire vittime dello sfruttamento e della tratta o di subire abusi durante il loro viaggio. È l’esercito dei bambini invisibili: basti pensare che in Europa ogni due minuti arriva la segnalazione di un minore scomparso, secondo gli ultimi dati di Missing Children Europe, il network di 29 organizzazioni non governative attive in 24 Paesi europei, che gestiscono altrettante linee telefoniche per bambini scomparsi. Il numero unico europeo è il 116.000, attivo 24 ore su 24, in Italia gestito da Telefono Azzurro, in convenzione con il ministero dell’Interno, dal 25 maggio 2009. Otto milioni i bambini scomparsi nel mondo ogni anno. Il fenomeno riguarda tutti i paesi ed esige l’attenzione delle forze dell’ordine e dei rappresentanti di governo. Secondo le stime, almeno 8 milioni di bambini scompaiono ogni anno, vale a dire 22.000 bambini al giorno. Purtroppo, molti paesi non considerano questo fenomeno come una priorità e non dispongono di strutture e meccanismi adeguati nei settori del ritrovamento dei bambini scomparsi che rischiano fortemente di essere sfruttati nei settori del traffico illecito e della prostituzione. In Italia 163 casi di bambini scomparsi. Secondo i dati di Telefono Azzurro, nazionali e internazionali, in Europa nel 2015 sono state 209.841 le chiamate ricevute dalla rete europea per i bambini scomparsi. Di queste, il 54% ha riguardato segnalazioni per fughe da casa, mentre il 29% casi di sottrazione parentale. Nello stesso anno, in Italia, sono stati 163 i casi di bambini scomparsi, fuggiti da casa o da un istituto o vittime di rapimento, gestiti da Telefono Azzurro attraverso il 116.000, il Centro nazionale di ascolto 19696 e il Servizio 114 Emergenza Infanzia. Diecimila i migranti minorenni scomparsi. Ma il dato più allarmante riguarda i minori stranieri non accompagnati. In un anno in cui, secondo i dati Europol, sarebbero stati 10.000 i migranti minorenni non accompagnati scomparsi dopo il loro arrivo in Europa, le chiamate alle linee del 116.000 su questi casi risultano ingannevolmente basse: solo il 2% i casi a livello europeo nel 2015, segno di una grande sottostima del fenomeno. Se dal 2009 al 2014 le percentuali italiane si allineano a quelle europee, dal 2015 fino al primo trimestre del 2016, l’esplosione del fenomeno migratorio nel nostro Paese si riflette in un notevole incremento della tendenza: nel 2015 i casi di minori stranieri non accompagnati rappresentano ben il 40% dei casi, e solo nei primi tre mesi del 2016 ci sono state 33 segnalazioni. Roma, sgomberati 500 rom: ai bambini negata la scuola elementare di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 26 maggio 2016 Diritti umani. Sgomberare i rom e superare i campi. Questo si dice in campagna elettorale a Roma, e non solo. Le conseguenze di queste affermazioni sono visibili in via dei Mirri, in zona Portonaccio: alle famiglie sgomberate non è stata offerta alcuna alternativa, se non quella di andare in altri campi. Fassina, candidato sindaco a Roma per la sinistra, scrive alla Commissione Ue: "Violati i diritti umani. Serve un piano governativo per evitare la segregazione". Sgomberare i rom e superare i campi. Questo si dice in campagna elettorale a Roma, e non solo. Alfio Marchini è arrivato a stampare maxi-manifesti in cui sostiene di sentirsi "Libero di sgomberare i campi rom". Questi slogan, e altre dichiarazioni, vanno messi alla prova della realtà. E la realtà racconta qualcos’altro: si sgombera per fini elettorali, si crea un’emergenza umanitaria, si disperdono le famiglie negli altri campi. Martedì 10 maggio, in via dei Mirri, zona Portonaccio, cinquecento persone rom di origine rumena, tra cui donne incinte, anziani, malati e circa 250 minori, anche di pochi mesi, sono state sgomberate. Vivevano in un ex deposito della Cotral, l’azienda dei trasporti regionali, abbandonato da anni. La comunità lo aveva occupato da tre anni. Ogni nucleo familiare si era auto-costruito monolocali e baracche. Con il supporto di varie associazioni si è lavorato con successo all’integrazione di un centinaio di bambini rom. Lo sgombero ha spezzato il fragile equilibrio. I bambini non sono andati più alla scuola elementare Randaccio. Gli insegnanti e i piccoli compagni di classe si sono mobilitati. "Nella mia classe erano quattro - racconta Carmela, insegnante alla Randaccio - hanno lasciato un vuoto terribile. Non sappiamo dove sono finiti. Queste sono cose difficile da spiegare ai bambini: gli abbiamo detto che i compagni avevano una casa, a modo loro, e avevano diritto all’istruzione e a una vita uguale per tutti. Inizialmente c’era stato l’impegno di riportarli a scuola, poi ci hanno detto si vedrà. In politichese questo significa che non se ne farà nulla. Sono convinta che è sia stata un’operazione elettorale, hanno voluto dare l’impressione che questo è l’unico problema di Roma. I problemi ci sono, ma vanno affrontati con il dialogo. Cosa che non è avvenuta quella mattina". Lo sgombero è avvenuto a seguito del crollo di una parte del tetto del capannone occupato a marzo a causa delle piogge. L’estrema destra di Casa Pound ha usato tale crollo per chiedere lo sgombero in nome della sicurezza per chi ci abita. Lo sgombero è poi effettivamente avvenuto, senza nel frattempo avere creato un’alternativa per i residenti. Inascoltata è rimasta la loro disponibilità a ripagare le spese della ristrutturazione. "Le autorità locali si sono dimostrate incapaci di affrontare le problematiche di carattere sociale della città, se non attraverso la reiterazione di un approccio basato sull’emergenza e sulla sicurezza" sostiene l’Associazione 21 luglio che ha denunciato la violazione degli obblighi internazionali dello Stato italiano, in particolare in materia di diritto a un alloggio adeguato. "Malgrado sia stato annunciato che 300 persone siano state ricollocate, chiediamo dove e come siano stati ricollocati e che soluzione s’intenda trovare per le persone non ancora ricollocate. Ai rom viene vietato un alloggio regolare e socialmente non segregante. Ad avere creato questa situazione ci sono anche i criteri di accesso agli alloggi di edilizia popolare che direttamente o indirettamente li discriminano" ha scritto in una lettera aperta la rete sociale di Casal Bertone composta dal centro sociale Strike, la fabbrica occupata Officine Zero, le associazioni Amisnet; Anpi, Yo Migro e Resistenze Meticce. Ad oggi si ha notizia di un ricollocamento di undici persone, tra donne e bambini in strutture di accoglienza. La maggior parte ha rifiutato la separazione del nucleo familiare. Lasciati per strada, qualcuno è tornato in Romania, la maggior parte sembra essersi ricollocato in altri campi rom della Capitale. Insieme al candidato sindaco di Roma Stefano Fassina. i deputati di Sinistra italia Giovanna Martelli e Arturo Scotto hanno scritto una lettera alla Commissione Europea sul caso di via dei Mirri in cui denunciano la violenza degli sgomberi e l’inesistenza di un piano di ricollocamento nella Capitale. "Il governo - scrivono - deve approntare un piano di investimenti per evitare che i Rom siano confinati nei campi. Migranti, la ripresa degli sbarchi. Ogni giorno duemila arrivi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 maggio 2016 I trafficanti hanno trovato nuovi scafi da far salpare: gommoni cinesi con motori dal Qatar. Presto due nuovi "hotspot" in Sicilia, uno da 800 posti e uno da 300. Martedì scorso nel tratto di mare che separa la Libia dall’Italia erano in navigazione quindici gommoni carichi di persone. In tre giorni sono approdati sulle nostre coste 5.892 migranti, molti altri arriveranno nelle prossime ore, una media di 2.000 ogni 24 ore. Il flusso torna continuo e questo basta agli analisti per ritenere che gli scafisti siano di nuovo attrezzati per gestire i viaggi della speranza, che ci sia una nuova fornitura di imbarcazioni. Poco importa che si tratti di mezzi vecchi oppure insicuri, obiettivo è farli arrivare in acque internazionali e lanciare l’Sos, proprio come accaduto ieri mattina. La convinzione degli esperti è che sia soltanto l’inizio, dai porti di partenza giungono notizie di centinaia di migliaia di persone ammassate in attesa di ottenere un posto. E di trafficanti pronti a tutto pur di ricominciare a fare affari. Anche utilizzando gommoni cinesi e motori provenienti dal Qatar. La doppia rotta da Egitto e Libia - Ormai sono due i percorsi battuti dalle organizzazioni criminali per giungere in Europa attraverso la "porta" meridionale che si trova appunto in Italia: Sicilia, talvolta anche Puglia e Calabria. Quello che parte dalla Libia, in particolare da Zwara e dalle spiagge vicine. E quello che comincia in Egitto. Entrambi redditizi, almeno a leggere i dati del Dipartimento per l’Immigrazione guidato dal prefetto Mario Morcone. Perché è vero che - nonostante l’impennata di questi ultimi giorni - la media complessiva rispetto allo scorso anno ha fatto registrare un calo degli approdi pari al 9 per cento. Ma è altrettanto vero che attualmente accogliamo 115.507 persone, oltre 10mila in più del 2015. Eppure questo doveva essere l’anno della svolta, grazie al piano dell’Europa per i ricollocamenti. In base all’agenda messa a punto del presidente Jean Claude Juncker, l’Italia avrebbe dovuto poter trasferire almeno 40mila richiedenti asilo negli altri Stati membri dell’a Ue. Invece quel progetto è fallito e in vista dell’estate il nostro Paese si troverà a gestire una nuova emergenza. I gommoni cinesi con i motori del Qatar - La missione Frontex e l’attività della Marina Militare, della Guardia costiera e di tutte le forze navali e aeree impegnate nel Mediterraneo, evidentemente non sono sufficienti a fronteggiare un’offensiva dei trafficanti tornata molto aggressiva. Dopo le difficoltà dei mesi scorsi per reperire le imbarcazioni, le bande criminali si sono organizzate e sono riuscite a ottenere decine di mezzi. Alcune indagini svolte dai poliziotti dello Sco hanno accertato che uno dei canali di approvvigionamento è quello di internet. Ma non è l’unico. Sono state scoperte "alleanze" che consentono agli scafisti di reperire gommoni cinesi e di assemblarli a vecchi motori acquistati in Qatar. Materiale scadente che comunque serve a "coprire" almeno la prima parte della traversata. Quando la barca va in avaria, scatta la richiesta di aiuto e le navi che pattugliano quel tratto di mare intervengono per il salvataggio. Come si è visto nelle immagini sul naufragio di ieri, ci sono anche alcuni pescherecci provenienti dalla Tunisia che i trafficanti pagano poche migliaia di euro, sicuri che potranno riempirli con centinaia di persone disposte a versare anche fino a 2.000 euro pur di intraprendere la traversata. Due nuovi hotspot da 1.000 posti - Dopo la circolare diramata quindici giorni fa dal Viminale per reperire nuovi posti per accogliere e assistere chi presenta richiesta di asilo, i centri governativi e le strutture private messe a disposizione da Regioni e Comuni sono quasi al limite della capienza. E dunque nei prossimi giorni bisognerà attrezzarsi per reperire nuovi posti. Ma anche cercare di dare seguito alle istanze dei cittadini eritrei che avevano ricevuto assicurazioni sul trasferimento urgente in altri Paesi dove avevano chiesto di andare per raggiungere i familiari e invece sono stati bloccati perché gli Stati non concedono il via libera al ricollocamento. La "road map" italiana già trasmessa a Bruxelles prevede che oltre ai 1.600 posti nei centri di identificazione e smistamento - gli ormai famosi "hotspot" - già allestiti, siano create due nuove strutture in Sicilia con le stesse caratteristiche, vale a dire la presenza dei poliziotti e dei team internazionali per le operazioni di foto-segnalamento e il successivo trasferimento nei luoghi dove gli stranieri attendono di sapere se viene loro riconosciuto lo status di rifugiato o se invece devono essere inseriti nella lista degli stranieri da espellere e rimpatriare. Il ministro Angelino Alfano ha già deciso la creazione dei due nuovi "hotspot" in Sicilia, uno da 800 posti e uno da 300. In attesa che anche l’Europa faccia la propria parte. Migrati. "Già 1.400 morti quest’anno. Servono vie di fuga sicure e legali" di Ugo Di Giovannangeli L’Unità, 26 maggio 2016 Intervista a Carlotta Sami. La portavoce Unhcr: il modello di riferimento non può essere l’accordo con la Turchia. "Bene il Migration Compact, investe nei Paesi d’origine". Carlotta Sami è la portavoce in Italia dell’Unhcr, Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. L’abbiamo raggiunta telefonicamente appena appresa la notizia del barcone affondato a largo delle coste libiche. Il Mediterraneo, ancora una volta il Mare della morte… "Lo è sempre stato. Solo quest’anno, sono già oltre 1.400 le vittime accertate, e sarebbero state decine di migliaia in più senza lo straordinario lavoro di salvataggio portato avanti soprattutto dalla Guardia costiera italiana. Se pur gli arrivi sono in leggera flessione rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, i morti continuano ad aumentare. L’impegno di salvataggio in mare rimane indispensabile e anche il coordinamento tra tutte le forze, anche con la Guardia costiera libica e con quelle degli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. L’altra settimana sono stata in visita alla Guardia costiera italiana, insieme all’Alto commissario dell’Unhcr, Filippo Grandi. Abbiamo espresso il nostro sincero apprezzamento per l’impegno profuso nel salvataggio di migliaia di vite umane, e siamo stati colpiti da un dato che ci hanno fornito: il numero di salvataggi compiuti negli ultimi tre anni, è lo stesso dei salvataggi compiuti nei precedenti vent’anni. Un dato che dice tutto della tragedia in atto". Come affrontare una situazione che non è più emergenziale ma un fenomeno che ormai si manifesta da anni e che proseguirà a lungo? "Il dato positivo è che oramai la comunità internazionale ha preso atto che bisogna intervenire su più fronti. Quindi lavorare per assistere gli sfollati nei Paesi in guerra; supportare gli sforzi dei Paesi vicini a quelli in guerra, che oggi ospitano il 90% dei rifugiati, e poi dare delle vie sicure, legali, ai rifugiati che possono essere accolti in altri Paesi a livello globale, in Europa e altrove. Questo è l’unico modo per ridurre i rischi e le morti per migliaia di persone". Secondo un recente rapporto dell’Unhcr, oltre il 50% dei rifugiati in tutto il mondo sono bambini. "Purtroppo è così. È qualcosa di sconvolgente, una tragedia nella tragedia. Dobbiamo pensare che in tutti questi barconi e gommoni, ci sono centinaia e centinaia di bambini, alcuni con la loro famiglia ma la maggior parte da soli". Cosa si può fare per assisterli? "Innanzi tutto avere un sistema che funzioni a livello europeo per la loro assistenza e per una raccolta sistematica dei dati sulla loro presenza, la loro età, la loro identità. E poi occorre una attenta valutazione del loro superiore interesse, come è previsto dalla Convenzione internazionale sui Diritti dell’infanzia: valutare se per loro la cosa migliore e rimanere in Europa o riunirli alle famiglie nei Paesi di origine". In Europa continuano a crescere frontiere blindate, muri… "I muri non sono una soluzione. Essi alimentano l’illegalità e creano nuove potenziali vittime. Se guardiamo al 2015, c’è da dire che è stato un anno terribile, un capitolo molto negativo per l’Europa che ha dimostrato di non saper gestire l’emergenza migratoria. Occorre voltar pagina. E il modello di riferimento non può essere l’accordo Ue-Turchia, almeno per come sta funzionando fino ad oggi. Questo per varie ragioni, la prima delle quali è che questo accordo deve mettere in piedi una serie di garanzie che riguardano i diritti specifici dei rifugiati sia in Grecia sia in Turchia, che non sono presenti. I rifugiati hanno bisogno di protezione, non respingimenti. Noi temiamo che l’accordo sui reinserimenti riguardi solo una quantità minima di persone e possa mettere a rischio le persone che non sono siriane. L’incremento dei reinsediamenti dalla Turchia verso l’Unione Europea non deve avvenire a spese del reinsediamento di rifugiati di altre nazionalità che nel mondo si trovano in una situazione di grave bisogno, soprattutto nel contesto odierno di un numero mai raggiunto di persone costrette alla fuga". L’Italia ha tradotto la necessità di un intervento su più livelli nel Migration Compact Qual è in merito la valutazione dell’Unhcr? "La nostra valutazione è positiva, e per due ragioni: perché prevede degli investimenti significativi nei Paesi di origine e di transito, concentrandoli soprattutto sull’Africa. E perché il Migration Compact individua strumenti finanziari alternativi. L’altra valutazione è che noi saremmo felici di supportare ma è chiaro che in molte situazioni, in particolare in Libia, ci devono essere condizioni di tutela di diritti umani e sicurezza". Il naufragio dell’Europa di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 26 maggio 2016 Il compromesso è quello che vediamo: sperare che i disperati non partano, salvare quelli che lo fanno, ospitare i profughi, respingere gli altri. Le immagini del barcone rovesciato al largo della costa libica resteranno nei nostri occhi. L’assurda festosità dei colori, l’acqua blu del Mediterraneo centrale, i tuffi dallo scafo inclinato. Poi soltanto piccoli uomini sparsi nel mare immenso. Rari nantes in gurgite vasto. Virgilio li descriveva così, duemila anni fa. In quel racconto naufragava la flotta troiana di Enea, punita dalla dea Giunone. Oggi naufraga l’Europa, tirata a fondo dalla propria sufficienza. Bambini, donne e uomini rischiano l’annegamento e gli squali a poca distanza da Lampedusa, in una bella giornata di maggio. Scene che dovrebbero essere mostrate in tutte le scuole d’Italia stamattina, insieme a una carta geografica. Solo la generosità e la rapidità della nostra Marina Militare, alla guida della forza europea (Eunavformed), ha impedito che un incidente folle diventasse una tragedia orrenda. Non la prima, come sappiamo. Imprevedibile? No. Prevedibile e previsto, invece. Si diceva: appena la primavera si sarà assestata e il mare si sarà calmato, riprenderanno le partenze dalla Libia. È accaduto, ovviamente. In tre giorni, con quaranta operazioni di soccorso, sono state raccolte in mare seimila persone. Centinaia di migliaia sono in attesa, pronte a partire. Migranti africani, senza i requisiti per essere considerati profughi e restare in Europa. Ho passato tre giorni sulla portaerei "Cavour" che sorveglia il tratto di mare fino al limite delle acque libiche. Ho visitato altre unità in elicottero. Ho ammirato la calma e il mestiere di tutti, ma ho capito: queste giornate lasceranno il segno. Dice l’ammiraglio Andrea Gueglio, comandante dell’operazione europea: "Abbiamo saputo dai naufraghi che alcuni compagni di viaggio sono morti in questo modo: il motore si fermava e loro si buttavano a nuoto, convinti che la riva fosse appena oltre l’orizzonte". Non sanno dove sono, non sanno dove vanno, non sanno come navigheranno. Succede spesso che i migranti, dopo aver visto le condizioni di trasporto, si rifiutino di salire a bordo, e vengano imbarcati a frustate, come bestie. Il traffico di essere umani oggi è la seconda industria libica, dopo il petrolio. Creiamo corridoi umanitari!, chiede qualcuno. Non permettiamo quest’abominio. Ma se il passaggio in Europa fosse sicuro, i migranti non sarebbero decine di migliaia, diventerebbero milioni. Il compromesso è quello che vediamo: sperare che i disperati non partano, salvare quelli che lo fanno, ospitare i profughi, respingere gli altri. Qualcuno la chiama ipocrisia: è solo impotenza. Una cosa, forse, si potrebbe tentare. Spiegare ai migranti cosa li aspetta. Se è vero che sono inconsapevoli dei rischi e delle prospettive, proviamo a informarli. Cosa è stato fatto nei Paesi d’origine? Quali alternative sono state offerte a chi vuole prendere il mare? La proposta italiana - il Migration compact inviato il 15 aprile ai presidenti della Commissione e del Consiglio Ue, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk - rappresenta un passo sulla strada giusta. "Senza una cooperazione mirata e rafforzata con i Paesi terzi di provenienza e di transito - ha scritto Matteo Renzi - la crisi diventerà sistemica". Tutto corretto, salvo il tempo del verbo. La crisi è già sistemica. Lo dimostrano le vicende di queste ore. L’estate aumenterà i flussi, i soccorsi, le tragedie. È necessario scoraggiare le partenze dall’Africa. Almeno, bisogna provarci. L’ho visto da vicino, nei giorni scorsi. Una portaerei è una nave immensa. Davanti a un continente, diventa un punto nel mare. Sono eroici, i marinai italiani ed europei: non lasciamoli soli. Perché dobbiamo accogliere i profughi di Emma Bonino La Repubblica, 26 maggio 2016 I paesi europei stanno accettando e integrando i migranti nelle loro società. Dunque la mia domanda è: perché non più siriani? E, parimenti, perché non più iracheni, afgani o somali? È per una questione di razzismo? È perché si sospetta che siano un rischio per il terrorismo? Oppure non sono considerati del tutto capaci o qualificati? Queste sono domande a cui i leader europei devono iniziare a rispondere per poter superare l’emergenza profughi. L’Europa è ben consapevole delle conseguenze a livello strutturale, con un drammatico declino demografico in Germania, Italia e Spagna, giusto per nominarne alcuni. Nel 2014, i Paesi europei hanno accolto e integrato con successo circa 2,3 milioni di profughi, riunendoli alle loro famiglie e offrendo permessi di lavoro e un’istruzione. In effetti, il Regno Unito è stato il Paese migliore nell’integrazione dei migranti, accogliendone 568.000 solo nel 2014, provenienti anche dagli Stati Uniti, dall’India, dalla Cina e dal Brasile. Ma quanti dalla Siria? Quasi nessuno. Persino il mio Paese, l’Italia, ha integrato più di 200.000 persone nel 2014. Eppure molti europei continuano a negare l’accoglienza a rifugiati e migranti causati dall’emergenza lungo i confini meridionali del continente. Abbiamo bisogno di più immigrati, di tutti i tipi. Non di meno. Una volta che i rifugiati raggiungono l’Europa, deve esserci una politica d’integrazione efficace che eviti errori passati. Bisogna investire negli alloggi, nell’educazione, nella formazione linguistica e professionale per evitare una futura alienazione o privazione. L’Europa non può permettersi di continuare il suo approccio scoordinato e miseramente inadeguato alla realtà dell’immigrazione. Il nostro fallimento nel gestire efficacemente l’ingresso e l’insediamento di rifugiati e migranti ha aggravato il problema, creando una grave crisi politica. Nell’assenza di un piano generale per la gestione e la distribuzione dei richiedenti asilo, le nazioni europee sono andate nel panico. Molte di loro hanno installato rigidi controlli di frontiera, alla ricerca di capri espiatori. La Grecia, che ha attraversato una lunga fase di tensione economica prima dell’attuale crisi, è stata presa di mira per aver fallito nell’identificazione e nell’alloggiamento dei rifugiati. È assurdo pretendere che il Paese si faccia carico di questo fardello da solo. L’Ue ha garantito 509 milioni di euro per il programma nazionale della Grecia (2014-2020), oltre a degli aiuti addizionali per un totale di 264 milioni, per aiutare il Paese a gestire l’afflusso di migranti. Tuttavia, alcuni stati membri non hanno pagato la loro parte. Questa mancanza di solidarietà sta aggravando la crisi e fa sì che la Grecia non abbia le risorse necessarie per identificare ogni migrante e per determinarne il diritto d’asilo. Questo processo d’identificazione richiede più operatori sociali, interpreti e giudici, che l’Europa ha promesso ma a cui non ha ancora provveduto. Se è vero che c’è stata una mancanza di leadership in questa situazione, è altrettanto vero che alcuni interventi positivi sono stati fatti. Ad esempio, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha coraggiosamente aperto le porte ai rifugiati (o, per dirla con le sue stesse parole, si è semplicemente rifiutata di chiudere le porte). È stata accusata e criticata per "aver scelto i rifugiati", favorendo in particolare quelli siriani per la loro tendenza a venire formati e istruiti meglio. Perlomeno ha mantenuto aperto il confine tedesco per identificare i nuovi arrivi, e vorrei incoraggiare altri stati dell’Unione Europea a seguire lo stesso esempio. In Italia possiamo essere orgogliosi delle vite salvate grazie all’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo. Il programma ha salvato più di 140.000 persone in meno di un anno, prima che fosse ufficialmente chiuso alla fine del 2014. Stiamo continuando con le operazioni di ricerca e salvataggio su una scala molto più ridotta, grazie all’impegno della Guardia costiera italiana, delle associazioni di pescatori e delle Ong. Una missione appropriata nel Mediterraneo dovrebbe comprendere un programma attivo di ricerca e salvataggio, seguendo il fortunato esempio di Mare Nostrum, al fine di affrontare i prossimi mesi e anni di questa crisi. Il pensiero di perdere vite in mare è assolutamente inaccettabile. Le istituzioni europee hanno bisogno di migliorare le loro capacità di previsione per identificare i segnali d’allarme d’instabilità politica e di potenziali conflitti, e prendere iniziative adeguate per aiutare gli stati vulnerabili prima che un altro esodo di massa inizi. Un Paese a rischio è l’Algeria, caratterizzato da un conflitto sociale esteso, un sistema politico chiuso e una corruzione dilagante. Non c’è alcun successore vivente al presidente Abdelaziz Bouteflika. Considerando tutto il disordine in Libia e ne gli altri Paesi vicini, è lecito descrivere l’Algeria come una bomba pronta a esplodere. L’Europa non sta facendo abbastanza per prevedere e impedire un potenziale scoppio e le inevitabili conseguenze sulle migrazioni che ci sarebbero per il nostro continente. Ci sono innumerevoli complicazioni riguardanti la crisi odierna, incluso le modalità di separazione dei rifugiati dai migranti economici. È una distinzione tanto importante quanto non sempre facile da fare. Prima di tutto, la maggior parte di queste persone arriva qui senza documenti. Uno potrebbe dire di provenire dall’Eritrea, per esempio, ma come si potrebbe stabilire se questo sia vero oppure no? In secondo luogo, come dovrebbe essere classificata questa persona, come un rifugiato o come un migrante economico? E indubbiamente molto difficile. Possiamo costruire un sistema più razionale per affrontare le varie sfide, ma solo se prima plachiamo l’isterismo che sta colpendo l’Europa. Milioni di perse ne stanno sfuggendo alla guerra, alla repressione, alla tortura e alle minacce di morte. Prima di tutto, la politica dei profughi deve salvaguardare le vite umane. È un problema globale e non limitato al Mediterraneo. Aiuta a riflettere sulle situazioni negli altri Paesi: la Tunisia ha accolto un milione di libici in una popolazione di circa undici milioni di abitanti; il Libano ha accolto più di un milione di siriani in una popolazione di circa quattro milioni di abitanti. Come può l’Europa non dimostrare lo stesso spirito generoso nel dare il benvenuto a coloro che fuggono da questi orrori? La libertà di espressione è sotto attacco di Timothy Garton Ash* La Repubblica, 26 maggio 2016 Ovunque nel mondo la libertà di espressione è sotto attacco. In Cina un giornalista che conosco sparisce all’aeroporto, destinato come tanti altri al carcere, ennesima vittima di censura e intimidazione per il suo spirito libero. In Egitto uno studente italiano che preparava la tesi di dottorato all’Università di Cambridge è stato torturato e assassinato e centinaia di blogger e attivisti sono in carcere. In Turchia due giornalisti di spicco vengono condannati a 5 anni di carcere per l’inchiesta sul passaggio di armi dalla Turchia alla Siria e altri due sconteranno due anni per aver ripubblicato le vignette di Charlie Hebdo. Dal 2014, sono state denunciate 1845 persone con l’accusa di aver "insultato" quel sultano permaloso che è il presidente Recep Tayyip Erdogan. La deterrenza del sultano sconfina anche in Germania, dove il governo ha preso la deprecabile decisione di concedere l’autorizzazione a procedere contro Jan Bòhmermann, comico televisivo, colpevole di aver declamato versi satirici che prendevano di mira il presidente turco. In Polonia volti noti del giornalismo spariscono dagli schermi della rete pubblica, sostituiti da mezzi busti più allineati al partito al governo. Persino in Gran Bretagna le nuove leggi antiterrorismo mettono a rischio la libertà di espressione nelle università. Si nutrono timori per l’indipendenza della Bbc, soprattutto se il governo avrà diritto di nomina sulla metà dei membri del consiglio di amministrazione unitario. Questa resistenza globale contro la libertà di espressione mi demoralizza. Ho iniziato a scrivere un libro sulla libertà di espressione dieci anni fa e negli ultimi cinque ho diretto un sito web in tredici lingue presso l’Università di Oxford, freespeechdebate.com, sulla libertà di espressione nel mondo. Conosco personalmente alcune vittime di persecuzione e in gran parte del globo la situazione non fa che peggiorare. Sul nostro sito sempre più persone preferiscono postare commenti sotto pseudonimo. Ai bei tempi, nel 2012, potevo parlare apertamente del nostro progetto sulla libertà di espressione in un caffè libreria di Pechino. L’anno scorso il proprietario della stessa libreria mi ha chiesto timidamente di evitare argomenti sensibili. Quattro anni fa potevo ancora partecipare a un evento pubblico assieme a blogger, attivisti per i diritti umani e accademici egiziani in un auditorium a piazza Tahrir al Cairo, dove era fiorita la primavera araba. Molti dei presenti sono ora in carcere, ridotti al silenzio o in esilio. Un fotoreporter, noto col nome di Shawkan, è in carcere da quasi tre anni. Ha concluso una commovente lettera con le parole (in maiuscolo) "continuate a gridare, il giornalismo non è reato". Nel 2012 tenemmo una tavola rotonda a Istanbul giornalisti e gli accademici che allora si esprimevano liberamente oggi si trovano di fronte a folle inferocite istigate da tweet e insulti del Akp, giornali importanti chiusi o commissariati, denunce e persecuzioni. Uno di loro, Can Dlindar, direttore di Cumhuriyet, è stato minacciato da un uomo armato fuori dal tribunale prima del processo in cui è stato condannato a più di cinque anni di carcere. La tavola rotonda sulla libertà di espressione in Turchia non si tiene più a Istanbul, ma a Oxford. La situazione in Polonia non può essere paragonata a quella in Turchia, Egitto o Cina. Ma secondo il sindacato di categoria polacco più di 140 giornalisti sono stati licenziati o declassati. La tv pubblica dà ora più spazio alla linea del governo. La situazione in Gran Bretagna è migliore che in Polonia, ma le riforme proposte dal ministro della Cultura mettono a rischio l’indipendenza editoriale della Bbc. I motivi di queste regressioni sono molteplici e differenti, ma assieme creano una ondata antiliberale. Cosa si può fare? Stare allerta. Alzare la voce. Far si che la libertà di espressione sia garantita in patria. Sostenere chi la difende in condizioni assai più critiche all’estero. E il governo britannico cosa fa? Nulla. Avendo saputo che stavo scrivendo questo articolo, Dtindar mi ha scritto: "Mi ha colpito il fatto che il governo britannico abbia preferito tacere. Dovrebbe essere imbarazzante per il governo di un Paese che va fiero della sua democrazia". Immagino che le sue controparti in Russia, Cina e Egitto condividano questo stato d’animo. Lo scorso anno il massimo funzionario del ministero degli Esteri ha dichiarato che i diritti umani "non rientrano tra le nostre priorità". Un rapporto osserva con finezza che "mentre il ministro respinge l’ipotesi che il Foreign Office non consideri i diritti umani una priorità, risulta dagli scritti che abbiamo ricevuto che questa è la percezione diffusa". E ora che il governo britannico corregga questa "percezione". Chi oggi lotta per la libertà di espressione in tutto il mondo dovrebbe percepire maggior sostegno da parte della terra di John Milton, John Stuart Mill e George Orwell. *L’autore è giornalista e saggista. Il suo nuovo libro "Libertà di espressione" sarà pubblicato in Italia da Garzanti (Traduzione di Emilia Benghi) Egitto: gli spiragli e le difficoltà dell’inchiesta su Regeni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 maggio 2016 A quattro mesi dal rapimento del ricercatore italiano. I verbali consegnati ai pm di Roma sono scritti a mano, in arabo, e sono di difficile lettura. Otto verbali d’interrogatorio scritti in arabo, a mano, piuttosto corposi e di difficile traduzione perché bisogna decifrare la calligrafia, che contengono le dichiarazioni del coinquilino di Giulio Regeni e di sette parenti o conoscenti dei cinque presunti banditi uccisi nella sparatoria del 24 marzo scorso. Una "nota riepilogativa" degli accertamenti svolti dalla polizia egiziana sui fatti che hanno portato alla scoperta dei documenti d’identità di Regeni a casa della figlia di una dei morti. I tabulati telefonici di tre delle cinque persone uccise; mancano però quelli di Tarek Saad Abdel Fattah Ismail, che sarebbe l’uomo forse entrato in possesso dei documenti di Giulio, e soprattutto sono dati riferiti ai contatti del mese di marzo, mentre mancano quelli di fine gennaio e inizio febbraio, quando il giovane ricercatore italiano sparì dalla circolazione e poi fu ritrovato cadavere alla periferia del Cairo. Le relazioni dei medici legali sulle autopsie dei cinque morti. Passi avanti e passi indietro - È tutto qui il "bottino" dell’ultima missione degli investigatori italiani al Cairo, avvenuta l’8 maggio. Un passo avanti, perché la Procura generale della capitale egiziana l’ha consegnato tenendo aperto un canale diretto di collaborazione (almeno apparente), in questo modo scavalcando la polizia locale che non era presente agli incontri; un particolare che fa pensare a un diverso atteggiamento della magistratura rispetto al ministero dell’Interno del governo egiziano, più restìo a fornire informazioni e inizialmente intenzionato a insistere sulla pista della criminalità comune per l’omicidio Regeni, contestata dagli inquirenti italiani. Ma è anche un passo indietro, o di lato, perché in ogni caso si tratta di materiale parziale, che difficilmente può far progredire la ricerca della verità sul sequestro e l’assassinio del ricercatore friulano che collaborava con l’università di Cambridge. La collaborazione tra pm - A quattro mesi dal 25 gennaio, quando Giulio uscì dal suo appartamento al Cairo per andare a un appuntamento a piazza Tahrir, il "bilancio giudiziario" è fermo a questo punto, in attesa di sviluppi che - si spera, ma senza troppe illusioni - possano venire una volta terminata la traduzione dei documenti. E sul piano politico la situazione è, se possibile, anche peggiore. L’8 aprile, all’esito del pressoché inutile incontro romano tra inquirenti e investigatori dei due Pasi, il ministro degli Esteri richiamò a Roma l’ambasciatore per consultazioni; dopodiché il rappresentante diplomatico è stato sostituito, quello designato non ha preso possesso della sede e dunque le relazioni sono di fatto interrotte. "Da allora il nostro governo non ha fatto nessuna ulteriore mossa", commenta allarmato il senatore Luigi Manconi, il presidente della commissione Diritti umani di palazzo Madama che aiuta i contatti istituzionali della famiglia Regeni. L’ultimo risale a un paio di settimane fa, con il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco, titolari del fascicolo italiano sulla morte di Giulio; un occasione per ribadire la "piena fiducia" nella magistratura romana, seppure nella consapevolezza che le redini dell’inchiesta restano saldamente (e inevitabilmente) nelle mani di quella egiziana. I pubblici ministeri della Capitale possono soltanto collaborare con i colleghi arabi e in qualche modo "sorvegliare" il loro operato, ma senza poter svolgere indagini in territorio egiziano. Una situazione di difficoltà confermata anche dal relativo peso specifico delle ultime carte ricevute. Le precisazioni di Pignatone - Le reiterate precisazioni del procuratore Pignatone su questo punto, ogni volta che qualcuno gli chiede se è ottimista oppure no sull’esito del "caso Regeni", servono a mettere in chiaro che le aspettative riposte dal governo italiano sull’azione dei magistrati non devono intendersi come una sorta di "delega" ai pm che possa considerarsi risolutiva. Né l’attesa di sviluppi giudiziari può diventare un alibi per non muoversi in altre direzioni. Ecco perché i genitori di Giulio continuano ad attendere iniziative politiche da parte del governo italiano, e la preoccupazione di Manconi sull’immobilismo seguito alla convocazione dell’(ex) ambasciatore è verosimilmente condivisa dalla famiglia Regeni. Egitto: stretta sui media, per i giornalisti espulsioni e interrogatori di Carlo Bonini La Repubblica, 26 maggio 2016 Al Sisi prosegue nella sua resa di conti con giornalisti internazionali, dopo aver da tempo ridotto all’obbedienza, con carcere e torture, quelli locali. L’arresto di Remy Pigaglio, corrispondente francese dall’Egitto, precede la nuova legge sull’informazione che il Parlamento si prepara a varare. Senza più neanche provare a fingere, in un paranoico clima da assedio ed evidentemente forte della certezza di non dover pagare dazio con l’Europa, che siano interlocutori il governo di Roma, piuttosto che quello di Parigi o Londra, o il balbettio dell’Ue, il regime di Al Sisi prosegue nella sua resa di conti con i media internazionali, dopo aver da tempo ridotto all’obbedienza, con carcere e torture, quelli locali. Allungando così la lista dei diritti fondamentali calpestati e confermando le ragioni per le quali l’Egitto figura al 158esimo posto su 180 tra i Paesi censiti nel 2015 nel Rapporto sulla libertà di stampa nel mondo dell’organizzazione internazionale non governativa "Reporter senza frontiere". Nella notte di martedì, Remy Pigaglio, giornalista francese da due anni corrispondente dall’Egitto per diverse testate, tra cui il quotidiano cattolico La Croix e la radio Rtl e dunque regolarmente provvisto di un visto stampa, è stato infatti arrestato all’aeroporto del Cairo appena sbarcato dall’aereo che lo riportava nella capitale dopo una breve vacanza in Francia. Pigaglio è stato privato del bagaglio, del passaporto, del suo smartphone e scaraventato in una cella dell’aeroporto dove è rimasto in isolamento per 30 ore, con il diniego di poter comunicare con chiunque, compresa la propria ambasciata. Al giornalista francese non solo non è stato notificato alcun provvedimento di fermo, ma non sono state date spiegazioni sulle ragioni dell’arresto. I contatti del suo telefono sono stati aperti e consultati dalla polizia egiziana senza alcun mandato, così come frugati i suoi effetti personali. Pigaglio è stato quindi rilasciato, ma solo per percorrere a ritroso il percorso tra il terminal degli arrivi e i gate delle partenze, dove è stato messo su un aereo per Parigi con un provvedimento di espulsione e la libertà poter dire poche parole: "Non sono stato trattato male. Non sono stato interrogato e non ho saputo, né so le ragioni del mio arresto e della mia espulsione". È il primo giornalista occidentale arrestato in questa nuova stagione di repressione del Regime, ma non è il primo a essere stato costretto a lasciare il Paese. Era successo al bureau chief, il capo dell’ufficio di corrispondenza, della prestigiosa agenzia di stampa inglese Reuters, "esfiltrato" dal Cairo dopo le intimidazioni con cui il Governo egiziano aveva bollato il lavoro di inchiesta dell’agenzia sul caso Regeni. È dunque certo che la storia non finisca qui. Che la campagna di intimidazione e delegittimazione avviata dal Regime sia destinata a colpire ancora. Non fosse altro per la nuova legge sull’informazione che il Parlamento si prepara a varare. Nuove norme che vieteranno le riprese video e le registrazioni audio dal vivo senza un permesso preventivo delle autorità di polizia. E che, nelle intenzioni del Regime, dovrebbero annichilire quei pochi blog e piattaforme digitali in cui ancora rimane acceso un barlume di giornalismo indipendente. Del resto - anche questa è storia di ieri - per comprendere ancora meglio di cosa si stia parlando e con quale violenza e impunità il Regime muova contro i diritti e le libertà fondamentali, è utile sapere che i giudici del distretto di Shobra al Khaima, al Cairo, nel corso del processo a carico dei giornalisti egiziani Amr Badr e Mahmud al Saqqa (arrestati l’1 maggio nella sede del Sindacato della Stampa e accusati di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate e "appartenenza a organizzazioni terroristiche", reati per i quali dovrebbero scontare una pena a 10 anni di reclusione) hanno intimidito i due imputati invitandoli a dichiarare le loro opinioni sul "caso Regeni", sulla legge sul pubblico impiego e, più in generale, sulla condotta del Governo. Tutto questo, ad eccezione della protesta di ieri del ministero degli Esteri francese, non ha mosso, né sembra destinato a muovere le acque immobili delle cancellerie europee. A cominciare da quella italiana che, da settimane, dopo i "tweet" del Presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri che promettevano una resiliente e non negoziabile richiesta di verità per Regeni, annunciando "iniziative progressive" nei confronti dell’Egitto dopo il richiamo dell’ambasciatore per consultazioni, si è fatta improvvisamente silente. "Ansiosa di normalizzare i suoi rapporti con l’Egitto", dice Riccardo Nuri, portavoce di Amnesty International. È un fatto che l’Italia abbia nominato il nuovo ambasciatore al Cairo, Giampaolo Cantini, che presto presenterà le sue credenziali e dunque che l’unico atto diplomatico "ostile" nei confronti del Regime sia in fase di rientro. Senza ulteriori conseguenze. È un fatto che, sul sito istituzionale del Ministero degli Esteri, nella lunga, dettagliata e aggiornatissima "scheda Paese" dedicata all’Egitto con cui la Farnesina avvisa i cittadini dei rischi legati al viaggio (si riferisce da ultimo della catastrofe dell’Airbus Egyptair), ci sia una sola circostanza omessa. Il sequestro e la morte di Giulio Regeni, cittadino italiano (Viaggiaresicuri.it/Egitto). Un dettaglio, per dire, che, al contrario, non è sfuggito ai "travel alert" del Dipartimento di Stato Usa (Travel.state.gov/Egypt). India: caso marò. La Corte Suprema: "immediato rientro in Italia di Girone" di Danilo Taino Corriere della Sera, 26 maggio 2016 Potrebbe rientrare entro pochi giorni. La Farnesina in una nota sottolinea di accogliere "con soddisfazione" la decisione maturata dall’accordo raggiunto tra Roma e Delhi sulle garanzia di un eventuale rientro del fuciliere della Marina per il processo. Salvatore Girone rientrerà in Italia già nei prossimi giorni. Ci resterà fino a quando il collegio arbitrale costituito presso il tribunale dell’Aja avrà deciso dove si terrà il processo a carico di lui e di Massimiliano Latorre. Una sezione speciale della Corte Suprema indiana ha deciso di rendere immediatamente esecutiva la sentenza del tribunale arbitrale dell’Aja stesso dello scorso 29 aprile, la quale indicava che il marò, in libertà provvisoria nella capitale indiana, avrebbe dovuto fare ritorno in patria entro tre mesi. La decisione significa, come ha notato un comunicato della Farnesina, che Roma e Delhi hanno trovato un accordo sulle garanzia che l’Italia deve dare per assicurare che, qualora il processo a carico dei due Fucilieri di Marina si dovesse tenere in India, Girone tornerà a Delhi. Tra le garanzie - che l’Italia rispetterà, il ritiro del passaporto del marò da parte delle autorità italiane e controlli sui suoi movimenti. La decisione, che di fatto era già scritta nella sentenza del 29 giugno dei giudici arbitrali, pone fine alla fase più acuta del contenzioso tra Italia e India, quello sulla restrizione delle libertà dei due marò. La vicenda non è però chiusa. Probabilmente verso fine 2018 all’Aja verrà deciso dove si terrà il processo. Poi, ci sarà il processo stesso. La decisione di fare rientrare Girone in Italia è il risultato di un difficile lavoro giuridico e diplomatico per portare il caso al livello del giudizio internazionale (arbitrato) e fuori da una disputa bilaterale, dopo anni di errori e incertezze. Apre anche prospettive per un nuovo rapporto tra Roma e Delhi. Medio Oriente: "il sistema giudiziario militare copre crimini contro i palestinesi" di Michele Giorgio Il Manifesto, 26 maggio 2016 La denuncia dell’ong B’Tselem è giunta negli stessi minuti in cui i media riferivano dell’accordo definitivo raggiunto dal premier Netanyahu con l’ultranazionalista Avigdor Lieberman che diventa ministro della difesa. L’annuncio di B’Tselem è giunto ieri negli stessi minuti in cui i media israeliani riferivano dell’accordo definitivo raggiunto dal premier Netanyahu con il partito di estrema destra Yisrael Beitenu. Un’intesa che rafforza il governo e assegna un ministero fondamentale come la difesa ad Avigdor Lieberman, tra i leader politici che in questi giorni, con più forza, chiedono di scagionare il sergente Elor Azaria che ha ucciso a sangue freddo un palestinese non in grado di nuocere che poco prima aveva ferito un soldato israeliano. Proprio la linea dell’Esercito e del ministero della difesa nei casi come quello di Azaria sono alla base della decisione presa dall’ong israeliana che tutela i diritti umani nei Territori palestinesi occupati: da oggi in poi B’Tselem non invierà più ai comandi militari le denunce dei palestinesi contro i soldati. "La nostra organizzazione - ha comunicato B’Tselem - non intende più assistere le autorità nel loro tentativo di creare un falso quadro che giustizia sia fatta…non c’è più alcun vantaggio nel perseguire la giustizia e la difesa dei diritti umani, lavorando con un sistema la cui funzione reale si misura dalla sua capacità di continuare a coprire con successo atti illeciti e proteggere gli autori". L’ong riferisce dati eloquenti. Dal 2000 in poi ha sottoposto alle autorità militari 739 casi di abusi e violazioni gravi a danno dei palestinesi in Cisgiordania. In 182 di questi non è stata avviata alcuna procedura, in 343 le indagini sono state chiuse e solo in 25 ci sono state delle conseguenze nei confronti dei soldati accusati. L’altro fattore dietro l’annuncio di B’Tselem è il sistema di applicazione della legge militare che, afferma l’Ong, compromette la possibilità di attribuire responsabilità alle alte sfere militari e all’esecutivo politico e che finisce per puntellare l’occupazione. La parvenza di un sistema giudiziario funzionante, spiega la Ong, permette ai rappresentanti israeliani di respingere le denunce fatte sia in Israele che all’estero sulla mancata applicazione delle leggi nei confronti di soldati responsabili di crimini contro i palestinesi. Il passo fatto da B’Tselem potrebbe avere un peso sulla decisione che è chiamato a prendere il procuratore della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda sull’apertura di un’inchiesta sui crimini di guerra in Palestina. Dovesse Bensouda arrivare alla conclusione, come ha fatto B’Tselem, che Israele non vuole di indagare seriamente sul comportamento dei suoi soldati e delle forze di sicurezza, allora la CPI potrebbe proclamare di avere la giurisdizione sui crimini di guerra commessi da cittadini israeliani, dai singoli soldati fino a generali e politici. E forse peserà sulle decisioni di Bensouda anche la vicenda di Breaking the Silence, un’altra ong israeliana che raccoglie e pubblica le testimonianze anonime di soldati che "rompono il silenzio" sui crimini commessi nei Territori occupati. I giudici israeliani stanno esaminando il ricorso presentato da Breaking the Silence contro l’ordine dello Stato di rivelare l’identità dei militari che raccontarono alcuni dei crimini di guerra commessi durante l’offensiva "Margine Protettivo" a Gaza nell’estate del 2014. È difficile credere che la linea dei comandi militari denunciata da B’Tselem possa cambiare ora che Avigdor Lieberman è diventato il responsabile della difesa nonostante le dichiarazioni "moderate" fatte ieri dal neo ministro che si è impegnato a svolgere "una politica equilibrata" una volta insediato alla guida del dicastero da cui dipende la gestione della vita di milioni di palestinesi. Parole che non convincono i palestinesi. Per il segretario generale dell’Olp e caponegoziatore Saeb Erekat l’insediamento del nuovo esecutivo e di Lieberman alla difesa "avrà come conseguenza l’apartheid, il razzismo e l’estremismo religioso e politico". Di "escalation del razzismo e dell’estremismo" ha parlato anche il portavoce di Hamas a Gaza, Sami Abu Zuhri, che ha chiesto alla comunità internazionale di "assumersi le proprie responsabilità" e, in chiaro riferimento alla linea del negoziato con Israele portata avanti dall’Anp di Abu Mazen, ha invitato chi "ricerca la normalizzazione e la coesistenza con l’occupante a rinunciare a questi fantasmi". Ucraina: liberata la pilota Nadia Savchenko, scambiata con due detenuti russi di Nicola Lombardozzi La Repubblica, 26 maggio 2016 La top gun scontava 22 anni di carcere per l’uccisione di due reporter russi durante la guerra. Yevgeny Yerofeyev e Alexander Alexandrov erano stati condannati da Kiev con l’accusa di essere spie di Mosca. Il presidente Poroshenko: "Ora faremo tornare Donbass e Crimea". Scambio di prigionieri. Il primo da quando nel 2014 è esplosa la guerra mai dichiarata tra Russia e Ucraina. La pilota Nadezdha Savchenko, volontaria ucraina nelle fila dei giovani nazionalisti, condannata in Russia a 22 anni per duplice omicidio è in volo su un aereo militare verso Kiev dove l’attende la mamma, il presidente Poroshenko e una folla di militanti commossi. Sulla rotta opposta, in direzione Mosca, stanno viaggiando due militari russi, Aleksandr Aleksandrov ed Evgenj Erofeev entrambi condannati in Ucraina a 14 anni di prigione per atti di terrorismo. L’accoglienza moscovita sarà meno calorosa e certamente meno spettacolare. Visto che la Russia ha sempre smentito le confessioni dei due. Sostenevano di essere agenti delle speciale servizio segreto militare inviati a dare una mano ai separatisti filorussi del Donbass. Per Mosca invece sono solo due ex militari che "volontariamente e da civili" avevano deciso di combattere da quelle parti. Proprio la necessità russa di negare un coinvolgimento diretto nella guerra civile in Ucraina dell’Est ha reso difficile e tormentato lo scambio concluso alla fine solo grazie a una forte pressione americana. La storia di Nadezdha (Speranza), che tutti chiamano con il vezzeggiativo Nadia, ha commosso il mondo e fatto parlare a lungo di un conflitto teoricamente congelato grazie a un fragile cessate il fuoco. Ex pilota d’elicotteri dell’aviazione militare, la ragazza ha fatto una scelta patriottica decidendo di combattere in Donbass. Secondo i russi avrebbe fornito le indicazioni agli aerei di Kiev per bombardare una troupe televisiva russa provocando la morte di due noti giornalisti. Ma più di questo ha fatto notizia la fierezza della difesa a oltranza di Nadia che non ha mai voluto accettare la legittimità dei russi nel giudicarla a che in quasi due anni di detenzione ha fatto numerosi scioperi della fame e della sete interrotti solo dall’alimentazione forzata imposta dai medici russi. Candidata votatissima al Parlamento ucraino nelle fila del Partito di Yulia Timoshenko, è diventata un simbolo della Nuova Ucraina e dell’ostilità di base contro la Russia. Personaggio imbarazzante e mediaticamente fastidioso per Putin che ha accettato di liquidare la questione affrontando la lunga trattativa per lo scambio. Nadia sarà certamente da ora in poi una popolarissima sostenitrice della guerra contro i russi. Ma il fatto di non averla sotto custodia in un proprio carcere è per il Cremlino un forte vantaggio di immagine anche se, almeno per ora, i toni continuano a rimanere alti. "Abbiamo fatto tornare Nadia a Kiev, nello stesso modo faremo tornare il Donbass e la Crimea", ha detto il presidente ucraino Petro Poroshenko durante una cerimonia nella quale ha decorato la giovane pilota con la medaglia di "eroe dell’Ucraina". Le parole di Poroshenko, riferite alla regione annessa nel 2014 dalla Russia e all’est del paese sotto il controllo dei separatisti filo-russi sono arrivate come risposta a Putin, che poco prima aveva auspicato che il rilascio della pilota portasse a un abbassamento delle tensioni nelle aree di conflitto. Siria: detenuti di Hama annunciano di aver preso il controllo del carcere Nova, 26 maggio 2016 I detenuti del carcere centrale di Hama, nella parte centrale della Siria controllata dal governo siriano di Bashar al Assad, hanno preso il controllo dell’intero istituto penitenziario e tengono in ostaggio le guardie carcerarie. I detenuti sostengono di essere stati costretti a farlo per il mancato rispetto da parte del governo dell’accordo sottoscritto nelle scorse settimane dopo una prima rivolta carceraria, che prevedeva la scarcerazione di alcuni detenuti. Lo riferisce oggi l’emittente televisiva satellitare "Al Jazeera". Il governo siriano ha sospeso l’erogazione idrica in seguito alla presa del controllo del carcere da parte dei detenuti. Intanto il capo della polizia e il sindaco di Hama sono giunti nel carcere per fare da mediatori tra le parti. Gli 800 detenuti, quasi tutti prigionieri politici, avevano iniziato una protesta all’inizio di questo mese contro il trasferimento a Damasco di alcuni loro compagni di cella. Lo scorso 9 maggio il governo siriano aveva ceduto alle pressioni dei detenuti del carcere di Hama, accogliendo alcune delle loro richieste. In particolare, secondo quanto riporta l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le autorità avevano accettato di liberare i detenuti incarcerati senza alcuna accusa formale. Nel penitenziario vi sarebbero almeno 800 detenuti, quasi tutti prigionieri politici, che già all’inizio di maggio sono riusciti dopo una sommossa a prendere il controllo del centro di detenzione. La rivolta era esplosa per lo spostamento di cinque prigionieri politici nel carcere di Didanaia, fuori Damasco, dove sarebbero stati giustiziati. In seguito alla notizia i prigionieri del penitenziario di Hama hanno inscenato una rivolta prendendo in ostaggio alcune guardie carcerarie, costringendo le autorità a dare il via ad una mediazione, soprattutto dopo che le forze governative siriane non sono riuscite a riprendere il controllo di parte dell’edificio. I leader dell’opposizione siriana hanno lanciato l’allarme su un possibile massacro in caso di intervento da parte delle truppe governative nella prigione, invitando la comunità internazionale ad adottare misure urgenti. Dopo l’invio di un tenente per trattare con i detenuti, le forze del governo hanno cercato lo scorso 5 maggio, senza successo, di assaltare il carcere usando i gas lacrimogeni, provocando circa 50 feriti.